Et voilà!
Siamo arrivati praticamente alla fine, anche se manca ancora l'epilogo
all'appello. Questo sarà il capitolo degli addii, anche se
chissà, magari si tratterà di un semplice
arrivederci :')
La storia è nata come una Sherlock X Molly
perciò, com'era prevedibile, questi due finalmente si
affronteranno. Dico finalmente
perché ne sono successe di cose nel frattempo e forse
nessuno dei due è la persona che era prima
dell'arrivo/ritorno di Lupin nelle loro vite. E bravo il nostro Ladro
Gentiluomo!
Non mi dilungo troppo nel ringraziare tutti quelli che sono arrivati
fin qui perché lo farò la prossima settimana, ma
sappiate che vi adoro tutti, dal primo all'ultimo. E' stato un viaggio
pazzesco e so che mi mancherà da morire questa storia, per
questo, come ho già anticipato a qualcuno, ho intenzione di
scrivere il famoso primo incontro tra Sherlock e Arsène -
ispirazione e impegni vari permettendo! Quindi spero che ci rivedremo
presto ;)
Un bacione a tutti e vi auguro una buona lettura!
Vostra,
_Pulse_
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23. Stay
Molly aveva
deciso di prendersi qualche giorno di ferie per riprendersi da tutto
ciò che era accaduto e pensare.
Raramente
era uscita di casa, ma aveva avuto modo di tenersi aggiornata sugli
sviluppi del caso più sensazionale dell'anno grazie ai
notiziari e a Lestrade, il quale l'aveva chiamata spesso per sapere
come stesse.
A seguito
della spettacolare fuga di Arsène Lupin, uno Sherlock senza
memoria aveva negato categoricamente di aver ucciso Charles Augustus
Magnussen e la polizia aveva dovuto scagionarlo da ogni accusa in
quanto non c'erano prove a sostegno del contrario.
Alla fine
aveva vinto l'immagine eroica di Sherlock, anche se Molly sapeva che
lui aveva sparato davvero a quell'uomo; non solo perché era
stato John a dirglielo, ma perché gli aveva letto negli
occhi che anche la storia della perdita della memoria era una bugia
architettata con l'unico scopo di scagionarsi.
Per quanto
riguardava Arsène invece tutto taceva e le indiscrezioni
erano innumerevoli. C'era chi diceva che fosse morto nell'incendio
dell'hotel-casinò della signora Dugrival e chi, davanti alla
mancanza di un cadavere, sosteneva che fosse riuscito a salvarsi e a
fuggire; ancora, c'era chi diceva che quello arrestato dalla polizia
non fosse il vero Ladro Gentiluomo, ma una semplice controfigura, e
altri che pensavano che non esistesse nessuno di così
scaltro e simpatico allo stesso tempo, tanto da gridare ad una trovata
pubblicitaria francese per attirare turisti.
Anche in
quel caso Molly sapeva la verità e se la sarebbe portata
nella tomba.
Erano
già trascorsi tre giorni di solitudine ed autocommiserazione
quando l'anatomopatologa ricevette una chiamata da un numero
sconosciuto. Con cautela si portò il cellulare all'orecchio
e rimase in silenzio, in attesa di capire chi fosse il suo
interlocutore.
«Ciao
Molly».
Lei chiuse
gli occhi, sollevata e al contempo addolorata di sentire la sua voce:
era stato tutto vero e non un sogno.
«Arsène,
sei vivo».
«Ovviamente.
Tu come stai? Ho saputo che non sei andata al lavoro... Avrei voluto
che ti occupassi tu di Grégorie».
Grégorie.
Così si chiamava l'uomo che aveva dato la vita per
permetterle di fuggire. Tutti i suoi discorsi sul non voler essere
più una pedina, il corso di autodifesa... Ma chi voleva
prendere in giro? Lei era scappata e per questo quell'uomo era morto.
«Non
ho mai fatto un'autopsia ad una persona che conosco. Non credo ci
riuscirei, onestamente», rispose alla fine, a bassa voce.
«E
perché no? Guardi dentro l'animo delle persone tutti i
giorni, aprire il loro corpo non dovrebbe turbarti».
Quella
considerazione la lasciò un attimo stupita, ma com'era
abituata a fare ignorò il complimento per scuotere il capo e
sospirare: «C'è qualcosa che posso fare per te,
Arsène?».
«In
realtà ti ho chiamata per dirti che, se vuoi, sono pronto a
mantenere la mia promessa».
«Intendi...».
Molly si morse le labbra, indecisa.
Quando
aveva chiesto ad Arsène di portarla via da Londra le era
sembrato così facile, mentre ora che doveva dargli una
risposta definitiva era così confusa che si sentiva
scoppiare la testa. Inoltre, dopo quello che era successo,
perché voleva ancora aiutarla?
«Ascolta...
Se pensi che quello che è successo a Grégorie sia
colpa tua ti sbagli. La responsabilità è mia e
mia soltanto», le disse ad un tratto, rompendo il silenzio.
«Detto questo... So che è una decisione difficile
e non voglio metterti alcuna pressione, ma io non posso più
stare in Inghilterra».
«Sì,
certo». Molly tirò su col naso, accorgendosi solo
in quel momento di star versando lacrime di cui non ne capiva la
ragione. Quella principale, almeno. Si passò velocemente una
mano sulle guance per spazzarle via ed abbozzando un sorriso aggiunse:
«Non sarò di certo io a trattenerti».
«È
un peccato».
«E
perché?».
Arsène
esitò, per poi ammettere con una breve risata: «Ho
sperato fino all'ultimo che mi dicessi di restare».
L'anatomopatologa
chiuse gli occhi, realizzando ciò che il ladro aveva voluto
dire, ciò che lui aveva capito ancor prima di lei: non
sarebbe mai partita e il motivo era uno soltanto, di nome Sherlock. Ed
era un vero peccato perché Arsène, ignorando la
sua lunga lista di crimini e la sua fama di conquistatore, era un uomo
di cui avrebbe tanto voluto innamorarsi.
Contro ogni
pronostico lui era stato in grado di darle stabilità in un
momento in cui aveva sentito la Terra girare troppo velocemente sotto i
suoi piedi. L'aveva stretta quando ne aveva più bisogno e
l'aveva amata per davvero, anche se solo per una notte.
I loro due
mondi, due universi paralleli all'apparenza incapaci di interagire tra
loro, si erano incontrati a metà strada ed era stata
un'anomalia, un evento raro ed irripetibile dal quale ne erano usciti
entrambi arricchiti.
«Alle
dieci di questa sera un'auto si fermerà sotto casa tua e ti
aspetterà. Potrai scegliere di salire e raggiungermi, oppure
di non farlo. Qualsiasi scelta farai voglio che tu sappia che
io...».
«No»,
lo interruppe Molly, coprendosi gli occhi con un braccio nel tentativo
di arrestare le lacrime. «Non lo dire, per favore».
Era certa
che in quel momento, se solo fossero stati faccia a faccia, avrebbe
visto un sorriso tenero sbocciare sulle sue labbra rosee.
«Allora
addio, Molly Hooper. Se mai dovessi cambiare idea...».
La
comunicazione si interruppe prima che lei potesse rispondere e questo
fu l'ennesimo colpo al cuore. Lanciò il cellulare da parte e
si strinse le ginocchia al petto, il volto nascosto tra le braccia e i
singhiozzi ora incontrollabili che le squassavano la schiena.
Rimase in
quella posizione per diversi minuti, precisamente fino a quando il
campanello non la fece trasalire. Il suo primo pensiero fu che
Arsène avesse cambiato idea, perciò si
precipitò alla porta asciugandosi il volto con le maniche
della felpa. Rimase delusa però, dato che sul pianerottolo
c'era la signora Lee, appena tornata dalla sua vacanza all-inclusive in
Costa Azzurra.
«Tesoro,
ti senti bene?», le chiese saltando i saluti, preoccupata.
Molly fece
del suo meglio per sorridere. «Sì, io... mi sono
commossa davanti ad un film. Lo sa che sono una frignona».
L'anziana
vicina sorrise a sua volta e cambiò argomento: «Mi
dispiace di essere andata via senza avvisarti. Spero che non sia
successo nulla durante la mia assenza e soprattutto che mio nipote non
abbia dato problemi».
«Thomas?»,
chiese Molly, sorpresa dalla tranquillità con cui la donna
aveva retto il gioco di Lupin. Ma soprattutto fu spiazzata dalla
domanda, alla quale era difficile dare una risposta onesta. Avere il
Ladro Gentiluomo come vicino le aveva dato problemi? Molti, ma avrebbe
rifatto tutto quanto.
«No,
nessun problema», rispose alla fine.
Le due si
scambiarono uno sguardo imbarazzato, poi la signora Lee
abbassò gli occhi sulla singola rosa rossa che teneva tra le
dita e come se si fosse dimenticata di averla esclamò in
fretta: «Questa era sul tuo zerbino, tesoro. L'ha lasciata un
giovanotto biondo. Gli ho chiesto perché non avesse suonato
e mi ha risposto che era meglio così».
«Lui...
lui era qui?», balbettò Molly, ma non
aspettò di sentire la risposta.
Strappandole
la rosa dalle dita corse giù dalle scale in ciabatte e una
volta sul marciapiede guardò sia a destra che a sinistra, ma
di Arsène non c'era più traccia e il vuoto che
sentì all'altezza del petto le diede molto da pensare.
***
Sherlock
aveva firmato i moduli per la dimissione il giorno prima, tuttavia si
trovava ancora all'ospedale, davanti alla porta chiusa della stanza di
Irene Adler.
Ormai
andarla a trovare era diventata un'abitudine, specie quando si era
accorto che nessun altro l'aveva fatto.
La
Dominatrice era sola al mondo, proprio come lo sarebbe stato lui se non
avesse avuto dei genitori amorevoli, un fratello maggiore che
nonostante il carattere freddo e presuntuoso non poteva fare a meno di
preoccuparsi per lui e degli amici che per qualche motivo a lui ancora
sconosciuto avevano deciso di rimanergli accanto nel bene e nel male.
