Nemo
Il
mistero del Nemo
Mostrando agli amici il
telefonino, Mike annunciò fiero: “Ragazzi, abbiamo chiuso con i
magazzini abbandonati e le gattare isteriche.”
Simon si alzò dal portatile su
cui stava guardando un video di esplorazione urbana e chiese: “Hai
trovato qualcosa?”
“Roba forte,” rispose
l’altro.
Dal divano, Andy domandò:
“Sarebbe?” Allungò un braccio e pescò nel frigo da campeggio
una lattina di coca cola.
Per tutta risposta, Mike fece
partire una traccia audio. Si sentivano fruscii elettrostatici,
qualche spezzone di musica. Con molta fantasia, si potevano
individuare qua e là delle voci distorte.
La traccia finì.
“E quindi?” chiese Simon.
Tornò alla console. Sul monitor stavano scorrendo le immagini di una
biblioteca con le pareti completamente tappezzate di libri. Al centro
della sala cresceva un albero, i cui rami uscivano da uno squarcio
nel soffitto. “Guarda che figata,” mormorò, disinteressandosi
della registrazione dell’amico.
“Questa è roba forte,”
ripeté Mike. Fece ripartire la traccia.
Seguì qualche secondo di
silenzio, poi gli altri due scossero la testa. “Cosa sarebbe?”
chiese Andy dopo un po'.
“Avete presente lo spirit box?”
“Il che?”
Mike emise uno sbuffo
infastidito. “Sveglia, ragazzi: transcomunicazione strumentale.
Possibile che non ne abbiate mai sentito parlare?”
Simon digitò l’espressione nel
motore di ricerca, e comparvero alcuni siti sullo spiritismo. “Ti
sei bevuto il cervello?” chiese.
L’altro fece partire per la
terza volta la traccia. “Ora la rallento del trenta per cento,”
annunciò. I fruscii si abbassarono di un’ottava, gli spezzoni di
musica leggera divennero una specie di solenne canto da cappella. La
voce si fece più chiara. Alcune parole rimasero inintelligibili, ma
i ragazzi udirono abbastanza chiaramente ‘il fuoco’, ripetuto due
volte, e poi ‘andate via’. Infine la parola ‘Nemo’, seguita
da qualcosa che somigliava a ‘me’ e poi un magma incomprensibile
di suoni.
I tre si scambiarono un’occhiata.
“Da farsela sotto,” commentò
Andy. Finì la lattina, la accartocciò e la lanciò verso il cestino
dell’immondizia.
Simon scosse la testa.
“Pareidolie,” sentenziò.
Andy lo fissò perplesso. “Para…
che?”
“Pareidolie. Tu vuoi sentire
una certa cosa, e il tuo cervello interpreta suoni casuali facendoti
credere che la stai sentendo. È un fenomeno neurologico.”
“Ragazzi!” Mike impose il
silenzio. “Pareidolie un cavolo. Com’è allora che nel posto da
cui proviene quello spezzone le tavole ouija impazziscono, gli spirit
box sembrano degli studi di registrazione di Memphis e i sensitivi
cominciano a vomitare come l’Esorcista?”
Gli altri due si scambiarono
un’occhiata e si strinsero nelle spalle.
“Quel posto è infestato,
ve lo dico io!”
Simon si tolse gli occhiali, pulì
le lenti e li inforcò nuovamente. “E anche se fosse?” chiese
poi.
“Beh, ci andiamo,” disse
Mike. “Lo sapete che non ci sono foto di quel posto in rete?
Neanche mezza, le nostre potrebbero essere le prime.”
“Ha un nome, quel posto?”
“È un ristorante chiuso da
anni. Si trova vicino alla stazione della metropolitana della
Quarantasettesima.”
“Vuoi dire qui in città?”
“Esatto.”
“Come si chiama?”
“Qui viene il bello: Nemo.”
Simon mise i dati nel motore di
ricerca. “Non c’è niente,” concluse poi in tono cupo.
“Ve l’avevo detto. Saremo i
primi.”
I tre si scambiarono di nuovo
un’occhiata, poi intervenne Andy: “Come hai fatto ad avere quella
registrazione?”
Mike fece un sorrisetto.
“Cortesie fra Urbex.”
“Ma anche noi siamo Urbex,
scusa.”
L’altro fece un sorrisetto di
superiorità. “Sì, ma voi non sapete coltivare rapporti
diplomatici con gli altri gruppi. Ho spiegato a Vroukolakas98 come
entrare nella stazione della metro abbandonata, e lui in cambio mi ha
dato questa dritta.”
“Ma Vrouko è uno svitato!”
protestò Andy.
“È psicotico,” intervenne
Simon, “pensa di parlare con i morti.”
“Non pensa
di farlo,” replicò Mike piccato. “Lo fa e basta. Questa
registrazione è sua.”
“Confermo: è psicotico,”
asserì l’altro categorico.
Seguirono alcuni minuti durante i
quali si udì solo il ticchettare della tastiera mentre Simon cercava
notizie sul ristorante abbandonato.
“È molto strano,” disse alla
fine.
“Cosa è strano?” chiese
Andy.
“Se voglio, trovo in rete anche
notizie sulla casa di mia nonna. Su questo posto invece niente di
niente. Non c’è un solo sito di Urban Explorers che ne parli.”
“Appunto, ragazzi.” Mike
appariva sempre più eccitato all’idea di andare a esplorarlo.
“Saremo i primi a mettere delle foto in internet. Dopo una cosa del
genere, gli altri Urbex potranno baciarci il culo.”
§
Il detective Krueger sbuffò. Si
spostò da una parte per evitare una barella che passava di corsa
spinta da una frotta di paramedici concitati, e quasi andò a
sbattere contro una donna di colore in vestaglia, che passeggiava
assorta tirandosi dietro un flacone di fisiologica appeso al suo
sostegno. Istintivamente si portò la mano all’altezza della tasca
interna della giacca, dove teneva la fiaschetta di whisky. “Mi
scusi, signora,” biascicò poi. La donna non lo degnò di uno
sguardo.
Si voltò verso il collega. “Io
vorrei sapere perché ci mollano sempre questi casi del cazzo, Penn.”
“Colpa tua,” replicò
l’altro. “Se bevessi meno, probabilmente il capo ci darebbe
qualcosa di meglio di un drogato che è scampato a un regolamento di
conti con degli spacciatori.”
“Io non bevo.”
“Certo, e io sono Shakira.”
“Voglio dire, mai in servizio.
Quasi
mai. E comunque, Shakira, mi sembrava che nell’ultimo video tu
avessi più tette e ti muovessi meglio.”
“Ha parlato Nureyev.”
“Bah. Sappiamo niente di questo
tizio?”
“Andrew Donovan, ventun anni,
studente, incensurato. L’hanno trovato in stato confusionale vicino
alla fermata della metropolitana della Quarantasettesima.”
“Drogato?”
“Considerate le cazzate che ha
detto, direi che è più drogato di Bob Marley.”
“Perché, che ha detto?”
“Storie sui morti che hanno
cercato di ammazzarlo. Intanto però nel sotterraneo da cui è uscito
ci sono due cadaveri carbonizzati.”
Krueger sollevò le sopracciglia.
“Si sa chi sono?”
“Il tizio dice che sono i suoi
amici, tali Michael Brown e Simon Frost. Stanno confrontando le
impronte dentali, comunque.”
“Un sotterraneo, hai detto?”
“Uh-huh.”
“E che ci facevano in un
sotterraneo?”
Pennington scosse la testa come
di fronte a qualcosa di profondamente stupido. “Ha detto che
esploravano.”
Fece una pausa, poi si voltò verso il collega e soggiunse: “E io
invece dico un’altra cosa: i tre poppanti volevano giocare agli
spacciatori, e sono andati a pestare i piedi a degli spacciatori
veri, che gli hanno fatto il servizietto. Questo è lo stile della
mafia russa.”
Così parlando erano arrivati
sulla porta di un ambulatorio. All’interno, seduto sul lettino con
le gambe penzoloni, un giovanotto sui vent’anni, di corporatura
robusta, con una coperta buttata sulle spalle nude e i capelli biondi
tagliati corti, si stava dondolando avanti e indietro tipo orso dello
zoo. Ogni tanto tirava su col naso e col dorso della mano si
asciugava le lacrime, che gli scendevano lungo le guance come linfa
da una vite tagliata.
Pennington lo fissò in silenzio
per qualche secondo, poi si rivolse al collega e in tono severo gli
disse: “Me lo lavoro io.”
Krueger si limitò a stringersi
nelle spalle. Aspettò che l’altro fosse entrato nella stanza,
quindi tirò fuori la fiaschetta, bevve un rapido sorso e la rimise
al suo posto.
