Nickname:
Evil
Lady Nanto (sul forum)/Intissar (sul sito)
Titolo
fanfic: Tristezza
d'addio
Genere:
Malinconico/Introspettivo/Romantico
Fandom+Pairing:
Street
Fighter/ Vulcano Rosso x OC (in realtà, non si tratta di un
personaggio originale, poiché, nella biografia del lottatore,
si fa riferimento alla sua fidanzata, ma non sappiamo praticamente
nulla di lei. O almeno io non ho trovato alcuna informazione)
Note:
Ho
deciso di incentrare il contest su questo personaggio della serie Ex
Plus, spin off di Street Fighter, su cui non ho mai scritto (anzi, si
può dire che non si trovano storie su di lui). Avendo scoperto
che è pugliese, come me, ho deciso di portarlo in un luogo
scoperto di recente, il Cimitero Monumentale di Bari, che è un
piccolo scrigno di capolavori d'arte.
Sotto
un cielo cupo, oppresso da grigie nuvole, tra le quali, di tanto in
tanto, fiammeggiava un lampo minaccioso, il lungo treno rosso, giallo
e nero percorreva la strada che separava l’aereoporto di Bari –
Palese dalla fermata Francesco Crispi.
Vulcano
Rosso, seduto in uno degli ultimi posti, fissava con apparente
interesse il bigliettaio, impegnato nel suo giro di controllo, e i
passeggeri, che dormivano, leggevano, studiavano, chiacchieravano,
ora tra di loro, ora tramite gli smartphone.
Un
mezzo sorriso sfiorò le sue labbra. Da quanto tempo era
lontano dalla sua terra?
Tanto,
troppo tempo.
Gli
sembravano trascorsi dei secoli da quando aveva abbandonato la sua
città natia, prima per ottemperare agli scopi
dell’organizzazione, poi per inseguire, attraverso il mondo,
l’assassino della sua fidanzata.
Eppure,
nulla o quasi sembrava cambiato in quella terra tanto bella quanto
sofferente, a causa di errori politici e culturali antichi e moderni.
–
L’hai
conosciuta solo da morta, Flora … – soffiò e un
moto d’ira fece irrigidire il suo corpo. Quei bastardi, che in
un tempo lontano, aveva servito, avevano colpito lei per distruggere
lui!
Ma
lei, così bella e lontana da quel mondo, non aveva nessuna
colpa!
Anzi,
lei odiava il suo mestiere e cercava di convincerlo ad allontanarsi
dall’organizzazione, per potere avere una vita tranquilla.
Gli
diceva sempre che la sua cultura enciclopedica e la sua conoscenza
dell’informatica gli avrebbero concesso di lavorare in
qualsiasi campo, senza alcun rischio esagerato.
Ma
lui non le aveva dato retta e aveva sopravvalutato la sua forza e la
sua capacità di previsione.
E
lei, che aveva l’intera esistenza davanti a sé, giaceva
sotto una lapide del cimitero di Bari.
Attendeva.
Da
quanto tempo Flora, la sua meravigliosa dea, era in quella sala
operatoria?
I
minuti si dilatavano in ore cariche d’angoscia, che si
rovesciavano come macigni sul suo cuore sofferente.
– Come
ho potuto essere stupido? Perché non sono riuscito a
proteggerla? – si chiedeva ossessivamente, lo sguardo fisso
davanti a sé. Quella a Mykonos doveva essere una vacanza, per
lui e per la sua meravigliosa Flora.
Volevano
festeggiare il successo da lei ottenuto in una mostra e lui le aveva
proposto un anno intorno al mondo.
Lei
non gli aveva mai chiesto niente, orgogliosa della sua indipendenza
economica, ma lui sapeva quanto lei ci tenesse a visitare luoghi
carichi di storia e, quasi in sordina, le aveva preparato una simile
sorpresa.
E
lei, anche se non avrebbe mai ammesso, era contenta di un simile
regalo.
Eppure,
il sogno di quel viaggio si era bagnato del sangue di lei.
E,
se lei fosse morta, la colpa sarebbe stata sua.
Avrebbe
dovuto accorgersi della presenza, all’interno
dell’organizzazione, di un traditore.