Per questo
capì subito che c'era sotto qualcosa quando una delle
infermiere si presentò con un mazzo di gerbere colorate.
La
fermò sulla porta chiedendole chi gliele avesse mandate e
lei gli indicò il bigliettino attaccato al bouquet, poi
portò il vaso all'interno e lo sistemò sul
comodino.
Quando
tornò in corridoio Sherlock era già andato via.
Dopo il suo
ritorno nel mondo dei vivi la sua tomba avrebbe dovuto essere abbattuta
in modo da poter usare quel fazzoletto di terra per il riposo eterno di
qualcuno di veramente morto, ma Sherlock si era opposto e aveva
concordato di pagare uno sproposito - sottoforma di affitto mensile -
per tenerlo.
Tutti, chi
prima e chi dopo, gliene avevano chiesto il motivo e la sua risposta
era sempre stata la stessa: «Mi piace il posto». In
realtà però la vera motivazione era un'altra:
ogni tanto gli piaceva andare lì, sedersi contro la fredda
lapide di marmo nero e pensare alla propria vita. Era uno dei pochi
posti in cui riusciva ad apprezzare davvero ciò che aveva,
in cui capiva quanto fosse stato fortunato, e in qualche modo
Arsène doveva averlo scoperto. O forse, più
semplicemente, aveva deciso di dargli appuntamento lì solo
perché gli sembrava poetico.
Il
detective, giunto davanti alla propria lapide, si guardò
intorno confuso. Estrasse il bigliettino allegato al mazzo di fiori per
Irene e lo rilesse per sicurezza. Non l'aveva mal interpretato, eppure
di Arsène non c'era traccia.
All'improvviso
lo squillo di un cellulare gli fece rizzare le orecchie e con cautela
aggirare la lapide, dietro la quale trovò un prepagato e una
rosa rossa. Infastidito si chinò a raccogliere entrambi e
posandosi il telefono contro l'orecchio esordì:
«Teatrale come al solito, vedo».
«Lo
sai che è la mia specialità, ma questa volta ha
anche un fine pratico. Gli addii non sono mai stati il mio forte,
dopotutto».
Sherlock si
sedette sulla sommità della lapide e si rigirò la
rosa tra le dita, poi se la portò al naso per aspirarne il
profumo.
«Sembri
triste, mon ami.
Volevi sincerarti delle mie condizioni di salute, per caso?».
Sherlock
abbassò subito la rosa e tornò a guardarsi
intorno, le labbra arricciate sui denti come un cane rabbioso.
«Mi stai guardando?».
«Forse»,
replicò Arsène, divertito.
«È davvero così importante per te?
Rischio di illudermi, Sherlock caro...».
«'Sta
zitto».
«Ecco,
ora ti riconosco».
Nessuno
parlò più e Sherlock provò a
concentrarsi sui rumori provenienti dall'altro lato del telefono, in
modo da poter cogliere degli indizi sull'ubicazione di
Arsène, ma a parte qualche interferenza ogni tanto e il
rumore del traffico non aveva elementi che potessero aiutarlo.
«Voleva
che ti dicessi che le dispiace», disse ad un tratto il ladro,
triste come se gliene fosse davvero importato qualcosa di Irene.
Sherlock
strinse forte il gambo della rosa, pungendosi con una spina e
preferendo quel dolore a quello che sentiva in mezzo al petto.
«Me
lo dirà di persona quando si
sveglierà», affermò.
«Lo
spero tanto», sussurrò, ma per il detective fu fin
troppo facile capire che non ci credeva veramente.
Non era da
Arsène augurare a qualcuno la morte, ma non lo biasimava
nemmeno: era colpa di Irene, d'altronde, se lui, Geneviève e
Molly avevano rischiato la vita; era colpa sua se Grégorie
la vita l'aveva persa.
«Perché
hai provato a salvarla?», gli chiese quindi.
«Avresti potuto lasciarla tra le fiamme, invece...».
«Lei
l'avrebbe preferito senz'altro», lo interruppe, lasciandolo
senza parole.
Irene
Adler... la stessa Irene che lottava fino allo stremo delle forze e
calpestava chiunque pur di ottenere ciò che desiderava,
davvero lei...?
«E
io non potevo permetterlo», aggiunse Arsène.
«Lo sai come la penso sul suicidio. E poi se fosse morta tu
ne avresti sofferto, quindi...».
«Presumo
che il mio debito con te non si sia ancora estinto, anzi...».
«Debito?
Quale debito?».
«Non
scherzare».
«Mai
stato più serio in vita mia. Tu, piuttosto, hai avuto
proprio una bella idea a far finta di aver perso la memoria: ti ha
tolto un bel po' di gatte da pelare».
«Credi
che abbia fatto finta?».
«Oh,
avanti!».
Sherlock
rimase in silenzio e sollevò le sopracciglia, certo che
Arsène lo stesse ancora guardando. Ma da dove? Se solo
avesse avuto un indizio, uno solo...
«Mi
stai dicendo che davvero...?». Il ladro ora sembrava davvero
agitato. «E il nostro bacio, te lo ricordi?».
«Ho
perso i ricordi degli ultimi diciassette anni, quindi purtroppo quello
me lo ricordo ancora».
«No,
no, no! Noi ci siamo baciati un'altra
volta, dopo la nostra evasione!».
«Non
prendermi in giro. Ho giurato a me stesso che non sarebbe
più accaduto e se è successo davvero, allora tu
devi esserti approfittato di me».
«Cosa?
No, assolutamente! Tu avevi preso un po' di scosse elettriche, questo
è vero, ma eri perfettamente cosciente e consapevole delle
mie intenzioni! E non ti sei allontanato, tu...!».
Alla fine
non ce l'aveva fatta: non era bravo come Arsène a mentire e
un ghigno gli aveva sollevato impercettibilmente l'angolo sinistro
della bocca, tradendolo.
«I
miei complimenti!», gridò Arsène,
ridendo. «Hai buone possibilità di prendere per il
naso Scotland Yard, la regina e la nazione intera, ma dovrai fare di
meglio con Molly Hooper».
Sapeva che
prima o poi avrebbe aperto l'argomento, tuttavia Sherlock si
ritrovò a stringere i pugni lungo i fianchi e a cercarlo con
ancora più foga: dietro gli alberi e le statue tombali, nel
campanile della cappella, negli edifici che si innalzavano oltre
entrambi i lati del parco.
«Dovevi
continuare a fingerti morto per far sì che mantenessi la
promessa. Un errore grossolano da parte tua», gli disse il
detective.
«No,
sappiamo entrambi che non l'avresti mai fatto comunque. È
per questo che hai usato il trucco dell'amnesia: pensavi che, nella
peggiore delle ipotesi, avresti finto di non ricordare di averle detto
"Ti amo" pur di non darle spiegazioni».
Sherlock
girò in tondo come una trottola, tanto da farsi venire il
mal di testa. «Come...? Chi ti ha raccontato la fine della
storia? È stata lei?».
«No,
l'ho semplicemente dedotta. Allora, com'è successo?
Scommetto che tu hai chiesto a Molly di dirti quelle tre parole e lei
ti ha costretto a dirle per primo. Dimmi, ci ho preso?».
«L'ho
fatto solo perché pensavo ci fosse una bomba nel suo
appartamento!».
«Non
ho alcun dubbio che tu l'abbia fatto per salvarla. Avresti detto
qualsiasi cosa anche per salvare John, la signora Hudson o Lestrade.
Quelle parole però... una volta pronunciate non si desidera
altro che ripeterle se la persona davanti a noi è quella
giusta, vero? Rimangono lì, sulla punta della
lingua...».
Sherlock se
la morse, perché era vero. Erano innumerevoli le volte in
cui, incrociando Molly e leggendo la tristezza nei suoi occhi, aveva
voluto gridarglielo in faccia fino a farle capire che era vero anche
per lui, che quelle parole non erano affatto prive di significato come
pensava.
«Beh,
è stato bello chiacchierare con te»,
esclamò Arsène, con quel suo tono allegro tanto
caratteristico. «Adesso però devo andare: la pausa
pranzo è quasi finita e sarebbe un bel guaio se il signor
avvocato mi trovasse ancora qui».
Avvocato?
Sherlock si
voltò di scatto verso il grattacielo alla sua destra, il
quale, si ricordò, ospitava lo studio di un importante
divorzista, uno dei migliori e più pagati di Londra. Da
qualche tempo girava anche voce che nella sua cassaforte conservasse
per una delle sue clienti fedifraghe una collana di perle dei Mari del
Sud.
Lassù,
appeso ad una semplice imbragatura, c'era un lavavetri che lo stava
osservando con un potente binocolo.
«Ops,
penso di essermi fatto scoprire», esclamò
Arsène, per poi salutarlo con la mano con cui teneva la
spatola.
Sherlock
corse via dal cimitero, attraversò la strada facendosi quasi
investire e poi entrò nell'elegante hall dell'edificio. Il
portinaio fece per fermarlo, ma non appena lo riconobbe lo
lasciò passare e il detective, dopo avergli chiesto a che
piano si trovasse l'ufficio dell'avvocato, prese l'ascensore.
Il
tragitto, per quanto breve, lo innervosì tanto da picchiare
un pugno contro la parete ed imprecare. Non l'avrebbe sopportato se
fosse arrivato tardi.
Alla fine
le porte si aprirono, silenziose, e come aveva detto Arsène
tutti quanti erano in pausa pranzo, rendendo il piano deserto.
Passò
la reception e si lanciò contro la porta dell'ufficio,
trovandola aperta. A sorprenderlo quindi non fu la cassaforte svuotata,
bensì vedere il Ladro Gentiluomo ancora dall'altra parte
della facciata di vetro, che fischiettava mentre lavorava col braccio
sinistro. Perché non era scappato?
Sherlock si
avvicinò alla vetrata e lo chiamò col cellulare
prepagato che stringeva ancora in mano.
