CAPITOLO
1
Sansa
Stark mi fa
volare sul fiume Charles
Faceva ancora piuttosto caldo in quei giorni, nonostante
la seconda settimana di Ottobre stesse ormai per giungere al termine:
la maggioranza dei marciatori della Pride Parade bostoniana indossava
t-shirt arcobaleno o indumenti leggeri, rievocando
l’atmosfera della parata di Giugno.
Se quella mattina vi foste trovati a camminare sui marciapiedi di Back
Bay, avreste potuto scorgere tra la folla, caricata sulle spalle di un
gigantesco ragazzone di colore, una diciottenne allampanata con i
capelli biondo cenere raccolti in due crespi codini, i lineamenti
aguzzi e gli occhi grigioverdi, abbigliata con un top fucsia acceso,
pantaloncini verde militare e scarpe da ginnastica colorate con diversi
evidenziatori.
Sì, quella ragazza ero io: Riley Barry Jenkins, per gli
amici Ray, studentessa neoiscritta alla facoltà di Biologia
Marina. O meglio, quella ragazza ero io prima che le incasinate vicende
della mitologia norrena entrassero prepotentemente nella mia
vita.
Per nulla timorosa di cadere, stringevo tra le dita due
estremità della bandiera arcobaleno, a volte sventolandola
sopra la testa, a volte avvolgendola attorno al corpo come una cappa.
- Sei sicuro di non fare tardi a lavoro? – gridai rivolta al
mio migliore amico Dayo, alias il ragazzone che mi portava sulle
spalle. – Quando vuoi puoi mettermi
giù!
- Nessun problema! – replicò lui, cercando di
sovrastare la musica altissima e le voci della folla. – Oggi
mi tocca il turno del pomeriggio, ho tutto il tempo che
voglio!
Sorrisi, accarezzandogli una mano e pizzicandogli affettuosamente un
orecchio; in risposta, lui mi diede un buffetto sulla
gamba.
Dayo aveva quattro anni più di me, ma eravamo cresciuti
assieme, visto che la villetta della sua famiglia si trovava proprio
accanto alla mia; aveva due sorelle e tre fratelli, tutti molto
più grandi di lui, perciò non era strano che
passasse la maggior parte della giornata con l’unica compagna
di giochi disponibile nel raggio di un isolato. Quando poi aveva
imparato a leggere alla perfezione, si presentava spesso al cancello
con un libro preso dalla Biblioteca dei Bambini; allora ci sedevamo su
un telo in giardino e lui leggeva per me, senza mancare di mostrarmi
tutte le figure.
Crescendo, il nostro solidissimo rapporto fraterno non aveva subito
alcun cambiamento, nemmeno dopo il mio coming out: a scuola, Dayo aveva
avuto problemi con alcuni compagni per via delle sue origini nigeriane,
perciò mal sopportava qualsiasi forma di discriminazione.
Ecco perché non si faceva alcun problema ad accompagnarmi
alle parate ed era in grado di fare amicizia con chiunque.
La celebrazione durò fino a mezzogiorno, fermandosi a
Kendall Square.
Scesi dalle spalle di Dayo, legando la bandiera a mo di mantello, e mi
guardai attorno estraendo la custodia degli occhiali da vista dalla
tasca dei pantaloncini: - Beh, direi che stavolta ti è
andata bene, tempo di uno spuntino al bar e sei a pochi passi
dall’ufficio.
- Sei sicura di voler tornare a casa da sola? Posso accompagnarti,
tanto comincio alle due…
Gli sorrisi, inforcando le mie amate lenti dalla montatura nera: - No,
hai fatto già tanto per me, oggi. Potresti anzi fare una
sorpresa a Liddy e pranzare con lei.
Gli occhi grandi e gentili di Dayo si illuminarono non appena
pronunciai il soprannome della fidanzata: - In effetti è da
un po’ che non passiamo insieme la pausa pranzo…
però mi dispiace lasciarti andare via da sola…
- Dayo – alzai un sopracciglio con fare ironico. –
Non sono più una bambina, ricordi? Sono capace di tornare a
casa senza perdermi. E poi – eseguii una specie di riverenza,
allargando la bandiera-mantello dietro di me. – Attraversare
il parco in solitudine mi fa sentire un’artista romantica
dell’Ottocento.
- D’accordo, d’accordo – rise lui,
scompigliandomi affettuosamente i capelli. – Però
dritta a casa. E non fermarti a parlare con gli sconosciuti.
Ci abbracciammo calorosamente, come al solito. Nonostante raggiungessi
quasi il metro e ottanta d’altezza, dovevo sempre alzarmi
leggermente sulle punte per poggiare il mento sulla spalla marmorea di
Dayo.
