Capitolo
2 – La notte
del tempio
Era
scesa la notte e l'unica luce proveniva dalle sale inferiori del
tempio di Porcias.
Quel
santuario emanava una luce debole di candele in profondità.
Era il ritrovo dei fedeli del peccato, così chiamati, che di
notte si riunivano per svolgere il Kō.
Tra
tutti i riti religiosi, quello, era il più estremo.
Arrivava
al limite della decenza divina. I fedeli si riunivano e chiamavano la
loro dea più amata, Manius, che giungeva tra di loro facendo
iniziare il rituale. Il Kō si svolgeva sempre lontano dagli occhi
indiscreti, sia umani che divini. I fedeli della dea sapevano di
dover scegliere luoghi nascosti o protetti dalla sua sacra
benedizione. Una sola volta riuscii a scorgere uno di questi riti,
dalle vetrate del Palazzo. Dovetti far arrivare il mio sguardo molto
lontano, in un luogo talmente segreto da rendere perfino agli dei
difficile l'accesso. Non appena ebbi la possibilità di
osservare cosa stava avvenendo al suo interno subito ritirai l'occhio
per lo stupore. Ero sconvolto, la mia giovane grazia divina non era
pronta a simili visioni.
Quelli
non erano riti: erano giochi perversi dei più disparati,
anche
se, a quanto si dice, gran parte delle volte si limitassero a orgie
dove la dea si mescolava agli uomini di ogni terra.
Io
non avevo mai conosciuto quella dea, l'avevo solo vista più
volte nel Palazzo e ogni volta mi lanciava delle strane occhiate,
come se immaginasse chissà che cosa con me a fare da
protagonista. Lei era la dea di tutto ciò: della perversione
e
delle passioni carnali e forse dell'amore in ogni sua possibile
forma. Quando il grande padre la creo pensò proprio a questo
ruolo. Un ruolo adatto all'inclinazione degli umani, per liberare i
propri istinti e dedicarsi alla carne.
Lei,
per assecondare la sua posizione, possedeva il potere di mutare,
cambiare aspetto. Il suo volto e il suo corpo potevano trasformarsi
in qualsiasi momento e, ascoltando quanto dicevano i più, in
qualsiasi cosa. Non era però dedita alla guerra e questo
potere lo usava solo per mutarsi in uomo, o in donna, secondo le
occasioni. Però nelle varie occasioni in cui incontrava gli
dei, il suo aspetto era sempre il solito.
Appariva
come una donna giovane e bella, dal fisico asciutto, quasi atletico,
e la pelle rosea. I capelli erano lunghi e lisci, di un castano
brillante, mentre gli occhi di tinta scura mutavano in continuazione.
Inoltre era sempre vestita da uomo. Portava stretti pantaloni di
pelle, nera soprattutto, e camicie immacolate sbottonate in
più
punti. Personalmente non posso dire con certezza che questo fosse il
suo aspetto originale e neppure se fosse il suo genere, se mai sia
nata con un aspetto e un genere. Posso assicurare che io l'ho vista
quasi sempre in questo modo o comunque, l'ho sempre vista con quello
sguardo perverso che scruta ogni cosa.
Durante
i rituali, che si dividevano secondo il sesso delle persone presenti,
lei mutava in continuazione il suo aspetto.
In
quel momento si era appena scelta un partner con per continuare da
soli, lasciando il gruppo restante a continuare il gioco di gruppo,
quando i suoi occhi si mossero immediatamente individuando qualcosa
in uno degli angoli della stanza. La pelle si fece fredda e ruvida e
tutto il suo corpo s'irrigidì; poi l'attacco.
Il
braccio destro scattò verso quel punto, cercando il
bersaglio
tra le decine di corpi presenti. Da robusto arto umano dalla pelle
chiara si trasformò in serpente dalle tinte smeraldine.
Questo
saettò giungendo senza fallo alla vittima.