Arsène
premette un tastino sul dispositivo bluetooth che aveva all'orecchio e
rispose col sorriso: «Sherlock, sei qui di fronte a me
vero?».
«Sì».
«Vetro
riflettente, mi dispiace. Ma tu mi vedi, perciò... sei
contento?».
Sherlock lo
esaminò e posò una mano sul vetro all'altezza del
suo viso, appurando che stava dicendo la verità: tutto
ciò che Arsène vedeva, da fuori, era la propria
immagine riflessa.
Sul volto
del ladro poté contare lividi nuovi su quelli vecchi,
diverse abrasioni e un taglio sul labbro che doveva fargli parecchio
male ogni volta che sorrideva.
«Ti
hanno sparato alla spalla destra, ma per il resto sembri stare
bene», gli disse, ignorando l'incomprensibile desiderio di
toccarlo per convincersene al cento percento.
«Perché hai aspettato tre giorni prima di farmi
sapere che eri vivo?».
«Gesù
è risorto il terzo giorno».
«Ti
stai paragonando a Gesù?».
«No,
la mia era solo una battuta. Però si trattava di certo di un
uomo straordinario».
Sherlock
strinse gli occhi. «Mi rifiuto di credere che sia esistita
una persona in grado di fare miracoli, o che sosteneva che gli ultimi
sarebbero stati i primi».
«Io
sono cresciuto come un bravo cattolico, quindi credo in Dio e nelle
seconde occasioni», rispose tranquillamente il ladro.
«Tutti meritano di poter rimediare ai propri
errori».
«Certi
peccati non dovrebbero essere perdonati, invece. Certe
persone...».
«Sei
troppo duro con te stesso», lo interruppe Arsène,
abbassando la spatola per rivolgere lo sguardo verso dove credeva che
fosse. Sbagliò di pochi centimetri.
«Riconosco
che tu abbia commesso un errore, ma anche che le tue intenzioni erano
buone: hai agito per salvare la famiglia del tuo migliore amico e per
quanto mi riguarda sei
perdonato».
Sherlock
avrebbe tanto voluto che il suo perdono potesse alleviare il senso di
colpa che si sarebbe portato dietro per tutta la vita.
Sarebbero
potuti stare lì a parlarne per ore, senza convincere l'altro
a cambiare opinione, per questo decise di affrontare un altro argomento.
«Perché
tutto questo disturbo per una collana di perle? Tu soffri di
vertigini!».
Arsène
ridacchiò e ammise: «Sto cercando di vincere le
mie paure. Magari tu dovresti fare altrettanto, prima che sia troppo
tardi».
«A
cosa ti riferisci?», gli chiese il detective, di nuovo sulle
spine e con un brutto presentimento. «Parla chiaro per una
volta!».
Arsène
sospirò e con una smorfia di dolore si sporse per
raggiungere un angolo alla sua sinistra. «Devo proprio
imboccarti! Sto parlando di Molly, stupide.
Era solo una questione di tempo prima che raggiungesse il limite e
quando noi due... sì, insomma, quando ci siamo avvicinati mi
ha confessato di volersene andare».
Sherlock
sentì il mondo crollargli sotto i piedi.
«Andare?», ripeté, come inebetito.
«Non capisco. Dove dovrebbe...?».
«Lontana
da te, Sherlock. Col tuo atteggiamento scostante l'hai portata
all'esasperazione, tanto da convincerla che trascorrere del tempo
all'estero l'avrebbe aiutata a dimenticarti. Ho provato a dirle
che...».
«Se
se ne andasse sarebbe la cosa migliore».
A quelle
parole, pronunciate con tono di voce fermo e privo di qualsiasi
emozione, Arsène si infuriò e lo
guardò - più o meno - con tutta la cattiveria di
cui era capace.
«Per
chi? Dannazione Sherlock, proprio non lo vuoi capire che il cuore non
si può controllare! Se le permetti di andarsene vivrete
entrambi nella sofferenza!».
«Se
si trattasse di Geneviève non faresti tutto quanto
è in tuo potere per tenerla al sicuro? O se avessi potuto
evitare che Grégorie morisse...».
«Smettila!»,
gridò ancora il Ladro Gentiluomo, picchiando un pugno sul
vetro. «È ovvio che voglio che
Geneviève non corra alcun tipo di pericolo! E so che
è colpa mia se Grégorie non c'è
più! Tu non sai quante volte... quante volte l'ho pregato di
stare nelle retrovie e di non rischiare la sua vita! Lui conosceva i
rischi, eppure ha deciso di stare al mio fianco ed è questo! -
è questo che non puoi impedire! Non puoi costringere
qualcuno a fare ciò che vuoi tu, perché non
è giusto! E nel caso di Molly, costringendola a partire la
condanneresti ad una vita ancora più miserabile.
È questo che vuoi, Sherlock?».
Il
consulente investigativo abbassò gli occhi e non rispose,
profondamente turbato. Anche John, non molto tempo prima, gli aveva
fatto un discorso simile.
Arsène
sospirò e scosse mestamente il capo, poi guardò
l'orologio che portava al polso e si infilò la spatola in
uno dei passanti del marsupio.
«Sarà
meglio filarcela ora», esclamò, per poi appoggiare
la mano sinistra e guantata sul vetro appena pulito. «Molly
ha tempo fino a questa sera alle dieci per decidere. Spero che tu
faccia la cosa giusta, Sherlock».
Abbozzò
un sorriso venato di malinconia e posò anche le labbra sul
vetro, in un bacio casto. «Au revoir, mon ami».
Il
detective si lanciò contro il vetro, come a volerlo
afferrare, ma Arsène tirò la leva dell'argano a
cui era imbragato e il cavo d'acciaio si srotolò dal
verricello che si trovava sul tetto del grattacielo, permettendogli di
scendere rapidamente.
«Arsène,
aspetta!», gridò il detective e si
precipitò fuori dall'ufficio, imbattendosi nell'avvocato di
ritorno dalla pausa pranzo. Questi, infuriato, gli chiese che cosa ci
facesse lì e chi l'avesse lasciato passare, ma Sherlock lo
ignorò per correre giù dalle scale.
«È
inutile affannarsi in quel modo», gli disse il ladro, ancora
all'altro capo del telefono. «Non riuscirai a
raggiungermi».
«Allora
dimmi almeno che ne sarà di Geneviève! Ha deciso
di seguirti?».
«Giusto,
me ne stavo quasi dimenticando! Ha scelto di accettare la proposta di
Mycroft e mi ha raccomandato di salutarti e di dirti che
tornerà a Londra per le vacanze pasquali».
Sherlock
sorrise, felice di sentire finalmente una buona notizia.
«Farò in modo di organizzarle una caccia alle
uova».
«Credo
che le farebbe più piacere fare una caccia al criminale, se
capisci cosa intendo».
Delle urla
di sorpresa costrinsero Sherlock ad arrestare la sua corsa per entrare
negli uffici di un call-center.
«Mi
scusi madam,
non volevo spaventarla», esclamò Arsène
davanti alla finestra che doveva aver in precedenza manomesso
perché sembrasse chiusa all'apparenza ed apribile con un
semplice calcio. Quindi si sganciò il cavo dall'imbragatura
e fece lo slalom tra le varie postazioni per raggiungere l'ascensore.
Sherlock si
precipitò all'inseguimento, ma non fu abbastanza veloce: il
ladro ebbe il tempo per premere il pulsante del pian terreno e
salutarlo con un'occhiolino prima che le porte si chiudessero,
lasciandolo fuori.
«Maledizione!»,
gridò il detective, battendovi i pugni con rabbia.
Ritornò
alle scale, rifiutandosi di gettare la spugna, e Arsène rise
sentendo il suo respiro affannoso.
Una volta
giunto alla reception la gola gli bruciava, ma era riuscito a fare
prima dell'ascensore, le cui porte si aprirono davanti a lui per
riservargli l'ennesima cocente delusione: Arsène si era
tolto imbragatura e vestiti da lavavetri e aveva smontato uno dei
pannelli del soffitto per poter scendere ad un altro piano senza che
lui se ne accorgesse.
Furente,
Sherlock si riportò il cellulare all'orecchio ed
esclamò: «Non ti sembra un trucco visto e
rivisto?».
«Banale,
vero? Beh, sai quello che si dice: a volte bisogna sapersi
accontentare. Alla prossima!».
Arsène
terminò la comunicazione e Sherlock gettò il
prepagato a terra, rompendolo in mille pezzi. Uscì
dall'edificio e guardò a destra e sinistra alla ricerca del
ladro o almeno del suo mezzo per la fuga. Stava per arrendersi quando
notò un grosso SUV nero, con tanto di finestrini oscurati,
uscire da un vicolo laterale per immettersi nella strada principale. A
confermare i suoi sospetti fu lo stesso Arsène, il quale
uscì dal tettuccio e lo guardò sorridendo,
tirandosi indietro i capelli scompigliati dal vento con una mano e
salutandolo con l'altra.
«Mi
mancherai!», gli gridò prima che il SUV svoltasse,
scomparendo alla sua vista e diventando impossibile da raggiungere.
Sherlock si
piegò sulle ginocchia, senza fiato, e ad un tratto
scoppiò a ridere, ricevendo le occhiate stupite e confuse
dei passanti. Quando si sollevò, con una mano sullo stomaco,
aveva le lacrime agli occhi.
«Anche
tu mi mancherai», mormorò. «Anche
tu».
***
«Ehi,
va tutto bene?».
Geneviève
si voltò verso Maurice, il quale l'aveva raggiunta nella
veranda sul retro dove in quei giorni si era rifugiata spesso a pensare
a come sarebbe stata la sua vita d'ora in avanti.
Alla fine,
dato che in quella villa c'erano diverse camere per gli ospiti, il
reporter era stato invitato a restare e lui aveva accettato per
rimanere al fianco del Ladro Gentiluomo.
La
ragazzina gli rivolse un piccolo sorriso ed annuì, poi
tornò a fissare le colline, avvolta in una coperta di pile.