Pennington si avvicinò al
ragazzo con passo deciso, e con il più sinistro dei suoi toni
professionali disse: “Buona sera, lei è il signor Andrew Donovan?”
Il ragazzo lo guardò come se
fosse stato un marziano. Cercando di non far tremare le labbra, con
un filo di voce rispose: “Sì, sono io.”
“Molto bene. Io sono il
detective Tanner Pennington, e quello sulla porta è il mio collega
Bud Krueger. Siamo qui per aiutarla.”
“Sì, signore.”
Tanner annuì. “Molto bene. Ora
mi vuole spiegare cos’è successo, signor Donovan?”
“Di nuovo?”
“Diciamo che la sua prima
versione non mi ha convinto molto.”
“È la verità.”
La voce di Pennington si fece
dura. “Signor Donovan, lei è sospettato di un duplice omicidio.”
“Cosa?”
“Finché non salta fuori come
sono morti i suoi amici, per me li ha ammazzati lei.”
“Cosa?” ripeté il ragazzo,
questa volta in tono allarmato. “Io non ho ucciso nessuno!”
“Me lo provi, signor Donovan,”
replicò duro Pennington. “Perché se lei mi dice che dei morti si
sono animati e hanno spinto i suoi amici a darsi fuoco da soli, il
primo impulso che mi viene è quello di spedirla in un manicomio
criminale.”
Mentre Bud seguiva la scena dalla
soglia dell’ambulatorio, si sentì battere sulla spalla. Si voltò
e vide che c’era una dottoressa che teneva in mano dei fogli. “Lei
è il detective che si occupa del caso?” gli chiese.
L’uomo annuì.
“Dottoressa Gonzales,” si
presentò la donna tendendogli la mano. Aveva una stretta franca,
energica. “Qui ci sono i tossicologici,” disse.
Krueger annuì. “Cos’ha in
corpo, il giovanotto?”
“Niente.”
L’altro aggrottò le
sopracciglia. “Niente?”
“Né droghe, né alcol, né
farmaci. Pulito come un bambino dell'asilo.”
“Sappiamo per caso se è in
cura presso qualche psichiatra?”
“Dal computer non risulta.”
“E quindi perché dice che i
morti si sono svegliati e hanno ammazzato i suoi amici?”
La dottoressa Gonzales si strinse
nelle spalle. “Non lo so, forse sta cominciando l’apocalisse
zombi. E ora mi scusi.” Si allontanò lungo il corridoio.
Bud rimase a guardarla per un
po’, poi scosse la testa. “Apocalisse zombi,” ringhiò. “Bah.”
Tirò fuori la fiaschetta e bevve
un altro lungo sorso, poi emise un sospiro soddisfatto.
Poco dopo uscì il suo collega.
“Parlaci tu,” disse ruvido.
Bud alzò gli occhi sul ragazzo,
che sedeva ancora sul lettino, ma dopo il passaggio di Pennington
singhiozzava e tremava visibilmente. “Me l’hai fatto diventare
isterico,” protestò. “E io adesso come cazzo ci parlo?”
“Vedi tu. Fatti dire
dall’idiota chi ha fatto fuori i suoi amici.” Poi, dopo una
pausa: “A proposito, cos’ha in corpo?”
“Niente.”
“Stai scherzando? Questo vede i
morti che girano e mi dici che non ha in corpo niente?”
Bud si strinse nelle spalle.
“Forse ha ragione la dottoressa che mi ha mostrato le analisi: è
cominciata l’apocalisse zombi.”
“Parlaci tu,” brontolò
Tanner per tutta risposta, poi si allontanò annunciando che andava a
fumare.
Krueger fece qualche passo nella
stanza. “Salve,” salutò in tono conciliante.
Il ragazzo non fece altro che
ingobbirsi ulteriormente e tirare su col naso.
“Andy, giusto? Io sono Bud.”
L’altro si voltò verso di lui.
Aveva gli occhi rossi e l’espressione atterrita. “Io l’ho già
detto, quello che è successo,” singhiozzò.
Il detective assentì col capo.
“Certo, certo.” Tirò fuori il whisky. “Un goccetto? Così ti
calmi.”
“Cosa?”
“Bisogna che tu mi faccia
capire quello che è successo là sotto, ragazzo. Forse con un po’
di alcol ti calmi abbastanza da raccontarmelo.”
Andy buttò giù un sorso con
aria obbediente, tossì, ne buttò giù un altro e disse: “L’ho
già raccontato dieci volte, quello che è successo.”
“Cioè, tu mi vuoi dire che
c’erano dei… morti?”
“Non sono pazzo. A un certo
punto sono arrivati e li hanno presi.”
“Dei morti?”
Il ragazzo annuì, stringendo gli
occhi come per liberarsi della raccapricciante visione.
“E come fai a sapere che erano
dei morti? Magari erano solo dei barboni.”
“Avevano le ossa fuori, erano
mezzi bruciati. Ma non li vedevo sempre.” Represse un brivido.
“Solo negli specchi.”
Bud si passò una mano sulla
faccia. “Solo negli specchi?”
Andy non rispose, e il detective
rinunciò a insistere: il ragazzo tremava e piangeva, era vicino al
collasso nervoso. Si ripromise di interrogarlo il mattino dopo, con
un po’ più di calma. “Ok, ora vado,” gli disse.
“Aspetti,” lo fermò il
ragazzo. “È vero quello che dice il suo collega? Che sono
sospettato di omicidio?”
Bud scosse la testa. “Non
preoccuparti. Ci siamo messi d’accordo: io faccio lo sbirro buono,
e lui quello cattivo. Cerca solo di entrare nel personaggio.” Gli
scostò un lembo della coperta, mettendo a nudo segni rossi allineati
quattro a quattro, come graffi. Ne aveva sulle spalle, sui fianchi e,
per quanto poteva vedere, su tutta la schiena. “E questi chi te li
ha fatti?” chiese stupito.
“Loro.”
“Vuoi dire i morti?”
“Cercavano di prendermi, mi
hanno strappato tutta la camicia.”
Krueger rimise la coperta al suo
posto. “E tu come hai fatto a scappare?”
Il ragazzo tirò fuori dalla
tasca dei jeans un piccolo oggetto di metallo. “Io avevo questo.”
Bud lo osservò: era un
pentacolo.
Il ragazzo glielo mise in mano.
“Lo tenga. Se va laggiù le servirà.”
“Andy, non credo che...”
“Lei è stato gentile con me.
Lo tenga, per favore.”
In quel momento si rifece vivo
Pennington. Krueger si infilò il piccolo oggetto nella tasca del
giubbotto e gli disse: “È meglio che torniamo domani.”
“Ha parlato?”
“Domani, Penn.”
§
La zona dove si trovava il Nemo
aveva un’aria decisamente tetra. I caseggiati di mattoni, risalenti
alla fine dell’ottocento, avevano le pareti annerite dallo smog. La
strada in cui si trovava il ristorante, poi, sembrava uscita da
Silent Hill. C'era una lunga fila di vetrine, per la maggior parte
buie e polverose. Le poche che rimanevano in attività erano sbarrate
da grate di ferro e contenevano roba vecchia e stinta dal sole. Lungo
il marciapiede rotolavano cartacce spinte dal vento. Gli alberi
piantati nelle aiuole erano ridotti a tronchi coperti di graffiti.
“Che allegria,” commentò
Tanner guardandosi intorno. Si strinse addosso il giubbotto
incassando il collo fra le spalle.
Al suo fianco, Bud tirò fuori la
fiaschetta e bevve un lungo sorso. “Che ti aspettavi, un centro
commerciale di Dubai? Magari quello in stile Antico Egitto?”
Assunse una posa vagamente simile a un bassorilievo egizio.
“Dovresti smettere con quella
roba.”
“E io che stavo per offrirtene
un po’.”
L’altro emise uno sbuffo
infastidito. “Siamo in servizio.”
“Lo so. Stavo dormendo
dannatamente bene quando quella puttana della sveglia mi ha sbattuto
giù dal letto.”
“Forse, se la sera bevessi
meno, la mattina ti sveglieresti più facilmente.”
“Se bevessi meno avrei gli
incubi, e quindi la mattina farei ancora più fatica a svegliarmi,”
replicò Bud, quindi indicò una malandata insegna al neon con su
scritto ‘Nemo’ in caratteri gialli e rossi. “Ora facciamo
visita a questo esclusivo ristorante, che ne dici?” propose.
Davanti al locale c’erano i
nastri gialli e neri con su scritto scena
del crimine – non oltrepassare.
Tutt’intorno c’erano delle transenne.
Un agente passeggiava su e giù
con aria nervosa.
