Occhi di fiume
OCCHI DI FIUME
Lo
seppe.
Lo seppe prima di tutti gli altri.
La gola gli si riempì di acido liquido, e dovette correre in
bagno, le mani premute contro la bocca.
La moglie gli gridò dietro qualcosa, mentre la sedia
rovinava in
terra con uno stridìo sordo, ammutoliti i figli con
le posate a
mezz'asta mentre il padre arrancava, a gambe molli.
Si sentì male tutta la notte.
Dopo una settimana, o poco meno, il fiume restituì un corpo.
Fu un pescatore a trovarlo.
Il corpo si era incastrato tra le canne fitte di un'ansa, dove l'acqua
stagnava
in cerchi di alghe verdi e fisse, un che di bianco, che affiorava
sghembo dalla superficie, incoronato da una massa di capelli
fluttuante e scura.
Quei capelli lui
glieli accarezzava lentamente.
Ne respirava l'odore, trattenendoli tra le dita mentre la baciava piano
sulle labbra, prima dell'amore.
Li raccoglieva nel palmo e glieli arrotolava su un lato del collo, a
scoprire la linea dolce dell'orecchio e del viso.
Viso di bambina.
- Hai letto... povera ragazza! -.
La donna sospirò, slacciandosi la cintura del cappotto. Si
lisciò i capelli con una mano, sistemandone una ciocca dietro
l'orecchio, cercando poi il pacchetto sulla
mensola, dietro i barattoli del caffé e dello zucchero.
Aprì il cassetto, il primo, frugando tra i coltelli.
Sfregò l'accendino, trattenendo la sigaretta tra le labbra.
Chiuse gli occhi alla boccata profonda, assaporando il gusto
tra
la lingua e il palato, quasi che ancora ne percepisse l'agro e il
forte, come la prima volta che aveva fumato nel garage di un'amica, a
sera,
tra gli scatoloni di un imminente trasloco, che l'avrebbero separata
per sempre dalla sua innocenza.
Poi si voltò, le braccia conserte, la schiena appoggiata al
ripiano lucido della cucina.
- Beh, non dici nulla? Potrebbe essere tua figlia -.
L'uomo sentì di nuovo la nausea chiudergli lo stomaco.
Si tormentò la barba, facendo finta di leggere le pagine
aperte del giornale, ben spianato sul tavolo.
Non vedeva niente, in verità. Le righe nere e fitte erano
mute.
La foto in bianco e nero faceva immaginare dentro al sacco un corpo, a
riva. Intorno uomini in divisa,
sanitari per i rilievi, qualche giornalista. Nome e
cognome, l'età, un epitaffio scarno, di routine.
Non l'avrebbero mai guardata come la guardava lui.
Mai conosciuta come la conosceva lui. Non avrebbero mai potuto
immaginare il sapore della sua bocca, il colore dei suoi occhi al
pomeriggio tardo, quando si vestivano di fuoco e poi di luce. Quando
sorridevano
senza che le labbra neppure si increspassero. Quando si schiudevano e
poi si serravano, nel piacere.
- La conoscevi? -, insisté la moglie. - Forse Maurizio la
conosce. Dicono che frequentasse
l'università. Le sue compagne ne hanno denunciato la
scomparsa
dieci giorni fa, così c'è scritto. Che brutta
fine! -.
Spense la sigaretta nel lavello. - Oggi non vai da Paolo? -.
L'uomo alzò lo sguardo per la prima volta. Sembrò
non
aver udito neanche una parola. Incontrò il volto serrato
della
moglie, gli occhi truccati di grigio e rimmel nero, le
labbra disegnate dal rossetto.
Era bella e distante. Di quella distanza che si insinua talvolta negli
anni come
un confine sottile, e poi diventa voragine, senza una vera
ragione.
- Non ci siamo sentiti - rispose, invece. - Credo avesse da fare. Ma
uscirò comunque
-. Gettò un'altra occhiata rapida alla pagina, distogliendo
veloce lo sguardo da quel sacco nero sbilenco e informe.
