CUORE SUL GRILLETTO

di Alicat_Barbix
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CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 22
 

Sherlock riebbe a poco a poco. Un martello invisibile sembrava volergli spaccare la testa. Impiegò qualche istante a focalizzare l’ambiente attorno a lui: una stanza dalle pareti di un bianco abbacinante, rischiarata da una prepotente luce a neon.
Quando il dolore si placò un pensiero svettò nella sua testa ancora più luminoso e nitido di quella sala.
“John!”
“Ehi, sei sveglio.”
Una voce distorta giunse alle sue orecchie come un fischio, un frastuono trapanante. Si voltò di scatto e – davanti a lui – comparve chiara e stupenda la figura di John: se ne stava inginocchiato a terra, la tempia imbrattata di un liquido rappreso… Cristo, no. Si avvicinò a lui strisciando sul pavimento, ancora scosso dallo smarrimento e dalla nausea. Fece per gettargli le braccia al collo ma sbatté contro qualcosa di invisibile ma terribilmente concreto.
“Ma cosa...”
“Una parete di vetro, Sherlock.”
Sherlock fissò John con occhi addolorati e protese una mano verso di lui, incontrando l’insormontabile muraglia che li divideva. Il medico sorrise appena e poggiò la sua su quella dell’altro.
Incredibile come l’astratto possa diventare concreto. Per anni si erano sentiti distanti l’uno dall’altro, nonostante fossero vicini. Per lunghi giorni avevano avuto come l’impressione che fra di loro ci fosse stato qualcosa a bloccarli, sebbene ogni loro parola e ogni loro gesto arrivasse con violenza al cuore dell’altro. Per troppo tempo John Watson e Sherlock Holmes avevano rinunciato l’uno all’altro a causa di una barriera inesistente. E ora che sapevano di non poter più star lontani, separati, ora che sapevano che i loro sentimenti avevano bisogno di essere gridati e ascoltati, una stupida parete di vetro impediva alle loro dita di intrecciarsi assieme. Sherlock rimase immobile a fissare la persona per cui aveva rinunciato a tutto, la persona che gli aveva ridato un cuore, uno scopo, la felicità. Era tutto sbagliato nella presenza di John lì. Non sarebbe dovuto essere lì. Sarebbe dovuto trovarsi al sicuro sulla nave per Cuba, dove nessuno, nemmeno un Holmes, avrebbe potuto scalfirlo.
“Non dovresti essere qui.”
“Neanche tu.”
Sherlock sospirò mentre la sua mano si chiudeva a pugno su quella del medico. “Saresti dovuto scappare. Saresti dovuto vivere.”
“Che razza di vita sarebbe senza un idiota come te?”
Sorrise, ma qualcosa gli corrodeva l’anima, qualcosa che neanche la presenza di John Watson poteva scacciare.
“Lo capisci che l’unica cosa di cui mi importi davvero sei tu? Saperti in salvo avrebbe reso tutto più semplice, cazzo! Perché devi sempre essere così testardo?”
“Non fare l’idiota, Sherlock Holmes, avresti fatto lo stesso.”
Tacquero entrambi e rimasero immobili, le loro dita lontane, troppo lontane, i loro corpi lontani, troppo lontani, i loro cuori lontani… O forse no. Forse quello stupido muscolo che pompava il sangue per tutto l’organismo funzionava ancora, riceveva ancora forte il segnale dell’altro.
“Sherl?”
Sherlock alzò gli occhi e incontrò lo sguardo stanco di John.
"Che cosa succede adesso?"
Tacque, sopraffatto dalla paura e dall’ignoto. Se solo quello sciocco che amava con tutto se stesso fosse stato al sicuro...
“Succede che niente e nessuno ci dividerà.” rispose dopo un po’.
John sorrise, ma la botta che quegli uomini gli avevano inferto aveva ricominciato ad offuscargli i sensi. La vista si era fatta più appannata, le ginocchia tremavano sotto il peso del suo corpo. Cadde seduto a terra, le spalle poggiate sul vetro. Prese ad ansimare cercando di scacciare quella sonnolenza che lo stava avvolgendo seraficamente nelle sue spire.
