Quando all'ora di pranzo
aveva ricevuto l'SMS di Dazai, Akutagawa aveva lasciato il ristorante
senza dire una parola né ad Higuchi, seduta davanti a lui,
né alla cameriera che stava giusto portando al tavolo la
fetta di cheesecake ai fichi che aveva ordinato, la sua preferita.
Ogni volta che si scopriva a correre come un cagnolino ad ogni suo
ordine, nonostante non fosse più un suo sottoposto, il
disgusto per se stesso aumentava, ma non aveva una vera e propria
scelta.
Gli aveva chiesto di investigare su un presunto incidente avvenuto nel
territorio della mafia e Akutagawa si era subito messo al lavoro,
pronto a torturare chiunque pur di ottenere le informazioni che voleva,
ma non era servito. Era stato talmente facile e il caso talmente poco
esaltante - si trattava davvero di un banale incidente stradale - che
aveva deciso di approfondire le ricerche per capire perché
Dazai fosse tanto interessato.
Avrebbe dovuto immaginarlo che si trattava di quel maledetta tigre.
Una volta risalito all'identità dell'uomo, scoprendo che si
trattava niente meno che del direttore dell'orfanatrofio in cui aveva
vissuto Atsushi Nakajima, Akutagawa era stato sul punto di voler
scatenare Rashomun nel bel mezzo della strada. Con un enorme sforzo si
era trattenuto e aveva continuato la propria indagine, deciso a
sfruttare ogni possibile informazione a suo vantaggio. Aveva
rintracciato persino alcuni dei bambini, ormai giovani uomini e donne,
che erano stati i compagni della tigre e con i metodi della Port Mafia
era riuscito a farsi un quadro della situazione.
Quello che doveva essere un luogo sicuro per i bambini orfani o
abbandonati dai propri genitori, era stato in realtà un
inferno in cui gli abusi erano all'ordine del giorno. Contro ogni
pronostico, Akutagawa si era ritrovato a pensare che quell'uomo aveva
ottenuto ciò che meritava, almeno fino a quando non si era
reso conto che c'erano diversi punti che non quadravano nella visione
d'insieme.
Punto primo, le testimonianze che aveva ascoltato l'avevano dipinto
come un uomo severo e crudele con tutti i bambini, ma le peggiori
atrocità le aveva sempre e solo riservate ad Atsushi.
Perché tutto quell'accanimento? Akutagawa stesso, nonostante
lo trovasse detestabile, non avrebbe mai ignorato gli ordini del boss
Mori se non avesse scoperto che Dazai l'aveva preso sotto la sua ala,
sostituendolo.
Punto secondo, perché si era recato fino a Yokohama per
vendere quella vecchia pistola e che cosa aveva intenzione di fare con
i soldi ottenuti?
A quel punto era troppo coinvolto ed incuriosito per lasciar perdere e
si era recato nel modesto albergo in cui il direttore aveva affittato
una camera. Non aveva trovato né la polizia né i
membri dell'Agenzia a raccogliere prove. Probabilmente quello
smidollato si stava ancora riprendendo dallo shock.
L'uomo si era portato dietro il minimo indispensabile,
perciò l'ispezione non era durata molto. Alla reception
Akutagawa aveva usato la reputazione del mastino della Port Mafia e
aveva scoperto che subito dopo il suo arrivo il direttore aveva chiesto
dove potesse trovare un fioraio. Gli era stato indicato quello
all'angolo della strada, uno degli ultimi a Yokohama.
Appena entrato nel negozio, Akutagawa fu investito da un intenso
profumo che lo fece tossire.
La signora anziana dietro il bancone alzò gli occhi su di
lui, ma anziché spaventarsi, come faceva la maggior parte
delle persone che semplicemente lo incrociava per strada, gli rivolse
un ampio sorriso.
«Buon pomeriggio, giovanotto».
A passi lenti il corvino la raggiunse e rimase impressionato dalla
quantità di rughe che le correvano lungo il viso.
Istintivamente si portò le dita tra le sopracciglia,
ricordando quello che sua sorella gli ripeteva ogni volta che si
incontravano: "Se continui a fare quell'espressione, a trent'anni
sembrerai un vecchio decrepito".
«Stai cercando qualcosa di particolare?», gli
chiese ancora, ricambiando il suo sguardo senza paura.
«Magari per una persona speciale?».
Reputare Atsushi Nakajima una persona
speciale non
sarebbe stato sbagliato, vista la difficoltà ad ucciderlo,
ma il corvino scosse il capo ed estrasse dalla tasca interna del
cappotto nero la foto del direttore dell'orfanatrofio.
«Oh, quell'uomo me lo ricordo bene. È venuto qui
ieri e ha ordinato un bouquet di fiori. Te lo faccio vedere, aspetta
qui».
Akutagawa avrebbe voluto dirle che non gli interessava, ma la signora
sparì sul retro prima che potesse aprire bocca. Infastidito,
attese il suo ritorno con le braccia incrociate al petto e la gola che
gli prudeva ad ogni respiro, tanto da dover tossire frequentemente.
Perché si era intestardito a quel modo?
Udendo i passi della donna, Akutagawa alzò gli occhi e li
sgranò un poco notando le dimensioni del bouquet - le
copriva interamente il volto - e la bellezza della composizione. Non
che per lui avesse mai contato qualcosa, ma sapeva distinguere cosa
fosse bello e cosa no.
«Non ricevo ordinazioni del genere tutti i giorni»,
gli spiegò posando i fiori sul bancone. «Un tempo
era diverso, sai? Le persone che non riuscivano ad esprimersi a parole
compravano dei fiori alla persona amata, ma adesso, con l'avvento della
tecnologia, l'arte delle composizioni sta morendo. La gente pensa che
non abbia senso spendere così tanto per qualcosa che
appassirà nel giro di pochi giorni».
Akutagawa aprì la bocca per rispondere che anche lui la
pensava così, ma un nuovo attacco di tosse gli fece cambiare
idea. Non poteva perdere tempo a chiacchierare con quella vecchia.