- Sì, ti farà bene. Sei pallido. Non ti sei
ancora
ripreso da quel malessere... non ti ho mai visto stare male in quel
modo -.
Un sorriso gli si cucì sul viso: - Sarà che
invecchio -.
Gli uscì una risata sommessa, che la moglie non colse: -
Vado a togliermi il cappotto -, annuì.
E lui rimase solo.
- No, tu non puoi invecchiare -, gli aveva detto un giorno, - Non
più di così -.
Gli aveva riso in faccia, gustandosi l'espressione corrucciata di lui,
arrovesciando la testa all'indietro, quasi sguaiatamente, per poi
tornare a strusciarsi contro la sua spalla.
- Senti un po', piccola-, l'aveva apostrofata, calcando la voce, bassa,
su
quell'epiteto, girandosi su di lei, e afferrandole
i polsi sottili e fragili tra le dita grandi, troppo grandi per uno
come lui. Sapeva di pesarle un po' addosso. Sapeva che
le piaceva. Sapeva che le piaceva ritrovarsi così, indifesa.
Sua.
Senza una vera ragione.
Camminò lentamente lungo il ponte.
Dicembre era alle porte, il selciato aveva un'eco di ghiaccio sottile
sotto
alle suole. La balaustra di marmo scopriva l'altra sponda tra i pieni e
i vuoti, la si intravvedeva appena tra le colonnine panciute,
come certi paesaggi rallentati dal finestrino di un treno. Sotto
scorreva il fiume terreo e rumoroso, qualcosa d'indistinto vorticava
nella
corrente. I platani del viale erano sentinelle sbiancate delle poche
foglie ancora rimaste attaccate. Con tenacia, quasi.
Lei non l'aveva avuta, quella tenacia, forse.
Un brivido gli corse lungo le ossa. Si strinse nel cappotto, le mani
buttate nelle tasche.
Non aveva mai saputo spiegarsi come succedeva, ma tant'è, la
sentiva.
Un attimo prima che il telefono squillasse, o che comparisse in fondo
alla via. Sentiva che avrebbe chiamato, che sarebbe apparsa. E quella
sera a tavola aveva annaspato quasi stesse per affogare. Mentre lei, in
quel momento, forse, per davvero...
Il giornale non spiegava come. Quando moriamo diventiamo tutti uomini
e donne ordinari.
E lei era una ragazza normale, di famiglia normale, che faceva
cose normali.
La firma dell'articolo si era
tenuta sul vago. Si attendeva l'esito di indagini ulteriori. Il corpo nudo di una giovane donna
scatena dubbi, ipotesi, insinua scenari macabri.
Gli parve di svenire. Si avvicinò alla balaustra, si resse
forte con le mani, il busto inclinato in avanti.
Osservò ancora la forza del fiume incresparsi in superficie.
Un sapore indefinito gli salì alle labbra.
Nascose il volto sotto al cappello e proseguì.
La sera che l'aveva conosciuta stava rientrando da una cena di lavoro.
Non aveva voglia di rincasare troppo presto, e aveva fatto un giro
diverso dal solito, con l'auto, più lungo.
Era la fine di febbraio, e il freddo mordeva forte. Aveva nevicato in
quei giorni e dove non era stato sciolto dal sale il bianco si adagiava
ancora ordinatamente.
D'improvviso gli balenarono due figure lungo la via. Sbracciavano, poi
si ritiravano, spingendosi l'un l'altra. Parevano due marionette
malferme.
Rallentò, accostò. Erano due ragazze, troppo poco
vestite
per quel freddo. Si aggrappavano ridendo una alle braccia dell'altra, i
clacson le salutavano in scie rumorose.
Non rifletté molto.
- Vi serve aiuto? -, aveva tirato giù il finestrino e si era
sporto un po' perché udissero la sua voce. - Vi serve aiuto?
-,
aveva ripetuto, la voce più alta.