- Ci vediamo stasera – mi salutò poi, mentre mi
affrettavo ad attraversare le strisce pedonali.
- A stasera! – risposi, agitando la mano non appena raggiunsi
il marciapiede opposto.
Mi sembrò tutto così naturale e ordinario in quel
momento, mai avrei potuto immaginare cosa stesse per succedere di
lì a breve.
Non ci saremmo rivisti quella sera.
Charles River Esplanade, ovvero la camminata lungo l’argine
che attraversa un incantevole parco, era senza dubbio uno dei luoghi
che preferivo in assoluto nella mia città. In particolare mi
piaceva passeggiare da quelle parti all’ora di pranzo, quando
la via era quasi del tutto solitaria.
Mi fermai per qualche istante sulla sponda, sempre avvolta dalla
bandiera arcobaleno: il fiume Charles scintillava come argento liquido
sotto i raggi del sole. Mi tolsi gli occhiali, un po’
infastidita dal riflesso sulle lenti, concentrandomi sui punti
più vicini in modo da non affaticare la vista, poi tirai
fuori dalla tasca il mazzo delle chiavi di casa, a cui era appeso un
portachiavi a forma di goccia. Feci scattare il meccanismo premendo un
piccolo bottoncino e, come sempre, fece capolino la piccola foto chiusa
all’interno dell’accessorio, nella quale io e mamma
sorridevamo all’ombra di un ciliegio, io con i capelli
sciolti e crespi e i vecchi occhiali dalla montatura viola, lei con i
suoi delicati tratti orientali e la chioma scura raccolta da un grande
fermaglio.
Peggy Jenkins non era la mia vera madre, naturalmente: per
metà coreana dal lato materno, non si era mai sposata (a
differenza delle sorelle minori, entrambe maritate subito dopo il
college) e si era dedicata anima e corpo alla carriera di avvocato,
coronando il sogno che si portava appresso sin da bambina. Mi
adottò quando avevo poco più di un anno e, contro
ogni previsione dei famigliari, riuscì senza problemi a
essere una buona madre senza dover rinunciare al proprio lavoro.
Detti una sbirciata all’orologio e, dopo aver riposto il
portachiavi nella tasca, mi avviai a passo spedito lungo il viale
alberato, cominciando a riflettere su cosa potessi preparare per
pranzo.
Avevo appena optato per un piatto di riso speziato alle verdure, quando
due voci poco amichevoli mi costrinsero ad arrestare la marcia e alzare
lo sguardo: una giovane coppia avanzava lungo l’argine nella
direzione opposta alla mia. Il ragazzo era tozzo e di media altezza,
dallo sguardo rude, e circondava con il braccio le spalle esili della
ragazza, i cui lineamenti parevano affilati come rasoi.
Si fermarono a pochi passi da me, squadrandomi con disgusto: lei fece
una grossa bolla con la gomma da masticare, giocherellando con uno
degli enormi orecchini a cerchio appesi ai suoi lobi.
- Oh cielo – commentò, tirando nuovamente in bocca
i resti del palloncino appena scoppiato. – Un’altra
di ritorno dalla parata. Che cosa ridicola.
- Grazie per aver intasato il traffico con il vostro Carnevale
– fece eco lui. – Che enorme accozzaglia di
fenomeni da baraccone!
- Secondo te questa qui è un travestito, Butch? -
domandò Faccia di Spigolo, gettando un’occhiata
dubbiosa alle mie forme poco pronunciate. – Così
alta e piatta?
- Ma che ne so, può darsi, questi pagliacci sono tutti
uguali per me- sputò Butch. – Froci, trans,
lesbiche. Sarebbe da farci una bella fiaccolata.
Se Dayo fosse stato con me, con i suoi due metri d’altezza e
centocinque chili di muscoli, di sicuro non si sarebbero azzardati a
lasciarsi sfuggire simili commenti, tuttavia non sentii affatto la
mancanza del mio amico in quella situazione: gli insulti degli
ignoranti mi ferivano quanto il pugno di un moscerino.
Senza attendere ulteriori perle di saggezza, sfoderai il mio miglior
sorriso falso e augurai con voce affettata: - Buona giornata anche a
voi – sorpassandoli con fare tranquillo.
Il silenzio alle mie spalle mi diede un’idea piuttosto nitida
delle loro espressioni sconcertate e mi strappò un sorrisetto. Stavo nuovamente riflettendo sulle verdure da scegliere per il
riso quando delle urla di terrore mi costrinsero a voltarmi
così velocemente che per poco non mi volarono via gli
occhiali.