«Con
me puoi parlare, lo sai», le disse ancora, sedendosi a
cavalcioni della spessa ringhiera di legno, al suo fianco.
Incrociando
i suoi sinceri occhi castani, Geneviève cedette con un
sospiro.
«Avrei
voluto salutare di persona Sherlock, John e Molly,
soprattutto».
«Forse
tuo padre voleva risparmiarti il dolore degli addii».
Si strinse
nelle spalle, imbronciata. «Non lo trovo giusto
comunque».
«Prendere
decisioni ingiuste per i figli è il lavoro principale di un
genitore», esclamò Maurice, ridacchiando.
«Ne
parli come se...».
«Come
se ci fossi passato. Già...».
Guardandolo
a capo chino, Geneviève non potè resistere e
posò una mano sulle sue, strette sulla trave di legno su cui
erano seduti. A quel tocco Maurice alzò di scatto il volto e
le sorrise, ma era fin troppo evidente che si stava sforzando.
«I
miei genitori non volevano che facessi il reporter. Avevano deciso per
me una vita del tutto diversa, senza chiedermi cosa volessi io, e
tutt'oggi non ci parliamo per questo. Ma tuo padre è
diverso: ha scelto di stare dalla tua parte qualsiasi strada avessi
intrapreso. A proposito, sei proprio sicura di voler frequentare quella
scuola?».
Geneviève
annuì con un cenno del capo, tornando a guardare le colline.
«Come
l'hai chiamata? Scuola per giovani dotati? Tipo quella degli
X-Men?».
La
ragazzina rise e si guardò le Vans rosse. «Da come
l'ha descritta Mycroft Holmes sembra più una Wammy's House:
un istituto per ragazzini con un QI superiore al normale oppure con
familiari eccezionali che vengono istruiti per diventare risorse utili
al Governo».
«Quindi...
niente matematica?».
Geneviève,
sempre senza guardarlo, gli tirò un pugnetto sul petto.
«Durante
la mattinata frequenterò le lezioni di un normale
liceo», gli spiegò. «Mentre nel
pomeriggio corsi extra in base alle mie... capacità, ecco.
Combattimento corpo a corpo, lancio di coltelli,
escapologia...».
«Potrò
venire a trovarti?».
La
ragazzina perse il sorriso per lo shock e lo guardò, confusa
e col cuore che le batteva impazzito nel petto.
Maurice
parve arrossire e si passò una mano sulla nuca, imbarazzato.
«Sarebbe bello scrivere un articolo su una scuola del
genere».
«Credo
che sia un programma top secret. Io stessa ho dovuto firmare un accordo
di segretezza».
«Capisco».
«Però...».
Geneviève abbassò gli occhi, tanto nervosa da
allontanare la mano da quelle di Maurice per torturarsele in grembo.
«Avrò anch'io delle vacanze, quindi potremmo
vederci e potrei raccontarti qualcosa... off the record,
naturalmente».
Maurice le
prese delicatamente il mento tra le dita e la costrinse ad incrociare
il suo sguardo. Sorridendo, rispose carezzevole: «Mi
piacerebbe molto».
La
ragazzina deglutì e fissò quelle labbra che da
tre giorni a quella parte erano la sua ossessione. Socchiuse gli occhi
e si avvicinò al suo volto, decisa ad andare fino in fondo
quella volta, ma la porta alle loro spalle si aprì
all'improvviso, facendola allontanare di scatto e con le guance in
fiamme.
François
si rese conto di aver interrotto qualcosa, ma ne sembrò
quasi lieto.
«È
pronto in tavola!», annunciò, per poi rivolgere
un'occhiata velenosa a Maurice.
Una volta
rientrato, il reporter tirò fuori dalla giacca il pacchetto
di sigarette e se ne accese una ridacchiando.
«Non
gli piaccio proprio, eh?».
Geneviève,
imbarazzata, provò a spiegare: «Non sei tu,
è che...».
«Lo
capisco. Se avessi la sua età mi comporterei anche io
così», disse, strizzandole l'occhio. Poi
indicò la porta con un cenno del capo, aspirando la prima
boccata di fumo: «Vai avanti, io finisco di fumare e ti
raggiungo».
La
ragazzina deglutì nuovamente, nonostante la gola secca, e
non se lo fece ripetere due volte. Sulla porta si fermò ad
osservarlo: appoggiato alla colonna, con un ginocchio sollevato e il
gomito su di esso, gli occhi rivolti all'orizzonte. Guardando il suo
profilo sereno pensò che prima o poi sarebbe riuscita a
baciarlo; ormai era una sfida col destino e lei l'avrebbe vinta.
***
Arsène
si sistemò la cravatta e poi scivolò all'interno
del cinema privato di Mycroft Holmes, seduto in prima fila e con un
bicchiere di whisky nella mano destra.
Sul grande
schermo venivano proiettate vecchie fotografie in cui non c'erano solo
i due Holmes a lui conosciuti, bensì anche una bambina coi
codini e un bambino pel di carota della stessa età di
Sherlock e con una grossa benda da pirata sull'occhio sinistro.
«Quindi
sei venuto davvero», esclamò Mycroft, prendendolo
alla sprovvista. Era talmente concentrato su quelle diapositive che per
un attimo aveva perso il contatto con la realtà.
«Sarebbe
stato scortese rifiutare il tuo invito, Myc».
Il Ladro
Gentiluomo sorrise e facendo roteare il bastone da passeggio scese i
gradini ricoperti di moquette per raggiungere il maggiore dei fratelli
Holmes. Quindi si sedette al suo fianco e si portò una mano
a sostegno del volto, un dito sulla tempia e gli occhi concentrati.
«Quella
bambina... è chi penso che sia?».
«Eurus
Holmes», rispose Mycroft, sospirando.
«E
il bambino?».
«Victor
Trevor. Il migliore amico di Sherlock».
«Ouch.
Pensavo di essere io il suo migliore amico».
«Non
ti preoccupare, è morto».
Arsène
si voltò, scioccato, e poi si alzò per poter
guardare meglio le fotografie. La sua ombra copriva una parte dello
schermo, ma a lui non importava.
Ad un
tratto, con le fronte solcata da profonde ed inestetiche rughe di
apprensione, indicò la sorella minore di Sherlock e chiese:
«È stata lei ad ucciderlo?».
Mycroft si
limitò ad annuire, bevendo ciò che rimaneva del
suo drink.
«Perché?».
«Voleva
che Sherlock giocasse con lei».
Arsène
lo fissò a bocca aperta. «Mi stai prendendo in
giro?».
«Temo
di no».
«Très bien».
Il Ladro Gentiluomo si avvicinò al maggiore dei fratelli
Holmes a passo pesante e lo sollevò dalla poltroncina rossa
prendendolo per il gilet con entrambe le mani. Avvicinando il volto al
suo sibilò: «Parliamo di affari?».
«Ti
ho chiamato qui apposta», rispose con calma Mycroft,
sorridendo con quel suo fare serpentesco.
Si
spostarono nella luminosa sala da pranzo, il cui lungo tavolo in mogano
la faceva da padrone, e Mycroft lo pregò di sedersi a
capotavola mentre lui frugava in un cassetto per tirarvi fuori una
cartelletta e una penna stilografica. Posò il tutto davanti
a lui e Arsène sfogliò distrattamente i documenti.
«Lo
sai Arsène, mi sbagliavo su di te», ruppe il
silenzio Holmes. «Non sei affatto un criminale come tutti gli
altri».
Il Ladro
Gentiluomo abbozzò un sorriso e si sedette in maniera
più composta. «Che cosa ti ha fatto cambiare
idea?».
«Diverse
cose, in realtà».
Mycroft
passeggiò intorno al tavolo, sfiorando con la mano sinistra
i pomoli appuntini delle sedie, e alla fine si sedette davanti a lui.
«Il
fatto che tu stia affidando a me l'istruzione di tua
figlia...».
«Ricordi
quando mi dicesti che i figli possono essere una rovina? In questo caso
ho capito di essere io la rovina per mia figlia. Voglio solo il meglio
per lei e se poi deciderà comunque di seguirmi, tanto di
guadagnato».
«Che
tu abbia salvato Irene Adler nonostante il tuo disprezzo per
lei», continuò il maggiore dei fratelli Holmes.
«E che tu abbia impedito a Sherlock di seguirti dopo
l'evasione. L'hai fatto per proteggerlo, non è
vero?».
«Quello
che non hai mai capito, Myc, è che io tengo davvero a
Sherlock. Gli voglio bene, gliene ho voluto sin dal primo giorno, e
credo che se le cose fossero diverse... se io non fossi ciò
che sono... credo che saremmo stati felici insieme».
Mycroft si
accigliò e posò con cautela le mani sul tavolo.
«E anche Sherlock la pensa così? È per
questo che voleva redimerti? Perché... Perché ti
ama?».
«Amore...
Oh, magari!», esclamò ridendo, per poi
abbandonarsi allo schienale della sedia e guardare il soffitto.
«Diciassette anni fa, forse, prima che gli spezzassi il
cuore...». Tornò a guardarlo negli occhi e sorrise
furbescamente, le mani intrecciate sotto il mento. «Ma non
sono venuto qui per parlare del passato».
«Giusto,
tu sei uno che guarda sempre al futuro». Mycroft
indicò i documenti e gli spiegò:
«Apponendo una firma lì sotto accetti che tua
figlia frequenterà l'istituto per giovani dotati in cambio
del tuo silenzio e della distruzione di ogni prova fisica in tuo
possesso che attesti l'esistenza di Sherrinford».
«Isola
segreta per isola segreta, mi pare giusto»,
esclamò Lupin con una scrollata di spalle. Prese in mano la
penna, ma prima di apporre la propria firma alla fine della pagina
scritta fitta fitta disse: «E per quanto riguarda l'omicidio
di Magnussen? Ti ricordo che possiedo i filmati non truccati dai tuoi
uomini. Vuoi lasciarmi un'arma di ricatto del genere?».
