Anche le pietre hanno un cuore.
A Sara,
Buon compleanno, dery-san.
«Oggi siamo stati davvero bravi!»
«Sì! Hai sentito cosa ha detto il coach Yamiji?
Se continuiamo così ai Nazionali non avremo problemi ad arrivare in alto!»
«E anche le manager si sono complimentate con noi!»
«Ah, mi sento davvero carico oggi! Andiamo tutti al
karaoke?»
L’ultimo a parlare, Bokuto, si
era alzato in piedi in uno dei suoi soliti slanci, allargando le braccia con
entusiasmo, mentre guardava i suoi compagni di squadra in attesa di risposte.
Sebbene fosse ormai all’ultimo anno, era davvero difficile non considerarlo un
bambinone in quei casi, quando guardava tutti con i suoi occhioni
brillanti in attesa di una risposta positiva. Ma, dopotutto, nessuno dei
ragazzi della Fukurodani aveva intenzione di rifiutare
l’invito. Quasi nessuno.
«Io mi avvio. A domani», disse Akaashi
con tono vagamente cordiale, ignorando completamente la richiesta del capitano
e sistemandosi la borsa sulla schiena. Uscì senza aggiungere altro e senza dar
loro il tempo di commentare l’ennesimo rifiuto che aveva dato.
«Magari avrà altro da fare», provò a giustificarlo Onaga, ma Komi scosse la testa
innervosito.
«Possibile che abbia sempre da fare? Sono mesi che non
siamo tutti insieme a meno che non si tratti di allenamento o partite… È chiaro
che ci sta evitando, ma se provi a parlargli ti tratta come se fosse tutto
nella tua testa!»
Quella non era la prima volta che Akaashi
decideva di non partecipare ad un’uscita di gruppo senza dare alcuna
spiegazione e Komi non riusciva a mandare giù il
comportamento distaccato e quasi maleducato che da diversi mesi - e
praticamente all'improvviso - l’alzatore stava loro riservando. Forse era
proprio il fatto che non riusciva a spiegarsi quel cambiamento ad innervosire
tanto Komi, o forse era il modo in cui, più che
chiunque altro, Akaashi trattava Bokuto.
Il distacco s'era fatto solido e concreto fra loro e da che erano inseparabili
– o almeno, apparivano – ora sembrava che Keiji non
potesse sopportarne neanche la vista e la sua espressione cambiava chiaramente
ogni volta che il capitano entrava nel suo campo visivo.
A Bokuto non sembrava
importare. O meglio, non sembrava più
importare. Perché per le prime settimane era stato inconsolabile: nessuno dei
suoi compagni del terzo anno e neanche le manager erano riusciti a tirarlo su,
gli allenamenti erano stati terribili e alla fine proprio il più piccolo, Onaga, era andato a parlare con Akaashi
- i senpai a suo modesto parere sarebbero stati
troppo aggressivi.
«Con tutto il rispetto per Bokuto-san,
se non riesce a gestire il suo umore non è di certo colpa mia», aveva risposto
l’alzatore e sarebbe risultato maleducato se il tono della sua voce non fosse
stato così controllato, privo quasi di qualunque sentimento.
Onaga non era riuscito a
replicare nulla perché proprio Bokuto era
intervenuto.
«Via via, Onoga-kun.
Akaashi ha ragione… Ahah,
sono io ad essere un disastro, ma mi impegnerò molto di più da adesso».
Onaga non aveva capito cosa
intendeva davvero Bokuto e per questo non era
riuscito ad aggiungere altro; aveva osservato uno strano scambio di sguardi
passare fra il capitano e il suo alzatore e poi, senza che alcuna parola fosse
aggiunta, Bokuto lo aveva trascinato via dicendogli
di lasciar stare Akaashi.
Da allora le cose erano andate in po’ meglio: Bokuto sembrava quello di sempre e anche se, invece, Akaashi aveva continuato a comportarsi in maniera
distaccata, il capitano non sembrava soffrirne più come prima - o forse aveva
imparato a nasconderlo bene.
«Akaashi!»
L’alzatore si fermò sussultando, un brivido freddo gli
attraversò la schiena: era tanto che Bokuto non lo
chiamava se non durante gli allenamenti, che cosa voleva adesso? Aveva salutato
tutti prima di uscire e aveva detto di non voler andare al karaoke, allora
perché…?
«Akaashi!» lo chiamò di nuovo
il capitano ormai ad un passo da lui «So che hai detto di non voler venire… ma
pensavo che magari potrei convincerti, solo per questa volta! Possiamo
divertirci, come ai vecchi tempi…»
Bokuto prese a giocare con le
dita, evidentemente in imbarazzo. In un altro momento (in un’altra vita?) Akaashi lo avrebbe trovato davvero carino: Koutarou non sembrava avere nulla del senpai in quei momenti, si imbarazzava come qualunque primino e Keiji aveva scoperto di
saper resistere davvero molto poco a quel lato del suo carattere. Ma non
adesso, adesso faceva troppo male. Adesso aveva imparato ad essere saldo come una roccia.
«Scusami, Bokuto-san, ma non
ho voglia di ricordare i vecchi tempi».
Koutarou non sapeva di cosa
stesse parlando l’alzatore, ma non era sicuro di poterlo chiedere: Akaashi era sempre così riservato, così geloso di ciò che
lo riguardava che lui non s'era mai sentito abbastanza per potergli fare
qualche domanda personale, quasi non fosse degno. Per questo, ancora una volta,
lo lasciò andare così, senza aggiungere nulla. E Keiji
gliene fu silenziosamente grato. Aveva cominciato a sentire il freddo salirgli
lungo la schiena quando Bokuto lo aveva fermato e per
tutto il tempo che lo aveva trattenuto non aveva fatto altro che espandersi,
raggiungendo il collo, minacciando di toccargli il viso, di esporlo. Il freddo
dei cristalli.
Akaashi accelerò il passo fino
a che non prese a correre senza rendersene conto. Voleva tornare a casa, al
sicuro, dove controllare le proprie emozioni non sarebbe stato tanto difficile.
Dove avrebbe potuto lasciare che i cristalli lo coprissero tutto senza avere
paura.
La verità era che Akaashi soffriva di cristallizzazione, una malattia tanto
rara da poter essere accomunata ad una vecchia leggenda. Da piccolo, non
l’aveva mai considerata un problema: aveva imparato che erano le emozioni a far
crescere i cristalli lungo la sua pelle e se restava calmo, se si impegnava a
controllare ciò che provava, poteva addirittura dimenticare di esserne affetto.
Per questo a casa facevano un gioco: dovevano dirsi sempre che cosa provavano -
spiegare le emozioni aiutava Akaashi a non farsi
travolgere da esse, a tenere il controllo necessario perché la pelle non si
solidificasse in tanti piccoli e lucenti cristalli ogni volta di colore
diverso.
Ma crescendo le cose s'erano
fatte complicate. Più Keiji diventava grande e più
crescevano le emozioni che sentiva: parlarne non aiutava più, ma anzi rischiava
di peggiorare le cose, di amplificare tutto e quindi Akaashi
aveva smesso. Si era chiuso in se stesso ed aveva lasciato che le cose gli
scivolassero addosso. Anche quando verso la fine dell’ultimo anno di scuole
medie il suo segreto era stato svelato e tanti ragazzini lo avevano additato,
chiedendogli di mostrare le sue pietre, Akaashi non aveva provato nulla. Era così slegato dalla
realtà in cui comunque restava immerso che non gli era importato quando i suoi
genitori avevano deciso di cambiare città per farlo stare più tranquillo. Aveva
accettato solo per farli contenti e i cristalli gli avevano pizzicato le punte
delle dita, quasi in avvertimento; Keiji aveva
sospirato ed era tornato in camera sua lasciando che lentamente tutto tornasse
alla normalità.