Sherlock appoggiò la sua schiena contro quella di John e restarono in silenzio per alcuni istanti. Ad un tratto, Holmes udì un colpo sul vetro e quando voltò appena la testa vide che il dorso della mano di John era appoggiato sulla parete. Le sue dita corsero in quella direzione come se non fossero state create per far nient’altro se non seguire John Watson.
“Hai paura?” domandò Sherlock.
“Non finché siamo insieme.”
Come faceva a dire sempre quelle cose così banali eppure così traboccanti di verità? Quanto lo amava... Quanto aveva paura di perderlo… Che cosa lo aveva reso, John Watson?
“Io invece ne ho. E tanta. Mi hai donato così tanta gioia, così tanto amore, che ora ho paura che tutto questo finisca.”
“Non finirà.” replicò pacatamente l’altro. “Non finirà mai, Sherl. Te lo prometto.”
Sherlock sorrise e un’ondata di sollievo lo investì. “Ti amo, John.”
Dall’altra parte del vetro, John ridacchiò. “Qualcosa mi dice che è proprio questo il problema.”
“No, John, dico davvero. Qualunque cosa succeda là fuori...ricordati che ti amo. Non voglio lasciare niente in sospeso fra di noi.”
Il medico si voltò. “Che vuoi dire?”
“Io, l’esecuzione di quelle due donne, me la ricordo ancora... Lauren e Kate. Dovevano amarsi tanto... Prima che i soldati facessero fuoco, Lauren ha gridato a Kate che l’amava...ma Kate non è riuscita a rispondere...Non voglio essere come Kate, non voglio morire senza che tu sappia che ti amo e che se devo morire, allora sono felice di morire con te.”
John si inginocchiò nuovamente e appoggiò la fronte al vetro. “Ti amo anch’io, e continuerò a farlo qualunque cosa accada.”
Sherlock, in risposta, accostò a sua volta la fronte alla parete. Restarono così per pochi istanti.
Un urlo. Non di dolore. Non di paura. Un ordine.
“In piedi!” sbraitò un uomo dall’aria truce mentre entrava nella stanza e puntava il suo kalashnikov contro Sherlock. “Avanti!”
Sherlock non si mosse, restò con gli occhi fissi in quelli terrorizzati di John. Due soldati, però, lo presero di peso e lo trascinarono lontano dalla parete. Lontano da John.
“SHERLOCK!”
“Lasciatemi! Lasciatemi, ho detto! John!”
La porta si richiuse e le sue stesse grida gli rimbalzarono addosso come i pugni di un pugile.
 
***

Rimase immobile a fissare l’altra metà della stanza con occhi inespressivi. John Watson era morto. Morto dentro. L’avevano portato via... Avevano portato via Sherlock…
No, no, NO! NON POTEVA FINIRE COSÌ! Doveva rivederlo. Un’ultima volta. Doveva.
“Ti prego Dio, non lasciarlo morire. Almeno lui.”
 
***
 
Si dimenava brutalmente, così tanto che dovettero unirsi altri due energumeni per farlo camminare per i corridoi d’acciaio e semibui che correvano simultaneamente l’uno verso l’altro a comporre un mandala di interstizi e di vicoli ciechi. Un vero e proprio labirinto. Riconosceva quel posto. Erano le prigioni dell’Inquisizione. Lo trascinarono fino a che, dietro ad una cartina gigante su cui erano segnati gli attuali imperi in diversi colori, non comparve un pertugio rettangolare. Delle altre guardie accorsero e lo presero in custodia, strattonandolo per un edificio assai più maestoso e traboccante di lusso: Buckingham Palace. La sua mente, sebbene risentisse ancora del soporifero che gli avevano iniettato, cominciò ad elaborare il percorso che gli stavano facendo imboccare. Un brivido percorse la sua schiena e un’oscura, amara consapevolezza si fece largo in lui. Non poteva essere… Non poteva semplicemente essere…
E invece si arrestarono proprio di fronte a quelle maledette porte intarsiate d’oro. Non riusciva a crederci, a credere di essere stato tradito proprio da lui. I due inquisitori che se ne stavano impettiti a sorvegliare l’entrata allo studio dell’uomo più potente del Paese se non dell’Europa intera, si esibirono in un rigido saluto militare a cui gli energumeni che lo bloccavano risposero frettolosamente. Sherlock poteva avvertire ogni centimetro del suo corpo ardere di rabbia; un’ira incontrollabile scavò nel suo petto.