Butch il Rozzo e Faccia di Spigolo erano appena volati gambe
all’aria sul prato, strillando come pazzi: a pochi
metri da loro, un individuo decisamente poco raccomandabile avanzava
minaccioso, trascinando i piedi e gocciolando. Mi ci volle qualche
istante per rendermi conto che la pelle marcia e verdognola di quel
coso somigliava in maniera preoccupante a quella degli zombie di The Walking Dead;
mi ci volle altrettanto per capire che il coso in questione aveva in
tutto e per tutto l’aspetto di uno zombie rimasto sepolto nel
letto del fiume per chissà quanto tempo, sotto interi strati
di melma.
Il corpo putrefatto era ricoperto di alghe mollicce e, cosa piuttosto
ovvia, emanava un odore tremendo.
Una parte di me mi suggerì di scappare, abbandonando i
fidanzatini al proprio destino. Due idioti in meno.
Un’altra parte mi disse che doveva trattarsi di uno scherzo o
di un’allucinazione collettiva, perché gli zombie
esistevano soltanto nei libri o in tv.
Una terza parte, infine, provò a convincermi che dovevo
restare e fare qualcosa, magari non per i due scemi ma per le persone
che il mostro avrebbe assalito dopo di loro.
Per mia somma sfortuna, decisi di dare ascolto a
quest’ultima: raccolsi un ramo lungo e appuntito e mi portai
furtivamente alle spalle dello zombie, conficcandogli la mia arma
improvvisata nella nuca.
La punta del bastone penetrò con facilità
attraverso la scatola cranica, producendo un suono orribile, tuttavia,
quando tirai indietro il braccio con uno strattone, il mio avversario
non crollò a terra, anzi, si voltò verso di me,
fissandomi con le orbite vuote; un disgustoso liquido scuro gli colava
dal buco sulla fronte.
Mi lasciai sfuggire un grido, mentre l’essere, furibondo,
tendeva il braccio verso di me, gorgogliando parole incomprensibili.
Senza lasciare il mio bastone imbrattato di liquame zombie, cominciai a
correre lungo il sentiero, sapendo senza dovermi voltare che il mostro
mi stava inseguendo. Non era veloce ma sicuramente poteva contare sul
fatto che mi sarei stancata prima o poi: mancavano ancora un paio di
chilometri all’uscita del parco e, nonostante le gambe lunghe
mi aiutassero nella velocità, non ero mai stata una
campionessa di resistenza.
Mentre correvo mi guardavo attorno, alla ricerca di un nascondiglio o
di qualsiasi cosa potesse fornirmi un vantaggio. Potevo provare ad
arrampicarmi su un albero, con il rischio però di rimanerci
intrappolata a lungo, magari esponendo altri passanti ignari al
pericolo; oltretutto, chi mi garantiva che la carcassa ambulante non
fosse in grado di arrampicarsi? Proseguiva abbastanza spedito per
essere uno zombie normale e in più il mio colpo alla testa
non l’aveva ucciso. Di solito in tv funzionava
sempre…
Un’ombra volò sopra la mia testa, costringendomi
ad alzare lo sguardo: una ragazza a cavallo, armata con una lunga
lancia, si muoveva in cerchio a diversi metri da terra, tenendo lo
sguardo fisso su di me. Aveva lunghi capelli rossi che volteggiavano da
sotto l’elmo vichingo che le proteggeva il capo e vestiva con
un’armatura dall’aria antica che avevo visto
più volte nei libri di mitologia.
“Una
valchiria?” pensai, riconoscendo i tratti
caratteristici della misteriosa fanciulla. “D’accordo,
qui abbiamo poche opzioni: sto diventando pazza, sto sognando,
oppure…”
Ricordai di aver letto qualcosa sugli zombie dell’epica
norrena: avevano un nome strano che iniziava per D, possedevano una
forza sovraumana, poteri magici e potevano essere uccisi…
“Come cavolo
si uccidevano?” riflettei disperata. “Forza sovraumana,
poteri, contromisure… ferro! Il ferro li indebolisce! Ma
dove posso trovare un’arma di ferro qui? In alternativa
c’era… fuoco! Decapitazione e fuoco! Ma anche in
questo caso, il fuoco dove lo trovo?”
Decisi di provare per lo meno a decapitare il mostro in qualche
modo, anche se continuavo a non trovare dei mezzi sufficienti
attorno a me per portare a termine l’impresa.
Ero ormai giunta nei pressi di un piccolo ponte bianco e la fatica si
stava facendo sentire. Avevo il fiatone e sapevo che non sarei riuscita
a reggere ancora per molto.
Mi portai vicino a una coppia di alberi cresciuti vicini, tanto che i
due tronchi si erano intrecciati tra loro, lasciando al centro una
fessura grande quanto la ruota di un camion.
Udii un rumore poco rassicurante alle mie spalle e, voltandomi,
trattenni a stento un grido: lo zombie aveva fatto ricorso ai propri
poteri per trasformarsi in un grosso toro non-morto: tutta la
metà destra del suo corpo era composta da un insieme di ossa
scoperte, la metà restante era uno schifoso ammasso di carne
putrefatta.