La prima volta che aveva di nuovo
provato genuinamente qualcosa aveva rischiato di non riconoscerlo: era stato
tutto così improvviso che la prima cosa che aveva pensato era stata che forse
si stava sentendo male. Aveva giocato a pallavolo alle scuole medie - tra tutti
i club esistenti, Keiji
aveva pensato che quello fosse il più facile da seguire e sebbene gli sport
fossero concitati e pieni di emozioni, aveva pensato che il gioco tanto rapido
della pallavolo non gli avrebbe dato il tempo di reagire emotivamente a ciò che
succedeva in campo. In parte, aveva avuto ragione: era diventato molto bravo a
riconoscere schemi e inventare tattiche, così bravo che per lui ogni partita si
trasformava in un enorme calcolo e in quel modo i cristalli se ne stavano buoni,
raffreddandogli la schiena solo di rado. Forse quella reazione distaccata non
giovava alla squadra, ma ad Akaashi non importava -
finché vincevano e finché la sua malattia non lo divorava, andava tutto bene.
Aveva creduto che alle superiori
sarebbe successa la stessa cosa, per questo era andato senza alcuna esitazione
al club di pallavolo. Ma un uragano lo aveva travolto e aveva deciso per lui
come sarebbero invece andate le cose da quel momento.
«Hey hey hey! Sei
nuovo?»
«S-sì».
«Grandioso! Sei del primo anno? In che ruolo giochi? Ah, giusto, io sono Koutarou Bokuto, piacere!»
«K-Keiji Akaashi. Sono un
alzatore e-»
«Perfetto! Su su, ti fa di provare a farmi qualche
alzata? Alza per me, Akaashi!»
Quel ragazzo lo aveva trascinato
in palestra, piazzandolo sotto la rete e ancora prima di rendersene conto Akaashi gli aveva fatto un’alzata quasi perfetta, basandosi
soltanto sul modo in cui lo sconosciuto era corso in avanti e sullo slancio che
aveva messo nelle gambe. Il resto della palestra, riempita da altri ragazzi che
si stavano allenando, era rimasta in silenzio e anche Bokuto, dopo aver schiacciato quasi lungo la linea
laterale del campo, aveva preso a fissarsi
la mano sbalordito. Poi aveva alzato la testa ed aveva guardato Keiji. I cristalli avevano percorso veloci la schiena del
più piccolo.
«È stato bellissimo!» aveva
esclamato «Sei davvero bravo!»
Akaashi
si era sentito rivolgere complimenti molto più elaborati di quello, eppure per
la prima volta gli si era stretto il petto, facendo quasi male. Non aveva
dovuto aspettare di calmarsi perché i cristalli sparissero: quella semplice
emozione, così simile alla felicità, aveva rimesso a posto ogni cosa. Aveva
scoperto che esisteva un altro modo per guarire e quel modo somigliava
pericolosamente a i capelli a punta bianchi, gli occhi ambra e il sorriso caldo
di Koutarou Bokuto.
Akaashi
non avrebbe voluto altro che quelle sensazioni, quella atmosfera non
cambiassero mai. Ma aveva dovuto ricredersi.
Attraverso la porta chiusa la
voce di sua madre informò il ragazzo che la cena era pronta. Akaashi pensò che il minimo che poteva fare era scusarsi e
dirle che quella sera non avrebbe cenato con il resto della famiglia,
ringraziandola comunque per quello che aveva preparato, ma anche solo alzarsi
dal letto su cui era scivolato una volta tornato a casa gli pareva adesso
un’impresa più grande di lui e i cristalli avevano ricoperto tutta la parte
destra del suo corpo con ammirevole simmetria. Una volta le parole di Bokuto potevano sciogliere quel sottile strato di pietra
che rappresentava il suo malessere; adesso
invece anche lui era fra quelle cose che doveva controllare e tenere a debita
distanza, insieme al resto della squadra.
Il ragazzo si girò pigramente su
di un fianco e facendo vagare lo sguardo sulla parete che aveva davanti. Gli
occhi si fermarono sul calendario, dove un numero era cerchiato più volte in
rosso perché non dimenticasse l’impegno che aveva preso e si preparasse: di lì
a due giorni avrebbe preso parte ad un campo di allenamento con la Nekoma che
lo avrebbe tenuto occupato per tutto il weekend. Quarantotto ore in cui non
avrebbe avuto un minimo di privacy: Akaashi non
sapeva come avrebbe potuto reggerlo senza impazzire o cristallizzarsi del
tutto.
***
«Crist-cosa?»
«Cristallizzazione».
«Che roba è?»
«Non so bene come funzioni, ma in pratica tutto il tuo corpo si ricopre di
cristalli».
«Te lo sei inventato, non può esistere una cosa del genere. E Akaashi ne soffrirebbe?»
Keiji trattiene il fiato. Ha da poco lasciato gli spogliatoi, ma mentre
usciva dalla palestra si è accorto di non avere con sé il cellulare e ha
pensato di tornare sui suoi passi per cercarlo. Ora è davanti la porta
socchiusa e ha appena ascoltato l’ultima cosa che avrebbe voluto mai sentire
provenire dai suoi compagni di squadra. Lo hanno scoperto. Come? La
cristallizzazione lo ha infastidito davvero di rado mentre è stato con loro e
in ogni caso è sempre riuscito a controllarla senza alcuna difficoltà, quindi
come…?
Si rende conto che non gli importa poi molto. Deve fare una scelta e
deve essere molto veloce: vuole affrontarli a viso aperto, mostrandosi per
quello che è, o lasciar perdere e andare via, facendo finta di nulla e
aspettando che siano poi loro a cercarlo? Deve decidere in pochi secondi, prima
di sentire altro, prima che-
«Che roba assurda».
«Dici?»
«E tu no?»
«Questo lo rende parecchio strambo… Non so che pensare…»
Le ultime parole sono di Bokuto e Akaashi non sa perché facciano tanto male. Avrebbe potuto
usare parole più forti, più cattive, come quelle dei suoi compagni delle medie
che invece non lo avevano sconvolto tanto. Invece è bastata qualche parola,
l’esitazione che non ha mai sentito nella sua voce a far sì che si spezzi
qualcosa in lui. I cristalli corrono più veloci che mai: salgono lungo la
schiena, gli cingono i fianchi e la pancia con tocco freddo e arrivano poi su
fino al collo, per la prima volta fino al viso. Keiji
sente gli zigomi solidificarsi e si chiede se sia la fine, se stia davvero
correndo il rischio di restare bloccato in quella espressione e posizione per
sempre.
Aiuto, pensa ma non riesce a muoversi, non sa come si fa e le parole di Bokuto continuano a ferirlo e pietrificarlo.
Akaashi
si svegliò di soprassalto, sudato e col respiro affannato. Intorno a lui la
quasi totale oscurità lo disorientò per qualche istante, lasciandolo nel dubbio
su dove si trovasse. Il silenzio lo aiutò ad orientarsi: c'erano diversi
respiri intorno a lui e la loro regolarità gli suggerì che di chiunque fossero,
stavano tutti dormendo. Perché era venerdì sera e la Fukurodani
era appena arrivata alla palestra della Nekoma: avevano passato la serata
insieme ed avevano deciso di dormire tutti lì per cominciare quanto prima la
mattina successiva.