E
invece non si era accorto di nulla.
Tale
sua dimenticanza aveva consetito a quell’individuo di seguire
le loro mosse e di colpire al momento opportuno.
Quel
bastardo aveva approfittato di un suo momento di assenza e, con una
freddezza disumana, aveva colpito Flora.
Si
era stretto la testa tra le mani, frenando a stento un urlo di
rabbiosa impotenza. Le aveva chiesto di restare in albergo perché
voleva farle un regalo, ma, quando era tornato nella loro suite, una
visione spietata, crudele, agghiacciante si era palesata davanti ai
suoi occhi.
Flora
giaceva scomposta sul pavimento, come una bambola rotta, il petto
perforato da un unico, crudele colpo di pistola.
Il
sangue si allargava in un’ampia macchia rossa che sembrava
volesse fagocitare il pavimento e, a poca distanza dalla sua mano
destra, c’era un biglietto bianco, rosso per metà di
sangue.
– Flora!
– aveva gridato e, per alcuni istanti, era rimasto immobile,
pietrificato. In quel momento, gli sembrava di essere in un incubo.
Ma
era la più dura e crudele delle realtà.
Flora
giaceva agonizzante sul pavimento di un albergo di Mykonos.
Si
era scosso dal suo stato d’apatia e, strappatosi un pezzo di
stoffa della maglietta, aveva tamponato la ferita di lei. No, non
poteva lasciare che lei morisse senza fare nulla!
Poi
aveva preso il biglietto, l’aveva sollevata tra le braccia ed
era corso verso l’ospedale.
Aveva
preso il biglietto e lo aveva letto.
Ogni
cosa giunge a tempo debito, era scritto su quella carta per metà
imbevuta del sangue della sua amata.
– Tu
… – aveva balbettato, tenendo tra le mani tremanti il
biglietto. Riconosceva quella scrittura così spezzata e
irregolare!
Il
traditore era Demetrios Georgatos, uno dei membri più
rispettati dell’organizzazione.
Un
tremito rabbioso aveva scosso il suo corpo. Da tanto tempo,
sospettava di lui e aveva raccolto delle prove del suo doppiogioco,
che aveva presentato ai suoi capi.
Ma
nessuno gli aveva prestato attenzione.
O
forse non avevano voluto dare ascolto ai suoi moniti?
Ma,
in fondo, cosa importava?
E
quel bastardo, per annientare lui, aveva colpito lei.
La
porta della camera operatoria si era aperta e il chirurgo era uscito.
– Teodoro
Leone? – lo aveva chiamato.
Lui,
sentendo la voce del chirurgo, aveva sussultato e, d’istinto,
aveva nascosto nella tasca il biglietto.
– Sì…
Sono io… – aveva soffiato, stringendo le mani. Quel tono
non gli diceva nulla di buono.
Tuttavia,
non voleva accettare che il destino di Flora fosse segnato.
No,
lei non se lo meritava.
Flora
non aveva alcuna colpa.
– Mi
dispiace … Non siamo riusciti a salvarla. – gli aveva
confessato, dispiaciuto.
Quelle
parole, pur dette con sincero dispiacere, avevano annientato la sua
anima.
In
quel momento, qualsiasi sentimento puro era stato distrutto,
devastato, disintegrato.
Il
dolore si era nutrito della sua anima, tramutandosi in una indomabile
brama di vendetta.
– Stazione
di Francesco Crispi! Francesco Crispi’s station! –
La
voce registrata risuonò nel vagone e risvegliò il
giovane dai suoi ricordi.
– Sono
arrivato. – mormorò e, preso il mazzo di rose rosse, che
aveva appoggiato sull’altro sedile, scese dal treno.
Con
passo rapido, oltrepassò l’entrata neoclassica del
cimitero, percorse l'ampio viale alberato, e raggiunse l'entrata
dell'Area Monumentale.
Si
fermò e, per alcuni istanti, rimase immobile, gli occhi lucidi
di lacrime. Pochi metri lo separavano da Flora...
Per
alcune ore, avrebbe potuto stare con lei, immerso nella pace di quel
luogo colmo di capolavori silenziosi e dimenticati.