“Che fai, Hank?” lo apostrofò
Bud, “è freddino qui fuori.”
L’uomo interruppe il suo
inquieto camminare. “Beh, ecco, là dentro non è esattamente un
posto piacevole, signore,” rispose.
“Perché?”
Hank si voltò fugacemente verso
la porta chiusa, quasi per assicurarsi che non ne stesse uscendo
qualcosa di strano. “Non lo so. Dà una brutta sensazione.”
“Hm,” si limitò a rispondere
Bud. Non l’avrebbe mai ammesso davanti a Tanner, ma in effetti
aveva già bevuto troppo e gli sembrava di avere la testa dentro una
boccia dei pesci rossi: tutte le sensazioni gli arrivavano attutite,
e doveva concentrarsi per non biascicare quando parlava. “Andiamo?”
chiese, anche solo per evitare che l’agente gli sentisse l'alcol
nel fiato.
Entrarono nel locale e accesero
le torce che si erano portati dietro. I tavolini erano ancora
ingombri di stoviglie, le tovaglie ammuffite pendevano come barbe di
licheni dai rami degli alberi. Sul pavimento c’erano vari oggetti
abbandonati. “Strano che nessuno abbia pensato di fare piazza
pulita,” disse Krueger, dando un calcetto a una bottiglia ancora
sigillata.
“Già, che spreco, vero?”
replicò Tanner sarcastico.
Il primo si limitò a passarsi
una mano sul viso. Andò alla ricerca delle compresse di antiacido
che teneva in tasca, ricordandosi solo troppo tardi di averle finite
due giorni prima. “Fanculo,” ringhiò fra i denti.
“Che hai detto?”
“Niente, dicevo che
bisognerebbe andare giù.”
Si spostarono nelle cucine. Per
terra c'era un sacco aperto, dal quale erano rotolate fuori delle
cose. C'erano i cocci di una bottiglia, e di altre si intuiva la
forma sotto la iuta. “Qualcuno è passato a raccogliere della roba,
vedi?” osservò Tanner.
“Già, ma poi non se l'è
portata via,” rispose Bud. Spostò il sacco con la punta del piede.
“E sembra anche che l'abbia mollata in tutta fretta.”
Trovarono la scala che portava
alla cantina e cominciarono a scendere lentamente.
“Cazzo, che buio,” imprecò
Tanner, facendo girare su e giù il pennello di luce della torcia.
Erano arrivati a una stanza
piuttosto grande e piena di scaffalature. Sui ripiani c’erano
ancora cibi in scatola, alcuni con scritte orientali, e barattoli di
vetro con dentro conserve. “Sembra che se ne siano andati col fuoco
al culo,” osservò Bud, fissando pensoso un assortimento di frutta
sciroppata ormai color del mogano.
In quel momento, sentì qualcosa
che gli sfiorava la nuca. Sussultò. “Scherzi del cazzo, Penn!”
esclamò poi, girandosi bruscamente.
Aggrottò le sopracciglia.
“Penn?”
Dall’altra parte della stanza,
il collega chiese: “Che c’è?”
Bud scrollò la testa come per
schiarirsi le idee.
“Allora?”
“Niente, volevo solo sapere
dove ti eri cacciato.” Poi, dopo una pausa: “Dov’è che hanno
trovato i corpi?”
“Di qua, vieni.”
Percorsero un corridoio ingombro
di calcinacci e arrivarono a una stanza sulla quale si aprivano tre
porte. “Quella al centro,” gli suggerì Tanner.
Bud vi si diresse. Al di là vi
erano dei bagni. Non sembrava uno di quei bugigattoli di servizio che
di solito usava il personale dei ristoranti. Aveva un'aria elegante,
invece. Sotto lo strato di polvere, le piastrelle erano pregiate, e
alla parete, sopra la fila di lavandini, c'erano delle grandi
specchiere molate. Ne picchiettò una con le nocche. “Roba fine,”
commentò. “C'è chi la pagherebbe un sacco di soldi.”
“Vuoi darti al commercio di
modernariato?” chiese la voce di Pennington alle sue spalle.
Krueger, che stava facendo girare
la torcia tutt'intorno, alzò gli occhi sulla specchiera. “Porca
vacca!” esclamò, facendosi bruscamente indietro.
“Che c'è?”
L'uomo si passò una mano sul
viso cercando di normalizzare il ritmo del respiro. “Niente, per un
attimo mi sembrava di avere qualcuno dietro la schiena.”
Avevano le ossa fuori, erano
mezzi bruciati.
La mano gli corse automaticamente
alla fiaschetta di whisky. In quel momento, si fece udire la voce del
suo collega, non scevra di un certo velo di preoccupazione: “Devi
bere meno, Bud. Se no poi vedi le cose che non ci sono.”
“Mi sa che hai ragione.”
Puntò la torcia verso due macchie scure sul pavimento. “È lì che
li hanno trovati?”
“Sì.”
Bud si chinò, raccolse un
frammento carbonizzato e per un po' se lo rigirò assorto fra le
dita. “Hai idea della quantità di calore necessaria per bruciare
completamente un corpo?” chiese infine al collega.
L'altro si avvicinò. “Penso
che ce ne voglia parecchio, vero?”
“Più di quanto immagini. In
Iraq non era la cosa più facile del mondo, sbarazzarsi dei corpi in
quel modo. Ci voleva un sacco di benzina.”
Si rialzò. “Veniva fuori un
fumo nero, che si attaccava dappertutto. E puzzava. La puzza ci
rimaneva addosso per giorni e giorni, qualsiasi cosa ne era
impregnata.” Fece una pausa significativa. “Tu senti qualche
odore, qui?”
“No.”
“Questo vorrebbe dire,
teoricamente, che questi corpi sono bruciati a più di duemila
gradi*, ma senza che la combustione intaccasse nulla di quello che
c'è intorno.” Batté la mano sulla porta di una toilette. “Guarda
qua: questo è legno, e a malapena ha la vernice annerita.”
Tanner lo fissò. “E se
avessero portato qui dei corpi bruciati da un'altra parte?”
“Non ci sarebbe la macchia nera
per terra.”
“Cazzo,” commentò
Pennington.
“Già, è quello che dico
anch'io.”
“Allora c'è da tirare in ballo
l'autocombustione?”
“Sì, e magari anche i
marziani, Atlantide e i fulmini globulari,” brontolò Krueger. Uscì
dal bagno, imboccò la porta di destra e fece qualche passo in un
corridoio oscuro. Man mano che si allontanava dal suo collega,
cresceva l'impressione di essere osservato, tanto che due o tre volte
si girò fulmineo, convinto di sorprendere Penn che lo pedinava di
soppiatto.
Una volta gli parve anche si
scorgere una sagoma in piedi di fianco a una porta, ma quando puntò
la torcia in quella direzione non vide più nulla. Avvertiva
un'opprimente sensazione di ostilità, che gli seccava la bocca e gli
irrigidiva i muscoli.
“Se non bevo, tutta la notte mi
rivolto nel letto,” ringhiò fra sé e sé, “se bevo, di giorno
ho le paranoie. Ma vaffanculo.”
In quel momento si fece udire la
voce di Pennington: “Bud? Dove ti sei cacciato?”
“Sono qui,” disse Krueger.
Era affacciato su una stanza nella quale c'erano un bancone di legno
e delle aste orizzontali da cui pendevano delle grucce.
La parete di fondo era tutta di
pannelli scuri.
Entrò, fece girate la torcia e
alla fine la fissò su uno straccio abbandonato in un angolo. Andò a
vedere, e si accorse che si trattava di un lembo di stoffa ricamata
con le perline, tipo un abito da sera femminile, ma tarmata e ormai
consunta dagli anni. I bordi avevano chiare tracce di bruciato, ma
era coperto di polvere, segno che doveva trovarsi lì da molto tempo.
Lo lasciò ricadere, e di nuovo si voltò bruscamente quando gli
parve di udire una voce che sussurrava alle sue spalle.
Faticò a convincersi che non ci
fosse nessuno: la sensazione era stata così realistica che aveva
anche sentito il fiato sul collo, come se qualcuno si fosse piegato a
parlargli nell'orecchio.
Alzò la testa e la torcia si
riflesse su un piccolo specchio. Notò che c'era una sagoma alle sue
spalle. “Ah, Penn,” disse. “Mi hai fatto venire un colpo.”
Non gli giunse risposta. Si
voltò, e dietro di lui non c'era nessuno.
“Cazzo,” mormorò.