L’alzatore si avvolse nel futon,
raggomitolandosi con le braccia strette al petto e le ginocchia in alto. Il
ricordo del momento in cui tutto era cambiato continuava a perseguitarlo anche
a distanza di mesi e mentre dormiva s'era agitato a tal punto che ora tutto il
suo fianco sinistro era ricoperto di cristalli - poteva sentirli sotto la
maglietta mentre si accarezzava, cercando di ritrovare la calma.
Nei giorni seguenti alla
conversazione che aveva origliato, nessuno lo aveva chiamato in disparte per
parlargli di ciò che tutta la squadra aveva ormai scoperto, né l’argomento era
mai saltato fuori quando erano tutti insieme. Akaashi
avrebbe potuto illudersi che alla fine non ci avessero creduto davvero o che
magari non gli importava più di tanto, ma si era accorto subito che, nonostante
il silenzio, qualcosa era cambiato. Erano differenze sottili, minimi
cambiamenti nel modo in cui i ragazzi si comportavano intorno a lui: sembrava
avessero paura di sfiorarlo o anche solo di avvicinarsi e anche Bokuto, che solitamente era così diretto e fisico con
tutti, ora si tratteneva, faceva un passo indietro, diceva una parola in meno.
I primi giorni resistere era
stato difficilissimo. I cristalli non avevano quasi mai lasciato la sua schiena
e spesso Keiji si era ritrovato a stringere i pugni e
sperare che non comparissero anche sulle sue mani, che si fermassero alle punte
delle dita e non andassero oltre il colletto della maglietta. Il silenzio lo
aveva ferito più di tutte le parole cattive che si aspettava gli avrebbero
rivolto: forse avevano paura di beccarsela anche loro quella roba assurda che lo rendeva tanto strambo, un fenomeno da baraccone,
forse addirittura un mostro.
Il freddo aveva invaso il suo
rapporto con la squadra e con la pallavolo e per sopravvivere, alla fine, Akaashi non aveva trovato altra soluzione se non quella di
chiudere di nuovo tutte le porte. Si era imposto di non provare più nulla per
nessuno, aveva messo su la solita maschera di distaccata cortesia ed aveva
continuato nel modo più logico ed efficiente possibile, come se le attività del
club fossero un’equazione matematica da portare a termine nel modo più
veloce e pulito possibile.
Nel farlo aveva finalmente capito
perché Bokuto lo aveva ferito tanto. Era lo stesso
motivo per cui lo aveva fatto stare così bene la prima volta che s’erano visti,
lo stesso motivo per cui adesso non riusciva a chiuderlo fuori come aveva fatto
con gli altri. Bokuto era qualcosa in più, lo era
sempre stato ed eliminarlo non era così semplice. Si era innamorato di lui,
così lentamente, un granello di sabbia al giorno, che adesso ammetterlo gli
pareva assurdo e al contempo l’unica soluzione possibile.
Bokuto
era il solo che gli facesse provare ancora così tanto dolore ed un groviglio di
altre emozioni confuse che allargavano i cristalli sulla sua schiena e
stringevano lo stomaco. Avrebbe voluto farne a meno, voleva così disperatamente
farne a meno ma non poteva, non sapeva farlo, sarebbe stato più facile
staccarsi di dosso quei dannati cristalli che gli stavano rovinando la vita.
«Bokuto
è preoccupato»
La voce sottile di Komi lo strappò ai suoi pensieri ed Akaashi
si irrigidì, trattenendo il respiro e poi cercando di regolarizzarlo, così che
nessuno si accorgesse di lui. Si chiese perché si fosse svegliato proprio in
quel momento, giusto in tempo per sentire qualcosa che avrebbe potuto ferirlo
ancora, ma allo stesso tempo non fu in grado di distrarsi e anzi gli parve che
ogni più piccolo rumore si fosse fermato proprio per permettere a lui di
ascoltare meglio. Non aveva alcuna possibilità di scappare.
«Non credo che Bokuto sappia che significa essere preoccupati», rispose
un’altra voce, forse quella di Konoha, che Akaashi distingueva con difficoltà tanto era bassa. Il
battito leggermente accelerato del cuore gli rimbombava nelle orecchie,
confondendosi con le parole e più il ragazzo si sforzava di sentire, più quel rumore diventava forte, rischiando di
sovrastare ogni altra cosa.
«Già», si fece scappare Komi - ad un tono di voce leggermente più alto e più facile
da sentire «Ma è molto teso, basta vedere con quanta velocità oggi è cambiato
il suo umore. E sappiamo che ha a che fare con Akaashi».
Il sospiro pesante dello
schiacciatore fece cadere per qualche istante il silenzio. Akaashi
voleva smettere di porre tanta attenzione a quella conversazione e tornare a
concentrarsi su di sé, su come far sparire i cristalli - che, con alito gelido,
gli avevano afferrato la nuca ed il collo - magari riprendendo sonno, perché
dormire placava quasi sempre quel mare in burrasca e soprattutto perché non
aveva alcun bisogno di sentire di Bokuto che si
preoccupava per colpa sua. Se fosse stato da solo,
avrebbe gridato tutto ciò che sentiva il quel momento, ma in quella situazione
doveva sopprimere ogni cosa e recuperare la calma più piatta.
«Credi ci saranno problemi?»,
riprese a parlare Konoha e stavolta la sua voce era
più alta e distrusse i buoni propositi dell’alzatore. Problemi? Per via della
sua presenza in campo? Non aveva mai causato problemi alla squadra, perché
preoccuparsene adesso?
«Non saprei… Non è il primo campo
che facciamo con lui, però adesso è diverso
e non vorrei-»
Haruki
si zittì senza concludere la frase. Keiji gli volgeva
le spalle e non riuscì a capire che cosa lo avesse bloccato, se non avesse
voluto andare oltre per una qualche sua remora,
o se qualcosa o qualcuno lo avesse costretto al silenzio. Dopotutto, non gli
importava: tutto ciò che doveva fare era dimostrare alla squadra e a Bokuto di potersela cavare, di non essere un peso per
nessuno. Così magari…
Interruppe quella speranza ancora
prima di averne consapevolezza e la uccise con lo stesso disinteresse con cui
si uccide un moscerino. Non avrebbe fatto ancora lo stesso errore, non sarebbe
stato più lo zimbello di nessuno.
Keiji
sentì i suoi compagni di squadra muoversi per un po’ tra le lenzuola e quando
nella stanza fu nuovamente calato il silenzio, immaginò che avessero ripreso a
dormire; ma anche così lui non riuscì più a prendere sonno. Non avrebbe voluto
continuare a pensare, ossessionarsi sempre sugli stessi pensieri che lo
rendevano patetico, perché avrebbe potuto parlare apertamente, liberamente,
chiedere al resto della Fukurodani che cosa pensasse
di lui e della sua condizione; ma si era scoperto codardo e la paura di ciò che
avrebbero potuto dirgli era più forte del dolore che stava comunque provando,
del male che il loro comportamento gli stava già facendo. Si concentrò sulle
partite della mattina seguente, ripassò gli schemi, i punti di forza e debolezza
di ogni giocatore della Nekoma e soprattutto il modo in cui ognuno dei suoi
compagni preferiva ricevere le sue alzate. La pallavolo era facile, era logica
per Akaashi, gli permetteva di dimenticare tutto il
resto. Quando era sul campo, i cristalli scomparivano, non esistevano
incomprensioni tanto grandi e anche la sua voglia di gridare veniva meno:
tutto, nei pochi secondi di un’azione, si riduceva all’essenziale. E Akaashi aveva sempre vissuto bene con l’essenziale.
L’alba lo trovò sveglio a non pensare
a nulla, con gli occhi chiusi ma i sensi in allerta. Lentamente la calma era
tornata e con essa anche il respiro tranquillo; la mente s’era zittita e in
qualche modo Keiji aveva riposato almeno un po’. Si
alzò per primo, cercando di non far rumore, e si diresse al bagno per vestirsi.