John. Doveva portarlo via. Si divincolò per l’ennesima volta, stavolta con estrema violenza, riuscendo a sbattere uno dei suoi carcerieri contro una parete. Cercò di farsi largo approfittando dello smarrimento degli altri, ma un paio di mani forti lo tirarono animalescamente per il colletto della camicia, rischiando quasi di soffocarlo. Si trovò a terra, il respiro irregolare e un senso di impotenza che gli crepitava dentro.
I due inquisitori non degnarono quel patetico tentativo di fuga neanche di un minimo di turbamento e si limitarono ad aprire le massicce porte che sorvegliavano.
Con un calcio, i suoi custodi lo sbalzarono a un paio di metri di distanza, all’interno dello studio del Capo Supremo dell’Inquisizione. Rantolava, il sapore di sangue gl’impastava la bocca, con una mano allo stomaco cercò di attenuare quel dolore che, lentamente, si diffondeva per tutto il suo corpo ormai quasi pienamente libero dell’anestetico.
“Piano, piano. Abbiate un po’ di riguardo. E’ pur sempre un Holmes.”
Con fatica immane, alzò lo sguardo sull’individuo che aveva appena parlato. Sgranò gli occhi e dovette sbatterli ripetutamente per accertarsi che la vista non cominciasse a giocargli brutti scherzi. E invece era lì, proprio lui, l’ultimo uomo che avrebbe mai pensato potesse trovarsi in quella stanza, seduto a quella scrivania.
“E’ da un po’ che non ci vediamo, non è vero signor Holmes?”
La sua voce era sempre, disgustosamente piatta. Nessuna emozione vi si rifletteva, così come nei suoi occhi. Lo guardò prima con confusione, confusione che lentamente sfociò in una smorfia di odio e di ripugnanza.
“Dov’è Mycroft?” ringhiò passandosi il dorso della mano sul labbro. “Dov’è mio fratello?”
Magnussen distolse lo sguardo e prese a giocherellare con quello stupido globo di vetro che racchiudeva una miniatura approssimativa del Big Ben innevato che per quanto in passato Sherlock lo avesse trovato insensato e infantile, ora non riusciva neanche lontanamente a tollerare che qualcuno all’infuori di suo fratello lo toccasse.
“Temo che abbia combinato qualche sciocchezza. Pare si sia schierato dalla parte sbagliata, alla fine.”
“E quale sarebbe la parte giusta? La tua?” replicò acidamente.
Magnussen ridacchiò, scoprendo quei denti abbacinanti, così simili a quelli di un vampiro. “No, non la mia. Io sono dalla parte giusta, ma non è la mia.”
“Chi? Chi c’è a capo di tutto questo?” Il sorriso viscidamente divertito del giornalista lo indusse a riflettere, a spremere la sua mente stanca e provata, a ricercare in se stesso la risposta. Si guardò faticosamente attorno e le sue labbra guizzarono impercettibilmente verso l’alto. “Oh… E’ qui, non è vero? Ci sta osservando…”
La sua deduzione venne assorbita da un sorriso d’assenso. Attese, le mani scosse da un tremore appena visibile. Infine, una corrente d’aria, l’ampia tenda rossa venne scossa da un alito di vento e una lieve brezza s’insinuò all’interno dello studio. Si voltò verso la mastodontica porta finestra e, ancora mezza celata dietro il tendaggio, intravide la figura di un uomo.