Una delle due gli era comparsa quasi addosso, la testa bruna
infilata per metà dentro: - Fammi vincere una scommessa -,
gli
disse. - Dammi cento euro -.
- Cosa!? -.
- Cento euro. Vedi laggiù? Quell'auto ferma dopo la curva,
tra
gli alberi? -, spiegò la ragazza, volgendo un poco gli
occhi,
perché l'uomo inseguisse il suo sguardo, nel buio
rischiarato dai
lampioni, tra le sagome dei platani del viale. - I nostri amici
aspettano di vedere cosa siamo capaci di fare. Cento euro, questo il
patto, da uno che passa con la macchina, e senza neanche farci toccare.
Altrimenti ci avranno loro, tutta la notte, e gratis
-.
Aveva sorriso in un modo così disarmante che l'uomo
aveva pensato a uno scherzo da goliardi ubriachi.
- E non vi rendete conto di quanto sia pericoloso questo gioco? Che
qualche sconosciuto potrebbe caricarvi in macchina per davvero? -.
La ragazza non sembrò molto impressionata. Restò
a
guardarlo con le belle labbra schiuse in un'espressione sospesa, e
rincarò: - Allora, me le dai cento euro? Così ce
ne
andiamo a casa? Inizio ad avere un po' freddo... -.
L'uomo si era raddrizzato sul sedile e aveva ingranato la
marcia: - Togli la testa da lì, che me ne vado -.
- No! -, uggiolò lei. Allungò una mano e gli
serrò
il braccio, il collo piegato tra le spalle. - Ti prego -, lo aveva
implorato.
Si era fatta improvvisamente seria, e gli occhi le sierano scuriti in una
tinta indefinita.
- Ti prego -, ripeté. - Prestameli soltanto. Uno come te ce
li ha in
tasca, lo so. Li conosco i tipi come te -. Tirò su con il
naso,
il freddo le stava salendo rapido lungo la pelle, e sembrava ci fosse
anche
altro in quei brividi, un che di frammisto alla paura e all'urgenza. -
Te li
restituisco. Dimmi dove abiti e te li restituisco. Anzi no, porti la
fede -, si era corretta. - Meglio di no. Vieni tu a riprenderteli a casa
mia -.
Lo vide esitare, scuotere la testa deciso: - Voi siete matte, e io
più
di voi che vi sto ad ascoltare -.
Tacque, per quello che alla ragazza sembrò un
tempo lunghissimo.
Poi dalla tasca estrasse il
portafoglio, e da quello i soldi.
Vide gli occhi della ragazza brillare di luce viva e calda.
- Via degli Abruzzi 5... vieni a riprenderteli -.
La ragazza scivolò via dal finestrino, aveva preso per mano
l'amica ed era corsa verso l'auto che aveva indicato poco prima.
L'uomo si dette dello stupido una decina di volte. Poi
affondò sul pedale e le gomme gemettero, quasi slittando.
Imprecò a denti stretti. Non
lo faceva mai.
Aprì la porta senza fare rumore.
C'era odore di cucinato, quello buono, della domenica. E i soliti
tramestii familiari, di quando erano tutti a casa.
Vide senza bisogno di guardare la moglie indaffarata intorno al forno e
le stoviglie, il figlio grande sdraiato sul divano perso nel
cellulare ascoltando la televisione, e la figlia in camera, intenta a
parlare con le amiche fingendo di leggere qualcosa. Nessuno si accorse
del suo rientro. Da piccoli i figli gli si sarebbero gettati al collo,
ma adesso... adesso Maurizio era più alto di lui, e Agata lo
abbracciava solo per le ricorrenze, o se aveva da strappargli un
consenso
sfidando il diniego della madre.
Si tolse il cappotto, entrò nella sala. Chiese, senza
riflettere: - Conoscevi quella ragazza... ? Quella del fiume? -.
Il figlio girò gli occhi e la testa tutta: - Ah, sei tu
pà -. Si risistemò sul divano, il braccio flesso
dietro
la nuca. - Brutta storia, quella. Non frequentava molto
l'università. Qualche lezione, ogni tanto, la biblioteca...