La ringraziò per le informazioni e si avviò verso
l'uscita senza salutare. Sulla porta, però, non
riuscì a resistere e le domandò: «Qual
è il significato di quei fiori?».
La donna sorrise dolcemente. «Beh, ne hanno diversi. Io credo
che quell'uomo dovesse incontrare qualcuno a cui voleva bene
profondamente, ma con cui non ha mai avuto un buon rapporto.
È un bouquet di scuse e rimpianto per come sono andate le
cose. Aveva qualcosa da farsi perdonare, poco ma sicuro».
Il corvino annuì, una sgradevole sensazione alla bocca dello
stomaco.
«Giovanotto», lo chiamò la signora prima
che se ne andasse. «Quell'uomo non verrà a
ritirare l'ordinazione, vero?».
Akutagawa si voltò di tre quarti, stupito dall'intuito di
quella donna. Tossì, coprendosi la bocca con la mano, poi
tornò nei pressi del bancone per prendere una penna e un
pezzo di carta.
L'anziana fissò con confusione il foglietto che le venne
allungato.
«Più tardi verrà un ragazzo con i
capelli grigi a farle le stesse mie domande. Non gli dica di me e
quando sarà andato via mi chiami».
Akutagawa non attese la risposta della commerciante: le diede le spalle
e senza più guardarsi indietro se ne andò.
*
«Quelli sono i
tuoi sentimenti. Va bene fare qualsiasi espressione tu voglia. Io posso
solo generalizzare. Quando il proprio padre muore, lo si
piange».
Atsushi aveva pianto, seduto da solo su quella panchina davanti alla
baia di Yokohama. Aveva pianto fino a non avere più lacrime,
fino a quando il sole non era sparito dietro la linea del mare per fare
spazio alle stelle, mai brillanti come le luci della città.
Kyouka, non vedendolo rientrare per cena, gli aveva mandato un
messaggio chiedendogli dove fosse e il ragazzo-tigre le aveva risposto
di mangiare e di non preoccuparsi per lui, nonostante sapesse benissimo
che la nuova arrivata all'Agenzia gli avrebbe fatto trovare comunque un
piatto caldo al suo rientro.
Atsushi non voleva tornare a casa in quello stato, non voleva che la
sua aura, più scura che mai, contagiasse la piccola
coinquilina.
Akutagawa aveva ragione: era un vero stupido. Lo era sempre stato.
Perché non riusciva ad odiarlo e basta, quell'uomo che gli
aveva fatto patire le pene dell'inferno? Perché, invece,
sentiva un peso insostenibile all'altezza del petto?
Alla fine, nonostante avesse detto a Tanizaki di non voler sapere
perché il direttore lo volesse incontrare, aveva seguito il
consiglio di Ranpo ed era andato al negozio di fiori vicino all'hotel
in cui aveva preso una stanza. Un bouquet di fiori. L'uomo che lo
tormentava ancora nei suoi sogni voleva incontrarlo e regalargli un
bouquet di fiori.
Le parole di Dazai continuavano a ripetersi nella sua mente,
lasciandolo sempre più sgomento.
Il capo dell'orfanatrofio, a seguito delle sofferenze provate durante
la sua vita, aveva cercato di aiutarlo preparandolo per ciò
che lo attendeva nel mondo esterno, spezzandolo in ogni modo possibile
solo per renderlo più forte, sia nel corpo quanto nello
spirito.
Lo odiava per quello che gli aveva fatto, però... era grazie
a lui che era diventato Atsushi Nakajima, membro dell'Agenzia dei
Detective Armati.
Lo odiava per essere morto in quel modo così stupido proprio
prima di incontrarlo. Non c'era alcun biglietto allegato al bouquet di
fiori, perciò aveva intenzione di parlargli di persona.
Avrebbe voluto sapere che cosa aveva da dirgli, se davvero voleva
congratularsi con lui per come aveva salvato la città.
Non sapeva come avrebbe reagito in quel caso: forse la bestia avrebbe
preso il sopravvento e l'avrebbe dilaniato, ma c'era anche la
possibilità che sentendo le sue scuse sarebbe riuscito
finalmente a chiudere col passato. Una possibilità su cento,
in realtà. Quell'uno percento però lo avrebbe
tormentato fino alla fine dei suoi giorni, almeno secondo il libro
letto all'orfanatrofio e che, pezzo dopo pezzo, stava tornando in
superficie dopo essere stato per così tanto tempo sepolto
nello stesso pozzo dei brutti ricordi.
"Non una volta ho rimpianto le cose che ho fatto. Ho sempre solo
rimpianto le cose che non ho fatto". Così diceva e Atsushi
aveva deciso di rendere quelle parole un ideale da seguire:
finché c'era la possibilità di migliorare la vita
di qualcuno, di sfruttare una brutta situazione per ricavarne qualcosa
di buono, di afferrare un raggio di luce dall'oscurità
più profonda, lui ci avrebbe provato, senza tremare di
fronte al pensiero del fallimento o della morte.
Adesso che però quell'uomo se n'era andato senza dargli la
possibilità di ascoltarlo si sentiva stupido ed impotente.
La sua a tratti folle determinazione non sarebbe bastata quella volta.
Akutagawa avrebbe riso di lui se l'avesse visto in quel momento,
raggomitolato sulla panchina come un gatto e il volto arrossato per via
del pianto.
Akutagawa...
Atsushi estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e
cercò il suo numero nella rubrica. Ricordava la minaccia che
gli aveva rivolto quando gliel'aveva lasciato e fino a quel momento il
ragazzo-tigre non avrebbe mai immaginato che l'avrebbe usato per
ringraziarlo, ma sentiva che era la cosa giusta da fare. Dopotutto
senza di lui non avrebbe mai scoperto il passato del direttore.
So che l'hai fatto
perché te l'ha chiesto Dazai-san, ma grazie per oggi.
Premette il tasto invio e, improvvisamente esausto a causa della
valanga di emozioni della giornata, Atsushi chiuse gli occhi e si
addormentò.
