Prologo:
L’uomo venuto dal mare
Un
individuo dall’andatura barcollante si aggirava per il
porticciolo ancora addormentato di quell’amena isoletta
circondata dal cristallino Mar dei Caraibi.
Il sole era appena
sorto a illuminarne i contorni frastagliati, le strade tuttavia erano
ancora vuote e silenziose, soltanto alcuni gabbiani avevano
già iniziato a pescare e si muovevano a stormi, emettendo
lunghi garriti per poi buttarsi a picco su quel mare blu, limpido e
calmo.
Quel tipo solitario,
che portava dignitosamente i suoi quasi cinquant’anni di una
vita vissuta tra mille tribolazioni, seguiva con
scrupolosità le indicazioni della sua vecchia bussola che,
però, sembrava non funzionare più alla perfezione
come in passato.
Mentre continuava a
camminare risalendo tra sbuffi e mugugni su per una stradella ripida,
dei poveri marinai cominciarono ad uscire stiracchiandosi dalle loro
umili capanne di legno e palme e sembrarono stupiti di vedere passare
qualcuno proveniente dal mare a quell’ora, o forse erano
semplicemente incuriositi dal suo aspetto esotico e decisamente
singolare.
Ciò
nonostante il forestiero, del tutto indifferente alle loro occhiate
sbigottite, continuò a incedere in quella sua strana maniera
sbilenca, finché non giunse in cima a una scogliera dalla
quale si poteva ammirare un semplice ma incantevole paesaggio marino
che pareva quasi uscito da un quadro a olio.
Anche lassù
sorgevano sparute abitazioni, ma la maggior parte di esse aveva mura di
pietra e mattoni e un’architettura nel complesso
più ricercata ed elegante, contornata da una florida
vegetazione tropicale rappresentata per lo più da palme e
buganvillee.
Regnava un silenzio
irreale, frammentato unicamente dal lieve soffiare della brezza di
levante, poi, tutto d’un tratto, si udì
riecheggiare una voce infantile:
- Noi siamo
pirati e ci piace perché la vita è fatta per noi!
Yo ho, yo ho
…
- La spada,
il corvo, il mare
– canticchiò di riflesso l’uomo,
proseguendo l’allegro motivetto.
Il bambino si
guardò attorno un po’ spaventato,
perché quando era arrivato non aveva scorto altre persone
nelle immediate vicinanze ed era sicuro di non essere stato seguito.
- Nessuno canta
più questa canzone – proferì quel
qualcuno con lo stesso tono basso e ironico, stavolta giungendo
esattamente alle sue spalle.
Il ragazzino si
voltò di scatto, reprimendo un singulto
nell’istante in cui scoprì chi era stato a
rispondergli: non lo aveva mai incrociato prima d’allora, e,
d’altronde, se gli fosse capitato, avrebbe sicuramente
ricordato l’incontro con un personaggio
dall’aspetto così bislacco.
Lo scrutò
dal basso in alto: i suoi stivaloni consunti erano bagnati e avevano
qualche foro, i pantaloni grigi di stoffa grezza presentavano qualche
rattoppo e qualche strappo sulle ginocchia, una spada e una pistola
dall’apparenza tanto usurata quanto minacciosa facevano bella
mostra di sé nel cinturone a tracolla; in testa aveva un
tricorno tutto ammaccato e scolorito, mentre un lungo tabarro scuro e
logoro copriva la sua persona. In una mano teneva una bottiglia mezza
vuota, nell’altra una sorta di bussola.
Ma la cosa
più strana erano sicuramente i suoi capelli: insolitamente
lunghi e raccolti in ciocche separate cui erano intrecciati svariati
ciondoli variopinti; non aveva mai visto nessuno con
un’acconciatura simile! Qualche perlina colorata gli ornava
perfino le due bizzarre treccine che gli pendevano dal mento. E i suoi
occhi scuri e profondi, poi, erano contornati da un’intensa
tonalità bluastra, che li faceva apparire seri e
impenetrabili.
- Come fai a conoscere
questa canzone? – domandò con accento sospettoso
lo sconosciuto, piegando il capo per squadrarlo in maniera piuttosto
insistente.
Il bambino era
impulsivamente arretrato di qualche passo, continuando a osservarlo con
un misto di soggezione e incredulità. Credeva quasi che
fosse un fantasma e fu solo dopo qualche attimo di esitazione che con
un filo di voce riuscì a replicare: - Mia madre, signore
… Me la cantava sempre quando ero più piccolo.
- Ah, sì?
– ribatté distrattamente l’enigmatico
straniero dopo aver bevuto un buon sorso dalla fiaschetta, come se la
risposta ricevuta fosse stata la più ovvia.