Il
panico si creò nella sala di pietra illuminata appena dalle
torce e ornata da mille tappeti e pellicce per evitare il freddo
contatto tra la pelle e le pareti o il pavimento. Le persone
schizzarono agli angoli, lontani da tutti, sia da quel serpente che
si era mosso fulmineamente tra loro sia dal corpo probabilmente
colpito. Urla, grida, lacrime e sguardi terrorizzati. Perfino quella
donna, che si trovava sotto il corpo della dea, era immobile e
incredula.
Manius
ritirò il braccio e riacquistò, alzandosi,
l'aspetto
tipico con cui era facile incontrarla, quello con il quale era
ricordata sulle statue. Il suo corpo nudo era illuminato appena ma la
sua voce risuonò chiara tra quelle mura.
“Come
osi arrivare fin qui, profanando uno dei riti in mio onore?”
era
irritata e furiosa, quello sguardo sempre leggero e malizioso era ora
carico di rabbia.
La
figura allora si alzò, distinguendosi dall'ammasso di corpi
che continuava a muoversi per allontanarsi. La luce era poca e i suoi
contorni erano sfuocati. Si poteva dire che forse era una donna.
Mentre rispondeva provò a coprirsi usando una delle pellicce
che si trovavano a terra. “Hai un occhio attento. Pensavo di
potermi introdurre liberamente in questi... 'riti', ma a quanto pare
mi hai scoperto subito” rise un poco rivelando un tono acuto
e
spiacevole.
La
dea perse una parte della sua rabbia acquisendo un tono meno duro ma
ugualmente serio. “Puzzi. Certi odori saltano subito al naso.
Non
ho bisogno degli occhi, basta seguire la tua scia”.
“Hai
anche un bel coraggio a dire questo” disse offesa quella
figura.
“Forse il tuo naso ci ha fatto l'abitudine ma questa stanza
non è
certo un giardino di rose”.
“Chiudi
quella bocca!” esclamò Manius interrompendola.
“Forse il
tuo naso ci ha fatto l'abitudine ma è il tuo alito a puzzare
tanto, Raffaella”. La dea sapeva già che il rito
era ormai
rovinato. Dopo un evento del genere le era passata la voglia di
continuare. “Adesso vattene”
Gli
uomini e le donne presenti nella sala sbiancarono e tentarono di
nascondersi, muovendosi in massa alle spalle della divinità.
“Non
sei molto gentile e comunque non posso andarmene: sono qui per
parlarti”
“Non
ho parole da spendere per te”
La
sagoma soffiò scaldandosi per il tono della padrona di casa.
“Aspetta che io abbia finito, prima di agitarti tanto. Sono
solo
poche parole”.
Maonis
mi venne a svegliare prima che il sole sorgesse. Potevo dire che
fosse ancora notte e il silenzio del Palazzo mi convinse di
ciò.
La
sua sagoma pelosa illuminata da una lanterna mi fece spaventare.
“Il
Grande Padre ti sta aspettando” mi disse solamente prima di
mettersi a raccogliere i vari fogli e tomi sparsi a terra per
ammucchiarli in un unico punto.
Se
dovevo scrivere un riassunto delle vicende di Maonis mi sarei
limitato a scrivere una storia dal titolo: “Il gatto grasso
che
imparò a parlare”. Alla fine era realmente
così.
Era
semplicemente un gatto troppo largo e lento per la sua specie, dal
pelo nero e gli occhi cristallini. Sulla punta delle zampe aveva poi
delle nuvole di bianco, sembravano degli schizzi di tintura sul pelo.
Era una divinità anche lui ma nessuno se ne ricordava.
Ricopriva il trono degli eccessi, però, ormai gli umani
avevano preso l'abitudine di confondere questo ruolo con quelli
già
posseduti da Manius e arrivarono a dimenticarlo.
Maonis
era comunque vivo e in pieno possesso dei suoi poteri. Era dispettoso
e si mostrava agli uomini come un gatto affamato, smilzo e
malridotto. Premiava chi si prendeva cura di lui e invece puniva chi
lo allontanava, lo ignorava o sbeffeggiava. Alla fine, credo,
possedesse dei poteri che andavano ben oltre il suo compito.
