Un tuffo al cuore.
Aerith si svegliò di soprassalto, nel silenzio del villaggio
di Gongaga.
Alla sua sinistra, Yuffie dormiva della grossa, accogliendo in grembo
il testone di Red XIII, profondamente addormentato. Barrett russava
come al solito, disturbato talvolta dai meccanici calci rifilatigli da
Tifa, qualche metro più in là e non distante da
Cid, che si era addormentato con la sigaretta - ormai spenta - ancora
fra le labbra. Isolato dagli altri, Vincent si intravvedeva appena, la
testa contro il muro della casa che li ospitava; Cloud, invece, giaceva
sul letto e sembrava agitato.
La ragazza si posò una mano tremante sul petto, come per
arrestare il battito cardiaco accelerato, come per trattenere il
respiro dal fluire fuori tutto in una volta.
Fuori dalla finestra il cielo, velato da sottili nubi grigie, era per
metà puntellato di stelle, come un piccolo quadretto
incorniciato. Assomigliava così tanto, anche se in scala
minore, al frammento che si poteva scorgere dal buco nel tetto della
sua chiesa.
Persa ormai la speranza di poter dormire, Aerith si alzò ed
uscì, venendo subito circondata dal frinire degli insetti
notturni e dal gracidio delle rane. Cominciò a camminare,
seguendo la strada che le dettava il cuore.
Sin da piccola aveva avuto la capacità di "sentire" la morte
delle persone. Non aveva mai saputo spiegarlo a voce - era qualcosa di
così intimo che non si era nemmeno permessa di esternarlo -
ma si presentava sempre d'improvviso, mozzandole il fiato, strappandole
il cuore e lanciandolo in un vertiginoso tuffo verso il basso.
Non era doloroso, ma era sempre come morire e tornare a vivere nel giro
di un secondo, quasi come se la premonizione volesse avvisarla che la
morte coglie senza criterio di tempo o di spazio, che la vita
è un tortuoso percorso di toccate e fughe.
Partecipare della morte di qualcuno, quasi come se insieme ad esso
esalasse l'ultimo respiro, le aveva dato un profondo rispetto per la
natura umana, tanto fragile e tanto bella, come un fiore appena
sbocciato e già destinato ad appassire.
Pensava di dover amare tutti i fiori, per poi piangerne la perdita con
la malinconia di una madre che genera un figlio sapendo di donargli
vita e morte, gioia e dolore.
Pensava di doverli amare tutti allo stesso modo, con la stessa
devozione, ma - inevitabilmente - uno di loro le era risultato
più bello e lo aveva scelto, non sapeva bene nemmeno lei per
cosa.
Pensava che amarlo potesse renderla felice, perché la sua
era una bellezza atipica, qualcosa che non aveva mai visto
né avrebbe mai più ritrovato in nessun altro
fiore, in nessun altro essere umano.
Pensava, mentre accumulava sogni e desideri in una lista che si faceva
infinita, a come discernere il rispetto per la caducità
umana e l'attrazione per una bellezza che non aveva mai visto in essa,
fino a quando aveva capito come condensare quest'ultima in un unico,
grande desiderio.
Pensava che rispettare la fragilità dell'essere umano fosse
il comportamento della madre malinconica, ma che in fondo non avrebbe
potuto amare che un solo fiore, perché era l'unico che
desiderasse contemplare.
Non avrebbe amato che un solo essere umano, perché era
l'unico di cui desiderava la compagnia.
E quando era arrivato il momento di condividere anche l'ultimo respiro
di Zack, Aerith aveva sperimentato il tuffo al cuore più
vertiginoso che fino ad allora avesse mai provato.
Era ancora in caduta
libera.
-Ho conosciuto un SOLDIER, un giorno-.
Così cominciava il suo racconto, ogni volta che le
chiedevano che n'era diventato della Aerith pavida, timorosa e
innocente che era.
Non aveva mai concluso la sua storia.
-Ora sarà a fare il cascamorto con qualche altra donna...-.
Beh, non l'aveva mai conclusa veramente.
Era più facile immaginare Zack chiedere un appuntamento ad
una donna, piuttosto che immobile e freddo, sotto uno strato di terra
eccessivo anche per un fiore.
