INCANTO: L'impero del caos

di DomenicaSalatino
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Undicesimo anno del regno dell'imperatrice Ananta Lauvi'iah

L'imperatrice Ananta congedò con un cenno del capo la sua cameriera rimanendo da sola nelle sue stanze. Aveva bisogno di stare qualche attimo con se stessa, prima di affrontare quella giornata. Una giornata che avrebbe segnato a lungo la sua vita.

In verità la sua vita era cambiata in modo drastico circa sei mesi prima, quando, improvvisamente, l'imperatore Nun, suo consorte, si era ammalato. Erano stati mesi colmi di angoscia e dolore, senza la benché minima speranza che tutto potesse risolversi in meglio. In quel lasso di tempo però, contro ogni logica, lei aveva sperato e pregato affinché suo marito, l'amore della sua vita, potesse tornare a lei.

Niente era servito: la medicina non aveva potuto aiutarlo e lei aveva semplicemente dovuto assistere alla fine del suo sogno; alla malattia che aveva scavato il volto di Nun e a tutte le nuove rughe che ogni giorno erano comparse sul quel volto tanto caro.

Ora Ananta sedeva dinanzi allo specchio e poteva vedere anche quello che la sofferenza aveva fatto a lei. Era ancora bella e provava una sorta di rabbia impotente per questo. Continuava a chiedersi perché un evento tanto triste dovesse farla apparire così elegante. Sì, perché l'incarnato pallido, reso ancora più cereo dal contrasto con l'abito nero, le donava. Il suo volto non era mai stato bello nel senso classico del termine, ma sicuramente non lasciava gli uomini indifferenti, e più di una donna l'aveva invidiata per questo.

La cameriera le aveva tirato i capelli indietro, li aveva intrecciati e avvolti intorno al suo capo. Per un istante ebbe l'impulso di strapparsi tutte le forcine che le imprigionavano la chioma, urlare, piangere e disperarsi, ma non lo fece.

Ananta Lauvi'iah, imperatrice di Amrat, e prima del suo nome, non era stata educata in quel modo. Le era stato insegnato che bisognava saper reprimere le sensazioni sgradevoli e apparire in un certo modo davanti ai propri sudditi. Quei sudditi che erano venuti a esprimere il loro rammarico per una grave perdita sentita in tutto il regno, quasi dovesse toccare loro chiudere il proprio consorte in un luogo solitario, freddo e buio, per restare a loro volta soli.

Osservò ancora il proprio riflesso, cercando qualcosa, senza sapere esattamente cosa.

I capelli erano ancora neri, gli occhi sempre color cioccolato. Forse le sue guance. Aveva perso peso, ma in tal modo le si erano accentuati gli zigomi, e il collo lungo appariva ancora più slanciato. Nun aveva sempre trovato attraente il modo in cui quando si ostinava in qualcosa, lei tendesse a sollevare appena il mento, come irrigidiva i muscoli del collo, mettendo in evidenza la clavicola. Un punto che gli piaceva baciare quando l'aiutava a sciogliere i lunghi capelli.

Quei ricordi non le facevano bene, ma erano troppo vivi, troppo reali, troppo vicini, perché li potesse accantonare, dimenticare.

Eppure doveva, non aveva scelta. Non era mai stato in suo potere essere qualcun altro, essere qualcos'altro.

Quel giorno Ananta vide spegnersi la luce nei suoi occhi, e in quel momento credette che sarebbe stato per sempre. Il suo cuore batteva piano, sembrava volersi fermare, per permetterle di raggiungere Nun. Non voleva più essere donna e sposa, per lei quel tempo era finito, ora sarebbe stata solo imperatrice e madre.





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