*
La vecchia del negozio di fiori alla fine aveva mantenuto la parola
data e l'aveva chiamato dopo aver ricevuto la visita di Atsushi
Nakajima. Akutagawa le aveva chiesto un riassunto di ciò che
si erano detti e prima di terminare la comunicazione le aveva posto
un'unica domanda: «Che ne sarà del
bouquet?».
Non sapeva di preciso perché, ma il pensiero che quei fiori
fossero destinati a morire senza portare il messaggio per cui erano
stati strappati alla terra lo disturbava. Per questo aveva lasciato il
vicolo in cui lui e Higuchi stavano insegnando le buone maniere a degli
spacciatori che avevano scortesemente deciso di espandere il loro giro
senza l'autorizzazione della Port Mafia ed era tornato al negozio.
«Sapevo che saresti venuto», lo salutò
l'anziana donna non appena lo sentì entrare.
Si stava preparando a chiudere e sul bancone, quella mattina pieno di
gambi recisi, carta e nastrini, erano rimasti solo il bouquet di fiori
e un pacchettino di carta marrone legato con dello spago.
Akutagawa non voleva perdersi in convenevoli e fece per estrarre il
portafoglio per pagare il bouquet, ma la signora allungò una
mano e gli toccò il braccio. Istintivamente il mastino della
Port Mafia si ritrasse, lanciandole un'occhiata gelida, ma
anziché tremare per il terrore la donna ridacchiò.
«Perdonami caro, questa vecchia dovrebbe imparare a tenere le
mani a posto. È solo che mi ricordi tanto il mio amato
nipote».
Stordito, Akutagawa la fissò in silenzio mentre gli porgeva
il bouquet e aggiungeva: «Non voglio i tuoi soldi, ma la
promessa che con questi fiori farai felice qualcuno».
Il corvino grugnì e prese il bouquet deviando lo sguardo
della vecchia, la quale sollevò il pacchettino rimasto sul
bancone e se lo fece dondolare davanti al volto.
«Anche questo è per te»,
esclamò. «Ho notato la tua brutta tosse e ti ho
preparato un misto di fiori per degli infusi. Sono certa che ti faranno
bene, caro».
Akutagawa, a cui il concetto di regalo era sconosciuto, decise di far
capire alla vecchia con chi avesse a che fare e per prendere il
pacchettino usò Rashomun. La signora sgranò un
poco gli occhi, presa alla sprovvista, ma impiegò poco ad
abituarsi all'idea che il giovane davanti a lei fosse un utilizzatore
di abilità.
«Il ragazzo che è passato, quello coi capelli
grigi, ha detto di essere dell'Agenzia dei Detective Armati. Tu sei un
suo collega?».
Akutagawa mostrò un'eloquente espressione disgustata.
«Oh, capisco... Devi far parte della Port Mafia,
allora».
L'aveva detto sorridendo, come se nulla fosse. Il corvino era allibito.
«Non ha... paura?», le domandò.
«Di te? Caro, se avessi voluto uccidermi l'avresti
già fatto, no?».
Akutagawa dovette ammettere che il ragionamento non faceva una piega.
Abbozzò un sorriso, iniziando ad apprezzare quella
vecchietta, e soppesando il pacchetto coi fiori medicinali
esclamò: «Se dovessero funzionare
tornerò».
«Ti applicherò uno sconto speciale».
Il mastino della Port Mafia uscì dal negozio ed evitando la
luce arancio-dorata del tramonto tornò alla base.
Ignorando gli sguardi incuriositi che attirò per via del
grande mazzo di fiori, salì sull'ascensore e una volta al
diciassettesimo piano trovò Higuchi appoggiata accanto alla
porta del suo ufficio, gli occhiali da sole tirati sulla testa come se
fossero un cerchietto per capelli.
«Akutagawa-senpai, dove siete...?!»,
esclamò, ma la voce le morì in gola quando i suoi
occhi si posarono sul bouquet tra le sue mani.
«Tieni», le disse senza girarci intorno,
spingendoglielo contro il petto. «Per averti lasciata da sola
in quel vicolo. Sei felice?».
Higuchi lo guardò negli occhi, guardò i fiori e
poi di nuovo i suoi occhi. Il suo volto diventò paonazzo
nella frazione di un secondo e le sue spalle iniziarono a tremare.
Confuso, Akutagawa aggrottò le sopracciglia. «Se
non ti piacciono posso darli a Elise-chan...».
«No!», gridò stringendosi il bouquet al
petto. Poi starnutì. «Sono bellissimi,
senpai!». Un altro starnuto. «La ringrazio mo-mo-
etciù!».
«Sei allergica per caso?».
La ragazza si coprì il naso con una mano, scosse il capo e
dopo essersi prostrata in un profondo inchino corse via.
Akutagawa, sempre più confuso dal comportamento della sua
sottoposta, entrò nel proprio ufficio e si tolse il
cappotto. Lo posò con cura sulla poltrona dietro la
scrivania e decise di sfoltire la pila di scartoffie che quel giorno si
erano accumulate per via della richiesta di Dazai. Ad un tratto
sentì il bisogno di farsi una tazza di té.
Si alzò e andò al bollitore posato sul mobile in
un angolo della stanza per scaldare dell'acqua. Nel frattempo
aprì la scatoletta in cui conservava la propria riserva di
foglie di té verde e la trovò vuota.
Dannazione, l'aveva finito e aveva dimenticato di comprarlo.
Pensò di chiamare Higuchi perché facesse un salto
dal suo venditore di fiducia - per lui sempre aperto, - quando si
ricordò del pacchettino che gli aveva regalato quella
vecchietta.
Lo recuperò dalla tasca del cappotto e ne sciolse il fiocco
fatto con lo spago. Immediatamente un intenso profumo di fiori gli
solleticò le narici, ma rispetto a quello del negozio non
gli infastidì i polmoni. In qualche modo fu in grado di
buttare giù i muri di sospetto e diffidenza costruiti nel
corso degli anni vissuti in strada.
Akutagawa riempì il filtro con una cucchiaiata di petali
essiccati e vi versò sopra l'acqua calda, ma non bollente.
Quindi lasciò riposare l'infuso per qualche minuto.