Rimaneva
alla fine sempre un gatto, ruffiano e pigro, e passava gran parte del
giorno a dormire nel Palazzo, soprattutto nelle mie stanze. Amava
adagiarsi tra le pergamene e i libri rimanendo a farmi compagnia
durante il lavoro. Io e lui eravamo in ottimi rapporti.
Quella
notte mi ero addormentato sulla scrivania, usando un vecchio tomo
ricoperto di pelliccia come cucino.
Se
il Grande Padre voleva la mia presenza era per qualcosa di
importante, forse voleva punirmi per il giorno precedente. Corsi tra
le sale ancora mezzo addormentato e forse sbagliai strada
più
volte. Alla fine, comunque, giunsi davanti all'enorme cancello dalle
porte celesti e piene di gemme incastonate, ognuna con un diverso
colore brillante.
Il
portone di apri da solo, lasciandomi entrare in una sala circolare.
C'era un'aria strana, che inebriava la mia essenza. L'esistenza
stessa di noi dei era confusa da quell'aria. La stanza era molto
piccola, rotonda e decorata con figure divine sulla pietra. Sulla
sinistra, subito dopo essere entrati c'era una sagoma. Era un
cavallo, bello e perfetto, il cui corpo posteriore diventava quello
di un serpente. Si ergeva sulla grande coda pronto a spaventare i
nemici. Era il Servallo.
Alla
destra, invece, c'era una sagoma diversa. Era un serpente, con le
fauci spalancate e pronte a divorare una preda. Il suo corpo, circa a
metà, si trasformava in una figura equina. Possedeva il
corpo
posteriore di un cavallo mentre busto e testa erano di serpente. Era
il Servallo.
Nessuno
poteva dire con certezza quale fosse la sua reale rappresentazione,
noi sapevamo solo che il Servallo era nato dall'unione impura di un
cavallo con una serpe. Come fosse il figlio era un mistero anche per
noi divinità. Solo il nostro Grande Padre poteva saperlo e
sospettavamo tacitamente tutti che lui stesso fosse il figlio di tale
unione, custode di tutti i segreti del mondo.
Il
pavimento era concavo, a formare una mezza sfera riempita d'acqua. Al
centro c'era una piattaforma rialzata sulla quale dovevamo ogni volta
salire.
Come
al solito lo feci, cercando di bagnarmi il meno possibile. Appena fui
sopra quell'altare, l'aria nebbiosa del santuario, si chiuse attorno
a me raggiungendo lo spiraglio più profondo del mio spirito.
“Hamuhamu”
sospirò una voce. Quella parola risuonò nella mia
mente.
Lui
parlava con i suoi figli in maniere sempre diverse, per assecondare
la loro natura. A Manius parlava tramite delle sensazioni, a Katyana
tramite dei sapori e a me sembrava di leggere delle parole scritte,
non che esse ci fossero veramente, ovvio.
Quello
con cui mi aveva chiamato era il mio nome ancestrale, che usavamo
solamente nelle occasioni solenni.
Non
risposi: quel richiamo serviva a fare in modo che entrassi in
contatto con lui.
“Devi
fare un piacere a me e ai tuoi fratelli” continuò.
Io, a
quel punto, mi rilassai, abbandonando l'agitazione iniziale. Ero
sollevato dal sapere che non mi aveva chiamato per la mia lotta
contro il demone.
“Ditemi,
Grande Padre”
“Sta
per accadere qualcosa. Devi abbandonare le tue stanze e
sopravvivere”.
“Perché
questo, Grande Padre? Non riesco a capire”.
Attesi
alcuni interminabili secondi la sua risposta.
“Devi
essere testimone degli eventi, Hamuhamu. Tu devi poter tornare e
scrivere tutto ciò che hai visto”.
“Sta
per scoppiare una guerra, Grande Padre?”.
“Non
posso prevederlo, Hamuhamu. Neppure io posso vedere quello che
accadrà con certezza. Il destino è mutevole.
C'è
un desiderio di vendetta, un antico rancore, che ha covato a lungo
nel cuore del suo portatore e ora vuole risvegliarsi”.