Nello spazio di quel silenzio inaspettato, il ragazzo riuscì a trovare un po’
di tranquillità e intimità e, nonostante
stesse facendo la doccia nello spogliatoio della sua squadra, gli sembrò di
riuscire a rilassarsi quel po’ che bastava per potersi muovere senza dover
essere costantemente consapevole delle condizioni del suo corpo. Stette a
fissare il suo profilo riflesso in uno specchio che arrivava fino a terra per
diversi secondi: sottile e brillante, uno strato di cristalli lanciava
riverberi rosei seguendo la linea della sua colonna vertebrale, ma senza
espandersi oltre. Sembrava un monito a non abbassare troppo la guardia e Akaashi non se ne rammaricò: avrebbe potuto gestire quella
situazione in maniera peggiore - quello era davvero il minimo. Aveva da poco
finito di vestirsi quando sentì i primi movimenti provenire dall’esterno.
«Buongiorno», lo salutarono un
paio di compagni di squadra, entrando nello spogliatoio e, dietro di loro, Bokuto lo accolse con uno dei suoi soliti sorrisi
esagerati.
Akaashi
ricambiò la cortesia senza esporsi troppo e avrebbe tirato dritto per la sua
strada se proprio il capitano non lo avesse fermato, prendendolo per il polso
con un tocco stranamente delicato e portandolo in disparte. L’ansia
cristallizzò il sudore freddo dell’alzatore sul collo e nel palmo della mano
libera, che prontamente chiuse in un pugno. Si sentiva stupido: lui tanto
logico e calmo, messo in ginocchio da un semplice contatto.
«Volevo chiederti…» Bokuto pareva nervoso - non era solito andare tanto per il
sottile e usare giri di parole, lui era sempre stato schietto e diretto, lo
aveva sempre chiamato gridando e cambiando il suo nome nelle maniere più
assurde, aggrappandosi alla sua schiena nei momenti di sconforto e addirittura sollevandolo
in quelli di pura euforia. Ad Akaashi mancava tutto
quello, mancava la spontaneità di Bokuto e il calore
della Fukurodani.
«Stai bene?» riuscì a domandando
il capitano.
«Certo, Bokuto-san».
Nel modo in cui Koutarou scrutò Keiji per avere
conferma delle sue parole, l’alzatore riconobbe qualcosa della spontaneità che
non vedeva da tempo, ma durò poco ed un cipiglio che non poteva essere definito
in altro modo se non preoccupato corrugò la fonte del più grande. Konoha aveva avuto ragione quella notte: Bokuto con una simile espressione era assurdo,
irriconoscibile.
«Sei sicuro di poter giocare?»
Perché non gli chiedeva
direttamente dei cristalli? Akaashi odiava quel gioco
di detto e non detto, quel discorso che proseguiva parallelamente su due piani
diversi, dove parlando di uno, si
intendeva per forza anche l’altro, anche se non era mai direttamente nominato.
Gridagli dei tuoi cristalli, continuava a ripetersi mentre Bokuto ancora lo guardava. Gridagli addosso la verità! Rischia! Ma era difficile, dannatamente
difficile.
«Starò bene, Bokuto-san.
Grazie per l’interessamento. Forse è il caso di cominciare il riscaldamento»,
disse, invece, e si defilò mentre la schiena si irrigidiva e raffreddava. Akaashi odiava quel gioco, ma era diventato il più bravo.
Gestire i suoi pensieri e i suoi
sensi di colpa divenne più facile quando entrambe le squadre giunsero in
palestra e cominciarono gli esercizi di riscaldamento: Bokuto
sembrava davvero concentrato così come il resto dei giocatori e per Akaashi fu facile entrare nel ruolo di primo alzatore,
pilastro della squadra. Si trattava di un campo di allenamento, questo era
vero, ma in fondo né la Nekoma né la Fukurodani
avevano intenzione di perdere e la tensione restava palpabile. Keiji pensò che quella fosse la sua occasione per
dimostrare a tutti che restava lo stesso giocare affidabile di prima che gli
altri venissero a conoscenza del suo segreto: li avrebbe lasciati a bocca
aperta, sarebbe stata la sua rivincita per tutte le volte che era stato
allontanato, per ogni cosa che aveva perso. Allora, forse, sarebbero anche
riusciti a parlarne, forse la squadra non lo avrebbe temuto più come adesso e
l’argomento sarebbe stato più facile da affrontare da entrambe le parti.
Il gioco era serrato. La Nekoma
era sempre stata una squadra temibile, ma ora sembrava essere migliorata ancora
di più e il primino per metà russo, Lev, aveva una
schiacciata pericolosa. Akaashi si accorse che anche
Kenma era migliorato: la mente della Nekoma ora pensava e decideva con una
velocità ed una imprevedibilità maggiori rispetto all’ultima volta che lo aveva
affrontato, tanto che nei primi set era riuscito a far punto con alcuni tocchi
di seconda che Akaashi non era riuscito a prevedere.
Ma non poteva perdere, non contro
di lui, non sul conto totale di set disputati nella giornata. Per Akaashi, punto dopo punto, alzata dopo alzata, quel campo
di allenamento si stava sempre più trasformando in un banco di prova troppo
importante e più pensava ai nuovi significati che quei set avrebbero potuto
avere per lui, più perdeva, senza rendersene conto, la freddezza con cui fino a
quel momento si era sempre mosso. Il suo gioco non ne risentiva, continuava ad
essere impeccabile, ma i cristalli premevano sulla pelle, pronti a sbocciare
alla prima occasione. Ed il freno che li tratteneva saltò nel momento meno
opportuno.
Lo scambio durava da tanto, la
palla era rimbalzata da una metà campo all’altra senza cadere e le squadre si contendevano
il punto quasi ne andasse della loro vita. Il fiato si faceva pesante, le gambe
più stanche per aver saltato e corso senza sosta, i riflessi minacciavano di
non reggere più un gioco in cui la frazione di secondo e il centimetro facevano
la differenza. Akaashi non perdeva di vista la palla
e controllava allo stesso tempo la posizione dei compagni e degli avversari, il
suo spazio sotto rete, le intenzioni di Kenma: c'era così tanto da tenere a
bada e, per quanto ci fosse abituato, d’un tratto sentì il terrore della sconfitta
paralizzarlo. Ma non fu un suo errore a far perdere alla Fukurodani
quel punto: la schiacciata di Bokuto andò lunga,
mancando di poco la linea di fondocampo.
«Dannazione!» esclamò il
capitano, mettendosi le mani nei capelli e disperandosi «Sono un pessimo,
pessimo asso! Non dovreste più passarmi nessuna palla!»
Di norma, a quella battuta tutti
avrebbero cominciato a concordare la migliore delle tattiche per sventare
quanto prima la crisi depressiva di Bokuto; ma in
quel momento nessuno si avvicinò al capitano per confortarlo, né dalla panchina
arrivarono indicazioni o grida di incoraggiamento. Koutarou
alzò la testa e vide il resto della squadra fissare un punto che non era lui;
quando il suo sguardo seguì quella traiettoria, il capitano sussultò.
Sotto rete, rivolto di profilo
verso le due squadre, Akaashi aveva quasi tutta la
pelle esposta ricoperta di scintillanti cristalli color miele. L’espressione
del suo viso, in parte ghiacciato dalla malattia, era di puro terrore mentre il
respiro, mozzatoglisi in gola, faticava a trovare la
strada verso i polmoni. Keiji non sapeva che cosa
fare e le prime lacrime gli rigarono il viso senza che se ne accorgesse. Non
sapeva che cosa aspettarsi quando provò a spostare gli occhi sui ragazzi che,
ancora in campo, sembravano pietrificati quanto lui: gli sguardi smarriti e
preoccupati da entrambe le parti lo presero allo stomaco. Ebbe voglia di
vomitare.