Mycroft si
passò una mano sul volto. «Che cosa
vuoi?».
Arsène
gli rivolse un largo sorriso. Chiuse la cartelletta fermandovi i fogli
con la penna e gliela passò facendola scivolare sulla lucida
superficie del lungo tavolo.
«Avanti,
non fingere di non avere pronto un asso nella manica», gli
disse con tono divertito. «Credi mi sia dimenticato del furto
di cui mi avete accusato tu e Sherlock?».
Mycroft
deviò il suo sguardo, forse per non fargli vedere il
sorrisino che gli aveva incurvato gli angoli della bocca. Il ladro
allora si alzò e andò a sedersi sul bordo del
tavolo, a gambe accavallate e coi palmi delle mani posati sulla
superficie in mogano.
«Forse
a Sherlock hai detto che si trattava solo di un modo per attirarmi allo
scoperto, ma io so che Mycroft Holmes non fa mai nulla per
bontà. Ho fatto qualche domanda in giro e sai, un uccellino
mi ha detto che l'ambasciata italiana...».
«Hai
ragione», lo interruppe l'uomo, incrociando i suoi occhi
verdi. «Quando ho organizzato il furto del "Leda col cigno"
avevo un doppio fine».
«Triplo
fine», lo corresse. Con un sorriso smagliante, aggiunse:
«Sii sincero, per favore».
Il maggiore
dei fratelli Holmes roteò gli occhi. «E va
bene».
«Quindi,
se ho fatto bene i conti...». Arsène
saltò giù dal tavolo con agilità,
nonostante le ferite riportate appena tre giorni prima, e contando
sulle dita riepilogò: «Hai rubato la tela al buon
professor Melas promettendogli che gliel'avresti restituita e gli hai
rifilato una copia, anche se ben fatta. Hai preso accordi con
l'ambasciata italiana per uno scambio e anche a loro hai dato
un'imitazione. Ora mi chiedo... Dov'è finito
l'originale?».
Mycroft si
alzò, raggiunse una piccola ma profonda cassaforte nascosta
dietro delle mensole della libreria e tirò fuori un cilindro
di plastica che fece arricciare il naso del Ladro Gentiluomo quando se
lo vide arrivare tra le braccia.
«È
così che tratti le opere d'arte?», gli
domandò, irritato, mentre con estrema cautela
estraeva il dipinto perduto di Leonardo da Vinci e lo srotolava sul
tavolo. «Ora capisco perché le donne ti stanno
alla larga. Tieniti stretta quella che hai, mi raccomando».
Mycroft
rimase in silenzio a guardare Arsène mentre tirava fuori una
lente d'ingrandimento oculare e si chinava sulla tela come un perito
per verificarne l'autenticità. L'esame durò
parecchi minuti, in cui il maggiore degli Holmes ebbe più
volte la tenzione di dirgli di darsi una mossa, spazientito. Alla fine
però il ladro si sollevò e sorrise, quasi
commosso.
«Meraviglioso»,
esalò estasiato.
«Per
l'amor di Dio, è solo un disegno!».
Arsène
lo guardò come se avesse appena insultato sua madre, ma
decise di soprassedere scuotendo il capo e riarrotolò
l'inestimabile dipinto. Poi prese la penna e tolse il cappuccio con i
denti, posò la punta sul foglio ma ci ripensò
ancora una volta.
«Che
altro vuoi, Arsène?!», sbottò
esasperato Mycroft, le mani posate sulla nuca.
Il ladro si
tolse il tappo della stilografica dalla bocca e, serissimo, rispose:
«Voglio incontrare il Vento dell'Est».
Mycroft si
esibì in una rarissima espressione di sorpresa ed
impiegò diversi secondi per riprendersi e guardarlo con
rabbia.
«No.
Assolutamente no. Le sono bastati cinque minuti con Moriarty per
stravolgere la vita di Sherlock, non oso nemmeno pensare che
cosa...».
«Poco
fa non hai detto che non sono un criminale?», lo interruppe.
«No,
ho detto che non sei un criminale come
gli altri!».
Arsène
alzò le mani in segno di resa e a passi lenti, senza mai
interrompere il contatto visivo, lo raggiunse dall'altro lato del
tavolo per poter parlare a bassa voce e con tono quasi rassicurante.
«Anche
se firmassi quei fogli niente mi cancellerà dalla mente
ciò che so. Potrei andare a farle visita da solo e nemmeno
te ne accorgeresti, o lo faresti quando sarebbe ormai troppo tardi.
Questo lo sai. Perciò non credi che sia meglio con te come
supervisore?».
Mycroft
chiuse gli occhi e pensò alle terribili scelte che aveva
commesso, ben deciso a non volerne fare altre. Riaprì gli
occhi e sospirando col naso annuì con un cenno del capo a
cui Arsène rispose con un veloce abbraccio. Il ladro poi si
voltò, si allungò sul tavolo per recuperare penna
e documenti e firmò con la sua calligrafia elegante e
svolazzante.
Con lo
stesso sorriso eufurico di un bambino ad un parco divertimenti
esclamò: «Allora, quando partiamo?».
«Subito»,
rispose mogio Mycroft. «Prima è, meglio
è. Devo solo chiamare il pilota».
Arsène
sussultò a quelle parole. «Pilota?».
Mycroft si
voltò, confuso, ma quando lesse sul suo volto la paura si
ritrovò a sogghignare. «Sherrinford si trova su
un'isola, pensavo lo sapessi».
«Certo,
ma è proprio necessario volare? Non potremmo... che so,
andare in nave?».
«Ci
metteremmo troppo. Ma non ti preoccupare, ti terrò la mano
per tutto il tempo».
Arsène
strinse i denti e si infilò il cappotto per seguirlo fuori
dalla casa.
«Molto
divertente», borbottò e guardò il cielo
sperando in una bufera di neve, ma il sole del pomeriggio splendeva in
un cielo incredibilmente sgombro per il periodo.
Arsène
scese dall'elicottero e rimase per qualche secondo accucciato a terra,
con le mani strette a pugno nella sabbia e gli occhi chiusi, il respiro
che andava a ritmo delle onde che si infrangevano sulla riva.
«Non
vomiterai, spero», esclamò Mycroft.
Il ladro lo
azzittì in francese e poco dopo si sollevò, si
sfregò le mani per levare i granelli di sabbia dai
guanti candidi e poi lo raggiunse alzando il bavero del cappotto
grigio.
Mycroft non
commentò il suo comportamento orgoglioso - d'altronde c'era
abituato con suo fratello - e dalla spiaggia, dove li attendevano
diversi uomini armati e il nuovo direttore, furono scortati all'interno
della struttura di contenimento top secret nella quale erano rinchiusi
i peggiori criminali mai visti, la feccia della feccia, gli
irrecuperabili il cui unico scopo era quello di servire - in svariati
modi - il governo britannico.
Una volta
superati diversi livelli di sicurezza raggiunsero il cuore della
prigione e infine la cella di vetro di Eurus Holmes, la quale, con
indosso la solita divisa bianca e i lunghi capelli sciolti, dava loro
le spalle.
Arsène
si avvicinò piano, scrutandola con le stesse movenze di un
felino, e si fermò quando raggiunse la linea tratteggiata
sul pavimento. Nonostante ci fosse un vetro antiproiettile a dividerli
era comunque richiesta una distanza di sicurezza: questo a
dimostrazione di quanto quella donna fosse pericolosa.
Le luci si
accesero sopra la sua testa, rendendo l'ambiente ancora più
claustrofobico, ed Eurus si alzò dalla panca di pietra per
osservare il nuovo visitatore.
«Sorella,
ti presento Arsène Lupin», ruppe il silenzio
Mycroft, schiarendosi la gola. «Arsène, questa
è mia sorella minore, Eurus».
Arsène
sollevò una mano in segno di saluto, le labbra tirate.
«Non posso dire che è un piacere, lo
ammetto».
La donna
non sbatté nemmeno le palpebre e il ladro guardò
il maggiore degli Holmes in cerca di spiegazioni.
«Si
rifiuta di parlare con chiunque. L'unico che riesce a comunicare con
lei, tramite il violino, è Sherlock».
Arsène
accettò quella risposta e tornò ad osservarla. I
due rimasero in silenzio a guardarsi per più di trenta
secondi, fino a quando il Ladro Gentiluomo non sospirò
esclamando: «No, non ci riesco. Mi dispiace».
«Di
che cosa stai parlando?», gli domandò Mycroft,
aprendo e stringendo i pugni dietro la schiena, in ansia.
Ma
Arsène non lo degnò nemmeno di uno sguardo ed
abbozzando un sorriso riprese: «Ed è buffo, lo
sai? Perché proprio questa mattina ho detto a Sherlock di
credere nelle seconde occasioni, mentre lui sostiene che certi errori
non possono essere perdonati. Guardandoti, cercando di immaginare i
motivi per cui hai fatto soffrire così tanto Sherlock... non
riesco proprio a perdonarti. I ruoli si sono invertiti, a quanto pare.
Spero almeno tu ti renda conto di che fortuna sfacciata hai avuto
nell'avere due fratelli del genere». Le rivolse un'occhiata
severa e le puntò il dito contro: «Comunica questo
a Sherlock la prossima volta che viene a trovarti».
Arsène
abbassò lo sguardo, scuro in volto, e fece per tornare da
Mycroft, bisognoso d'aria, ma successe qualcosa di incredibile: Eurus
parlò.
«All’ombra
de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto
è forse il sonno / Della morte men duro?»,
recitò con voce monocorde, arrochita dal lungo silenzio ma
decisa, con l'unico intento di attirare la sua attenzione. La ottenne.
Arsène
si paralizzò sul posto, gli occhi sbarrati e un brivido ad
attraversargli la spina dorsale. Si girò piano ed
incrociando il suo sguardo, ancora fisso su di lui, riprese da dove lei
si era interrotta: «Ove
più il Sole / Per me alla terra non fecondi questa / Bella
d’erbe famiglia e d’animali».