Si era appena bagnato le labbra, quando dei lievi colpi alla porta lo
fecero voltare infastidito. Senza attendere il suo permesso, una figura
vestita interamente di nero si infilò all'interno
dell'ufficio e il corvino sospirò riconoscendo Gin.
«Mi sei mancata».
La ragazza, coi capelli legati nella solita acconciatura a porcospino e
con la maschera sul viso, sgranò un poco gli occhi sentendo
quelle parole e Akutagawa stesso ne fu sorpreso. Perché
aveva detto una cosa del genere?
Sentendo il sangue salirgli a riscaldargli le guance, il corvino
abbassò la tazza di té ed incrociando le braccia
sugli sbuffi della camicia bianca domandò stizzito:
«Che ci fai qui?».
«Abbiamo una missione ed è stata richiesta la tua
presenza».
Akutagawa aggrottò le sopracciglia. «La Lucertola
Nera non basta?».
Gin scrollò un poco le spalle e senza fornirgli ulteriori
spiegazioni uscì dall'ufficio com'era entrata: silenziosa
come un'ombra.
Il fratello maggiore si voltò verso l'infuso, domandandosi
ancora che cosa gli fosse preso. Per carità, era vero che
lui e sua sorella si vedevano poco e che ultimamente gli era mancata
più del solito, però tra pensarlo e dirlo c'era
una bella differenza.
Sospirando si portò la tazza alle labbra e la
svuotò in fretta, sentendo il liquido dolce lenirgli le
pareti infiammate della gola e riscaldargli le membra.
È davvero
buono, pensò.
Devo farlo provare a Gin.
Recuperò un thermos dal cassetto della scrivania, vi
infilò una generosa quantità di fiori e poi
l'acqua. Lo chiuse e lo infilò in una delle tasche interne
del cappotto, pronto ad andare ovunque avessero bisogno della sua
forza.
*
Atsushi aprì lentamente gli occhi, trovando le ciglia
fastidiosamente incollate tra loro.
Il vento soffiava forte nella baia - e per le sue orecchie sensibili
era una vera tortura - ma per qualche motivo non lo sentiva sferzargli
i vestiti. Alzando un poco il capo, si accorse di avere un lungo
cappotto nero steso addosso. Si stava domandando dove l'avesse
già visto quando una voce fin troppo familiare lo fece
sobbalzare seduto sulla panchina.
«Ti sei svegliato finalmente. Addormentarsi a quel modo...
sei proprio uno stupido,
jinko».
Atsushi fece rapidamente due più due e si rese conto che non
solo il suo acerrimo nemico si era seduto al suo fianco, senza fare
nulla per ucciderlo nel sonno, ma che lo aveva addirittura coperto col
proprio cappotto. Per lui, la cui abilità era quella di
manipolare il tessuto per formare Rashomun, era come privarsi della
propria forza. Che diavolo stava succedendo?
Il ragazzo-tigre si allontanò un po', scivolando fino
all'estremità opposta della panchina, e decise di tenere con
sé il cappotto. Lo fece perché non voleva
combattere con lui, non quella sera, ma anche perché il
calore che gli stava fornendo era davvero piacevole. E anche l'odore
non era male: un misto di sangue, té e... fiori?
Lentamente posò gli occhi su Akutagawa, intento a fissare il
mare mentre il vento gli scompigliava i capelli. Anche volendo, non
avrebbe mai indovinato che cosa gli stesse passando per la testa in
quel momento.
Atsushi aveva così tante domande che non sapeva da dove
incominciare. Alla fine optò per un banale: «Come
hai fatto a trovarmi?».
Il corvino fece schioccare la lingua contro il palato. «I
cellulari hanno il GPS. Nessuno te l'ha detto, all'Agenzia?».
Punto sul vivo, Atsushi strinse i pugni intorno al colletto del
cappotto e quasi ringhiò: «Che cosa vuoi,
Akutagawa? Se non ricordo male avevi detto che oggi mi avresti lasciato
stare».
«Hai ragione», annuì piano.
«Poi però mi hai inviato quel
messaggio...».
Ecco, lo sapevo. Si
attaccherebbe a qualsiasi cosa pur di combattere.
Atsushi si preparò a balzare via, ma Akutagawa non diede
alcun segno di voler iniziare una battaglia all'ultimo sangue.
Recuperò il thermos che aveva appoggiato ai suoi piedi e
versò nel tappo tre dita di un liquido caldo e dal profumo
floreale. Il più giovane, a causa anche dal vento che
soffiava verso di lui, sentì l'acquolina in bocca. Bocca
arida per via delle ore trascorse su quella panchina senza bere nemmeno
un goccio d'acqua.
Notando il suo sguardo con la coda dell'occhio, Akutagawa
serrò le labbra e gli porse la bevanda. Il ragazzo-tigre
trasalì: non gli sarebbe mai passato per l'anticamera del
cervello di chiederglielo, piuttosto sarebbe morto di sete.
«Non è avvelenato», disse il mastino
della Port Mafia, infastidito. «I fiori per l'infuso me li ha
dati la vecchietta del negozio in cui il direttore del tuo orfanatrofio
è andato a prenotare quel bouquet».
Akutagawa si portò la mano libera sulla bocca, come se
dovesse tossire. L'aveva fatto ancora. Aveva detto cose che non avrebbe
dovuto dire.
Atsushi, gli occhi grandi in cui si riflettevano le luci dei lampioni e
della luna, domandò piano: «Tu sei andato al
negozio di fiori? Per quale motivo?».
Il corvino provò a resistere all'urgenza di dire la
verità, arrivò persino a mordersi la lingua, ma
nemmeno il sapore ferroso del sangue lo fermò. Gli
spiegò allora di come si era sentito quando aveva scoperto
che Dazai gli aveva chiesto di investigare, dell'invidia e della
gelosia che aveva provato nei suoi confronti e della successiva
curiosità. E poi, concludendo, disse ciò che non
avrebbe mai voluto dire ad alta voce, il segreto che celava
più gelosamente nell'organo che tutti dicevano fosse la
fonte dei sentimenti umani: il cuore.