Cosa gli era successo? Come aveva
fatto ad esplodere in quel modo? Keiji non aveva la
minima idea di cosa fare e pensare di muoversi sembrava difficile tanto quanto
restare lì, sotto lo sguardo ormai consapevole e turbato di tutti. Il mostro
era venuto allo scoperto, lo strambo aveva finalmente svelato le sue carte -
ora non ci sarebbero stati discorsi da affrontare e forse non c’era più neanche
la possibilità di riparare a ciò che era successo.
«A-Akaashi…?»
Il primo a rompere
quell’incantesimo fu Bokuto. Il capitano mosse
qualche passo avanti in maniera incerta, allungando una mano verso il suo
alzatore senza sapere bene che cosa fare. A Keiji
parve di vedere un cacciatore che cerca di avvicinare una bestia selvatica e,
proprio come un animale braccato, ai primi segni evidenti di un possibile
contatto, le sue gambe si mossero prima della mente ed Akaashi
si ritrovò a scappare.
Non aveva mai corso tanto
velocemente in quelle condizioni, perché quando la pelle diventava così dura
rendeva difficile anche i più piccoli movimenti; cadde diverse volte e sentì la
superficie dei cristalli crepare, riempiendosi di sottile venature, ma si
rialzò per riprendere a correre, per andare lontano quanto più possibile e
fuggire da se stesso e qualunque conseguenza avrebbe avuto ciò che era appena
successo. Avesse potuto, sarebbe tornato a casa in quello slancio disperato che
lo rendeva sordo a qualunque sensazione non fosse il panico che gli correva nel
sangue e il dolore che gli attanagliava il petto.
All’ennesima caduta la caviglia
gli fece tanto male da non permettergli di rialzarsi. Akaashi
restò a terra, raggruppato su se stesso, prendendo fiato con forza e lasciando
senza alcuna cura che l’aria fredda gli ferisse i polmoni. Mentre con una mano
si stringeva il punto da cui il dolore si irradiava a tutta la gamba, con la
mente tornò alla palestra, alla partita, al modo in cui tutto era esploso. Si
rese conto che non s'era accorto di nulla, che tutta la pratica che aveva fatto
negli anni non era stata in grado di aiutarlo nel solo momento in cui ne aveva
davvero avuto bisogno, con le sole persone a cui tenesse davvero. Perché alla Fukurodani - e a Bokuto - Akaashi teneva tantissimo, anche se stava cercando con tutto se stesso di allontanarsi,
anche se non era riuscito a dir loro la verità e adesso non sapeva da dove
cominciare a rimettere insieme i pezzi.
Aggrappandosi alla parete del
corridoio che stava percorrendo, Akaashi riuscì a
tirarsi su e, zoppicante, riprese a muoversi: non aveva idea di dove
andare o cosa fare, ma era certo di non avere alcuna intenzione di farsi
trovare in quello stato dai suoi compagni. La struttura in cui si stavano
allenando era predisposta per ospitare diverse squadre contemporaneamente e Keiji si accorse di essere arrivato all’ultima delle
palestre; si infilò all’interno degli spogliatoi vuoti e freddi ed usò uno
degli asciugamani che trovò nel bagno, bagnato con acqua fredda, per fasciare
la caviglia ed evitare che, una volta spariti i cristalli, si gonfiasse. Si
rese conto di non avere la minima idea di cosa avrebbe trovato sulla sua pelle
una volta che la cristallizzazione fosse tornata sotto controllo, ma non gli
importava in quel momento. Stendendosi su un grosso telo che aveva trovato nel
mobile del bagno, Akaashi cercò di fare ordine nella
sua testa, sfruttando il tempo che aveva a disposizione prima che qualcuno
decidesse di cercarlo anche lì.
Ad un tratto fu certo di sentire
dei passi avvicinarsi agli spogliatoi, ma nessuno fece capolino dalla porta.
Forse nessuno lo stava cercando.
***
Era stato il coach a trovarlo,
ore dopo, accompagnato dai suoi genitori. Akaashi non
aveva parlato e si era lasciato stringere in un abbraccio da sua madre,
accettando le carezze con cui suo padre aveva cercato di confortarlo e
lasciandosi portare via da loro. Non aveva voluto essere forte in quel momento
e non gli era importato di come sarebbe apparso, di chi lo avrebbe visto:
restare da solo in quelle ore non aveva fatto altro che rimpicciolirlo e di lui
non era rimasta che quella distesa di cristalli che non era riuscito a
sciogliere del tutto e ancora lo esponevano coprendogli una guancia.
Era rimasto a casa da allora. Si
vergognava? Non avrebbe definito esattamente così ciò che provava: non s’era
mai preoccupato di quello che avrebbero pensato gli altri, non prima di
conoscere i ragazzi della Fukurodani. Aveva paura?
Forse. Forse temeva la loro reazione più del loro giudizio e il loro definitivo
allontanamento più delle parole crudeli che avrebbero potuto rivolgergli. Sotto
le coperte del letto che non aveva lasciato quasi mai in quella settimana s’era
chiesto come sarebbe stato rivederli e come soprattutto Bokuto
avrebbe reagito. La sola idea che potesse fare un passo - un altro - indietro
ed essere ancora più controllato con lui gli aveva fatto salire la nausea.
Ma Akaashi
non era il tipo di persona che se ne stava a letto fino a tardi e girava per
casa in pigiama. Akaashi era sempre stato energico ed
ordinato, teneva al proprio aspetto e anche nel più informale dei momenti era
impeccabile; questo gli aveva sempre conferito un’aura di perfezione in cui lui
non si rivedeva così tanto ma che non gli dispiaceva. E che, soprattutto, in
quei giorni non aveva avuto. Per questo motivo, benché non si sentisse affatto
pronto ad uscire, non era riuscito oltre a
restare chiuso tra le mura di casa sua ed aveva deciso di tornare a scuola. I
suoi genitori avevano nascosto la preoccupazione e s’erano mostrati fiduciosi:
sapevano che anche dietro alle più piccola delle scelte di Keiji
c’era un lungo ragionamento e non avevano mai avuto motivo di non fidarsi del
suo giudizio.
L’alzatore era arrivato a scuola
cercando di tenere tutto sotto controllo: era uscito in anticipo ed aveva
camminato con calma, a testa alta, come fosse un giorno qualunque, come aveva
fatto anche dopo l’incidente alle scuole medie, prima di trasferirsi. Non gli
importava degli altri, non gli importava se la scuola ormai conosceva il suo
segreto, anzi ne era sollevato perché non avrebbe dovuto più nascondersi. Si
era scoperto fragile quando aveva incrociato lo sguardo di alcuni senpai del terzo anno che giocavano con lui - era durato
solo qualche istante perché aveva accelerato il passo e cambiato corridoio
quanto prima, eppure aveva chiaramente sentito lo stomaco chiudersi e il petto
stringersi in una morsa soffocante.
Va tutto bene, si era detto, entrando finalmente in aula, Qualunque cosa accada non è colpa tua e
sarai forte abbastanza da non lasciarti scalfire. Sei un cristallo dopotutto,
giusto? Voleva crederci, voleva convincersi di essere forte come quando era
piccolo, come quando non aveva conosciuto i ragazzi della Fukurodani.