E insieme
conclusero quei primi, famosi versi dell'opera "Dei Sepolcri" di Ugo
Foscolo: «E
quando vaghe di lusinghe innanzi / A me non danzeran l’ore
future, / Nè da te, dolce amico, udrò
più il verso / E la mesta armonia che lo governa».
Arsène
si ritrovò col volto rigato di lacrime e se lo
asciugò distrattamente col fazzoletto da taschino, tanto
sconvolto ed investito dai ricordi da tremare.
Durante le
settimane trascorse come prigioniero di quei trafficanti di bambini, i
quali venivano venduti oppure sfruttati in un giro di prostituzione
minorile, Raoul aveva avuto tra i suoi numerosi clienti fissi un
professore di letteratura il quale aveva preso l'abitudine di portargli
in regalo delle raccolte di poesie.
La prima
volta che si era imbattuto in quel componimento poetico non ci aveva
capito molto - aveva solo tredici anni allora - ma era rimasto
affascinato dai significati che era riuscito a cogliere. L'aveva letto
e riletto, tanto da impararlo a memoria in francese quanto in italiano,
e quando, dopo il primo tentativo fallito di fuga, uno dei bambini
più piccoli gli aveva chiesto di cantargli una ninna nanna,
le parole di quella poesia erano state le prime gli erano venute in
mente. Così era nata la canzone che canticchiava sottovoce
quando era nervoso o preoccupato: lo calmava all'istante.
Poche
persone conoscevano quella storia - tra cui Victoire e Clotilde - e non
si spiegava come Eurus Holmes avesse scoperto quel dettaglio
così intimo della sua vita passata. Che fosse davvero
così intelligente come gli aveva detto Mycroft durante il
breve viaggio in elicottero? Tanto da sembrare all'apparenza divina?
Arsène,
sotto lo sguardo confuso e sempre più agitato del maggiore
dei fratelli Holmes, si riavvicinò al vetro e quella volta
oltrepassò la linea per posare una mano sulla superficie
trasparente.
«E
così mi conosci», le sussurrò, tirando
su col naso con un lieve sorriso. «Questo non cambia le cose
però. Devi dire a Sherlock che ti dispiace per aver ucciso
il suo migliore amico, per averlo ingannato e per averlo costretto a
strapparsi il cuore dal petto. Va bene anche una bugia per quanto mi
riguarda. Fallo come regalo di Natale».
Il Vento
dell'Est annuì con un brevissimo cenno del capo e Lupin,
ritenendosi soddisfatto, si allontanò dal vetro. La sua voce
lo raggiunse di nuovo quando aveva ormai affiancato Mycroft.
«Grazie
per averlo salvato, diciassette anni fa».
Arsène
abbassò il capo, scosso da una lieve risata. «Come
diavolo fai?».
«Salvato?
Di che sta parlando?», gli chiese Mycroft, pallido.
«Il
passato è passato», replicò, posandogli
una mano sulla spalla. Poi, rivolgendo lo sguardo verso Eurus,
aggiunse: «Non c'è bisogno che mi ringrazi.
È stato un piacere».
«Esigo
delle spiegazioni», disse ancora Mycroft, contenendo a stento
la rabbia.
Arsène
sbuffò e lo prese a braccetto per avviarsi verso
l'ascensore.
«Sherlock
mi ha chiesto di mantenere il segreto, non parlerò di certo
dopo diciassette anni».
Salirono e
prima che le porte si chiudessero il Ladro Gentiluomo salutò
Eurus con un cenno della mano, senza però riuscire a
liberarsi dell'idea che lui fosse proprio come lei: imprigionato sotto
una campana di vetro, inavvicinabile per chiunque tranne poche, rare
eccezioni. Entrambi erano rimasti due bambini, feriti nel corpo e
nell'anima da quel mondo che non li comprendeva, e in qualche modo
Sherlock era riuscito ad avvicinarsi ad entrambi, facendo da tramite ed
aiutandoli a sentirsi meno soli.
«Arsène...».
Il ladro
sbatté le palpebre, tornando alla realtà, e si
rese conto di aver ripreso a piangere. Guardò Mycroft con la
coda dell'occhio e si asciugò le lacrime col fazzoletto.
«Sto
bene», mentì abbozzando persino un sorriso.
«Grazie per avermi portato qui, è stato molto...
istruttivo».
Holmes
sospirò. «Mi prometti che manterrai il
segreto?».
«Non
ti preoccupare, sono bravo a mantenere i segreti».
Gli diede
un'altra pacca sulla spalla e gli strizzò l'occhio, poi
uscì dalla porta blindata ringraziando gli uomini di guardia
sollevandosi un cilindro invisibile.
Arsène
venne inglobato dalla luce del sole e Mycroft lo guardò
aprire le braccia, il volto alzato al cielo, e respirare avidamente.
Era inutile però: menti come le loro, e lui lo sapeva bene,
avrebbero sempre avvertito il mondo circostante come una prigione.
***
Ganimard
salì all'ultimo piano del comando ed entrò
nell'ufficio di Dudouis. Si avvicinò alla scrivania e prese
il segnaposto placcato d'oro con scritto il nome dell'Ispettore Capo,
lo strinse tanto forte tra le mani da sbiancarsi le nocche e poi si
diresse verso la finestra da cui poteva vedere in lontanza la Torre
Eiffel illuminata a festa, ancora più bella nel cielo venato
dei colori del tramonto: rosa, viola e blu.
Era
contento che Sherlock fosse stato scagionato da ogni accusa, ma non
aveva osato chiedere a lui o peggio ancora a Mycroft come fosse morto
Magnussen: non l'avrebbe sopportato se avesse scoperto di essere stato
ingannato da qualcun altro che aveva preferito agire al di sopra della
legge perché era più facile, o più
proficuo. Anche lui si sarebbe risparmiato un sacco di drammi se avesse
lasciato perdere la battaglia intrapresa contro Arsène
Lupin, ma ne andava della sua integrità di poliziotto. Gli
avevano insegnato che la legge era uguale per tutti e ci credeva
fermamente, per questo sarebbe stato un dolore troppo grande se
Sherlock si fosse rivelato un assassino.
Un leggero
bussare contro lo stipite lo fece voltare verso la porta aperta, dove
incrociò lo sguardo di Folefant.
«Che
cosa ci fai tu qui?», gli domandò Ganimard.
«Non ce l'hai la ragazza?».
Il giovane
scosse il capo, senza perdere il sorriso.
«Nossignore».
«Meglio
così», sussurrò, così piano
da non essere sentito.
«Sono
venuto a cercarla perché ho appena ricevuto una chiamata da
Sherlock Holmes. Ha detto che ha provato a chiamarla, ma...».
«Ho
dimenticato il cellulare a casa», mentì.
«Che cosa voleva?».
«Avvisare
che Arsène Lupin rienterà a Parigi nella notte.
Non sa ancora con quale mezzo, ce lo farà sapere».
Ganimard
grugnì in segno di assenso e tornò a guardare la
sua città, quella città bella e maledetta che col
suo fascino avrebbe attirato a sé chiunque vi fosse nato e
cresciuto, senza distinzione di razza, ceto sociale o fedina penale.
«Va
tutto bene, ispettore?», gli chiese ad un tratto Folefant,
cauto.
«No,
non va tutto bene», ammise.
«C'è...
C'è qualcosa che posso fare per lei?».
Ne dubitava. Dopo le vacanze Dudouis avrebbe rivelato alla stampa di
essere stato nel libro paga di Arsène Lupin, si sarebbe
addirittura addossato la colpa della sua evasione salvandolo
così da un ulteriore scandalo, e poi, non contento,
l'avrebbe proposto come suo successore al posto di Ispettore Capo.
Justin si
voltò e gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi.
«Potresti rispondere ad una domanda con
sincerità?».
«Sempre,
ispettore».
A quella
risposta Ganimard si avvicinò alla poltrona di Dudouis, la
girò verso di sé e vi si lasciò cadere
con tutto il proprio peso, poi la ruotò verso la scrivania e
con le mani intrecciate sullo stomaco gli chiese: «Mi ci vedi
come Ispettore Capo, Marcel?».
La domanda
lo stupì tanto che non riuscì a dare una risposta
immediata. Inoltre, il cellulare dell'ispettore iniziò a
squillare nella tasca interna della giacca - smascherando la sua bugia
sul perché non avesse risposto alla chiamata di Sherlock
Holmes - e gli impedì di parlare.
«Cèlestine»,
esclamò l'uomo, raddrizzandosi sulla poltrona.
«Ciao, va tutto bene? Stasera? Ma sì, certo, va
benissimo. Sarei pazzo a rifiutare. Allora a dopo».
Con gli
occhi più sereni, Ganimard si alzò e fece il giro
della scrivania per andare a posare la mano sulla spalla destra del
poliziotto.
«Pensaci,
per favore», gli disse. «Hai tempo fino alla fine
delle vacanze di Natale per darmi una risposta».
Dopodiché
uscì dall'ufficio e con una sigaretta tra le labbra
andò alla ricerca di un fioraio ancora aperto.
***
Molly,
ferma davanti alla finestra che dava sulla strada, fu scossa da un
brivido quando alle dieci in punto un SUV nero si fermò
davanti al suo palazzo. Ne scese un uomo vestito in giacca e cravatta,
dalle spalle larghe e la testa rasata, il quale senza esitazioni
alzò gli occhi verso la sua finestra per rivolgerle un
timido sorriso nonostante la stazza. Non c'erano dubbi: era uno degli
uomini di Arsène.
Lasciò
andare la tenda e si appoggiò allo schienale del divano con
le mani, gli occhi stretti a frenare le lacrime. Quando si
tirò su andò a passo sicuro verso la propria
camera da letto, dove aveva già preparato un trolley con
dentro l'indispensabile.
Senza
soffermarsi a guardare all'interno della camera degli ospiti in cui,
più di una volta, aveva trovato Sherlock rannicchiato sul
letto, tornò in salotto trascinandosi dietro quella valigia
che sembrava contenere il peso del mondo.