Non l'aveva mai detto a nessuno, tuttavia. Parlarne avrebbe reso reale
il fatto che quel respiro spezzato a metà era davvero di
Zack.
Ma era davvero
suo, perché il dolore che l'aveva piegata in due subito dopo
non era semplicemente quello contenuto di una madre malinconica, che
coglie ogni giorno l'appassire di un figlio.
Quel dolore l'aveva travolta, buttata a terra in ginocchio fra le
corolle dei suoi fiori, tutte certamente meravigliose, ma in quel
momento insignificanti, perché la più bella di
loro aveva appena chinato il capo.
Si era strappata il fiocco rosa dai capelli, l'aveva bagnato di lacrime
quando l'aveva avvicinato alla bocca per soffocare i lamenti strazianti
che ne uscivano, perché nessuno capisse quanto aveva amato
quel fiore. L'aveva amato, sì. Ma non credeva che l'amore
dovesse essere gridato, bastava che lo sapesse lei stessa e l'avesse
coltivato con quanta più dedizione fosse stata in suo
potere.
Questo era stato ciò che le aveva dato la forza di guardare
avanti, oltre la soglia illuminata della sua chiesa, oltre il foro del
tetto, verso ciò che le aveva sempre fatto paura.
Zack le aveva promesso che l'avrebbe accompagnata a vedere il cielo, ma
quando l'aveva fatto, quando si era lasciata inghiottire da quella
immensità, tanto da aver paura di esserne schiacciata, era
sola. Tuttavia, era a lui che lo doveva, era grazie alla sua bellezza
atipica e al fatto di essersene innamorata che aveva potuto farlo.
Fu lì, mentre camminava sotto la cornice di un cielo
stellato che aveva dovuto affrontare con la forza dell'amore per Zack,
che Aerith pianse. Piangeva ogni notte, per compensare l'energia che
l'aveva sostenuta durante il giorno.
Piangeva di nascosto, a volte persino da se stessa, lasciando fluire le
lacrime mentre era occupata a fare altro.
Piangeva sorridendo, perché tentava sempre di scacciare il
senso di abbandono con un bel sorriso, ma la verità era che
anche lei era un fiore, delicato e fragile come tutti gli altri,
destinato ad appassire.
Solo che, con Zack accanto, sarebbe appassita un po' più
volentieri.
Mentre si cullava per prendere sonno, con le guance ancora bagnate, si
sentiva onorata di essere stata l'unica a cogliere quel fiore, la cui
bellezza forse ora riverberava un po' nella sua. Sentiva di dover
essere grata a Zack per quel sentimento che, seppur incredibilmente
doloroso, era stato prima di ogni cosa incredibilmente travolgente.
E ogni notte era lì a dirgli addio, decisa a lasciarlo
andare, salvo scoprire il giorno dopo che le era impossibile, le sue
radici si rifiutavano di lasciarsi strappare.
Ma aveva raggiunto il
fondo.
Il Bone Village la accolse nel silenzio e nei contorni spigolosi delle
ossa accatastate ovunque, delle pale ammucchiate alla rinfusa, delle
impalcature scricchiolanti.
Quella particolare notte, in cui aveva percepito distintamente un
presagio di morte, Aerith si chiese quale fiore fosse appassito e quale
dolore avrebbe provocato.
Con il suo aveva imparato a convivere piano piano, lasciandolo fluire
quando sapeva di poterlo controllare, e trattenendolo quando l'avrebbe
ostacolata. Era una cosa che aveva dovuto imparare a fare anche con
l'amore, dopotutto.
Questo le dava una sorta di inspiegabile tranquillità,
perché la spirale amore-dolore in lei funzionava,
soprattutto adesso che aveva deciso di non rimanere più
nascosta. Era come un fiore ammiccante in mezzo alla penombra: anche
lei aveva la sua bellezza atipica e con essa poteva salvare il mondo.
Non poteva rimanere nascosta.
Aerith guardò la Sleeping Forest profilarsi davanti a lei,
pronta a svegliarsi per accoglierla e condurla oltre di sé,
verso la meta finale.
Fu pervasa da un tremito al ricordo del tuffo al cuore appena provato,
ma non vacillò.
Il destino si scriveva lì, come si era scritto allora per
Zack.
E forse per loro, dopo tanta sofferenza, sarebbe giunto presto il
momento di rincontrarsi.
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