Fece girare ancora la torcia, e
si accorse che sul pavimento, di fianco al bancone, in una posizione
un po’ nascosta, c’era qualcosa che assomigliava a uno strano
altarino: sembrava come una casetta con il tetto spiovente, ornata di
ghirlande. All’interno di essa, su un piedistallo, c’era una
figura seduta. Ai lati vi erano fiori finti ormai coperti di polvere
e bastoncini di incenso. Dalla quantità di cenere che c’era per
terra, dovevano essere state bruciate decine di quei bastoncini.
Davanti alla statua c’era una
ciotola di metallo dorato, forse ottone, nella quale c’erano ancora
noccioli di frutti e cose del genere. “Offerte?” si disse a mezza
voce.
Osservò più attentamente, ma
non gli parve che quel manufatto avesse a che fare con magia nera o
Satana. Gli ricordava piuttosto certa paccottiglia orientale.
Di nuovo, la voce di Pennington
lo distrasse dai suoi ragionamenti. “Bud? Ti dai una mossa?”
“Viene a vedere, Penn.”
Il collega lo raggiunse. “Che
c’è?”
“Hai visto quella specie di
casetta?”
Tanner aggrottò le sopracciglia.
“Cos’è, una cuccia per i gatti?”
“A me sembra più un oggetto di
culto.”
“Messe nere?”
“Mah, è tutto di colori...
come si dice? Pastello? Al massimo, messe della Barbie.”
Quando furono di nuovo
all'aperto, Krueger tirò fuori la fiaschetta e bevve un lungo sorso.
“Fanculo al servizio,” ringhiò, “ho bisogno di farmi un
goccio.”
“Tu bevi troppo,” sentenziò
Pennington.
“E tu troppo poco. Mi stai
sempre addosso.” Poi, dopo una pausa: “Là dentro c'era
qualcosa.”
“Qualcuno, vuoi dire?”
“No, qualcosa.”
Bevve di nuovo, ignorando lo sguardo di riprovazione del collega.
“Qualcosa che mi seguiva, e guardava tutto quello che facevo.”
Fece un'ulteriore pausa, mandò giù un altro sorso. “All'inizio
pensavo che fossero solo paranoie mie.”
Si accorse che sulla fronte di
Tanner era comparsa una ruga verticale. “E dopo?” gli chiese il
collega, fissandolo attento.
Bud scosse la testa. “Niente,
niente,” rispose sbrigativo, facendo un gesto come per scacciare
una mosca. “Stavo scherzando. Solo paranoie.” Penn era un bravo
ragazzo, ma era anche capace di chiamare gli strizzacervelli per una
faccenda del genere, e lui ne aveva già avuto abbastanza di quelli
dell'Esercito. “Facciamo una cosa,” gli propose, “Dividiamoci e
andiamo a fare delle domande in giro, vediamo se qualcuno sa dirci
qualcosa.”
L'espressione di Tanner ebbe una
fugace nota di sollievo. Krueger ne fu quasi un po' amareggiato:
aveva sempre avuto la sensazione che il collega non si fidasse fino
in fondo di lui, che lo considerasse una specie di ubriacone
pazzoide, e averne una così esplicita riprova un po' gli faceva
male. In fondo ci si era affezionato, a quel culo stretto di Penn.
“Beh, io vado,” gli disse, e
si allontanò prima che l'altro potesse replicare.
Gironzolò un po' per i dintorni.
I negozi nel frattempo avevano chiuso, e per strada non si vedeva
nessuno. Si sedette su una panchina sbilenca e di nuovo tirò fuori
la fiaschetta. Una voce chioccia lo distrasse: “Me ne dai un
goccio, amico?”
Si voltò: accanto a lui era
comparso un ometto curvo, con tre giubbotti uno sopra l'altro, la
barba incolta e un carrello del supermercato pieno di lattine.
“Perché no?” rispose il detective, e gli tese il recipiente.
L'altro bevve e fece schioccare
la lingua. “Roba buona,” apprezzò.
“Serviti pure,” gli disse il
poliziotto. “Io mi chiamo Bud, a proposito.”
“Ozzy.”
Si strinsero solennemente la
mano.
“Sei di queste parti, Ozzy?”
“Sissignore. Genuino come la
merda.”
Bud annuì. La fiaschetta fece di
nuovo il giro, poi entrambi si voltarono in direzione del Nemo,
davanti al quale si stava fermando un'auto della polizia. “Cosa sai
dirmi di quel posto?” chiese il detective.
Ozzy sputò da una parte. “Che
bisogna starci alla larga,” disse.
“Ah, come mai?”
Il barbone assunse una certa aria
di importanza. “È maledetto,” sentenziò.
Krueger aggrottò le
sopracciglia. “In che senso?”
L'espressione dell'ometto divenne
misteriosa. “Se vai là dentro, succedono delle brutte cose, lo
sanno tutti. Una volta, uno del North Side, che non sapeva niente, ha
provato a entrare per portarsi via le bottiglie.”
“E quindi?”
“E quindi? Ha detto che i morti
hanno cercato di prenderlo. Quando è entrato, era un pezzo d'uomo
con tutti i capelli neri. Quando è uscito, parola mia d'onore, ce li
aveva tutti bianchi, e sembrava di colpo invecchiato di vent'anni.”
“Notevole,” commentò
Krueger.
Di nuovo bevvero un po' di
whisky.
“E non è la sola cosa che è
successa là dentro,” soggiunse Ozzy dopo un po'. Tese la mano con
fare significativo, e Bud vi depose la fiaschetta.
“È proprio buona questa roba,”
apprezzò il barbone.
“Dicevi che erano successe
altre cose?” chiese il detective dopo un po'.
“Ne succedono un sacco, se vuoi
saperlo. Una volta, un tizio è andato a dormire là dentro: non è
più uscito.”
“Nessuno è andato a cercarlo?”
“Stai scherzando? Nessuno che
sia sano di mente mette piede al Nemo. È maledetto, ti dico.”
Bud gli fece segno di bere di
nuovo, poi sparò il siluro: “Ci sono davvero i morti, là dentro?”
Contrariamente alle aspettative,
l'uomo non si scandalizzò e non lo trattò da pazzo. “Di gente ne
è morta parecchia, in quel posto,” disse soltanto. Diede fondo al
whisky, poi soggiunse: “Me lo raccontava sempre il mio vecchio
quando ero piccolo: una volta è successo un fatto terribile, in quel
posto, e da allora sono cominciate le cose strane.”
“Del tipo?”
“Mah, urla, lamenti. Strani
rumori. Alle volte si trovano dei ratti mezzi bruciati lì intorno,
oppure si sente odore di fumo, anche se in giro non ci sono fuochi. E
naturalmente chi va là dentro non esce più. O esce pazzo, come quel
povero stronzo del North Side.”
Ozzy restituì la fiaschetta,
quindi si alzò, si sistemò i tre giubbotti e riprese il carrello
con i suoi averi. “Starei ancora qui a parlare con te, amico, ma si
sta facendo buio, e devo trovare un posto per la notte.”
“Ok, grazie Ozzy.”
“Grazie a te per il whisky,
Bud. Non capita tutti i giorni di bere dell'autentico scotch. E non
stare qua in giro col buio neppure tu, se non vuoi fare una brutta
fine.”
“D'accordo, ora me ne vado.”
Krueger si guardò intorno e vide
Pennington che lo fissava con la schiena appoggiata a un albero.
“Chi era, il tuo personal
trainer?” gli chiese il collega.
“Cosa?”
“Quel tizio è come ti ridurrai
tra dieci anni, se non ti dai una regolata.”
“Non fare lo stronzo, Penn.”
“Non farlo tu. Siamo in
servizio, e ti scoli più whisky di tutti i Gordon Highlander messi
insieme. Vuoi metterti nei guai?”
“Penn, senti, di madri ne ho
già una e mi basta.”
“Io lo dico per te, non voglio
che tu faccia quella fine. Piuttosto: hai scoperto qualcosa?”
“Dobbiamo fare un giro in
archivio.”
Tanner lo fissò con aria
scettica. “E che ci andiamo a fare in archivio?”
“Ricerche.”
L’altro sbuffò. “Odio quando
fai il misterioso. Ricerche di che genere?”
“Devo capire la storia di
questo posto.”
“Cosa
te ne frega? Sarà il solito ristorante fallito che è passato per
diecimila mani, finché gli ultimi proprietari non si sono rotti le
palle e hanno piantato tutto lì.”
Bud si voltò a fissarlo negli
occhi. “Tu eri tranquillo, là dentro?” gli chiese.
Tanner rimase in silenzio. Spostò
il peso da un piede all’altro. “Beh...”
“Dimmi la verità: eri
tranquillo?”
“Non si è mai tranquilli sulla
scena di un delitto,” rispose Pennington a disagio.
“Non hai sentito qualcuno
alitarti sul collo, oppure delle voci strane?”
Il collega serrò le labbra. “Io
penso che sia tutta autosuggestione,” disse infine.