Quando la classe si era riempita,
Akaashi si era aspettato che qualcuno lo avvicinasse,
ma aveva lentamente realizzato che nessuno dei suoi compagni di scuola si stava
comportando in maniera diversa dal solito con lui: lo avevano salutato, chiedendogli
se stesse bene dopo il tempo passato a casa, ma si erano mostrati cordiali,
tanto che alla fine il ragazzo aveva capito che, più semplicemente, nessuno
aveva saputo nulla dell'incidente al campo d'allenamento. Keiji
avrebbe voluto dire che non gli importava, che gli sarebbe andata bene
qualunque cosa, ma dovette ammettere che quella tranquillità lo rilassò
abbastanza da premettergli di seguire le lezioni del mattino senza troppi
problemi.
«Pranzi con noi, Akaashi?»
Il ragazzo fissò per qualche
istante i due compagni di classe che gli si erano avvicinati senza sapere che
cosa dire. Non era insolito che pranzassero insieme eppure per qualche ragione Keiji era convinto che quella mattina sarebbe stato da
solo. Forse ci sperava, perché in questo modo avrebbe avuto tempo per
riflettere, per prepararsi mentalmente all’incontro col club di pallavolo dopo
le lezioni del pomeriggio. Ma allo stesso tempo gli fece piacere sentire quella
richiesta: rientrava in una quotidianità che credeva di aver perduto.
Presero a parlare del più e del
meno mentre la classe si svuotava: la lezione di matematica aveva fatto girare
la testa a tutti e non in maniera positiva, quella di letteratura era stata
interessante come al solito ed il professore di storia aveva rischiato di far
fuori mezza classe spiegando con quel suo fare più soporifero di un’anestesia. Akaashi riuscì ad entrare nella conversazione con più
facilità di quanto si sarebbe aspettato e durante tutto il tempo che rimase con
loro, la sua pelle non si irrigidì neanche
una volta.
Avevano ormai finito di mangiare
quando la porta dell’aula scattò con un rumore sordo che l’alzatore riconobbe
per istinto.
«Akaashi!!!»
si sentì chiamare e non dovette voltarsi per sapere di chi si trattava. Se non
avesse avuto improvvisamente così tanta paura di quel confronto, avrebbe
sorriso, perché era da tanto che Bokuto non lo
chiamava in quel modo e, nonostante tutto, stava realizzando che gli era
mancato. Il collo gli si congelò in pochi secondi con un sottile strato
violaceo che si allungò alle scapole e sul petto fino allo sterno.
«B-Bokuto-san»,
riuscì a balbettare a disagio, ma il più grande raggiunse in poche falcate il
suo banco e senza dire altro, ma sorridendo, lo prese per un polso con
l’intenzione di trascinarlo via.
«Scusate», disse poi mentre
riprendeva a camminare portandolo con sé «Ma abbiamo una cosa da fare ora».
Akaashi
provò a balbettare qualche debole protesta per quella che, appena usciti
dall'aula, s'era trasformata in una corsa di cui non conosceva la meta finale,
ma probabilmente il capitano della Fukurodani non lo
sentì neanche; e per questo, in breve, Keiji si arrese a lasciarsi trascinare ovunque Bokuto avesse deciso di portarlo. Mentre correvano insieme
come non avevano mai fatto, l’alzatore si
perse in quella figura dalle spalle larghe che aveva sempre guardato con
una imbarazzante ammirazione e dai capelli assurdi che all’inizio aveva
giudicato davvero male, ma a cui ormai aveva finito con l’affezionarsi; la
presa sul suo polso era salda, ma non faceva male e anzi creava uno strano
contrasto di calore contro il freddo della cristallizzazione.
Entrarono nel laboratorio di
scienze, ovviamente vuoto, e solo allora Bokuto lo
lasciò andare, avendo cura di chiudere la porta dietro di loro. Akaashi si guardò intorno senza capire che cosa ci
facessero lì, ma gli occhi brillanti con cui il capitano lo stava fissando gli
rendevano impossibile fingere che quella situazione non fosse strana.
«Ah, Bokuto-san,
se è per chiedermi qualche nozione di scienze, forse dovresti rivolgerti a
qualche altro ragazzo del terzo anno, perché non credo di essere in grado-».
Non era raro che Bokuto gli chiedesse di studiare con
lui, anche solo nella stessa stanza: diceva di riuscire a concentrarsi meglio e
ad Akaashi in fondo non dispiaceva - era da un po’
che non studiavano insieme, ad ogni modo.
«Topazio», lo interruppe Bokuto, prendendo un piccolo campione di quel minerale
dalla teca in fondo alla stanza e mostrandolo all’alzatore.
«Bokuto-san,
non sono certo che quelli si possano toccare senza guanti-», cercò di ammonirlo
l’alzatore, ma Koutarou avvicinò ancora di più la
pietra al suo viso.
«Eri un pezzo di topazio al campo
d’allenamento», insistette e Akaashi spalancò gli occhi,
tramortito da quella frase. Quindi era dell’incidente che voleva parlare? Che
cosa gli avrebbe detto? Keiji si accorse di avere
paura.
«Non... non credevo fosse così.
Quando ho scoperto che cosa fosse la cristallizzazione».
Bokuto pronunciò quella parola con cura, lentamente,
per non fare errori tra tutte quelle sillabe «Credevo diventassi di pietra,
sai, tipo una statua. Invece eri-».
«Un cristallo».
«Bellissimo».
Keiji
sussultò. Voleva soltanto puntualizzare che quando la sua pelle si induriva, non diventava una pietra,
né qualcosa di simile al marmo o al gesso con cui potevano essere fatte le
statue. Di certo non si aspettava che Bokuto gli
dicesse… e con quegli occhi poi, e quel sorriso così bianco, così bello, così
caldo. No, Akaashi non si aspettava davvero quella
reazione, non si aspettava che Bokuto volesse restare
ancora in quella stanza con lui, che volesse avvicinarsi come stava facendo e
quella mano che stava allungando adesso…
«Posso?» si sentì chiedere, ma
non sapeva a cosa si stesse riferendo e non lo capì finché le dita di Koutarou non sfiorarono i cristalli che erano saliti fino
al collo senza che lui se ne accorgesse, esponendolo.
Solo allora, a quel contatto, Akaashi fece un passo indietro, sussultando.
«Fa male?» volle sapere Bokuto, ma per Keiji parlare era
difficile: aveva il fiato corto, la bocca secca e ancora quella parola che
risuonava dolce e drammatica nella testa. Bellissimo.
Il ragazzo scosse la testa, per
rassicurarlo: era strana la percezione tattile che aveva quando la sua pelle si
trasformava. Riusciva ancora a sentire se qualcosa lo sfiorava e poteva farsi
male se urtava contro qualcosa in maniera abbastanza violenta (i graffi e i
tagli che si era ritrovato addosso dopo essere caduto mentre scappava dalla
palestra ne erano stati una prova evidente) ma in qualche modo tutto era
ovattato, distante, le percezioni erano sbiadite e giungevano con difficoltà,
con la stessa difficoltà con cui poteva muoversi.
«Ti va...» La voce di Bokuto era appena un sussurro e Keiji
poté sentirlo solo perché c’era il silenzio più assoluto nella stanza. «Ti va
di mostrarmelo?»
Akaashi
inclinò appena la testa, in un sincero gesto di confusione, cercando negli
occhi del capitano il senso della sua richiesta: voleva che gli mostrasse…
cosa, esattamente? Ma gli occhi di Bokuto erano fissi
sul suo collo e allora Keiji cominciò a capire.