- Cercate qualcuno?
Come vi chiamate? – chiese il piccolo, presosi di coraggio,
notando che quel tizio esaminava con insistenza la propria bussola e la
direzione in cui sorgeva la sua casa. Lui lo ignorò
seguitando a spostarsi lievemente a destra, a sinistra, avanti,
indietro, senza staccare lo sguardo corrucciato dall’ago
magnetico che pareva far le bizze.
- Non vi sembra strano
che un bambino tanto piccolo come me se ne vada in giro a
quest’ora? – lo interpellò ancora il
ragazzino con voce cantilenante, cercando di attirarne
l’attenzione che pareva catturata da qualcosa a lui
invisibile.
Anche se vi
riuscì, non ne fu proprio contento perché quello
lo fissò assottigliando le palpebre, serrando le labbra in
un ghigno e assumendo un’espressione tra l’adirata
e l’aggressiva che gli fece temere qualche gesto violento nei
suoi riguardi, tuttavia si limitò a scuotere il pizzetto
biforcuto e sollevare le spalle, come se avesse voluto scrollarsi di
dosso della tensione nervosa accumulata, e, con la stessa
rapidità con cui era comparso, quel cipiglio intimidatorio
svanì dal suo volto abbronzato che ritornò ad
essere disteso e serafico.
- Come ti chiami,
figliolo? – parlò di nuovo con tono affabile,
scuotendo il pizzetto biforcuto.
- Jim Turner
– lo informò lesto il ragazzino, rasserenatosi per
lo scampato pericolo.
- Diminutivo di James,
suppongo. Bel nome! – concluse schiettamente l’uomo
dopo averci riflettuto un po’, traendo un altro sorso e
sorpassandolo per poi proseguire per il sentiero.
- E il vostro nome
qual è, signore? – si azzardò a
chiedergli Jim girandogli intorno, non potendo contenere la smisurata
curiosità che quel bizzarro soggetto gli suscitava.
Lui lo
bloccò, poggiandogli una mano sudicia e ingioiellata sulla
spalla e, curvandosi su di lui, bisbigliò velocemente: -
Figliolo, non occorre che ti occorra conoscere il mio nome,
perché colui che sto cercando conosce già il mio
nome, ed è bene che altri non lo conoscano, per la nostra
incolumità. Comprendi?
Tanto per il suo alito
alcolico che lo aveva investito, quanto per quella spiegazione contorta
che gli aveva rifilato, lasciarono il bambino restò
frastornato per qualche secondo, ma infine gli venne spontaneo
domandargli sottovoce quel che aveva immaginato sin da subito,
trovandoselo davanti: - Voi siete un pirata?
- È
così che ci chiamavano … –
costatò l’estraneo dopo un attimo di smarrimento,
mentre qualcosa luccicò nel suo sghembo sorriso, restando
con lo sguardo stralunato a vagare per l’orizzonte e
articolando a vuoto le dita, come avesse davanti al naso qualcosa che
non fosse in grado di afferrare.
Il suo piccolo
interlocutore cominciò a pensare che quel tizio avesse
qualche rotella fuori posto, ma inspiegabilmente ne era allo stesso
tempo attratto e affascinato.
- Come hai detto che
ti chiami, piccino? – lo svagato biascicare del pirata
interruppe i suoi fantasiosi e non troppo lusinghieri pensieri.
- Jim Turner
– ripeté con orgoglio e un pizzico di dispetto il
ragazzino, guardandolo in tralice con una certa perplessità.
L’estraneo
ebbe come un’illuminazione: - Non sarai mica il figlio di
William ed Elizabeth Turner? – esclamò alzando il
tono e dilatando le pupille, la bocca semiaperta.
- Sì
– confermò sicuro il bimbo, notando il repentino
cambiamento d’umore dell’uomo, che si era lisciato
i baffi e aveva arricciato un sorriso a trentadue denti.
- Allora tua madre
deve per certo averti raccontato di me! –
sogghignò sornione il filibustiere, allargando le braccia e
agitando la bottiglia.
Si avvertì
un sibilo fendere lo spazio circostante, poi il contenitore di vetro si
frantumò in mille pezzi, schizzando il restante liquido
ambrato su entrambi: - Mannaggia! Era l’ultima bottiglia di
rum! – gemette l’avventuriero, più
arrabbiato che preoccupato, voltandosi freneticamente per tentare di
individuare da dove fosse partito quel proiettile.
Jim impaurito si
gettò a terra con le mani sopra la testa.
Udì
chiaramente un nuovo sparo e poi un tonfo sordo a pochi centimetri da
lui.
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