Rimasi
confuso. Non capivo cosa sarebbe potuto accadere. Forse stava per
nascere un'altra inutile grande guerra tra gli uomini, cosa che io
ogni volta dovevo osservare e descrivere con minuzia per gli archivi
del Palazzo divino.
Mentre
pensavo a queste cose, a capo chino, lui continuò:
“Stai
attento, Hamuhamu”.
A
questo punto interruppe la nostra conversazione. Quando riaprii gli
occhi, chiusi un attimo prima, mi trovai davanti alle porte di
cristallo. Fuori dalla stanza circolare, con il portone ben chiuso.
Nessuno poteva entrare senza essere chiamato.
Il
Grande Padre non era né onnipotente né
onnisciente,
questo era certo. Lui era solo una creatura ancestrale, saggia e
potente. Aveva creato noi dei, con i suoi poteri, per tenere sotto
controllo il mondo affinché non cadesse nell'oblio del caos.
Rimasi
paralizzato. Se un desiderio così grande stava per
risvegliarsi, una cosa che lui non riusciva a controllare o
prevedere, doveva trattarsi di qualcosa di grande e grave allo stesso
tempo. Per un istante pensai che non solo gli uomini ne fossero
coinvolti ma subito allontanai quell'idea.
Chi
mai poteva puntare a noi dei?
Non
avvertii nessuno, non ce n'era bisogno. Se il pericolo avesse
riguardato gli altri allora il Grande Padre stesso li avrebbe
chiamati. Io dovevo solo stare attento, ora. Scrutare l'orizzonte e
informarmi su ogni cosa.
Corsi
immediatamente verso le porte del Palazzo. La mia sagoma scivolava
tra corridoi e saloni come se fosse una brezza leggera entrata da
qualche apertura. Mi fermai solamente dopo aver superato il varco.
Il
Palazzo divino, dalla facciata di pietra bianca si trovava su una
montagna di roccia chiara, tinta di un grigio omogeneo. L'intera
reggia era retta nel cielo dalla divina essenza stessa del Grande
Padre e protetta da alcune leggere barriere. Non era raro, comunque,
che alcuni demoni lo raggiungessero, approdando al molo di pietra.
Il
molo era la parte più bassa del castello. Era un lungo
braccio
di pietra che conduceva a una strada in ripida salita, tra scalinate
e piccoli santuari, alla fine della quale stava il Palazzo. Lo si
poteva raggiungere usando dei portali magici o dei varchi casuali
creati dalle distorsioni residue dopo un incantesimo di immane
potenza. Qualsiasi strada, comunque, avrebbe condotto solo al molo di
pietra; la stessa magia del Grande Padre rendeva quello l'unico
approdo.
Dopo
il molo c'era una lunga scalinata che seguiva inizialmente una linea
retta e poi cambiava muovendosi appoggiata alle pareti rocciose. Dopo
di essa c'era uno spiazzo, coperto di fiori e erba. Lì stava
sempre Revery, colei che era incaricata di fare da guardiana e
custode del regno divino. Nessuno poteva passare senza aver avuto il
suo consenso.
Stava
sempre appoggiata con la schiena a qualche colonna lucida e coperta
di edera, oppure seduta ai piedi del grande e vecchio melo che stava
ai margini del giardino. Sorrideva inizialmente chiedendo una
presentazione agli estranei.
Io
arrivai sulla cima dell'ultima scalinata, quella che portava alle
porte del Palazzo dal quale ero appena uscito. Con una certa fretta
raccolsi cinque sassolini da terra. Li strinsi con forza tra le mie
mani infondendovi la mia energia affinché questi si
trasformassero nei miei informatori. Quando aprii i palmi avevano
assunto delle perfette forme sferiche, di diverse grandezze e
iniziavano a mutarsi nella creatura finale. Cinque occhi.
Cinque
bulbi oculati di colore azzurro che si sollevarono in aria e
iniziarono a muoversi freneticamente. Erano appena diventati le mie
spie.