«Il motivo per cui ti odio tanto è che Dazai-san
ha ragione: tu sei migliore di me,
jinko.
Sei tutto ciò che io non sono, che mai sarò.
Piaci a tutti, vivi e sei circondato dalla luce e so che tu mi non
guarderai mai come...».
Akutagawa si interruppe, sentendo le dita su Atsushi sfiorare le sue
nell'accettare il coperchio del thermos. Lo guardò bere ad
occhi chiusi, con così tanta foga che una goccia di infuso
gli scivolò dall'angolo della bocca e gli corse sul mento.
Ormai l'aveva capito che quei fiori avevano qualcosa di strano. Che si
trattasse di una semplice proprietà stupefacente o di
un'abilità vera e propria non lo sapeva, ma era chiaro che
berne un infuso costringeva chiunque ad essere onesto, con se stesso e
con gli altri, con le parole e con le azioni. L'aveva fatto con Gin nel
proprio ufficio, con Hirotsu e Tachihara durante l'incursione della
Lucertola Nera a discapito di un'organizzazione criminale minore e lo
stesso gli stava capitando con il ragazzo-tigre.
Sapeva che non se lo sarebbe mai perdonato quando l'effetto sarebbe
svanito, ma non era una cosa che poteva combattere purtroppo.
La manica sinistra della sua camicia bianca si allungò
intorno alla vita del più piccolo e con uno strattone lo
attirò verso di lui.
Preso alla sprovvista - lo stolto pensava che potesse usare Rashomun
solo col cappotto? - Atsushi non riuscì a difendersi o
forse, anche lui sotto l'effetto dei fiori, in realtà non lo
voleva fare.
Il mastino della Port Mafia si avvicinò al suo volto,
evitando cautamente di incrociare i suoi occhi per non dovergli dire
quanto li trovasse belli, e posò le labbra sul suo mento per
leccare il rivolo che l'aveva bagnato poco prima.
«A-Akutagawa...», tremò Atsushi,
né per il freddo né per la paura.
Il corvino gli impedì di dire altro raggiungendo la sua
bocca per un bacio casto.
Immediatamente la rabbia che sentiva come un blocco di cemento nel
petto si sgretolò e i suoi muscoli sempre in tensione si
rilassarono; chiuse persino gli occhi posando le mani poco sotto le sue
spalle.
Aveva sempre avuto la sensazione che per lui fosse troppo tardi, che
anche un solo passo nella luce lo avrebbe lasciato ustionato, ma si
sbagliava. Atsushi non era il sole, bensì la luna, in grado
di rischiarare le tenebre più profonde senza far male.
Il ragazzo-tigre sollevò a sua volta le mani e le
portò ai lati del suo viso, schiudendo un poco le labbra per
approfondire il bacio.
Akutagawa a quel punto aprì di scatto gli occhi e si
allontanò, il polso a nascondergli la bocca.
«Perché tu...?», iniziò a
chiedere, confuso. Un terribile pensiero si affacciò alla
sua mente e si ritrovò a stringere i pugni. «Non
voglio la tua pietà,
jinko».
«Tu non mi fai pena, Akutagawa», rispose il ragazzo
dai capelli grigi. «Non sapevo provassi questi sentimenti e
anche io... anche io mi sento allo stesso modo. È solo
grazie a Dazai-san che ci siamo ritrovati a combattere dallo stesso
lato e so che tu non cambierai mai, ma ogni volta che ci incrociamo non
posso fare a meno di pensare che è compito mio provarci. La
tua forza è eccezionale e il sangue mi dice che spetta a me
stendere una mano per portarti nella luce, come ho fatto con Kyouka,
anche a rischio di essere trascinato nelle tenebre».
Atsushi si morse per un attimo le labbra mentre le sue guance
prendevano colore. Stava cercando di resistere, ma Akutagawa sapeva che
non ci sarebbe mai riuscito. Capitolò poco dopo, come aveva
previsto.
«Non avevo mai baciato nessuno, prima. È stato...
bello. Possiamo rifarlo?».
Il cuore di Akutagawa batté dolorosamente, tanto che il
corvino si chiese se fosse quella la sensazione di cui aveva solo
sentito parlare: il mal d'amore.
La sua mente gli urlò, chiaro e forte, di rifiutare e
andarsene, ma il suo corpo agì senza prestarvi ascolto. Si
avvicinò di nuovo al ragazzo-tigre e questi lo
imitò, incastrando le loro labbra come se fossero state
create apposta per quello. Come poco prima gli portò le mani
coperte dai guanti senza dita ai lati del viso e gli ravvivò
le ciocche dalle punte bianche dietro le orecchie.
«Sono morbidi», mugugnò senza potersi
frenare, ma Akutagawa ignorò il commento e
sfruttò l'occasione per accarezzargli la lingua con la
propria.
Atsushi si irrigidì e la presa sui suoi capelli
aumentò, facendo correre un brivido anche lungo la schiena
del mastino, il quale non poté resistere ed
esplorò il suo petto con le mani. La camicia che indossava
era leggerissima, tanto da sentire la sua pelle calda sotto di essa.
Il ragazzo-tigre non si allontanò, anzi emise un verso
simile a delle fusa e si fece più vicino, ricambiando le
attenzioni del più grande con la mano sinistra, la destra
ancora stretta intorno alle ciocche dei suoi capelli.
Akutagawa non seppe dire per quanto tempo rimasero su quella panchina a
baciarsi ed accarezzarsi reciprocamente, né quando fu il
momento esatto in cui sentì un intenso calore riempirgli lo
stomaco rendendolo sonnolento.
«
Jinko»,
sibilò semplicemente, abbandonando la fronte contro la sua.
«Non riesco a tenere gli occhi aperti. Che cos'hai
fatto?».
Atsushi sbadigliò e replicò stizzito:
«Perché dovrei essere stato io? Anche a me
è venuto...
zzz».
