Capitolo Due
Evie
Non mi interessava essere capita da qualcuno, essere guardata, talvolta non mi importava che mi vedessero davvero.
Potevo tranquillamente vivere come un fantasma. La mia presenza furtiva
scattava tra le esistenze altrui come alla ricerca di un vago volto, di
un segno che mi dicesse che quella era la strada giusta da percorrere.
Lo facevo con tutta calma, in realtà, perché avevo
imparato a mie spese che, in quella caccia, la fretta non
avrebbe dato i suoi buoni frutti. Attendevo, mi esponevo quel tanto che
bastava a fare piccoli passi avanti o, talvolta, a non farne
minimamente: apprendevo l'arte della pazienza e dell'attesa.
Ero lontana anni luce dalla mia esistenza, ma non mi mancava per niente.
Non
avevo fatto altro che rincorrere quel momento. Quel bar, quella
ragazza, quel caffè bollente, le giornate passate a cercare
ciò per cui ero arrivata fin lì, nella mia città
natìa. La ricordavo a stento e onestamente non mi faceva
né caldo né freddo: Atlanta non era una casa, per me. In
fondo sapevo di non averne una, di non conoscere radici e di non avere
un passato a cui sentirmi legata e a cui pensare con nostalgia. Avevo
solo il presente, gli occhi cerulei di quella barista che mi guardava
dai suoi occhiali, la sua gentilezza e il mio bisogno di sapere che tra
quelle persone avrei trovato chi stavo cercando.
Accadde quella mattina. Potevo aspettarmi di tutto, in effetti non credevo che avrei trovato in quel luogo proprio lui.
Dopo tutte le giornate terminate con un nonnulla, ormai credevo che
avrei dovuto scovare un altro modo per arrivare a conoscerlo.
Presi
a parlargli come se niente fosse, come se non sapessi cosa avrebbe
detto e come avrebbe risposto alle mie domande; tentai di essere
naturale e di non affrettare le cose. Sapevo che il mio bisogno di
verità non avrebbe dovuto offuscare il mio giudizio né il
percorso che avrei dovuto fare pian piano, senza rischiare che il mio
istinto rovinasse tutto.
Non avevo fatto tanta strada inutilmente, non mi ero messa sulle tracce
di un passato apparentemente introvabile per correre un pericolo che
nessuno avrebbe dovuto subire, soprattutto io.
Sul
suo viso comparve un'espressione sorpresa: «Un'investigatrice
privata?! Non l'avrei mai detto, sul serio. Sembra bello. Comunque
ancora non so come mai conosci Felicity. O se sei di qui. Non credo di
averti mai vista.» Ripetè la mia professione,
probabilmente molto meravigliato dal mio lavoro che, forse, di consueto
non veniva svolto da molte donne.
«Ci
siamo conosciute in questo bar. È così socievole che
è impossibile non fare la sua conoscenza. Comunque sono nata
qui, ma mi sono trasferita altrove da bambina. Sono tornata da
poco.» Soddisfai la sua curiosità, per poi chiedere:
«Tu sei di Atlanta?»
«Nato
e cresciuto qui. Purtroppo o per fortuna, ma non mi lamento.»
Annuì, dimostrando a parole quella sorta di status da cittadino
modello, voltandosi a cercare Felicity con lo sguardo che, come a
rispondere al suo richiamo, tornò verso di noi.
Decisi
che sarebbe arrivato il momento di lasciarli soli, così
recuperai la mia borsa e mi alzai dalla mia seduta. Per quella mattina
ero sufficientemente soddisfatta.
«Beh,
credo che per me sia arrivata l'ora di andare. È stato un
piacere conoscerti, Julian. Se dovesse mai servirti
un'investigatrice... » Sorrisi con cordialità,
convincendomi a non dargli ulteriormente fastidio, o almeno non subito.
Restò
appoggiato al bancone e mi rispose con un altro sorriso volto a
mostrare la sua dentatura perfetta: «Vale anche per me, Evie.
Grazie, ci penserò su!»
Uscii
da quel bar con l'impressione di aver già fatto qualcosa di
buono. La conoscenza con Felicity aveva dato i suoi frutti: finalmente
lo avevo incontrato.
Julian era la persona più vicina alla verità.
Avevo bisogno di risposte. Non importava come le avrei avute.
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