– Alle
ceneri dei trapassati e alle lacrime dei superstiti... – lesse
con amarezza, lo sguardo fisso sull'epigrafe. Lo storico Giulio
Petroni, con poche, pregnanti parole aveva ben fissato la realtà
di quel luogo, che avrebbe voluto tanto visitare con lei.
Era
un piccolo scrigno di tesori, la cui bellezza, seppur per poco, dava
requie al dolore sempre vivo di una perdita.
Flora,
innamorata dell'arte, sarebbe stata entusiasta di quei capolavori
poco conosciuti e poco apprezzati.
E
invece riposava lei in quella splendida, seppur triste, città
dei morti.
– Amore
mio... – mormorò ed entrò.
Per
alcuni istanti, lasciò scorrere lo sguardo ora sulle tombe
dalle forme più diverse, in alcuni casi sormontate da statue
antropomorfe, ora sulle eleganti cappelle liberty, riccamente ornate,
ora sulle raffinate chiesette neoclassiche, ora sui sobri memoriali,
ornati da ritratti di defunti.
Tra
alcune tombe verdeggiavano dei rampicanti, simili a lunghe e folte
capigliature, e le chiome diritte dei cipressi, rassomiglianti a
imponenti soldati arborei.
Tra
le sepolture si aggiravano dei gatti, che, di tanto in tanto, si
fermavano e scrutavano i visitatori con i loro occhi d’oro e
smeraldo, quasi volessero comprendere le loro intenzioni.
Vulcano
Rosso, con passo lento, percorse pochi metri e raggiunse una cappella
a pianta vagamante rettangolare, ricca di decorazioni di forme
diverse.
L’entrata
della cappella era occupata da una colonna a forma di tronco di
piramide, verdeggiante di rampicanti, nella quale erano incastonati
due medaglioni bronzei, ritraenti il poeta Vito Nicola di Nicolo, e,
a poca distanza da questa, era stata collocata una lapide di marmo
bianco, appoggiata su un basamento del medesimo materiale, a forma di
parallelepipedo.
Sopra
questa era incollata la foto di una giovane donna, i lunghi capelli
neri raccolti in una coda.
Gli
occhi di lei, anche essi neri, simili a carbonchi, ombreggiati da
lunghe ciglia nere, splendevano su un viso dai lineamenti delicati e
fissavano decisi l’obiettivo.
A
pochi centimetri di distanza dalla foto era collocato un vaso
circolare di maiolica, su cui risplendevano di colori policromi
motivi floreali e simbolici.
Due
gatti neri e tre arancioni circondavano la sepoltura, guardinghi,
quasi fossero degli idoli totemici.
Un
mezzo sorriso distese le labbra del giovane lottatore italiano. Non
sapeva perché, ma la presenza di quei gatti riscaldava un poco
il suo cuore, ormai gelido.
In
quel luogo di morte, quei felini privi di padrone avevano trovato un
rifugio e una protezione.
Voleva
credere che la loro discreta presenza lenisse la solitudine di Flora.
– Amici
gatti, potete lasciarmi solo con lei per un po’? E’ la
mia fidanzata e vorrei stare un po’ con lei. – mormorò
e, chinatosi, cominciò ad accarezzare gli animali sulla testa
e sulla schiena.
Dopo
qualche istante, i felini iniziarono a strusciarsi sulle mani e
attorno alle gambe del giovane, bramosi di coccole.
Poi,
discreti, si allontanarono verso altre tombe.
Il
giovane trasse dalla tasca dell’abito un fazzoletto e ripulì
il tumulo dalla polvere.
Prese
il vaso e, recatosi ad una fontana, lo ripulì e lo riempì
d’acqua.
Poi,
ritornato presso la tomba, sistemò i fiori e rimise il
recipiente nella medesima posizione.
– Ogni
promessa è debito, amore mio… Sono tornato con una
bella notizia. La vendetta è compiuta. Finalmente, puoi
riposare in pace... – sussurrò e, con un gesto lento,
greve di solennità, sollevò il braccio e sfiorò
la scritta sottostante la foto e l’epitaffio.