Fu allora che mi venne un’idea, seppur banale: mi posizionai
davanti alla coppia di alberi, agitando la bandiera arcobaleno.
- Ehi! – gridai. – Vieni qui, stupido bestione!
Vieni a prendermi!
Il toro sbuffò, facendo colare la saliva verdognola sul
prato, batté un paio di volte lo zoccolo a terra e
caricò, avanzando zoppicante ma rapido.
Mi scansai all’ultimo, portandolo a incastrarsi con la testa
nel buco lasciato dai tronchi intrecciati, mentre le corna di ossa
logore si spezzavano sul colpo; senza perdere tempo, cominciai a
conficcare più volte la punta del bastone nella sua gola,
per poi cercare di staccare la testa dal corpo con una serie di calci
ben assestati.
Proprio mentre cominciava ad aprirsi uno spiraglio di carne marcia
sull’attaccatura del collo, il bestione mutò
nuovamente, tornando all’aspetto precedente, ma, invece che
liberarsi dalla morsa dei due alberi, iniziò a crescere a
dismisura.
Il legno dei tronchi scricchiolò paurosamente, mentre un
grugnito rabbioso usciva dalla bocca del mostro. Alzai le braccia per
colpirlo di nuovo col bastone, ma stavolta lui fu più
svelto: serrò la mano destra a pugno, caricò il
braccio e mi colpì in pieno con tutta la sua forza,
facendomi volare contro il ponticello bianco.
Le lenti degli occhiali crepate, un forte colpo alla testa, il rumore
di ossa rotte.
E poi il buio.
Per alcuni istanti vagai in un cieco oblio, finché non
avvertii nuovamente il peso del mio corpo e una nauseante sensazione di
vuoto sotto i piedi.
Aprii gli occhi, battendo le palpebre più volte e cercando a
fatica di mettere a fuoco l’ambiente che mi circondava,
finché non mi resi conto di essere sospesa diversi metri
sopra il corso del fiume Charles.
Qualcuno mi stava sollevando per il polso, imprecando a bassa voce.
Alzai lo sguardo: era la valchiria dai capelli rossi che avevo visto
poco prima. Dimostrava circa una ventina d’anni, il suo volto
pallido era abbellito da una leggere spruzzata di lentiggini sul viso,
mentre i suoi magnetici occhi color ghiaccio mi fissavano freddi e
severi.
Vedendola, pensai immediatamente all’immagine di Sansa Stark
che avevo prodotto nella mia mente leggendo Le Cronache del Ghiaccio e del
Fuoco: età e lentiggini a parte, era
pressoché identica.
- Sei già cosciente? – domandò, senza
lasciar trasparire emozioni. – Mh, no, sei sveglia ma in
stato confusionale. Evita di agitarti troppo durante il tragitto.
Non so come, riuscì a
trascinarmi sopra il suo strano destriero, costringendomi a serrare le
braccia attorno alla sua vita e tenendomi i polsi stretti tra loro con
la mano sinistra.
Spronò quindi il cavallo, che sfrecciò rapido
lungo la scia del fiume, attraversando il parco per intero, svoltando
bruscamente non appena si ritrovò a sorvolare la zona urbana.
Il movimento mi provocò un tremendo capogiro. Poco prima di
svenire sperai si trattasse soltanto di un brutto sogno, poi le
tenebre mi inghiottirono di nuovo.
***
Angolo
dell’Autrice: Eccomi qua. Non sono riuscita
a resistere, la saga di Magnus Chase mi ha presa troppo.
Chi mi conosce mi
odierà di sicuro visto che ho varie storie da aggiornare. Lo
so. Fate bene.
Mi chiedo se abbia fatto bene a inserire la storia in questa sezione,
boh. In caso sia necessario spostarla avvisatemi.
Comunque, qui su EFP
Riley è la seconda protagonista omosessuale di questo
profilo (ne ho altre LGBT su Tinkerbell92, ma, a parte Ryan di Hunger
Games, appartengono ad altre categorie della comunità). La
prestavolto che ho scelto per lei è Jamie Clayton, alias
Nomi Marks di Sense8, ma ovviamente voi potete immaginarla come volete
XD
Ah, nella mia mente la
valchiria che la salva non ha il volto di Sophie Turner, ma Riley ha
pensato a Sansa perché, al tempo, aveva appena iniziato a
guardare la serie tv di GoT ed era ancora legata all’aspetto
dei personaggi che si era immaginata leggendo i libri.
Bene, spero che questo
primo capitolo vi sia piaciuto, grazie a tutti per aver letto!
Tinkerbell92
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