Deglutì, incerto - lui conosceva ogni centimetro di quei cristalli e aveva
annotato tutte le diverse forme che di volta in volta avevano assunto negli
anni per capire se esistesse qualche sorta di schema, se cambiavano colore e natura,
magari in relazione a ciò che provava. Ma non era mai riuscito a stabilire un
ordine e, crescendo, aveva rinunciato. Ma nessuno gli aveva mai chiesto di
vedere quel suo stato.
Si sfilò la giacca, poggiandola
su uno dei tavoli che aveva vicino e allentò la cravatta quel tanto che bastava
per poterla far passare attraverso la testa. Sbottonò con lentezza la camicia e
per la prima volta lasciò che qualcun’altro osservasse come i cristalli avevano
coperto gran parte del suo petto, lanciando riverberi violacei quasi fino alla
pancia. Bokuto gli si avvicinò di nuovo e senza più
chiedergli il permesso, come un bambino che ammira le scintillanti decorazioni
di Natale e non può non toccarle: allungò le dita a sfiorare quella corazza
elegante e fredda, creando senza rendersene conto strani percorsi sulla
superficie e solo quando salì di nuovo fino al collo e trovò più su gli occhi
di Akaashi, si
accorse di quello che stava facendo. Keiji era
arrossito per un contatto tanto prolungato e i suoi occhi erano diventati più
scuri.
Mai, nelle sue più assurde fantasie,
avrebbe mai pensato che Bokuto potesse toccarlo
mentre era così. O che potesse toccarlo e basta.
«S-scusami.
Io- io- non stavo pensando. È solo che-».
Non continuò a parlare ma si
allontanò di colpo, tanto che Akaashi sentì
chiaramente il freddo dell’assenza del suo corpo, fino a quel momento così
vicino a lui, e istintivamente divenne un po’ più triste. Bokuto
era corso verso la libreria e stava cercando con una certa puerile impazienza
un libro specifico, a giudicare dalla velocità con cui gli occhi ed una mano
passavano lungo i dorsi dei tomi senza fermarsi, finché un esclamazione non
annunciò che aveva trovato quello giusto. Estrasse un grosso volume dalla forma
quasi quadrata e lo poggiò con un tonfo sul tavolo più vicino, aprendolo con
una certa fretta e sfogliando velocemente le pagine piene di immagini.
La curiosità vinse qualunque
reticenza di Keiji e gli permise di avvicinarsi al
suo capitano proprio mentre questi batteva con una mano su un’immagine, felice,
per poi alzare il grosso volume e mostrarglielo.
«Sei un’ametista adesso!
Un’ametista, Akaashi!» esclamò e l’alzatore si guardò
istintivamente il petto per confermare quella facile deduzione.
Bokuto
aveva avuto ragione: la foto del libro era molto simile allo strato di
cristallo che lo ricopriva e, a pensarci bene,
non era la prima volta che vedeva quel viola. Aveva già annotato l’ametista nei
suoi appunti, ma c’era qualcosa di diverso adesso: il colore era più scuro, più
intenso di come lo ricordava… e soprattutto, rialzando la testa e ritrovando
gli occhi di Bokuto, che non riuscivano a staccarsi
dalla sua pelle, a Keiji parve che anche quelli si
fossero scuriti, trasformando il dorato che di solito li riempiva in qualcosa
di nuovo, che non aveva mai visto. Sembrava un gioco di specchi, un
cortocircuito in cui, passando dagli occhi all’ametista e di nuovo agli occhi,
cresceva l’intensità dei colori e di ciò facevano loro provare.
«Ci-ci
sono altri minerali qui che potrei riconoscere...», mormorò Akaashi
per spezzare l’atmosfera che sembrava essersi fatta pesante. Si mise di fianco
a Bokuto e dopo aver sistemato qualche bottone della
camicia prese a sfogliare il libro, senza essere davvero interessato. Voleva
avere qualche istante per pensare con lucidità, per capire che cosa stava
succedendo.
Aveva sempre pensato che Bokuto si fosse allontanato insieme al resto della squadra
perché spaventato dalla sua malattia. Quindi che senso aveva, adesso, quello
che stavano facendo? Che senso aveva dire che era bellissimo - bellissimo lui o
il cristallo, poi? - e cercare con tanto entusiasmo i giusti riferimenti? Lo stomaco
di Keiji era ancora sottosopra per il modo in cui il
capitano lo aveva sfiorato, ma non voleva far correre troppo i pensieri perché
conosceva la volubilità di Bokuto e la bruttezza
della sua malattia.
«Avete detto che era una roba assurda».
Koutarou
si voltò a guardare Keiji. L’alzatore stava ancora
col capo chino sul libro, ma gli occhi non sembravano concentrati, fissavano il
vuoto fra le righe e le figure.
«Ci… Ci hai sentiti, eh?»
«Lo avete detto…»
«Non lo è forse?»
«Tu hai detto che sono strambo, che non sai cosa pensare-»
«Ma tu sei strambo. Insomma, la
tua pelle si trasforma in ametista e topazio e chissà quanti altri minerali!
Sei strambo forte e davvero non sapevo che cosa pensare, non sapevo neanche che
potesse esistere una cosa del genere!»
Bokuto
parlava nel modo più schietto e possibile e Akaashi
si sentiva quasi a disagio nel provare risentimento per quelle parole.
Possibile che non riuscisse a capire quando fossero offensive?
«Anche io sono strambo», continuò
Koutarou e di nuovo sul suo volto si allargò un
grosso sorriso mentre portava le braccia dietro la testa in un gesto di totale
spensieratezza «Questo non mi rende una brutta persona» ammise con un’alzata di
spalle «Sono solo diverso e ci sto bene nel mio spazio. Mi piace la persona che
sono e mi piacciono le amicizie e i legami che la mia stramberia mi ha permesso
di creare. Non cambierei nulla di-»
«Non puoi paragonare il tuo… modo
di fare alla mia malattia!» lo interruppe con stizza Akaashi
«A nessuno piacerebbe ricoprirsi di cristalli ogni volta che le cose non vanno
come vorrebbe, ogni volta che è in ansia o sotto pressione, o si sente
spaventato e triste. Questa malattia non mi permette di creare legami e se
potessi, la cambierei senza pensarci due volte. Tu non hai la minima
idea di come-»
Stavolta fu il suo turno di
bloccarsi, perché Bokuto aveva allungato una mano
verso il viso, facendo a aderire ad esso il palmo e sfiorando delicatamente la
guancia col pollice; il suo sorriso era diventato più piccolo, più dolce e
forse un po’ triste. C'era in lui una profondità di cui Keiji
non lo avrebbe ritenuto capace, che fece male.
«Bokuto-san…?»
sussurrò con voce rotta, sentendosi d'un tratto fragile e completamente
esposto: Koutarou stava accarezzando proprio la sua
pelle, quella calda e rosea e viva.
«Per favore, dopo le lezioni
vieni al club oggi», disse, prima di lasciarlo andare e uscire dalla stanza.
Solo allora Keiji pensò che la pausa pranzo doveva
essere finita da un pezzo.
Akaashi
non si era sentito così nervoso neanche quando si era presentato al club di
pallavolo per la prima volta. Allora, a dirla tutta, si era mostrato sicuro di
sé e dopo aver superato la sorpresa iniziale che era stato Bokuto,
si era presentato ed aveva cominciato ad allenarsi e studiare i suoi nuovi
compagni di squadra con dedizione. Stavolta invece aveva il cuore in gola
mentre entrava nella palestra: dall’esterno poteva sentire gli altri ragazzi
che avevano già cominciato l’allenamento, ma questo non gli permise di passare
inosservato quando fece scorrere la porta; gli occhi di tutti si voltarono
verso di lui.
Bokuto
si alzò con uno scatto di entusiasmo e corse verso di lui, seguito dagli altri
ragazzi.