Flora
Gentile
27
dicembre 1980 – 24 ottobre 2011
Giovinezza,
bellezza e intelligenza
rilucevano
ne le tue belle iridi
Una
primavera per te fiorita di speranze e sogni
il
fato crudele tramutava in un gelido inverno
Su
questo triste sacello, spandendo lacrime
il
fidanzato, straziato dal dolore, a imperituro ricordo,
tristi
corone di fiori depose.
– Sì.…
Ho ucciso il bastardo che ti ha strappato a questa vita, amore mio…
Ha pagato per il male che ti ha fatto… Finalmente, ho
conquistato la serenità... – proseguì e, con
sforzo, sollevò le labbra in un debole sorriso.
Qualche
istante dopo, il suo volto si distorse in una maschera di dolore e le
lacrime fluirono sulle sue guance.
– Chi
voglio prendere in giro… Anche se sono riuscito a raggiungere
il mio scopo, il vuoto non cambia e il dolore resta… Mi manchi
tu, mia bellissima dea... – confessò. Lei riusciva a
vedere oltre il suo aspetto chiassoso e sorridente e, anche dinanzi
alla sua fredda tomba, si sentiva nudo e indifeso.
Aveva
cercato di convincersi di essere felice, ma lo sguardo di Flora,
impresso sulla pellicola fotografica, aveva annientato
quell’illusione fallace.
La
vendetta, per quanto cercata, voluta, bramata, si era rivelata un
dolce veleno.
La
morte di quel bastardo aveva lenito, come un balsamo, le ferite della
sua rabbia, ma non aveva placato lo strazio dell’assenza.
Il
suo decesso non avrebbe ridato al corpo gelido e immobile di Flora il
dolce e caldo soffio della vita.
– Flora…
Spero che tu abbia potuto conoscere i tuoi genitori, che sono morti
troppo presto … Potranno essere fieri di te... –
balbettò, lo sguardo, velato di lacrime, fisso sulla foto.
Voleva credere che lei, in quel momento, fosse in un paradiso libero
da dolore e disperazione.
Era
sicuro che sua madre e suo padre sarebbero stati fieri di lei e della
sua vivace intelligenza, che, poco tempo prima, aveva ammaliato anche
lui.
Flora
era orfana, ma la sua tenacia le aveva consentito di raggiungere
degli alti traguardi nel suo campo lavorativo.
Eppure,
la sua forte volontà non aveva allontanato quell’ombra
di tristezza dai suoi meravigliosi occhi neri.
Ma
poteva biasimarla?
Lui
aveva ricevuto l’amore dei suoi genitori, mentre lei, con
dolore, anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva sempre avvertito
una tale, struggente mancanza.
Il
giovane sollevò un poco la testa e lasciò che le
lacrime si perdessero sulle labbra. Lui avrebbe voluto darle tutto,
pur di renderla felice, ma lei non aveva mai rinunciato alla sua
dignità per compiacerlo.
Certo,
lui era molto ricco, ma lei non aveva mai preteso nulla da lui.
E,
nei limiti delle sue possibilità, lo aveva ricoperto di doni e
premure.
– Ho
tutti i tuoi regali con me, sai Flora? Non ne ho perso neanche uno…
– soffiò. Ad ogni suo compleanno e ad ogni loro
anniversario lei non aveva mancato di fargli degli splendidi
presenti.
O,
almeno a lui, parevano delle rarità meravigliose.
In
alcune occasioni, aveva rinunciato a qualcosa di gradito per lei, pur
di onorare le date importanti del loro rapporto.
All’inizio,
questo l’aveva sorpreso, non poteva negarlo, poi era rimasto
commosso da tale sollecitudine.
Flora
era una ragazza indipendente e orgogliosa, ma anche dolce e gentile.
E
questo aveva rafforzato i suoi sentimenti d’amore verso di lei
e il suo proposito di donarle tutto se stesso.
– Credevo
di non avere più lacrime e invece… Piango ancora,
davanti alla tua tomba. Le mie ferite riprendono a sanguinare, quando
sono qui… – confessò, amaro, lo sguardo fisso
sulla lapide. Cosa restava dei loro progetti?