Il
Grande Padre mi aveva fatto questo dono. Mi aveva concesso la
facoltà
di avere occhi sempre vigili al mio servizio, nel verso senso del
termine. Li avrei mandati nel mondo degli uomini a guardare dall'alto
ogni cosa. Qualsiasi informazione raccolta si sarebbe aggiunta
direttamente alla mia memoria. Seguendo un mio gesto, con il quale
indicai ai miei tesori il mondo sottostante, i cinque osservatori
scattarono verso il basso, sparendo presto dalla mia vista.
Pensai
che forse nemmeno la guardiana si sarebbe accorta del loro passaggio.
Ora
erano diretti in cinque luoghi diversi per guardare, nascosti, ogni
cosa e poi spostarsi altrove. Si sarebbero fermati in alto, nel
cielo, non tanto in alto da sfiorare le nubi ma neppure così
bassi da farsi vedere dalle sentinelle delle torri. Loro sarebbero
restati a metà e avrebbero monitorato tutto.
Dopo
averli lasciati andare sorrisi. Ora nulla poteva accadere senza che
io me ne accorgessi.
Nel
frattempo al tempio di Porcias le cose sembravano essere alla svolta
finale.
La
notte stava perdendo le sue tinte nere, segno che si approssimava il
sorgere del sole.
Il
tempio era avvolto in uno strano silenzio. I fedeli erano tutti
rimasti all'interno, protetti dalla benedizione di Manius. La dea,
invece, aveva condotto il combattimento al fine di portare la propria
avversaria all'esterno. Non voleva che i suoi servitori si
danneggiassero in quello stupido scontro.
Facendosi
inseguire, e lanciando rapide offese, aveva portato Raffaella nello
spiazzo davanti al santuario.
Porcias
si trovava in una radura ricoperta d'erba giallastra. Era piccolo e
dalla base esagonale, sulla quale poi si sviluppava per una decina di
metri d'altezza. Il grosso del complesso era sotterraneo, nelle sale
adibite ai riti. La dea non ha mai richiesto dello sfarzo o delle
decorazioni particolari, voleva solo essere in un luogo nascosto e
riservato. C'erano le luci provenienti da qualche cittadina poco
lontana, dalla quale venivano i fedeli, che si stava svegliando.
Manius
sospirò. Quell'avversaria si era dimostrata coriacea e
furba,
e lei, che non amava il combattimento, era stata costretta a lottare
troppo. Il suo braccio destro era diventato una frusta nera, sulla
cui estremità era montata una punta, che ora sferzava l'aria
nel vano tentativo di ferire quell'intrusa. Quando anche quella serie
di colpi terminò, Raffaella poté finalmente
fermarsi.
Guardandola
adesso non sembrava più una donna. Il volto era spigoloso e
chiaramente maschile, e il trucco pesante stava venendo via a causa
del sudore. Anche il suo corpo, incredibilmente magro, assomigliava a
quello di un uomo, comunque lei voleva che si usasse il femminile nei
suoi riguardi. La pelliccia che aveva preso ora era legata intorno
alla vita, per avere un minimo di decenza.
Raffaella
era stata la dea del fallimento. Le persone si rivolgevano a lei
affinché non portasse alla rovina i loro progetti. Alla
fine,
impazzì e, indifferentemente dai doni e dalle preghiere, si
divertiva a distruggere qualsiasi cosa. Fu questo il motivo che
portò
il Grande Padre a cacciarla dal Palazzo. Io non riuscii a conoscerla
ma non ho mai avuto nessun interesse nei suoi confronti.
Ora
era in piedi, visibilmente stancata dallo scontro, ma con poche
ferite.
Manius
sembrava ancora carica di energie, immobile anche mentre la lunga
frusta tornava a essere un semplice braccio. Aveva addosso il
completo classico con il quale veniva alle riunioni divine,
magicamente apparso sulle sue carni in qualche momento della lotta.