“Ti ho dato il mio numero. Pensavo mi avresti richiamato.” Con un plateale gesto della mano, il nuovo arrivato scostò teatralmente la tenda, rivelandosi finalmente agli occhi confusi di Sherlock. Un ometto non troppo alto, mingherlino, il volto pallido, gli occhi scuri, addirittura vuoti… Dove? Dov’è che l’aveva già visto? Il suo numero… Fu un flash. L’immagine di quell’idiota del fidanzato di Molly che ci aveva provato con lui dominò nitidamente nella sua testa. “Jim Moriarty. Ciao!” Il tizio in questione prese a camminare felinamente verso di lui, un sorrisetto insolente sulle labbra, come un predatore pronto a scattare e ad azzannare la sfortunata vittima. “Jim? Jim del covo degli Incompleti? Ho fatto un’impressione così scialba? Ma d’altronde… credo fosse esattamente questo l’intento.”
Sherlock cercò di rialzarsi ma una delle guardie gli premette un piede tra le scapole e lo costrinse a terra, la faccia schiacciata contro la moquette scarlatta. “Sei tu… vero? Sei sempre stato tu. Dietro a tutto questo…”
“Oh, piccolo Sherlock… Ma certo! E considera che ti ho fatto dare solo una piccolissima occhiata di quello che posso fare in questo grande mondo crudele. E devo dire che mi sono divertito.”
“Che cosa vuoi da noi?”
“Da voi? Oh, no, Sherlock, da voi non voglio assolutamente niente, è di te che ho bisogno.”
Cercò di sgusciare via da sotto quella scarpa pesante e dolorosa che lo premeva a terra come un mero scarafaggio. Aveva difficoltà a respirare, a pensare, ad elaborare un piano per tirarsi fuori da quella situazione – o se non altro, di tirare fuori John. “Bene…” cercò di sussurrare, ma era debole e terribilmente stanco, non riusciva più a inalare uno spiffero d’aria. Con la coda dell’occhio notò Moriarty levare in aria una mano e subito il peso esercitato sulla sua schiena si affievolì. La porta dello studio si richiuse, inghiottendo i passi delle guardie che l’avevano tenuto prigioniero per tutto quel tempo. Spalancò la bocca e si portò una mano alla gola, l’aria che finalmente ricominciava a fluirgli nei polmoni brucianti. Deglutì a vuoto, sondando il suo stesso corpo, e non gli sembrò improbabile che quel calcio poderoso avesse potuto compromettergli una vertebra. Strinse i pugni: quell’uomo aveva il completo controllo su di lui. Era snervante osservare quella malizia che dilagava sul suo volto malefico.
“Bene.” ripeté, provando ad imprimere nella sua voce un tono scuro e autoritario. “Se è me che vuoi, lascia andare John. Uccidi me, ma liberarlo.”
“Ucciderti?” reiterò Jim con una smorfia pressoché schifata. “No, o meglio, ho intenzione di ucciderti comunque, prima o poi, ma ora mi servi.”
“Ti prego, ti… ti scongiuro: prendi me ma permettigli di andarsene, di vivere finalmente la vita che merita, lascia che vada a Cuba.”
Moriarty e Magnussen si scambiarono uno sguardo complice, infine scoppiarono entrambi a ridere.
“Cuba…” bisbigliò il giornalista tra le risa. “Oh, signor Holmes, lei ha dormito un po’ troppo.” Detto questo, premette un pulsante sulla sua scrivania e, dal nulla, si materializzò lo schermo gigante di un’ipotetica televisione. Sulla sua superficie semitrasparente, immagini e notizie scritte a caratteri cubitali: città fantasma, strade principali ricoperte da cadaveri dagli occhi vitrei, spore di un colore indefinito fluttuanti per gli edifici spettrali.
 
CUBA COLPITA DA SEI POTENTI GRANATE INGLESI.