Voleva
fare di lei la sua compagna, per sempre, e trattarla come una regina.
Perché
lei, tanto bella quanto generosa,
Ma
quel desiderio sarebbe rimasto un sogno impossibile...
Con
un gesto energico, Vulcano Rosso scosse la testa e fece ondeggiare la
lunga cresta nera.
– Flora,
l’organizzazione è stata distrutta… I traditori
giacciono morti e, con orgoglio, posso dire di avere dato un
contributo importante. Te lo dovevo, amore mio… Ho sbagliato a
non darti retta, ma spero di essermi in parte riscattato. Nessuno
soffrirà più a causa loro. – proseguì.
Accostò
le dita alle labbra, poi le posò sulla foto, in un tenue
bacio. Tre lunghi anni erano trascorsi dalla morte di Flora, eppure
non era riuscito a riprendersi totalmente.
Anzi,
forse non si era affatto ripreso.
Certo,
la sua esistenza continuava, ma il suo animo, un tempo traboccante di
energia e calore, si era inaridito.
Della
sua vecchia indole, restavano solo i suoi abiti sgargianti e la sua
cresta, ma gli sembravano residui di un funebre sudario.
Quella
maschera occultava un cuore incapace di amare ancora.
– Sono
uno stupido. – si disse, un sorriso sarcastico sulle labbra.
Perché si trascinava un’esistenza tanto grama e crudele?
Cosa
voleva dimostrare?
Con
la morte di Flora, aveva perduto qualsiasi interesse.
Il
mondo, senza, di lei, gli sembrava un interminabile film muto, privo
di colori.
Quei
giorni senza di lei si erano distesi lenti e monotoni.
Il
tempo gli appariva un accumulo insensato di minuti, ore, giorni,mesi
e anni.
L’amore
per lei, malgrado il tempo trascorso, non si era convertito in un
dolce e malinconico ricordo.
Anzi,
continuava a esacerbare le ferite della sua anima.
E,
ne era sicuro,tale pena non sarebbe mai svanita.
Il
vento si sollevò e si insinuò tra le foglie sottili dei
cipressi, che echeggiarono di fruscii lievi e malinconici.
– Non
ha più senso che io viva. – mormorò il giovane e
rimase immobile, lo sguardo fisso, quasi sorpreso per la perentorietà
della sua affermazione. Aveva compreso, in un lampo, una realtà
che, per tanto tempo, si era rifiutato con ostinazione di accettare.
Voleva
morire.
Desiderava
la fine di quello strazio.
Eppure,
non aveva il coraggio di porre un termine a quella tortura.
Malgrado
la sua forza di combattente, era un codardo.
Da
tanto tempo, lei lo aspettava e lui non riusciva a fare quanto fosse
giusto.
Doveva
andare da lei e restarle sempre accanto.
Cosa
gli restava in quell’esistenza priva di scopo?
Con
un gesto gentile, accarezzò la foto di lei. Il desiderio di
vendetta aveva annientato qualsiasi sua capacità di raziocinio
ed empatia ed era sicuro che aveva portato dolore e pena a persone
estranee alla sua tragedia.
La
rabbia e il dolore avevano trascinato il suo cuore in un abisso di
oscurità, che non gli consentiva di guardare oltre la sua
pena, che gli appariva la più grande tragedia del mondo.
Solo
in quel momento, a vendetta compiuta, si rendeva conto dei suoi
errori e avvertiva per essi un acuto dispiacere.
Tuttavia,
non era una giustificazione alle sue azioni discutibili.
Certo,
l’assassino di Flora non meritava alcuna compassione, ma non
poteva negare di avere sbagliato e ai suoi errori non c’era più
rimedio.
Anche
se si fosse presentato pentito a quelle persone innocenti, esse non
lo avrebbero accettato.
Come
lui non era riuscito a vedere oltre il suo dolore, così loro
non avrebbero visto oltre la propria disperazione.
E
poi era sicuro che avrebbero considerato la sua contrizione una
manifestazione sproporzionata di egocentrismo.
E
non poteva dare loro torto.
No,
non avrebbe disturbato nessuno con parole cariche di un pentimento
tardivo.