Anche il
salotto e la cucina erano pieni di ricordi che lo riguardavano,
perciò cercò di concentrarsi su quelli in cui lui
non c'era: quando aveva fatto entrare Arsène per la prima
volta, quando avevano cenato insieme a Geneviève, quando
aveva trovato padre e figlia seduti sotto l'albero di Natale che
avevano addobbato per farle una sorpresa e quando lei e il ladro si
erano ritrovati insieme su quel divano a parlare fino a notte fonda.
Un sorriso
le increspò le labbra salate per via delle lacrime che alla
fine non era riuscita a trattenere, ma quando spense le luci del finto
abete i ricordi in cui Sherlock era il protagonista tornarono a
prevalere, prepotenti e dolorosi.
Spostò
gli occhi verso il bancone in marmo dell'isola della cucina, lo stesso
bancone dietro il quale quel giorno si stava preparando il
té e il detective più famoso d'Inghilterra le
aveva chiesto di dirgli "Ti amo".
Si
portò le mani sulla bocca per soffocare i singhiozzi e
rimase così, ferma immobile, per diversi secondi.
Raccimolando il coraggio aprì la porta e senza
più guardarsi indietro portò fuori il trolley.
Chiuse a chiave e poi andò dalla sua vicina, la quale si
presentò in vestaglia.
«Tesoro,
che cosa ti è successo?», le chiese la signora Lee
non appena si accorse delle sue condizioni, preoccupata.
«Non
è nulla», cercò di rassicurarla
stirando un sorriso. Quindi le porse le chiavi del suo appartamento e
una busta chiusa: «Devo andare via per un po'. Se qualcuno
dovesse cercarmi può dargli questa da parte mia?».
«Qualcuno?
Qualcuno chi, cara?».
Molly
sorrise amaramente. «Non so nemmeno se passerà.
Adesso vado, grazie di tutto e scusi se l'ho disturbata a
quest'ora».
«Ma
no, figurati...».
L'anziana
rimase sulla porta fino a quando le porte dell'ascensore non si
chiusero e Molly, guardandosi allo specchio, si asciugò il
volto ed assunse un'espressione decisa.
Non c'era
tempo per i ripensamenti. Doveva pensare a se stessa, pensare a stare
bene, e aveva preso la decisione giusta.
Aperta la
porta dell'androne, l'uomo di Arsène le andò
incontro per aiutarla col trolley e mentre lo seguiva le
suonò il cellulare nella tasca del cappotto.
Rimani.
SH
E
così Arsène l'aveva avvisato.
Molly
strinse forte il cellulare e guardò il cielo scuro in cui
non brillava nemmeno una stella. Il suo sospiro si condensò
in una nuvoletta di vapore.
«Andiamo,
miss Hooper?», le chiese l'autista, aprendole la portiera del
SUV.
Questa
volta un SMS non era sufficiente.
Molly
annuì con un cenno del capo e salì sul mezzo.
L'uomo si sedette dietro il volante e mise in moto, ma dopo appena un
paio di metri fu costretto a frenare a causa di un'auto sportiva color
rosso scuro che sopraggiunse a folle velocità e con una
sgommata si fermò di traverso in mezzo alla strada,
impedendo loro di passare.
Molly si
sporse tra i sedili anteriori per vedere chi ci fosse alla guida e
riconobbe immediatamente Sherlock, per questo fermò l'uomo
di Lupin quando questi si infilò la mano destra all'interno
della giacca, molto probabilmente per estrarre una pistola.
«Ci
penso io», lo rassicurò e scese dal SUV per andare
incontro al detective, il quale era sceso dall'Aston Martin della
signora Hudson e si stava arruffando i capelli con una mano.
«Che
cosa pensi di fare?», lo fronteggiò, stupendo
persino se stessa per l'aggressività della sua voce.
«Ti
impedisco di commettere l'errore più grande della tua
vita».
«Oh,
grazie ma no, grazie. Levati di mezzo, per favore».
Gli aveva
già dato le spalle, intenzionata a risalire sul SUV che
l'avrebbe portata lontana da lui una volta per tutte, quando il
detective l'afferrò per il polso e l'attirò a
sé fino a trovarsi petto contro petto e i volti a pochissimi
centimetri di distanza l'uno dall'altro.
«Sherlock,
ti prego...».
Ma lui non
la lasciò continuare: le portò una mano sulla
nuca e la baciò sulle labbra, quasi con irruenza. Molly fu
altrettanto rigida all'inizio, ma lentamente si sciolse e senza osare
approfondire quel contatto gli portò semplicemente le mani
fredde ai lati del viso.
L'aveva
sognato centinaia, migliaia di volte ed era proprio come nei film
strappalacrime che le piacevano tanto, se non addirittura meglio.
Quando
Sherlock si scostò aprì gli occhi azzurri per
incrociare i suoi e le ripeté a parole:
«Rimani».
Dopo quel
bacio era chiaro che sarebbe rimasta, ma quella era forse l'unica
occasione che aveva per farsi dire la verità.
«Perché
dovrei?», gli domandò.
«Perché
ho bisogno di te nella mia vita, Molly Hooper. Adesso non
c'è tempo, ma ti prometto che ti spiegherò tutto
quanto».
Molly
inarcò le sopracciglia, circospetta.
«Tutto?».
«Tutto,
te lo prometto».
«Va
bene allora. Rimango».
Sherlock
sorrise e quel sorriso le fece mancare un battito: non tanto
perché era ancora più bello quando era felice, ma
perché ne era lei la causa.
Si
allontanò dal suo corpo caldo, nonostante fosse l'ultima
cosa al mondo che volesse fare, e andò dall'uomo di Lupin
per rifiutare i suoi servigi. Mentre lui le recuperava il trolley dal
bagagliaio, Sherlock prese qualcosa dal sedile del passeggero e lo
consegnò all'autista: un regalo di Natale, con tanto di
fiocco rosso.
«Potresti
consegnarlo a Geneviève da parte mia?», gli chiese
Sherlock.
Il membro
della banda del Ladro Gentiluomo afferrò con cautela il
pacco e dal bagagliaio ancora aperto estrasse un affare simile ad un
metal detector portatile.
«Non
si tratta di una bomba», gli disse il consulente
investigativo, un po' annoiato.
L'uomo
però non si fidò e lo esaminò
comunque. Quando fu sicuro che non si trattasse di una minaccia per la
sicurezza della figlia del suo capo o del suo staff, promise che
gliel'avrebbe portato.
«Grazie
tante. Arrivederci!».
Sherlock
afferrò Molly per mano e la trascinò all'auto
sportiva. Incastrò il suo trolley nel bagagliaio, poi si
mise al volante e fece ruggire il motore.
«Dove
andiamo?», gli domandò l'anatomopatologa, confusa
e al contempo eccitata.
«A
prendere John».
«E
poi?».
Il
detective sogghignò e tirò fuori dalla tasca del
cappotto il cellulare, sul cui schermo si vedeva una mappa con un
puntino che stava iniziando a muoversi. Molly corrugò la
fronte e solo quando il SUV svoltò nella traversa alle loro
spalle capì che Sherlock doveva aver messo un localizzatore
GPS in quel pacco regalo.
«Andiamo
a salutare Geneviève», le disse, confermando la
sua ipotesi.
L'anatomopatologa
sorrise a sua volta e si abbandonò contro il sedile, felice
come non si sentiva da tanto, troppo tempo.
Aveva
iniziato a perdere le speranze, ma adesso non aveva più
dubbi: i lieto fine esistevano davvero.
***
«Mangia
i tuoi broccoli, Théa».
La
più piccola mise su il broncio e scosse il capo. I suoi
riccioli scuri seguirono ogni suo movimento in modo così
adorabile che Ganimard le portò una mano sulla testa per
accarezzarli e poi si chinò verso di lei facendo
l'occhiolino ad Emélie, la maggiore.
«Mamma,
allora pensi che quest'anno Babbo Natale ci porterà tutti i
regali che abbiamo chiesto?», le domandò e
Cèlestine la guardò sorridendo.
«Siete
state delle brave bambine?».
Sfruttando
la sua distrazione, Justin aprì la bocca e fece segno a
Théa di imboccarlo. La bambina si coprì la bocca
con una mano per non ridere e riempì la bocca del padre con
i broccoli, ma la madre si voltò prima del previsto e li
sorprese.
«Che
furfanti!», esclamò fingendosi arrabbiata, con le
mani sui fianchi, e reprimendo faticosamente un sorriso.
Ganimard
masticò rischiando di soffocarsi per la risata contagiosa
delle figlie ed incrociando gli occhi dell'ex-moglie le
lanciò uno sguardo carico d'amore a cui lei rispose
arrossendo e sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli
rossi.
In
quell'istante il suo cellulare iniziò a suonare sul bancone
da bar che divideva salotto e cucina e le risate di Théa e
Emélie si spensero. Justin si alzò e lo prese per
controllare chi lo stesse cercando: Folefant. Probabilmente Sherlock
gli aveva fatto sapere con quale mezzo Arsène Lupin sarebbe
tornato in patria.
«Papà,
devi andare al lavoro?», domandò la più
piccola, con gli occhi tristi.
Ganimard
rifiutò la chiamata e non contento spense il cellulare;
quindi sorrise alla figlia ed accarezzando anche i capelli di
Emélie tornò a sedersi.
«Possono
cavarsela anche senza di me», rispose e lo sguardo che
Célestine gli rivolse fu lo stesso di quando aveva detto
«Sì» alla domanda: «Mi vuoi
sposare?». Al contempo però era anche triste,
perché se solo l'avesse capito prima che bastava quello per
farla felice - non sempre, giusto ogni tanto - allora si sarebbero
risparmiati un sacco di dolore.
«Allora,
dov'eravamo rimasti?», esclamò risedendosi.
«Li finiamo quei broccoli?».
Théa
guardò i piccoli alberelli nel suo piatto, ne prese uno tra
le dita e se lo portò alle labbra per sbocconcellarlo.