“Ma certo. E, per dirla con
parole tue, io sono Shakira. Adesso andiamo all’archivio, voglio
vederci chiaro, in questa storia.”
§
Bud si girò verso Tanner, che
sedeva accanto a lui, e in tono trionfante gli disse: “Guarda qua.”
L’altro si piegò verso il
monitor. “Cosa?”
“L’ultimo proprietario del
Nemo era un tailandese, tale Sunan Chaonasin. È stato lui a dare il
nome al locale, forse aveva visto il cartone animato col pesce. Dopo
poco più di un anno di gestione, è stato ritrovato cadavere assieme
a tutta la famiglia. I corpi erano completamente carbonizzati, e
disposti sui quattro sedili di un minivan carico di bagagli, fermo
nel parcheggio dietro l’edificio. Il caso è stato considerato un
regolamento di conti tra affiliati della criminalità organizzata
orientale, e conseguentemente archiviato.”
“Adesso di chi è il
ristorante?” chiese Tanner dopo un lungo silenzio.
“Teoricamente degli eredi di
Chaonasin, anche se in dieci anni nessuno si è presentato a
reclamarlo.”
“Dei mangiariso che non vengono
a reclamare un locale del genere? Strano.”
Bud annuì. “Non è la sola
cosa strana. Il gestore precedente, un turco che faceva kebab, è
morto bruciato in cucina. Secondo la versione ufficiale, il forno, o
come cavolo si chiama l’affare per cuocere il kebab, era difettoso
ed è andato in corto circuito.” Fece scorrere i dati sullo
schermo. “Guarda qua, il pattern è sempre lo stesso: ristorante
aperto da pochi mesi, incidente mortale, chiusura del ristorante. Poi
rimane chiuso per un certo numero di anni finché non arriva qualcun
altro e il gioco ricomincia.”
Continuò a scendere lungo la
pagina. In alcuni casi c’erano anche collegamenti ad articoli di
giornale, o ai referti dei medici legali che avevano compiuto gli
esami necroscopici sulle vittime.
Arrivò al
1928.
“Quel posto era uno speakeasy,”
disse. “Ora mi spiego i cessi principeschi e il guardaroba da
teatro dell’Opera.”
Tanner picchiettò con la punta
della matita sullo schermo, deformando appena lo scritto. “Guarda
qua,” disse, “Si parla ancora una volta di fuoco.”
I due si scambiarono un’occhiata.
Bud attivò uno dei collegamenti, e la schermata si aprì sulla prima
pagina di un giornale, dove un titolo a caratteri cubitali recitava:
terribile incendio, decine di vittime.
“Passa ai rapporti della
polizia,” suggerì Pennington.
Dopo una lunga consultazione, Bud
raccolse il quaderno sul quale aveva annotato i suoi appunti e lo
sfogliò lentamente. Le pagine, incise dalla sua grafia pesante,
piene di sottolineature e cancellature, crocchiavano quando le
girava.
Tirò fuori la fiaschetta, e solo
quando la sentì più leggera del solito si ricordò che Ozzy
gliel’aveva vuotata. La rimise via con un’espressione di
disappunto.
“Questa è veramente roba
forte,” disse poi.
Tanner annuì. “Una cosa del
genere non l’avevo mai sentita.”
“Beh,” Bud si grattò la
testa. “Ricapitoliamo: abbiamo questo tizio, tale Carmine Genna,
che è un gangster, ma ha fatto studi classici. Per punire chi
sgarra, il nostro uomo ha escogitato questo sistema: appicca il fuoco
e lascia una lastra di metallo, che ovviamente non brucia, con una
scritta in latino.” Sfogliò di nuovo gli appunti. “Aspetta, me
la sono segnata: nemo
me impune lacessit,
che vuol dire ‘nessuno può prendermi per il culo e passarla
liscia’, giusto?”
“Più o meno,” confermò
Tanner.
“Visto il connubio di latino e
fuoco,” proseguì Krueger, “questo tizio era noto negli ambienti
della malavita come Nerone.” Fece una pausa, e in mancanza di
meglio tirò fuori una sigaretta, guadagnandosi comunque
un’occhiataccia del collega. “Nerone è quello che ha dato fuoco
a Roma, non è vero?”
L’altro annuì. “Sì, e
intanto suonava la lira.”
“La che?”
“Una specie di arpa.”
Bud scosse la testa poco
convinto. “Ok, torniamo
a noi: il proprietario dello speakeasy fa incazzare di brutto questo
Nerone, che subito pensa a una punizione in grande stile: una notte
che il locale è pieno, scende giù con i suoi uomini, spinge tutti
gli avventori nella sala, butta la benzina e dà fuoco. Tocco di
classe, spara a tutti quelli che cercano di scappare.” Fece una
pausa, e fissò il collega con fare significativo. “In pratica,
quei poveretti sono bruciati vivi,” soggiunse poi, “E io non ho
neanche un goccio da bere.”
“Ti vado a prendere una coca?”
propose Tanner.
“Sai dove te la puoi infilare,
la tua coca?”
“Dove io ti infilerò quella
sigaretta se solo provi ad accendertela qui dentro.”
“Cristo, Tanner,
nell'enciclopedia, alla voce 'sbirro di merda', c'è la tua foto.”
§
“Andiamo a mangiare qualcosa da
Larry?” propose Bud. “Se non mi fai bere, almeno portami a
mangiare.”
“Offri tu.”
“Se offro io, la prima cosa che
ordino sono le birre.”
“Fottiti, Krueger. A costo di
pagarti una cena da Joe's Seafood, stasera bevi coca.”
“Hai il culo talmente stretto,
Pennington, che quando scorreggi ti sentono solo i cani.”
Così parlando, entrarono nel
piccolo ristorante, si sedettero e fecero le ordinazioni.
“Sai, stavo ripensando a quello
che abbiamo scoperto in archivio,” disse Tanner dopo un po'. Poi,
notando che il bicchiere di coca del collega era ancora intonso: “Non
bevi?”
“Senza il bourbon, questa
roba fa schifo,” protestò Bud.
“Dicevo: com'è possibile che
ci sia qualcuno che da cent'anni a questa parte fa capitare sempre lo
stesso incidente?”
“Cosa vuoi dire?”
“Beh, ogni tot, in quel posto
crepa qualcuno. Sempre a causa del fuoco, a quanto ne sappiamo. E
mai, in nessun caso, brucia qualcos'altro a parte lo sfigato di
turno.”
Bud si limitò a fissarlo con
interesse.
Imperterrito, l'altro proseguì:
“Questo ovviamente non può essere un caso. Una coincidenza è una
coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze sono
una prova.”
“Cominci a parlare come gli
stronzi dei telefilm?” interloquì Krueger.
“Questa è Agatha Christie,
veramente. Comunque, era per dire che secondo me c'è qualcosa
dietro. Ragioniamo: chi può trarre vantaggio da una faccenda del
genere? Un'assicurazione, forse?”
“Ragiona tu, tanto per provare
un’esperienza nuova,” replicò Krueger, che di fronte agli sfoggi
di tecnica investigativa del collega aveva sempre importanti picchi
di fastidio, “qual è il piano criminoso che va avanti per cento e
passa anni?”
Tanner aggrottò le sopracciglia.
“Sarebbe un quiz?”
“Sarebbe un modo per farti
smettere di dire stronzate. Quanto può rendere una truffa
assicurativa su una topaia del genere?”
“Magari ne hanno anche altre,
bisognerebbe fare dei controlli su chi ha assicurato quel posto nel
corso degli anni, se scopriamo che è sempre la stessa agenzia, e...”
“Frena, bello. Gli ultimi tre
sfigati si sono infilati là dentro all'insaputa di tutti, il locale
è disabitato da dieci anni, e figurati se gli eredi di quel tizio
tailandese che è finito arrosto nel parcheggio hanno pagato la
polizza.”
L'altro chinò la testa. “Mi sa
che hai ragione.” gli disse. Cincischiò un po' con le patatine
fritte nel piatto, poi si raddrizzò e lo fissò dritto negli occhi.
“Tu invece che idea ti sei fatto su questa faccenda, Bud?”
Krueger stese distrattamente la
mano verso il bicchiere, ma subito dopo la ritirò con una vaga
smorfia di disgusto. “Non credo ti piacerebbe saperla.”
“Perché?”
“Diciamo che non è molto
razionale.” Fece una pausa. “E se te la raccontassi adesso non
avrei nemmeno la scusa di essere sbronzo.”
“Beh, provaci Bud. Tanto, non è
che la mia opinione di te peggiora, se mi racconti delle altre
stronzate.”