Il
dolore necessitava di silenzio e quiete e lui non poteva entrare
nelle loro vite.
– Nemmeno
la morte mi darà la speranza di reincontrarti, mia dea…
– mormorò con tono amaro. Come aveva potuto sperare di
poterla rivedere?
Lei,
di sicuro, gioiva della visione della bellezza incorruttibile, mentre
a lui sarebbe toccato un inferno di eterna solitudine.
La
morte non li avrebbe riuniti, come lui, egoisticamente, aveva
sperato.
Ed
era giusto così.
Certo,
in parte si era riscattato dalle sue colpe, ma questo non era
bastevole a purificare il suo animo, contaminato dall’odio e
dal dolore.
E
un’intera esistenza non sarebbe bastata a fare ammenda dei suoi
delitti.
Si
sentiva prigioniero di un'esistenza priva di scopo.
– Flora...
Vedi come mi sono ridotto? E posso incolpare solo me stesso... –
mormorò, un amaro sorriso sulle labbra e gli occhi di nuovo
lucidi di lacrime. Quell'apatia gli stava corrodendo l'anima, come
una goccia sulla dura pietra.
Non
riusciva a fare niente e tutto, ai suoi occhi pareva, scorretto,
ingiusto, crudele.
Qualsiasi
decisione avesse preso, sarebbe stata sbagliata.
Rifletté.
Doveva trovare un senso a quell'esistenza, ne era assolutamente
certo.
Ma
quale poteva essere la sua strada?
Ormai,
non sapeva più quale fosse.
Il
rimbombo cupo del tuono risuonò nel cimitero e il bagliore
metallico del lampo, per un breve, eterno istante, divise il cielo,
come una lunga e sottile lama di spada.
Qualche
istante dopo, la pioggia riempì l’aria d’un freddo
e monotono scroscio.
Vulcano
Rosso, sentendo il gelo dell’acqua trapassargli il corpo, si
scosse e alzò lo sguardo verso il cielo.
– Che
sia un segnale? – si domandò, quasi sorpreso. In quel
momento, non sapeva perché, gli sembrava di essere emerso da
un sogno lungo e confuso.
Quanto
tempo aveva trascorso in quello stato di sofferente stordimento?
Sorrise,
amareggiato. Certo, il dolore non si era dissolto, anzi, ne era
sicuro, non sarebbe mai scomparso.
Tuttavia,
in quel momento, si sentiva sereno, libero da un opprimente peso che
per tanto, troppo tempo, lo aveva accompagnato in quei tre lunghi e
dolorosi anni.
Aveva
perso tanto tempo, cercando una verità che, pure, si
stagliava, brutale, davanti ai suoi occhi.
Con
un gesto nervoso della mano, il giovane lottatore respinse le
lacrime, che minacciavano di inondargli le guance.
– Grazie
Flora… Ora so che cosa devo fare… – mormorò.
Ne era certo, la sua amata gli aveva inviato un segnale preciso,
chiaro, netto.
Lei
non voleva che lui si trascinasse in una esistenza grigia e priva di
scopo.
E
lui l’aveva ben compreso.
Non
era più il tempo dell'attesa senza scopo, ma dell'azione.
E
lei sarebbe stata fiera di lui.
Con
uno scatto, si rimise in piedi e, per alcuni istanti, contemplò
la foto.
– Ciao
Flora... Che il tuo riposo sia sempre rallegrato da questi gatti
meravigliosi... – mormorò e sollevò la mano
destra in un atto di saluto. La sua amata, oltre all'arte, amava i
gatti e, se fosse stata ancora viva, si sarebbe presa cura di loro.
Invece,
in quel cimitero, i gatti si prendevano cura di lei e alleviavano la
sua solitudine.
Due
gatti neri, circospetti, cominciarono ad aggirarsi attorno alla tomba
di lei e, di tanto in tanto, fissavano il giovane con i loro occhi
verdi, simili a frammenti di vetro.
– Ho
capito... Statele vicini. Io ora devo andare. – mormorò
e, con dolcezza, li sfiorò sulle teste e sulle schiene.
Poi,
a passo lento, girò le spalle si diresse verso l'uscita del
cimitero.
|