Akutagawa non riuscì a sostenere il ragazzo dai capelli
grigi, il quale si era addormentato all'istante addossato alla sua
spalla, e cadde sdraiato sulla panchina. Il suo peso non lo
infastidì, bensì gli donò uno strano
senso di pace e calore. Il dolore che provò alla base della
schiena, però, gli fece storcere la bocca. Con una mossa da
contorsionista recuperò il tappo del thermos e il suo
cervello assonnato ipotizzò che se si ritrovavano entrambi
in quello stato la colpa doveva essere di quei maledetti fiori.
Non poteva addormentarsi in quel luogo: era troppo esposto e la sua
salute ne avrebbe risentito.
Non poteva addormentarsi accanto al membro dell'Agenzia dei Detective
Armati che avrebbe dovuto odiare con tutte le sue forze. La stanchezza
però era troppa.
«Rashomun», mugugnò già ad
occhi chiusi, comandando ad una delle sue maniche di recuperare il
cappotto, caduto a terra durante il confuso scambio di baci. Una volta
steso sui loro corpi rilassati, Akutagawa si lasciò
inghiottire dal buio consapevole di star stringendo tra le braccia la
luce.
*
«Ohi-ohi, che mi venga un colpo se non si tratta del membro
più stiloso della Port Mafia!».
Chuuya respirò profondamente e si voltò verso
l'albero alla sua destra, dal cui ramo più robusto penzolava
un Dazai appeso per i piedi. Il suo volto era paonazzo per via del
sangue che gli era andato alla testa, eppure vi era stampato il solito,
stupido largo sorriso.
«Ho letto che si può morire in questo modo, ma sta
richiedendo più tempo del previsto. Mi daresti una mano a
scendere?».
Il rosso ebbe la forte tentazione di ignorarlo e lasciarlo
lì a morire, come tanto desiderava, ma alla fine si
avvicinò e col proprio pugnale tagliò la spessa
fune con cui si era legato le caviglie. Dazai cadde a terra con un
tonfo, piagnucolando per le brutte maniere dell'ex-partner.
«Mi vuoi spiegare che cosa sta succedendo?», lo
interruppe Chuuya, portandosi una mano sul fianco mentre guardava con
diffidenza la scena davanti ai suoi occhi: Akutagawa e il ragazzo-tigre
addormentati abbracciati sulla stessa panchina.
«È stata Gin a chiamarti?», gli chiese
Dazai, spolverandosi il cappotto beige. «In effetti ho
avvertito la sua presenza...».
«Ha detto che Akutagawa si comportava in modo strano,
perciò l'ha seguito. Quando mi ha chiesto di recuperarlo
sembrava molto scossa».
L'uomo con le bende ridacchiò. «Oh, ti sei perso
un bello spettacolo,
chibi».
Fumante di rabbia per il nomignolo, Chuuya sbottò:
«Facciamola finita, voglio andare a casa».
«Non lavori oggi?», gli chiese Dazai, seguendolo
con le mani nelle tasche.
«Era la mia serata libera».
Giunti davanti alla panchina, il rosso rimase ancora più
allibito notando le espressioni di pura pace e serenità
dipinte sui volti dei due rivali.
«Dormono davvero come due angioletti»,
commentò Dazai, sorridendo.
Chuuya notò il thermos posato a terra, si chinò a
raccoglierlo e ne annusò l'interno. Erano rimaste poche dita
di un infuso dal profumo floreale, una fragranza tanto particolare che
era impossibile da confondere con un'altra.
«Quella vecchia», sbuffò, allontanando
subito il naso per non subire gli effetti dell'abilità
conosciuta come "Il significato segreto dei fiori". «Che cosa
le è passato per la testa?».
«Forse voleva divertirsi un po'. Dev'essere dura la vita da
pensionata», scrollò le spalle Dazai, divertito.
«Ma se l'ha chiesto lei di lasciare la Port
Mafia!».
«E lo sai il perché?».
Chuuya si voltò, stupito dall'improvviso cambio di voce
dell'ex-partner: si era fatto serio, quasi malinconico.
«L'ultima volta che Mori le ha chiesto di usare la sua
abilità su un nemico della mafia ha scoperto che il suo
unico nipote era rimasto ucciso durante un conflitto a fuoco. Si
è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Lei, che
aveva sempre odiato la violenza e ha salvato decine di membri della
mafia dall'esecuzione istantanea costringendoli a mostrare
ciò che si celava davvero nel loro cuore, non ha retto il
peso di quella verità e se n'è andata».
Il rosso rimase in silenzio, gli occhi ancora fissi sul volto pallido
di Akutagawa. Solo quando dormiva dimostrava la sua vera età
e tutta la sua fragilità.
«Ti ricordi quando usò i fiori su di
te?».
Quella sera Dazai aveva davvero voglia di parlare.
Chuuya strinse i pugni lungo i fianchi. «Che razza di domande
sono? Lo sai benissimo che uno dei motivi principali per cui la mafia
l'aveva reclutata è che, giunta la mezzanotte, chiunque
beveva l'infuso si addormentava dimenticandosi qualsiasi segreto avesse
rivelato. Anche grazie a lei Mori è riuscito a rimettere in
piedi l'organizzazione e a controllare l'intera
città».
Gli occhi di Dazai brillarono per un breve istante. «Certo,
certo!». Gli diede una pacca sulla spalla e l'esecutivo
avvertì un brivido corrergli lungo la spina dorsale.
«Adesso sarà meglio fare ciò per cui
siamo venuti».
Si chinò sui due ragazzi e strappò via dai loro
corpi il cappotto nero di Akutagawa, scoprendo l'intreccio di gambe e
braccia sotto di esso. Aveva giusto iniziato a disincastrarli, quando
Chuuya lo afferrò per la spalla e lo fece voltare verso di
sé bruscamente.
«Mi ricordo che mi portarono nei sotterranei e che dopo
avermi fatto bere l'infuso mi ordinarono di attivare "Corruzione".
Volevano sapere da dove venisse e perché non fosse possibile
controllarla. Tu eri lì, vero? Dovevi esserci,
perché altrimenti...».
«Sì, c'ero», rispose semplicemente
Dazai, con un sorriso quasi triste sul volto. «Senza di me
saresti morto».