«Brava
la mia bambina», le disse Justin, baciandola sul capo.
***
La banchina
del binario da cui sarebbe partito l'Eurostar diretto a Parigi non era
affollatissima visto l'orario, ma diversi passeggeri erano stati
accompagnati da familiari o amici che ora stavano attendendo la
partenza comunicando a gesti attraverso i finestrini. Anche
Geneviève avrebbe voluto qualcuno da salutare, ma sapeva che
non sarebbe mai successo.
«Va
tutto bene, bonbon?».
La
ragazzina si voltò verso Victoire, seduta di fronte a lei ed
intenta a sferruzzare una lunga sciarpa che, le aveva già
anticipato, sarebbe stata il suo regalo di Natale per lei.
«Sì,
è solo questa parrucca... Mi dà fastidio! Era
proprio necessaria?».
La donna le
allontanò delicatamente la mano con cui si stava grattando
la testa. «La polizia ti sta cercando, perciò
sì, è necessaria».
Geneviève
sbuffò e sfruttò il riflesso del finestrino per
osservare quell'irriconoscibile se stessa: oltre al finto caschetto
nero portava un paio di occhiali squadrati che François
aveva molto apprezzato e Victoire le aveva disegnato delle lentiggini
sul naso e sugli zigomi. Chiunque avrebbe avuto difficoltà a
riconoscerla, chiunque tranne forse...
«Sherlock
Holmes mi ha chiesto di consegnarle questo, signorina».
La
ragazzina trasalì e fissò il pacco regalo che
Ernest le stava porgendo. Stese le mani per afferrarlo, ma Victoire la
batté sul tempo e prima ancora che potesse aprire bocca
aveva già strappato via la carta a tema natalizio con cui
erano state impacchettate un paio di grosse cuffie bluetooth di un
bellissimo rosso lucido.
«Ehi,
dammelo subito!», riuscì ad urlare alla fine,
senza preoccuparsi di attirare l'attenzione degli altri passeggeri: non
sapeva come, ma suo padre aveva prenotato un'intera carrozza per la sua
banda.
«Da
quanto tempo lavori per mio figlio, Ernest?»,
domandò con fare autoritario Victoire.
«Un
anno, signora».
«Ora
capisco perché ti sei fatto fregare».
«Che
cosa...?», iniziò a chiedere Geneviève,
ma si bloccò quando la donna tirò fuori quella
che sembrava in tutto e per tutto una pedina da dama, solo elettronica
e con una lucetta rossa che si accendeva e spegneva ad intermittenza.
«Asino!»,
lo rimproverò ed alzandosi pestò il piccolo
segnalatore GPS, rompendolo in mille pezzi. Poi si toccò
dietro l'orecchio con naturalezza e con voce di nuovo composta
esclamò: «Caro, siamo in pericolo».
Arsène
dovette chiederle quale fosse il problema, al che Victoire rispose:
«Sherlock Holmes potrebbe essere già
qui».
Ed era
proprio così. Geneviève vide il detective correre
verso il loro binario e non era solo: con lui c'erano John Watson,
Rosie e Molly Hooper. Senza pensare alle conseguenze, la ragazzina si
alzò e sgusciò tra gli uomini di suo padre prima
che Victoire potesse gridare loro di fermarla. Raggiunse la porta del
treno, ma fu lì, ad un passo dall'uscita, che si
imbatté in un ostacolo che non poteva in alcun modo
superare: suo padre.
«Il
treno sta per partire, signorina», le disse pacato, ma con
espressione intransigente.
«Ti
prego, io... devo salutarli», sussurrò, sull'orlo
delle lacrime. «Ci metterò due minuti. Solo due
minuti, te lo prometto».
«Geneviève!»,
gridò Sherlock e lei, sentendosi chiamare, passò
sotto il braccio di suo padre per saltare sulla banchina e gettarsi al
collo del detective, il quale la afferrò e le fece fare
addirittura una mezza giravolta.
«Abbiamo
fatto in tempo, menomale», esclamò John, sollevato.
Sherlock la
riportò coi piedi per terra e la guardò in volto,
asciugandole la lacrima che le era scivolata sulla guancia.
«Così
ti si rovina il trucco», le disse con un lieve sorriso sulle
labbra.
Lei
ridacchiò e si scostò a sua volta per lasciarsi
stringere da Molly, la quale le baciò la fronte e poi,
massaggiandole le braccia, mormorò: «Quello che in
realtà voleva dire Sherlock è che sei
più bella quando sorridi».
«Sì,
l'avevo immaginato».
Giunta
davanti al dottor Watson, suo zio, osservò la sua mano stesa
e la strinse impacciata.
«So
che non abbiamo legato molto in queste settimane, però
voglio che tu sappia che fai parte della famiglia ora e che ci
sarà sempre posto per te a casa mia. Intesi?».
Geneviève
annuì e non riuscì a tenere a freno le lacrime,
per questo gettò le braccia intorno al suo collo e nascose
il volto contro la sua spalla. John, preso alla sprovvista,
impiegò un paio di secondi per ricambiare la stretta ed
accarezzarle la schiena.
«E
tu, Arsène? Hai davvero intenzione di andartene senza
salutare?».
Il
controllore che fino ad allora era rimasto in attesa sulla porta della
carrozza alzò lentamente il capo ed arricciò il
naso sopra i finti baffi biondi.
«Sei
davvero fenomenale, Molly Hooper», esclamò e
scendendo le scalette si tolse il cappello della compagnia ferroviaria,
rivelando i suoi capelli biondo platino e quegli occhi verdi
così vivaci e resi lucidi dalle lacrime.
L'anatomopatologa
lo strinse forte tra le braccia ed alzandosi in punta di piedi gli
sussurrò all'orecchio: «Mi ha baciata».
«Se
stai cercando di farmi ingelosire complimenti, ci stai
riuscendo».
Ovviamente Molly non poteva sapere che quella frase valeva tanto per
lei quanto per Sherlock, avendo entrambi rubato un pezzo del suo cuore.
Arsène
cercò lo sguardo del detective, il quale corrugò
la fronte domandandosi di che cosa stessero parlando, e sorridendo
aggiunse: «Sono felice per te, Molly. Lo terrai d'occhio, oui?».
«Certo.
Grazie di tutto». Gli lasciò un bacio sulla
guancia e sciolse l'abbraccio, ma prima di allontanarsi del tutto
esclamò: «Salutami Raoul, va bene?».
Il Ladro
Gentiluomo sorrise e le strizzò l'occhio.
«Sarà fatto».
Mentre lei
raggiungeva Geneviève e Rosie, John si avvicinò
per stringergli la mano.
«È
stato un piacere conoscerti, dottore», esordì
Arsène.
«Anche
per me».
«Dici
sul serio?».
L'ex-soldato
si strinse nelle spalle, incerto. «L'ho detto una volta,
fattela bastare».
«Capisco.
Grazie per avermi salvato».
John
scrollò il capo e lasciò il posto a Sherlock. Si
scrutarono per qualche secondo, poi incredibilmente fu il detective a
fare il primo passo aprendo le braccia. Arsène non se lo
fece ripetere due volte e strinse i pugni sulla sua schiena, il mento
posato contro la sua spalla sinistra.
«Chi
è Raoul?», gli domandò Sherlock.
«Stai
rovinando il momento».
«È
la mia specialità. Allora, chi è?».
«Un
amico».
«Pensi
che un giorno potrò conoscerlo?».
Arsène
si allontanò quel tanto che bastava per poterlo guardare
negli occhi.
«Un
giorno, forse».
Sherlock
abbassò lo sguardo, come se si vergognasse, e disse a bassa
voce: «Tu hai mantenuto la tua promessa, mentre io non sono
riuscito a fare la mia parte. Mi dispiace».
«Ne
sei proprio sicuro?».
Il
detective alzò il capo, le labbra dischiuse, ma una voce
femminile annunciò che il treno stava per partire,
interrompendolo sul nascere.
Arsène
si costrinse a sciogliere definitivamente l'abbraccio e porse la mano
alla figlia, la quale la afferrò e sorrise guardando i volti
delle tre persone che in poche settimane erano diventate tra le
più importanti e care per lei.
«Grazie
di tutto», disse inchinandosi come una vera lady.
Il Ladro
Gentiluomo, nascondendo l'orgoglio, la accompagnò fino alla
carrozza e le tenne la mano fino a quando non furono entrambi a bordo.
Arsène
si voltò un'ultima volta e guardando Sherlock
esclamò: «Sai, oggi pomeriggio ho conosciuto tua
sorella. Per essere uno che non crede nelle seconde
occasioni, devi volerle davvero molto bene».
«Sherlock
ha una sorella?», fu il commento di Molly, rivolta a John.
La porta
della carrozza si chiuse, impedendo loro di sentire la sua risata
cristallina.
Sherlock e
Arsène si scambiarono un ultimo sguardo e il detective gli
fece segno di controllarsi la tasca della giacca. Il ladro lo fece e i
suoi occhi si riempirono di lacrime nel ritrovarsi tra le dita il
crocifisso della madre. Se lo portò alle labbra in un bacio
e poi aprì la bocca per ringraziare il detective, ma il
treno aveva già iniziato a muoversi.
John e
Molly salutarono con la mano Geneviève, la quale si stava
sbracciando da dietro il finestrino, poi rimasero per qualche secondo
in silenzio a fissare la coda del treno che veniva inghiottita dal buio.
«Da
quando hai una sorella?», ripeté la domanda Molly,
quella volta ponendola direttamente al consulente investigativo, il
quale alzò gli occhi verso la volta di vetro sopra le loro
teste.
«Sarà
una lunga notte», dedusse.
Quindi cinse le spalle della scienziata con un braccio e insieme a John
e Rosie uscirono dalla stazione di St. Pancras.
Note:
Scuola per giovani dotati = Istituto per giovani mutanti di Chales
Xavier, X-Men
Wammy's House = Istituto/orfanatrofio frequentato da L, detective di
Death Note
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