-.
L'uomo annuì. Rimase in piedi, gli occhi alla tenda
illuminata
dal sole d'inverno di un giorno quasi a metà. - Tua madre
era
preoccupata fosse una tua amica -.
- Amica? Boh, domani vado in facoltà, sentirò
cosa si dice in giro -.
La voce della madre irruppe per richiamarli a tavola. Persino Agata,
chiusa nella sua stanza, la udì.
Era rimasto a guardare l'edificio di sotto in su per una buona mezz'ora.
Una palazzina anonima tra palazzine anonime, ornate di piccole siepi e
cancelli di ferro dipinti di bianco.
Erano passati diversi giorni dall'incontro assurdo di quella sera. E in
realtà non gli interessava molto il denaro. Forse voleva
solo verificare quanto fosse
stato raggirato, cosa di cui era altamente convinto.
Al numero civico 5, il cancellino era socchiuso. La strada era deserta,
lo spinse. La ragazza avrebbe potuto benissimo essere
fuori, ovunque. O abitare altrove. C'erano sei campanelli a sinistra
dell'ingresso, sotto al portico. Stava per suonare all'unico in bianco,
senza cognome, quando
una signora uscì. Era una donna minuta, di un'età
indefinibile, ma certo anziana, nonostante il piglio nervoso con cui
aveva varcato la soglia. Si squadrarono sorpresi per alcuni istanti.
- Sto cercando una studentessa, amica di mia figlia, non so bene a
quale piano... -.
- Sara? -.
- Sì, Sara... moretta -, rischiò.
- Abita al secondo piano. La porta senza nomi. Lei mi pare un uomo
dabbene, le ricordi per favore che sono due mesi che non mi paga
l'affitto! -, sottolineò, avviandosi lungo il vialetto, le
gambe
veloci e magre sui tacchetti incerti di un paio di scarpe nerissime,
che spiccavano sulle calze chiare e il soprabito color cammello. -
Forse a lei, che è padre della sua amica, darà
ascolto.
Io non so più come fare con queste giovani! -.
L'uomo si richiuse il portone alle spalle. Salì
lentamente
le scale. La testa si stava svuotando di ogni pensiero mentre qualcosa
nel petto accelerava.
Suonò. Attese.
Osservò lo zerbino, e poi certi segni sul
muro. Si perse nella trama irregolare del legno lucido, striato di
chiaro, della porta. Non sapeva neanche se era lei. Sara.
Suonò di nuovo. Attese.
Dette uno sguardo al piccolo ballatoio e
alla porta che spiccava poco distante, con la targa del cognome in
corsivo ben impressa nell'ovale dorato. Illeggibile da quella
distanza.
Suonò. Fece per andarsene, ma il legno si schiuse.
- Chi è? -. Aveva il catenaccio tirato. Uscì solo
la voce.
Chi era!? L'uomo che gli aveva dato cento euro venerdì sera,
ecco
chi era. Il tipo pazzo che si era fermato mosso a pietà da
due
ragazze infreddolite.
- Sono quello dei soldi. Il tipo della macchina -.
Sperò che la descrizione fosse sufficiente. Che quella fosse
stata l'unica volta in cui quelle ragazze avevano fatto una scommessa
così deficiente, di notte, per strada. E che di notte, per
strada, mezze svestite, proprio non ci stessero mai.
La ragazza riaccostò, la sentì armeggiare con la
catenella, e riaprire.
- Non pensavo che saresti venuto -.
Lasciò che entrasse. Che lo investisse il disordine dei
libri sparsi
su una specie di divano-letto aperto e sfatto, degli indumenti gettati
da una parte, delle scarpe tirate in un angolo. Che osservasse le tazze
sporche, in bella vista sul ripiano della
cucina, e il secchio dell'immondizia quasi colmo. Che
valutasse senza neanche muovere la testa, ma solo abbracciando tutto
con un sol sguardo, la sua vita racchiusa in quelle due stanze.