La
dea era stupita di quanta forza potesse possedere un
non-più-dio,
cacciato dal pantheon. Alla fine, pensò, l'essenza divina
continua a permeare il corpo rendendolo comunque potente. Non era al
pari di un dio, se ne accorgeva, e se solo lei non avesse odiato
così
tanto il sangue e la lotta a questo punto la sua nemica sarebbe
già
caduta priva di vita in qualche punto del campo.
Durante
lo scontro però avevano parlato, o meglio, la
non-più-dea,
era riuscita a dire ciò che voleva alla divinità
protettrice del tempio.
“La
tua proposta non mi interessa” esclamò come fosse
una
risposta scontata. La sua avversaria sembrò comunque
sorpresa.
“Peccato,
spero comunque di essere la benvenuta nei tuoi templi e
nei...” il
tono di Raffaella di fece più malizioso e provocante
“...tuoi
riti”.
Manius
non si mosse, solo la sua bocca acquistò un'espressione
contrariata, quasi disgustata. “Tu non sei mai stata la
benvenuta e
mai lo sarai!”
“Peccato...
tanto vale morire!” esclamò lanciandosi in
un'ultima carica,
facilmente prevedibile, verso la dea. Questa non si fece sorprendere
né pensò troppo alla sua reazione: il suo braccio
si
portò in avanti in affondo trasformandosi in una lunga e
resistente lancia che incontrò presto le carni della nemica
in
corsa. L'asta era lunga almeno cinque metri ma la dea teneva
sollevato il braccio trasformato senza alcuna difficoltà,
anche mentre il corpo di Raffaella scivolava lungo l'asse di legno
verso Manius.
Ormai
aveva vinto, in modo anche troppo facile. Uno scontro così
arduo terminato in tale maniera? La dea si dimostrò
sospettosa
e furba rimanendo fuori dal santuario a scrutare, aspettandosi una
trappola. Il tempo passava ma non accadeva niente. Lei lanciava le
occhiate a quel corpo morto immobile e attorno a sé,
scrutando
l'erba mossa dal vento.
Era
tutto talmente tranquillo che si convinse che non doveva trattarsi di
una trappola.
Manius
era comunque agitata, scossa fin nella più piccola piega
della
sua anima. Si accorse che era qualcosa di strano, troppo strano.
Ne
avrebbe parlato con il Grande Padre.
Quando
arrivò il mattino, con quel grande sole che compariva
all'improvviso, Manius era già nella stanza circolare.
Il
suo corpo era avvolto dalla nebbia e sentiva i messaggi del Grande
Padre direttamente sulla pelle, come emozioni che invadevano il suo
corpo. Forse comunque lui comunicava con la voce come a tutti,
eravamo noi a 'sentirlo' in maniere differenti. Stavano parlando da
qualche minuto e già si erano detti molte cose.
“Amai,
capisco quello che mi dici. Ho sentito dentro il tuo animo questa
preoccupazione”.
“Possibile
che una divinità decaduta possegga tutto questo
potere?”
domandò lei.
“La
stessa essenza divina che permea una divinità è
sede
del potere. Anche se viene privata del titolo e della benedizione,
una dea è sempre una dea”.
“Credo
che sarebbe opportuno stanarla e chiarire i conti”. Anche se
la
cosa la riguardava poco, o solo in parte, Manius, rispettava tutti i
compiti divini tra cui anche il mantenimento della pace tra i mondi.
“Credevo
che tu l'avessi uccisa”
Lei
rimase un po' stupita, quasi si aspettasse un'altra reazione.
“Si,
Grande Padre, ma sono convinta che fosse solo un corpo posseduto dal
suo spirito”.
“Ah!”
sospirò il Grande Padre, allo stesso modo di un vecchio dopo
che gli viene ricordata una cosa che già sapeva.
“Avevo
letto anche questo nel tuo animo”.
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Ringrazio per le
recensioni ricevute.
Ringrazio
Kanako91 per le correzioni e i complimenti. Sono sempre stato
un po' poco attento a questi particolari ^o^ è un bene che
qualcuno lo faccia notare.
Ringrazio anche
Land of Dreams per aver inserito la storia tra le
seguite ^o^
E ringrazio Cleo92 per
i complimenti.
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