Chuuya allontanò la mano, come scottato. Quindi si
sistemò il cappello sulla testa e deviando il suo sguardo
chiese piano: «Si è scoperto qualcosa?».
«Assolutamente nulla».
Il largo sorriso e il motivetto con cui aveva risposto fecero storcere
il naso al rosso.
«Non mi credi? Potrei bere ciò che è
rimasto dell'infuso, ma non so quanto ti converrebbe, Cappelliera.
L'effetto durerebbe fino alla prossima mezzanotte e ci sono tante,
tantissime cose di cui potrei parlare con il Presidente
dell'Agenzia!».
Il rosso rabbrividì al solo pensiero. Sbuffò,
sventolando una mano con tutte le intenzioni di lasciar cadere il
discorso, ma quella stessa mano fu afferrata da quelle bendate di
Dazai, il quale si piegò sul di lui perché i loro
occhi fossero allo stesso livello. I loro volti erano così
vicini che Chuuya poteva sentire il suo respiro caldo fondersi col
proprio.
«E poi potrei anche rivelarti il vero motivo per cui tra noi
non ha funzionato e tu hai voltato pagina, giusto?».
Chuuya deglutì rumorosamente. No, non ne voleva
più sapere. Dazai era stata la sua salvezza e la sua rovina
e avrebbe preferito essere ucciso da "Corruzione" piuttosto che
ricadere nel vortice di alti e bassi che era sempre stata la loro
relazione.
Ricomponendosi, si liberò dalla sua stretta e
ruotò la gamba per colpirlo, ma Dazai come sempre fu in
grado di anticipare la sua mossa e lo evitò.
«Sbrighiamoci, non voglio sprecare la mia serata libera con
te».
Akutagawa e Atsushi sembravano incollati l'uno all'altro ed ebbero
qualche difficoltà a separarli, soprattutto quando Rashomun
si mosse senza un preciso comando e una delle sue spirali si avvolse
intorno al polso destro del ragazzo-tigre, già a cavalcioni
della schiena di Dazai.
«Ma che diavolo...», sbottò Chuuya,
trovando già difficile sostenere il mastino. Nonostante la
magrezza, era comunque più alto di lui e non sarebbe stata
una passeggiata portarlo fino alla base della mafia senza un mezzo di
trasporto. Per fortuna la sua abilità gli consentiva di
manipolare la gravità: con un po' di fortuna sarebbe
riuscito a farlo volteggiare a qualche centimetro da terra senza che
nessuno se ne accorgesse.
Dazai ridacchiò nuovamente, come se quella situazione gli
facesse davvero piacere. «A quanto pare Akutagawa-kun
nasconde i suoi veri sentimenti dietro l'istinto omicida. Mi ricorda
qualcuno».
Chuuya dovette sforzarsi, e non poco, per non dargli la soddisfazione
di vederlo arrossire. Quindi abbaiò: «Sbrigati a
separarli!».
Con un semplice tocco, Dazai annullò il nastro di Rashomun e
i Doppio Nero si scambiarono un ultimo sguardo prima di separarsi, i
due ragazzi ancora addormentati caricati sulle spalle.
*
La mattina seguente, Atsushi si era svegliato nel suo futon con un
brutto mal di testa e per questo aveva impiegato più del
necessario a rendersi conto di avere un inspiegabile vuoto di memoria.
Ricordava di essere rimasto su quella panchina fino ad addormentarsi,
sfinito, e di essersi svegliato all'arrivo di Akutagawa, il quale...
Il suo cuore aveva preso a battere più forte all'improvviso,
pensando alle gentilezze che il mastino della Port Mafia gli aveva
riservato, prima offrendogli il suo cappotto e poi una tazza del suo
infuso. Tuttavia i suoi ricordi si fermavano lì: non aveva
idea se alla fine avessero parlato oppure combattuto e, soprattutto,
come fosse tornato a casa.
Si era sforzato per tutta la mattina, risultando distratto al lavoro ed
ottenendo più di una lavata di capo da Kunikida, e quando
mancava ormai poco alla pausa pranzo Dazai lo aveva avvicinato per
sussurrargli all'orecchio: «Forse dovresti tornare
là ed investigare».
Come avesse fatto ad anticipare i suoi pensieri, Atsushi non l'avrebbe
mai scoperto. Aveva dato comunque ascolto al suo consiglio ed era
tornato a quella panchina che dava sulla baia di Yokohama, scoprendo
che anche qualcun altro aveva avuto la sua stessa idea: Akutagawa.
*
Per uno che era stato abituato, sin dalla più tenera
età, a dormire alla ghiaccio nei vicoli bui del quartiere
povero di Yokohama, il divano del suo ufficio sarebbe dovuto sembrare
il giaciglio di un principe. Ciò nonostante, quella mattina
Akutagawa si era svegliato per via di un violento attacco di tosse e si
era scoperto tremante, rannicchiato in posizione fetale sotto il suo
rassicurante e purtroppo non abbastanza caldo cappotto.
Confuso, si era tirato su seduto e aveva notato sul tavolino un
pacchettino di carta con attaccato un bigliettino che diceva: "Non
usare mai più fiori sconosciuti per gli infusi. Nakahara".
Solo in quel momento si era ricordato della missione affidatagli da
Dazai, della vecchietta al negozio di fiori e del suo incontro con
Atsushi Nakajima. O meglio, era certo di averlo incontrato, ma non ne
aveva alcuna memoria. Che fosse a causa di quei fiori?
L'uomo fissato coi cappelli gli aveva lasciato delle foglie di
té, come se sapesse che le aveva finite, e Akutagawa si era
chiesto se fosse stato lui a portarlo alla base.
Infastidito da tutta quella carenza di risposte, si era alzato e
mettendo da parte lo stordimento era andato a cercarle nell'ultimo
posto in cui ricordava di essere stato, dove aveva scoperto che anche
un'altra persona aveva preso la stessa decisione: Atsushi.
*
«Non voglio combattere», ruppe il silenzio il
ragazzo dai capelli grigi, alzando le mani in segno di resa.