Soltanto alla fine i suoi occhi si posarono su di lei.
La notte non le aveva reso giustizia.
Era bella e fresca, di quella bellezza semplice che hanno le ragazze
alla sua età. Se ne stava appoggiata a una parete, con le
braccia conserte, scostante.
- Mi hai detto tu di venire a riprendermi i miei soldi -, la
informò, pacatamente.
- Sì, l'ho detto -. Si passò le mani tra i
capelli, quasi
stesse cercando di ricordare qualcosa. Il maglione troppo aderente, a
quel gesto, le scoprì la pancia, sui jeans troppo bassi.
Sospirò, poi finse di cercare qualcosa tra i libri buttati
sul
letto. Ne uscì un portafoglio, di quelli colorati, con mille
cerniere, da donna. La ragazza lo apri, frugò.
- Non ce li ho più, mi spiace -. Lo disse con noncuranza.
Con un tono che non ammetteva repliche, frettoloso, come se l'uomo non
fosse più lì, in piedi, chiuso nel giaccone, e il
cappello, ma altrove, molto distante da lì.
Poi qualcosa sembrò scuoterla, sorrise: - Però ti
posso fare un caffè, se vuoi. Lo vuoi? -.
- Agata, fai tu il caffé? -.
Agata sorrise al padre. Da qualche anno era il suo compito, a fine
pranzo della domenica. Le piaceva aspettare che il caffé
uscisse
dalla moka, scegliere le tazzine, la zuccheriera, i cucchiaini,
allestire il vassoio, e portarlo a tavola. Le piaceva quel momento in
cui da sola in cucina preparava tutto, dosando la polvere, e l'acqua.
- Pà, dopo mi accompagni in centro? Mi aspetta Luisa -.
Il padre annuì, accompagnare la figlia, e poi andarla
a riprendere, era una consuetudine che si era instaurata sin dai tempi
della terza media, e continuava anche allora che la ragazza stava
finendo il liceo. Non sarebbe durata ancora a lungo. Ma Agata era
così. Ancora bambina rispetto alla maggiorparte delle sue
compagne. Maurizio invece usciva da solo, la sera, e tornava tardi. Ma
i maschi sono così. Crescono prima, a volte, ed è
un attimo lasciarseli sfuggire, soprattutto se iniziano ad avere il
loro giro di amiche.
L'uomo li osservò ancora un poco, sorseggiando il
caffé.
Sorrise, ascoltando i loro discorsi, quelle battute rapide che si
scambiavano, quasi vivessero su due pianeti distinti e ogni tanto
entrassero in collisione, per puro caso.
Osservò anche la madre, l'aria distratta con cui stava
raccogliendo i piatti dalla tavola, i pensieri affissi
chissà dove.
E poi provò a percepire se stesso, in quel quadro.
Da mesi non ne faceva più parte.
Recitava il suo ruolo, imparato a perfezione in anni e anni di
praticantato matrimoniale, tanto che nessuno lo avrebbe detto diverso.
Socchiuse gli occhi, finse di vedersi dal di fuori.
Vide un uomo di mezza età, i capelli non più del
tutto bruni, la barba brizzolata, il maglione sulla camicia, e sotto a
quella il torace, e più sotto ancora il cuore che pulsava, e
che rallentava, e si perdeva, e il desiderio snidato che risaliva come
una macchia di inchiostro, e si spandeva, si spandeva e lo uccideva, lo
uccideva lentamente.
Il desiderio di lei, di Sara, di lei che non era più, di lei
che si era ammazzata, di lei con quei suoi occhi enormi e tristi, che
lo divoravano da dentro lentamente, inesorabilmente, occhi di donna.
Occhi di fiume.
______________
Grazie a chi leggerà e seguirà la mia storia.
Sarà divisa in due o tre parti, è già
scritta, ma devo decidere come presentarla :)
Grazie a chi lascerà il suo commento, e a chi
resterà in silenzio.
Amantea
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