 
“Che… che cos’avete fatto?”
“Oh, il caro Victor… Mi è stato così utile, pace all’anima sua.” sospirò Moriarty appoggiandosi alla scrivania e osservando placidamente quei fotogrammi di morte come se rappresentassero una fiera invece che una strage. “Ti ha parlato del progetto GA – Global Annihilation?”
Victor? Aveva accennato a qualcosa, sì… ad un veleno potentissimo in grado di spremere via la vita da una città intera senza distruggere per forza ogni cosa. E poi, aveva parlato di una guerra incombente.
“In quelle bombe è contenuto un veleno così meravigliosamente letale… Oh, ed è anche stato potenziato da quando siete partiti. E’ bastato buttarne una sull’Avana per annientare qualunque essere vivente. Non c’è formica in quella città che sia ancora in vita.”
“Perché?” sussurrò Sherlock con voce spezzata.
Jim scrollò le spalle. “Sai, Sherlock, voglio confessarti un segreto… Un tempo, anche io ero come te, pieno di risentimento verso il Governo, un ribelle. Ma poi ho capito che potevo fare di meglio che rovesciare il potere. Potevo appropriarmene. Ed eccomi qui, in tutta la mia magnificenza. Sono anni che tesso una trama di unioni con intelligence, cellule terroristiche… Oh, fanno sempre a gara – papà vuole più bene a me – le persone normali non sono adorabili?”
Sherlock immerse il suo sguardo in quello vacuo di un bambino dagli occhi di porcellana, spenti e opachi come quelli di una vecchia bambola. Come poteva essere così semplice togliere la vita a così tante persone? Come poteva una mente umana anche solo concepire un abominio simile?
Sul fondo dello schermo, lampeggiava pazzamente un dato: sei milioni di morti. Sei milioni… quanti erano sei milioni? Con sei bombe, sei milioni di persone avevano perso la vita, strappate dalla loro quotidianità all’improvviso e senza ragione.
“Guarda, Sherlock. Guarda quanto potere. Io possiedo la chiave di questo potere… ma ho bisogno di te. Ho un disperato bisogno di te.”
Una ragazzina dai lineamenti orientali campeggiò sull’intero schermo, la bocca digrignata verso un sole di cenere e un cielo che vomitava morte. Aiutarlo? Aiutare quel folle a compiere simili oscenità?
“Ti aiuterò.” decretò infine. “Ma solo se libererai John e lo lascerai vivere in pace.”
La risata di Moriarty lo schiaffeggiò in pieno volto. Astrasse lo sguardo dalla morte imprigionata in quelle immagini, per puntarlo su quell’ometto così piccolo eppure così grande. “Oh, Sherlock… Forse non hai ancora capito. Comando io, non sei tu ad avanzare compromessi.”
“Bene, e allora farete a meno di me e del mio cervello. Non farò niente finché non saprò che John è al sicuro.”
“Sherlock, Sherlock…” sospirò ancora Jim, scuotendo rassegnatamente la testa, a mo’ di rimprovero. Dietro di lui, Magnussen scivolò con passo felpato verso una parete ricoperta da un quadro gigantesco raffigurante la figura austera di Siger Holmes. “Devi ancora imparare a conoscermi… Ma sono sicuro che ci sarà tempo, mio caro.”
Il ritratto si animò improvvisamente, scorrendo lungo dei cardini invisibili, rivelando una seconda porta segreta. Sherlock sbatté gli occhi ripetutamente: non ricordava quel passaggio, né Mycroft o suo padre gliene avevano mai parlato.
“Tranquillo, non sforzare la tua mente già debilitata per ricordare qualcosa che non puoi ricordare: ho fatto costruire io questa porta e la stanza che sto per mostrarti.”