«Come ti senti?» gli chiese
Washington con aria seria.
«La tua caviglia?» puntualizzò
Kimi e prima ancora che Akaashi potesse rispondere, si piegò sulle ginocchia per guardare più da
vicino.
«Riesco a camminarci quasi senza
problemi», asserì il più piccolo con serietà.
«E...per il resto?» tentò Onaga, facendo calare nuovamente il silenzio.
L’alzatore resistette all’istinto
di abbassare la testa e cercò di farsi coraggio: non era abituato a parlare
della sua malattia con qualcuno che non fossero i suoi genitori e sarebbe stato
sciocco negare di avere un po’ paura.
«Mi spiace… Mi spiace di essere
scappato in quel modo. Anche se lo sapevate,
non volevo che vedeste… non sapevo come avreste potuto reagire».
Keiji
fece scorrere lo sguardo sui ragazzi che lo avevano accerchiato aspettando una
risposta che tardava ad arrivare.
«Abbiamo avuto paura», ammise Konoha ed Akaashi distolse lo
sguardo: che cosa poteva aspettarsi, in fondo? Se un suo compagno di squadra si
fosse improvvisamente trasformato in un cristallo di tipazio,
anche lui avrebbe probabilmente reagito allo stesso modo. Non era il modo in
cui reagivano tutti alla fine? Forse avrebbe potuto risparmiarsi quella corsa:
se avesse aspettato abbastanza, sarebbero corsi via loro.
Ma la Fukurodani è… Nulla. Non era nulla
di diverso.
«Insomma se avessi continuato a
giocare in quello stato, avresti potuto, tipo, non so, romperti? È…
preoccupante, no?» continuò il primino, cercando
l’assenso del resto della squadra. Trovò l’espressione più sorpresa che avesse
mai visto sul volto di Akaashi.
«Era… era questo a preoccuparvi?»
balbettò.
«E ti sembra poco? Volevamo dirti
da un po’ di andarci piano con gli allenamenti e volevamo darti un po’ di
spazio per… Non so per cosa in realtà. Non abbiamo idea di come funzioni
questa… cosa. Ma non sapevamo come fare-»
«E tu di certo non ci hai reso
facili le cose, sai?» lo Interruppe Komi con voce
seccata «Se sapevi che lo avevamo scoperto, potevi parlarcene, invece di allontanarti».
«Anche voi avreste potuto fare
qualcosa invece di cominciare a muovermi intorno a me come se fossi sul punto
di rompermi», rispose Akaashi piccato «Credevo aveste
cominciato ad avere paura di me»
«Di te?» rise la manager Shirofuku, intervenendo nel discorso «Credevo avessi visto
le crisi d'umore di Bokuto. Quelle sì che sono
spaventose! I tuoi cristalli… un po’ meno».
Quelle parole che avrebbero
dovuto confortare Akaashi parvero invece ferirlo,
facendo esplodere uno strato di verde giada che dalle dita salì lungo tutte le
braccia. Il ragazzo portò una mano cristallizzata al petto e tentò di chiudere
le dita rigide intorno alla maglietta per reggere il dolore che sentiva.
Cos'era a fargli tanto male? Mentre qualcuno gli stringeva in maniera cauta una
spalla, Akaashi realizzò di non essere mai stato
freddo e distaccato come aveva voluto credere, non con i ragazzi del club: ci
aveva sperato, ci aveva sperato così tanto in quelle parole, in quella reazione
- ogni giorno, da che li aveva sentiti parlare, Keiji
aveva pregato che qualcuno lo affrontasse, che in qualche modo ne parlassero ed
ad ogni giorno che passava la delusione lo aveva fatto allontanare un po’ di
più. Aveva interpretato la loro incertezza come avversione, aveva provato a
trasformare il suo dolore in distacco. Ed aveva sofferto senza accorgersene.
«Stai bene…?» gli chiese Bokuto avvicinandosi.
No, quella sensazione non poteva
davvero definirsi bene: gli stringeva il petto fino a togliergli il respiro e
gli faceva venir voglia di gridare, come fosse l’unico modo possibile per non
soccombere, come fosse la sola maniera che gli restava per resistere. Era la
forza del sollievo, ma anche il peso degli errori e quella orgogliosa
soddisfazione che nasceva dal non aver sbagliato a giudicare le persone a cui teneva
di più in assoluto. La Fukurodani era diversa e,
alzando gli occhi su Bokuto, che lo aveva adesso
preso per le spalle, si chiese se fosse inappropriato baciarlo, lì davanti a
tutti, perché gli aveva finalmente aperto gli occhi. Alcune lacrime gli
rigarono il viso.
«Da oggi in poi niente più
segreti», gli disse il capitano con un nuovo sorriso «Faremo tutte le domande
che vogliamo, ci diremo tutto quello che sentiamo, senza preoccuparci a
priori».
Quelle parole suonarono come un
piccolo giuramento e per qualche istante il silenzio di tutti lo suggellò con
un’intensità che Bokuto non aveva previsto, ma che fu
estremamente appropriata. Qualche risata un po’ forzata cercò di smorzare
l’imbarazzo che seguì quel gesto, prima che i ragazzi tornassero ad allenarsi
come se nulla fosse successo.
«Quindi», tornò a parlare Bokuto, rimasto da solo con Akaashi
« due domande: sei mai diventato un diamante? E domani esci con me?»
La maniera disinvolta con cui Koutarou era passato da un argomento all’altro confuse così
tanto Keiji che per qualche istante il ragazzo rimase
senza parole, a boccheggiare come un pesciolino di fiera.
«No», esalò, come non avesse più
fiato.
«No, non vuoi uscire con me?» Bokuto rischiava di sembrare un passerotto bagnato mentre
cercava di interpretare la risposta di Akaashi.
«Sì», continuò l’alzatore,
confondendolo ulteriormente.
«Sì, puoi diventare un
diamante-?»
Keiji
scosse la testa: non si era mai sentito più stupido di quel momento. Prese Bokuto per le spalle, guardandolo negli occhi per avere la
sua completa attenzione e interrompendo qualunque cosa stesse per dire.
«No, la mia pelle non si è mai
trasformata in diamante e sì, voglio… voglio uscire con te, Bokuto-san».
Non riuscì a non arrossire mentre
pronunciava le ultime parole e avrebbe voluto distogliere lo sguardo se Bokuto non lo avesse ancora una volta sorpreso lasciandoci
un veloce bacio sulle labbra. Il contatto fu così veloce che Akaashi pensò di averlo sognato, ma lo sguardo che Koutarou gli regalò quando si fu allontanato non gli lasciò
dubbi; il cuore accelerò così tanto che Keiji fu
certo si sarebbe sentito male e restò imbambolato a guardare le spalle di Bokuto che si allontanava, col suo sapore fresco sulle
labbra ed una nuova cosa da appuntare sul suo diario dopo tanto tempo.
Perché di solito aveva notato che cristalli regredivano
lentamente e solo se riusciva a calmarsi. Eppure
era bastato che Bokuto lo baciasse una volta perché il suo calore facesse tornare all'istante tutto come doveva essere.
________________
Un ringraziamento alla Pì che ha avuto la pazienza di betare
questa storia e a Fran che, nonostante tutto, ha
voluto leggerla in anteprima e darmi un parere!
Ci tengo a precisare che l’idea
in sé della cristallizzazione non è mia ma deriva da un anime, “Kono Danshi Sekika ni Nayandemasu” aka “This boy suffers
from crystallization”, che
è parte di un ciclo di quattro anime che consiglio caldamente: sono OVA brevi
ma davvero intensi **
Ancora auguri alla mia dery-san! E alla prossima.
Alch.