“Quello che mi piace di te,
Tanner, è che fai sembrare persone gradevoli gli avvocati che fanno
le cause contro i poliziotti.”
Seguì un silenzio rotto solo
dalla musica country in sottofondo. We
watched him drink his pain away a little at a time,
cantava Brad Paisley.
I due si scambiarono una lunga
occhiata, poi Bud distolse lo sguardo, si alzò in piedi e disse:
“Grazie per la cena, Penn. Penso che ora me ne andrò a letto.”
“Ti accompagno, Bud?”
“Ci vediamo domani.”
Raccolse il giubbotto e uscì.
Prese a camminare rapido lungo il
marciapiede. Infilò le mani nelle tasche, e mentre si rigirava fra
le dita il piccolo oggetto che gli aveva regalato Andy, ripensava a
tutta la faccenda.
Una spiegazione razionale di
quella cosa non c'era. Affanculo tutte le deduzioni logiche del suo
collega, quello che stava succedendo al Nemo non aveva nulla a che
fare con la razionalità.
Nemo, come nemo
me impune lacessit,
peraltro. Quel nome non era legato al famoso pesce, ma a qualcosa che
il tizio tailandese doveva aver trovato nei sotterranei, tant'è che
poi ci aveva messo quella specie di altare, che magari nella sua
cultura doveva servire come protezione.
Forse anche quel Chaonasin, o
come accidenti si chiamava, aveva visto i morti.
“E io li ho visti davvero, i
morti?” ringhiò a mezza voce.
Lui li vedeva tutte le notti.
Alcuni li aveva conosciuti per nome quando erano vivi, altri li aveva
solo incontrati di sfuggita. Altri ancora, aveva provveduto lui
stesso a farli passare da vivi a morti.
Era dall'Iraq che li vedeva.
Arrivavano puntuali appena
chiudeva gli occhi, e non se ne andavano finché lui non aveva
ingollato abbastanza alcol da stendere un cavallo. A quel punto, il
più delle volte lo lasciavano in pace.
§
Raggiunse il suo palazzo, salì
in casa. Lasciò cadere il giubbotto sul divano, quindi aprì il
pensile della cucina e diede un'occhiata all'interno: c'erano rimaste
una bottiglia di vodka nuova, una di bourbon a metà e una quasi
piena di Jack Daniel's.
Prese l'ultima e andò in camera.
Si lasciò cadere sul letto. Per un attimo rivolse anche un fugace
pensiero al suo collega e alle sue raccomandazioni, ma sentiva già
in tutti i muscoli della schiena la tipica tensione che preludeva
alla comparsa dei morti, per cui stappò la bottiglia e buttò giù
un lungo sorso di whiskey. Si fermò ansante, si pulì la bocca col
dorso della mano, poi bevve di nuovo.
Si trova nel deserto a bordo
dell'Humvee. Tutt'intorno c'è la sabbia arroventata dal sole.
Va alla ricerca di una
bottiglia d'acqua, ma sono tutte finite e fa caldo, terribilmente
caldo. Così caldo, che dal cofano del veicolo cominciano a levarsi
fiamme.
Le vede danzare leggere
nell'aria, torcendosi eleganti verso l'alto. La vernice frattanto
comincia a fumare, poi si annerisce, si arriccia in trucioli.
Lui si volta, e vede che anche
all'interno del veicolo tutto sta andando a fuoco. In una perfetta,
surreale indifferenza, i suoi compagni stanno lentamente bruciando,
la carne si dissecca, le ossa si scoprono. I volti consumati si
trasformano in teschi ghignanti
Si agita, urla. Cerca di
scuoterli, ma essi voltano verso di lui gli orrendi volti
carbonizzati, con l'aria di non capire il motivo della sua
concitazione.
E poi le fiamme cominciano a
consumare anche lui, ed egli vede la sua stessa carne ritirarsi sulle
ossa, deformandosi come plastica, sciogliendosi...
I morti, quelli dell'Iraq e
quelli che aveva visto al Nemo, sono tutti intorno a lui, allungano
nella sua direzione mani adunche, annerite, secche come rami. Lo
afferrano, se lo contendono emettendo rantoli bramosi.
Una voce ripete: il fuoco...
il fuoco...
E un'altra: andate via… Nemo
me impune lacessit.
Le mani adunche lo
ghermiscono, lo trascinano nel buio…
Si svegliò di soprassalto con un
urlo soffocato. Si ritrovò seduto sul letto ad ansare come dopo una
corsa, grondante di sudore, con il cuore che minacciava di
scoppiargli nel petto. Senza guardare palpò le coperte fino a che
non riuscì a percepire la familiare forma della bottiglia, quindi la
afferrò, fece saltare il tappo e ci si attaccò come avrebbe fatto
con una bombola di ossigeno dopo una lunga apnea.
La lasciò ricadere solo quando
fu vuota.
A quel punto si alzò malfermo, e
barcollando andò in cucina. Aprì il pensile, tirò fuori la vodka e
cominciò a tracannarla.
§
Tanner bussò per l'ennesima
volta alla porta. “Bud!” chiamò. “Bud, apri o chiamo i
pompieri!”
Picchiò ancora, prima con le
nocche, e poi con tutto il pugno. “Bud!”
Si aprì la porta accanto, dalla
quale si affacciò una donna corpulenta, con un assortimento di
bigodini sulla testa. “Cerchi il poliziotto?” lo apostrofò
ruvida.
“Sì, non mi risponde.”
“Sarà sbronzo. Vado a prendere
le chiavi, altrimenti svegli tutto il palazzo.”
Scomparve in un ingresso
semibuio, che puzzava di aglio e fritto stantio. Tanner la sentì
bofonchiare qualcosa mentre rovistava.
“Ecco qui,” disse alla fine,
ricomparendo sulla soglia. “Se per caso è morto, noi saremmo
interessati all'appartamento.”
L'altro non rispose. Fece
scattare la serratura, ed entrò chiamando il collega.
Krueger non rispondeva.
Pennington deglutì. Non si erano lasciati nel migliore dei modi, la
sera prima, e un po' ci aveva rimuginato su durante la notte. Aveva
pensato che forse era stato troppo duro con lui, che avrebbe dovuto
mostrare se non altro maggiore rispetto per la sua esperienza.
“Bud?” disse. “Bud, stai
bene? Sarà un'ora che cerco di chiamarti col cellulare.”
Si affacciò in cucina, e trovò
un pensile aperto, con lo sportello sbilenco come se qualcuno ci si
fosse aggrappato con tutto il proprio peso. Sul pavimento c'erano
cocci di vetro.
“Bud?”
Nel corridoio che portava alla
camera da letto c'era una chiazza grigiastra. L'odore acre che
emanava lasciava pochi dubbi sulla sua natura.
“Bud, dove sei? Dove...?”
Tanner si immobilizzò sui due
piedi. “Porca merda!” imprecò. “Bud! Ma che cazzo hai
combinato?”
Il suo collega era sul pavimento,
avviluppato in un lenzuolo ormai intriso di urina e vomito. Era nudo
e stringeva ancora al petto una bottiglia di bourbon quasi vuota. Il
volto gonfio e il respiro pesante facevano capire che era ancora
completamente ubriaco.
Di fronte a quello spettacolo
disgustoso, Tanner strinse i pugni ed esclamò: “Bud Krueger! Porca
troia, tu non sei un cazzo di essere umano, tu sei un letamaio!”
Corse in bagno, afferrò il primo
recipiente che gli capitò sottomano, lo riempì d'acqua fredda e
glielo gettò addosso. “Stronzo!” urlò. “Ubriacone di merda,
maiale! Mi fai schifo!”
Investito dal getto ghiacciato,
Bud sussultò e si rannicchiò maggiormente.
Tanner corse a prendere
dell'altra acqua, gli buttò addosso anche quella. “Stronzo!”
ripeté. Lo afferrò per un braccio, lo rivoltò sulla schiena.
“Stronzo! Sei un pezzo di merda, ecco che cosa sei!”
A fatica lo trascinò verso il
bagno, lo spinse nel piatto della doccia e aprì l'acqua fredda al
massimo.
Bud emise un urlo inarticolato, e
più per istinto, forse, che per ragionamento, cercò di
allontanarsi. Il collega afferrò il manico dello spazzolone, glielo
puntò contro lo sterno e lo spinse indietro. “Pezzo di merda,”
ringhiò di nuovo, “parola mia, non esci di qui finché non ti sei
ripreso. C'è del caffè, in questa cazzo di topaia?”
Bud ebbe un singulto e si vomitò
addosso.
“Fai schifo,” disse Tanner in
tono tagliente. Lo spinse di nuovo col manico dello spazzolone. “Sta'
lì sotto, così almeno ti lavi.”