Akutagawa avrebbe voluto rispondergli che non gli importava, che se
avesse voluto l'avrebbe attaccato comunque, ma non era né
dell'umore né aveva le forze necessarie ad affrontare la
tigre.
«Anche tu hai un vuoto di memoria?», gli
domandò allora, infastidito al solo pensiero che avessero
qualcosa in comune.
Atsushi annuì. Si guardò intorno e
sospirò, esclamando: «Se ieri notte ci fossimo
scontrati ci sarebbero dei segni di distruzione,
perciò...».
«Abbiamo preso un té in amicizia?», rise
sadico Akutagawa, ma quella specie di battuta sembrò
rischiarargli le idee. Non avevano bevuto un té,
bensì l'infuso ai fiori di cui parlava Nakahara.
Incrociò gli occhi bicolore del ragazzo-tigre e li
trovò sperduti, mentre con una mano si raggiungeva le
labbra.
Il corvino trasalì, sorprendendosi a desiderare di essere
quelle dita e ricordando la morbidezza e il sapore di quelle labbra.
Atsushi fece improvvisamente un passo verso di lui, la mano stesa, e
Akutagawa agì di riflesso scatenando Rashomun, le cui fauci
gliel'avrebbero di sicuro mozzata se il più piccolo non
avesse avuto i riflessi di un felino.
«Un'allucinazione, ecco cos'è. Qualsiasi cosa
credi di ricordare,
jinko,
non è mai successa», affermò con la
voce trasformata in un ringhio rauco. «Prova a parlarne con
qualcuno e ti farò patire le pene dell'inferno».
«Come se io volessi sul serio far sapere a qualcuno che tu mi
hai...».
«Fa' silenzio!», gridò ancora, mentre
ben quattro teste nere sfrecciavano contro Atsushi, il quale
trasformò i propri arti in quelli della tigre e
saltò in aria fino a coprire col proprio corpo il sole allo
zenit.
Akutagawa fissò rapito la luce intorno a lui e
pensò che fosse bellissimo, con quell'espressione fiera e
piena di rabbia. Se avesse potuto scegliere da chi farsi uccidere,
avrebbe scelto Atsushi senza alcuna esitazione. Così come
voleva essere lui a porre fine alla sua vita: quel piacere spettava a
lui e a nessun altro.
Distratto e ancora intontito dall'infuso - doveva averne bevuto di
più, oppure le capacità rigenerative della tigre
avevano permesso al più piccolo di recuperare più
in fretta - Akutagawa si ritrovò steso sul cemento caldo,
immobilizzato sotto il peso del rivale.
Si guardarono per quelle che sembrarono ore, i respiri accelerati.
All'improvviso Atsushi notò qualcosa sul suo collo e per la
sorpresa cadde seduto al suo fianco, gli occhi sbarrati.
«Te ne pentirai di non avermi finito quando ne avevi la
possibilità», ruppe il silenzio il mastino della
Port Mafia, usando due estensioni di Rashomun per alzarsi.
Atsushi non rispose: si limitò a correre via a quattro
zampe, sfruttando la velocità della bestia.
«Codardo», sputò Akutagawa tra un colpo
di tosse e l'altro.
Quindi decise di tornare alla base, magari per stendersi ancora un po'
sul divano, ma per strada ebbe la sfortuna di imbattersi in una ditta
di traslochi. Due uomini stavano portando un grosso specchio
all'interno di un palazzo e Akutagawa vide la propria immagine
riflessa, trovando come al solito la sua carnagione tanto pallida da
farlo sembrare un morto, tranne per un certo punto sul collo che...
Ad occhi sgranati, il corvino si avvicinò alla vetrina di un
negozio ed osservò più da vicino il livido
violaceo che gli portò a galla un ricordo che aveva
dimenticato persino di avere.
«Nakahara-san,
come si è fatto quel livido sul collo?».
Il rosso, il quale di
solito veniva ignorato dal nuovo allievo di Dazai, fu tanto sorpreso ed
imbarazzato dalla domanda che non riuscì a rispondere.
«Quello si
chiama "succhiotto"».
Entrambi si voltarono
verso la porta della sala dedicata ai poeti simbolisti, dove un Dazai
malizioso si era addossato allo stipite.
«Gliel'ho
fatto io», aggiunse, facendo sospirare pesantemente Chuuya.
«Voglio
provarci anch'io», esclamò subito dopo Akutagawa,
deciso ad apprendere quella nuova tecnica dal suo maestro.
Dazai scoppiò
a ridere. «Mi piacerebbe tanto vederti provare,
Akutagawa-kun, ma questa mossa segreta non funziona con
chiunque».
Ormai si era avvicinato
e si era chinato sul partner, rubandogli il cappello ed avvicinando le
labbra al livido. Continuando a guardare l'allievo, aggiunse:
«Un giorno troverai una persona che odierai a tal punto da
non poterla uccidere in alcun modo e per distinguerla da tutte le altre
gli farai questo segno». Lo sfiorò con la punta
dell'indice e Chuuya fremette, poi serrò i denti e lo
colpì in pieno volto col libro che stava leggendo.
Dazai cadde a terra, ma
la sua risata risuonò in tutta la vasta biblioteca della
Port Mafia.
Akutagawa si sfiorò il succhiotto e capì
finalmente il motivo per cui Atsushi se l'era data a gambe levate.
«Una persona che odierai a tal punto da non poterla uccidere
in alcun modo», ripeté le parole di Dazai,
assaporandone il gusto sulla lingua.
Ad un tratto si tirò su il colletto del cappotto e riprese a
camminare, borbottando stizzito: «Che
assurdità».
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N.d.A.
Allora, per l'abilità della nostra vecchietta (che
idealmente è identica a quella presente in uno dei capitoli
dello spin-off "Bungo Stray Dogs: Wan!") ho provato a cercare qualche
famoso autore giapponese che avesse scritto libri sui fiori, ma la
ricerca non è andata a buon fine. Ho trovato però
un libro recente intitolato proprio "Il significato segreto dei fiori"
e ho deciso di utilizzarlo. Perdonatemi la "licenza poetica" :)