Ci volle ancora qualche minuto,
poi faticosamente Bud rantolò: “Penn?...” Tentò di sollevare la
testa e si mosse, ottenendo solo di scivolare nel piatto della
doccia. “Freddo...” riuscì a proferire.
“Vaffanculo!” imprecò Tanner
per tutta risposta. “Vaffanculo, stronzo, ubriacone di merda! Io a
preoccuparmi come un povero idiota, a farmi i sensi di colpa per aver
offeso la tua delicata sensibilità... e tu intanto eri qui che ti
sbronzavi come un maiale, nel tuo piscio e nel tuo vomito! Mi fai
schifo!”
“Penn... possiamo parlarne a
bassa voce?”
“Vaffanculo!”
“Penn, senti, se sei venuto qui
per strillare come una gallina, puoi anche andartene a cagare.”
“No, tu devi andare a cagare,
brutto stronzo! Non me ne frega niente se sei in cazzo di reduce,
specie di alcolizzato schifoso. Vuoi suicidarti? Piantati la pistola
in bocca e tira il grilletto, così risolvi il problema una volta per
tutte e liberi il mondo dalla tua presenza!”
Bud alzò di nuovo la testa. Lo
fissò per qualche secondo, con l'acqua che dai capelli gli colava in
rivoli sul viso, quindi lentamente, con voce impastata ma
intelligibile, mormorò: “Ti devo proprio dire, Tanner, che come
sergente istruttore sei un dilettante. Dato che tu non hai mai visto
un Boot Camp nemmeno col binocolo, forse è meglio che ti riguardi
Full Metal Jacket un paio di volte, prima di fare una scenata del
genere, perché così mi sembri solo una moglie isterica.”
A quelle parole, Tanner si sentì
invadere dal prepotente impulso di prendere il manico dello
spazzolone con cui stava tenendo il collega sotto il getto e
spaccarglielo in testa. Lo buttò da una parte come se scottasse,
quindi rinculando verso la porta ringhiò: “Io me ne vado in
servizio da solo, almeno non avrò il peso morto di un alcolizzato di
merda da trascinarmi dietro.”
Uscì dall'appartamento e scese
di corsa le scale. Si passò una mano sugli occhi, e si disse che
sicuramente era stata la puzza di piscio e vomito di quel posto a
farglieli lacrimare.
§
L’agente McMurtry, che
stazionava davanti al Nemo, si portò due dita alla visiera in segno
di saluto e disse: “Buon giorno, detective Pennington. È da solo
oggi?”
“Sì, il mio collega è
indisposto,” rispose ruvido Tanner. “Scendo a fare un paio di
controlli.”
“Là sotto?”
“Sì, certo.”
“E ci va da
solo?”
“Affermativo, ci vado da solo.
Ma che cavolo avete tutti quanti? Mi sembrate un branco di comari
isteriche.”
“Non è un bel posto,”
rispose l’agente.
“Non vado mica a passarci le
vacanze, che mi frega se è bello o brutto? Piuttosto: avete sentito
qualche rumore provenire dalla cantina?”
“Se ne sentono giorno e notte,
detective.” L’agente rivolse una fugace occhiata alla porta del
ristorante, quindi abbassò il tono, come se non volesse farsi
sentire, e soggiunse: “Come delle voci, alle volte anche dei
pianti.”
Tanner annuì. “È come
pensavo: c’è qualcuno nascosto.”
L’agente lo fissò perplesso.
L’altro annuì quasi con
degnazione, quindi soggiunse: “Se ci sono delle voci, ci deve
essere per forza qualcuno, e io intendo scoprire dove si nasconde.”
Entrò nel ristorante e accese la
torcia. Il posto era come lo aveva lasciato: oggetti sparsi in giro,
tavoli ancora apparecchiati. Chiunque ci fosse nel sotterraneo,
evidentemente non saliva mai. O perlomeno, mai da quella parte.
Ancora una volta si chiese perché nessuno avesse approfittato delle
derrate e delle bottiglie che erano sparse un po’ ovunque. “Saranno
di gusti difficili,” disse tra sé e sé, poi si girò bruscamente,
perché gli era sembrato di aver sentito un fruscio. Puntò la torcia
in quella direzione, ma non vide nulla di strano. “Topi,”
concluse.
Scese in cantina, cominciò a
ispezionare con cura ogni angolo. L’atmosfera gli parve più
opprimente, rispetto al giorno prima. Più sinistra. Sembrava quasi
che il fascio di luce della sua torcia facesse fatica a penetrare il
buio.
Si voltò verso la scala, dalla
quale proveniva un debole chiarore, e ponderò l’idea di tornare
su.
In quel momento, cominciò a
sentire una fievole musica. Stupito, tese l’orecchio: era jazz.
Ogni tanto si percepiva anche l’eco di una risata.
Aggrottò le sopracciglia e si
accertò di avere la pistola carica nella fondina, quindi si mosse
cauto in quella direzione.
Raggiunse la stanza con il
piccolo altare orientale e notò che nelle pannellature della parete
di fondo si era creata una fessura verticale. Da essa, un pennello di
luce dorata si proiettava sul pavimento. Ormai la musica era molto
forte, e in sottofondo c’era un brusio come di molte persone che
parlassero fra loro.
Si avvicinò adagio e guardò
attraverso la fessura. “Porca...” mormorò, poi tacque
stupefatto.
Di là c’era un locale
lussuoso, con lampadari di cristallo e pavimento di marmo. Le pareti
erano tutte a specchi. Su un palco, un’orchestra stava suonando.
C’era gente che ballava, ma perlopiù gli avventori sedevano ai
tavolini, parlando e ridendo fra loro.
Per un po’ rimase semplicemente
a guardare a bocca aperta, poi scostò il pannello ed entrò nel
locale. Al suo apparire, una donna si alzò e gli andò incontro.
Aveva i capelli castani a caschetto e un abito pieno di frange.
Portava una collana di perle che le arrivava alla cintura. Gli mostrò
una sigaretta infilata in un lungo bocchino e gli chiese: “Hai da
accendere?”
Tanner sbatté gli occhi. “Da
accendere?” ripeté incerto.
La donna sorrise. “Del fuoco.”
“Fuoco...” mormorò
Pennington. Di nuovo fece girare lo sguardo affascinato sulla sala,
poi lo rivolse alla sua interlocutrice, che ripeté: “Hai del
fuoco?”
Il detective infilò la mano in
tasca e ne trasse l’accendino. Lo fece scattare, e la fiammella
guizzò rapida.
Per qualche istante rimase
immobile, con lo sguardo calamitato dal fuoco, poi lentamente
cominciò ad avvicinare l’accendino a se stesso.
Una botta sulla mano fece
rotolare via l’oggetto.
“Ma sei scemo?” urlò
Krueger.
Pennington si girò verso di lui
e lo fissò incapace di parlare.
“Sei scemo?” ripeté l’altro.
“Che cazzo volevi fare, il bonzo tibetano?”
“Eh?” riuscì finalmente a
proferire Tanner.
“Stavi per darti fuoco da solo.
Con il pullover di pile che hai addosso, saresti bruciato peggio che
ai tempi dell’Inquisizione.” Si interruppe, fece girare
tutt’intorno la torcia. “Che cazzo di posto è questo?”
“Io… è...” Si guardò
intorno: non c’era luce, la stanza era buia. Quel poco che la
torcia di Krueger mostrava erano pareti annerite dal fuoco e
scheletri calcinati. Su tutto c’era una patina di polvere. Per
terra c’era una lastra di metallo arrugginita, con su scritto: nemo
me impune lacessit.
“Io l’ho visto,” mormorò.
Krueger
lo afferrò per un braccio, lo scosse come per svegliarlo. “Cosa
hai visto?”
“C’era la gente… la
musica...”
Un debole scoppio attirò la loro
attenzione: l’accendino era esploso, e il liquido che conteneva si
stava spargendo, incendiato, tutt’intorno.
“È meglio che andiamo,”
disse Bud spingendo il collega verso l’uscita.
Le fiamme si spostarono morbide
verso quel che restava delle boiserie delle pareti, sembrarono
danzare per un po’ indecise, poi presero a salire irrobustendosi
con soprannaturale rapidità. Il legno cominciò a crepitare, le
fiamme acquisirono ancora più vigore, si propagarono.
“Andiamo!” ripeté Krueger.
Corsero fuori. Dietro le loro
spalle c’era già il bagliore sinistro di un principio di incendio.
A un tratto Tanner emise un urlo
di dolore, si piegò all’indietro.
“Che c’è?”
“È come se qualcuno mi avesse
afferrato, mi sono sentito tirare indietro.”
Krueger fece girare la torcia:
nessuno. “Continua a correre,” disse asciutto. Gli parve di
urtare qualcosa di solido, ebbe la sensazione che una mano gli si
premesse sulla faccia. Sentì delle unghie gelide penetrargli nella
carne. “Cazzo!” imprecò.
“Non c’è nessuno!” fece
eco la voce concitata di Tanner. “Non c’è un cazzo di nessuno!
com’è possibile?” Gemette di nuovo, barcollò. Cadde
all’indietro come se una corda si fosse tesa all’improvviso.
“Bud!” urlò angosciato. “Bud!”
Krueger, che l’aveva
sopravanzato di qualche passo, si immobilizzò e puntò la torcia
nella sua direzione: lo vide agitarsi sul pavimento come se stesse
lottando, qualcosa lo stava lentamente trascinando indietro.
Il fuoco nel frattempo era
aumentato, si percepiva già distintamente il rombo cupo delle
fiamme, la temperatura si stava facendo torrida.
“Bud!” urlò di nuovo Tanner.
“Arrivo!” Krueger lo
raggiunse, lo afferrò. “Aggrappati a me,” gli disse. “Aggrappati
e non mollarmi per nessun motivo.”
“Bud, cosa cazzo sta
succedendo?”
“Te lo spiego fuori,”
Continuarono ad avanzare. “È
come muoversi nella melassa,” ringhiò Krueger affannato, “oppure
nei rovi. Sei mai finito in mezzo ai rovi, Tanner?”
“No,” ansimò il collega, poi
di colpo si irrigidì. “Gesù Cristo,” balbettò, “guarda là!”
Bud puntò la torcia in quella
direzione: si vedeva la loro immagine riflessa in uno specchio.
Tutt’intorno a loro, c’erano corpi anneriti, consumati dal fuoco,
con i volti ridotti a orride maschere ghignanti. Alcuni avevano mani
adunche, altri solo moncherini carbonizzati, ma tutti cercavano in
qualche modo di trattenerli, di trascinarli indietro, verso le fiamme
sempre più furiose.
“Come cazzo è possibile?”
ansimò Tanner. La voce aveva un’incrinatura di angoscia. “Cosa
cazzo succede? Cosa sono?”
“Muoviti,” rispose
semplicemente Krueger, “non vedi che ce li abbiamo tutti intorno?”
“Ma cosa
sono? Perché si vedono solo nello specchio?”
Poi emise un urlo, e Bud sentì
che qualcosa lo strappava all’indietro. D’istinto rinsaldò la
presa e se lo strinse contro, Tanner gli si aggrappò al collo.
“Reggimi la torcia,” gli
disse Krueger. “Ho bisogno di una mano libera.”
“Cosa vuoi fare?”
Il fuoco stava avanzando rapido,
ormai si era propagato a tutta la stanza del guardaroba e stava
divorando i mobili. Il piccolo altare era scomparso in un nugolo di
scintille, lasciandosi dietro solo qualche petalo di stoffa mezzo
bruciato.
Krueger mise la mano in tasca e
tirò fuori l’oggetto che Andy gli aveva regalato. Lo tenne alto.
“Questo è un pentacolo!” esclamò, “Quindi state alla larga.”
Si udì un mormorio iroso, poi la
pressione che avvertiva su tutto il corpo sembrò allentarsi. La
presa delle mani che gli si stringevano addosso divenne meno ferrea.
“Andiamo,” disse.
Cominciarono ad arretrare, passo
dopo passo. Il calore era ormai insopportabile, entrambi grondavano
di sudore e ansimavano. “Manca l’ossigeno,” rantolò Tanner.
“Se non ci diamo una mossa, crepiamo tutti e due.”
“Non ti agitare, Penn. Ce li
abbiamo tutti intorno. Non so quanto sia efficace quest’affare per
tenerli lontano.”
In quel momento si udì un
profondo scricchiolio, e il pavimento fu percorso da una vibrazione.
“Cos’è?” chiese Pennington, irrigidendosi in allarme.
“Il fuoco sta indebolendo le
strutture.”
“Motivo di più per sbrigarci.”
“Calma, sta...” Krueger si
interruppe bruscamente ed emise un gemito di dolore mentre il
pentacolo rimbalzava sul pavimento. “Qualcosa mi ha colpito!”
esclamò.
Di nuovo si sentirono afferrare
da tutte le parti. Tanner, che aveva seguito la parabola
dell’oggetto, si gettò carponi per recuperarlo. Gemette quando
un’invisibile dentatura gli si chiuse su un braccio facendogli
uscire il sangue, ma riuscì a impossessarsene di nuovo.
Un altro profondo lamento di
metallo snervato risuonò nell’aria.
“Fuori!” urlò, tenendo alto
il simbolo magico come aveva visto fare al collega. “Fuori,
andiamocene prima che crolli tutto!”
Si lanciarono di corsa,
sentendosi afferrare da ogni parte, graffiare, strattonare.
Attraversarono la stanza con gli scaffali mentre già alle loro
spalle cominciava il rotolio cupo delle pietre che cadevano, corsero
su per le scale e si lanciarono all’esterno del ristorante.
“Via tutti!” urlò Krueger,
“Sta per crollare!”
Corse via seguito da Pennington e
dall’agente in uniforme.
Un attimo dopo, l’edificio
sprofondò collassando su se stesso in una nuvola di polvere e
scintille, mentre una colonna di fumo nero si innalzava verso il
cielo.
“Accidenti!”
esclamò McMurtry stupefatto. “Ma che cosa è successo là sotto?”
I due si guardarono: avevano i
vestiti a brandelli, e tracce di graffi e morsi su ogni centimetro di
pelle visibile.
“Abbiamo incontrato delle
ammiratrici,” ansimò Krueger. Poi, rivolto al collega: “Stai
bene?”
“Come hai fatto a trovarmi?”
chiese l’altro per tutta risposta.
“Sei uno stronzo, ho seguito la
puzza.”
“Mi hai salvato la vita.”
“È più forte di me: non posso
vedere gli animali soffrire.”
In lontananza si sentivano già
le sirene dei pompieri.
§
Jenny, Matt e Sasha si
scambiarono un’occhiata d’intesa. Era l’imbrunire, e nel
quartiere ormai non c’era anima viva. Era passato solo un barbone
con tre giubbotti addosso e la barba incolta, che spingeva un
carrello del supermercato pieno di lattine. Si era fermato quando li
aveva visti, e aveva suggerito loro di non stare lì in giro col
buio.
Avevano promesso come bravi
bambini, e il vecchio se n’era andato con aria soddisfatta.
Sasha in testa, i tre
attraversarono la strada e si fermarono davanti a una barriera di
lamiera ondulata.
“È qui?” chiese Jenny.
“Sì,” fu la risposta.
“È il posto dove sono morti
quei due?”
“Esatto. Non ci sono foto in
rete, noi saremo i primi a metterle. Peccato solo non averlo potuto
visitare prima del crollo.”
“A me fa venire i brividi,”
disse la ragazza, guardandosi intorno a disagio.
“Se vuoi aspettarci qui...”
“No, ok, ci sono.”
Aggirarono la barriera e
cominciarono a camminare tra le macerie annerite dalla fuliggine.
“Qui si può scendere,” disse Matt a un certo punto, illuminando
i resti di una scala. Dal basso spuntavano monconi di travi consumati
dal fuoco. “Andiamo?” propose.
Jenny si piegò dubbiosa e guardò
giù. “E se è pericolante?”
“Te la fai sotto,” la prese
in giro Sasha.
“Non me la faccio sotto,”
rispose lei piccata, “semplicemente non mi va di crepare come
un’idiota.”
Matt nel frattempo era già
arrivato a metà scala. Fece girare la torcia e disse: “Qui è
bruciato tutto, c’è rimasto poco da fotografare.”
“Cerchiamo almeno di recuperare
qualche immagine per il sito,” disse Sasha raggiungendolo.
Jenny per un po’ non si mosse,
ma l’idea di rimanere da sola in quel posto tetro non le piaceva
per niente, e si risolse a raggiungere gli altri due.
“Ragazzi?” chiamò, una volta
arrivata alla base della scala. “Dove siete?” Li sentiva parlare
da qualche parte, ma non riusciva a localizzarli.
“Dove siete?” chiese a voce
più alta.
Cercando gli amici, arrivò in
quello che restava di un bagno. I sanitari erano distrutti, le pareti
parzialmente collassate, ma una specchiera era rimasta quasi intatta.
Jenny si avvicinò incuriosita, e riflesse nella lastra vide delle
ombre alle sue spalle. “Ah, ecco dove siete!” esclamò. Si voltò,
ma dietro di lei non c’era nessuno.
* Fahrenheit, visto che siamo
negli USA, ovvero circa 1200 gradi Celsius
|