Si tirò su tentando di dissimulare la smorfia di estremo dolore che gli corrugava il volto in un’espressione debole e sofferente, per evitare di apparire ancora più assoggettato di quel che era già. Arrancò in direzione dell’accesso al vano segreto sotto gli occhi famelici di Moriarty e lo sguardo vacuo di Magnussen. Si sentiva come un pesciolino rosso all’interno di una vasca intera di squali che si stavano godendo le sue disgrazie e la sua inferiorità prima di azzannare. S’infilò nel pertugio e si ritrovò in un antro scuro, a malapena illuminato. Non era esageratamente grande o elaborato, anzi, sembrava quasi un cunicolo scavato nella roccia come quello di una caverna, con solo una parete sormontata da un finestrone che dava su un secondo vano ancora più soffocante, con due poltrone dai braccioli che ospitavano lugubri intrichi di cinghie di cuoio.
“Bene!” esclamò Moriarty, dietro di lui, battendo le mani con soddisfazione, come un bambino di fronte ad un regalo enorme da scartare. “E’ arrivato il momento di mostrargli il giocattolino, Charles.”
Magnussen si limitò a sorridere e a leccarsi le labbra mentre si portava una mano all’orecchio dove gli occhi di Sherlock intercettarono un piccolo auricolare di ultima tecnologia. “Siamo pronti.”
Non dovettero aspettare molto perché la porticina che si intravedeva dall’altra parte del vetro si spalancasse, rivelando un paio di figure completamente nere, col volto celato, trascinare con loro un bambino in lacrime e una giovane donna che urlava disperata, la mano disperatamente protesa verso il figlio. I tizi in nero li separarono brutalmente e li strattonarono verso le poltrone a cui li allacciarono mediante il sistema di cinghie. Nella stanza entrò un’ultima figura, anch’essa scura, ma a differenza delle altre non indossava alcun passamontagna ma solo una cuffia pesante ficcata prepotentemente sul capo. Si avvicinò al vetro, brandendo minacciosamente la pistola che stringeva in mano. Una donna. Occhi chiari, ciocche bionde ribelli che s’intravedevano dalla cuffia. Sherlock spalancò appena gli occhi e nonostante sapesse che non poteva sbagliarsi, cercò di convincere se stesso che le cose non stavano realmente così. Non poteva essere. Non poteva essere…
“E così sei tu. Finalmente ci conosciamo.” sputò con acidità la nuova arrivata. “Sei tu il bastardo che mi ha portato via mio marito.”
“Deduco che tu sia Mary.”
“Rosamund. Rosamund Mary Morstan.” si presentò lei volgendo poi gli occhi in direzione di Moriarty. “Oh, Jim, ti prego, permettimi di fargli un buco di proiettile da qualche parte. Non sai da quanto aspetto questo momento.”
“Suvvia, Rosamund, lui è con noi. Per altro, da morto non sarebbe né così affascinante né così utile...”
Lei scrollò appena le spalle. “E chi ha parlato di ammazzarlo? Mi basterà sparargli un colpo nell’addome. Avanti, lo sai che sono brava e non ti ho mai deluso.”
“Sarà per un’altra volta, mia cara.” Moriarty si girò a contemplare con appagamento lo smarrimento negli occhi di Sherlock. Gli si avvicinò e si piegò lievemente in avanti, sfiorandogli l’orecchio con le labbra. “Hai visto, Sherlock? Hai visto cosa sono in grado di fare? Sono riuscito a riunire sotto di me il Napoleone del ricatto, un’assassina addestrata dalla Cia, un tassista disperato per la lontananza dei figli e di grande intelligenza, un chimico dotato di straordinarie abilità… E’ una ragnatela, Sherlock. Un’immensa ragnatela su cui tu hai camminato finora e su cui stai camminando tuttora. Strabiliante, non trovi?”
“Hai il potere, hai in mano l’intera Nazione, che cosa vuoi da me?”
“Oh, Sherlock, io non voglio limitarmi a possedere un banale Paese come il nostro, no, no, no, no… La mia non è semplice brama di conquista, io voglio dimostrare all’America, all’Arabia, alla Russia, alle più grandi potenze mondiali che io sono il più potente. Voglio vedere quei ridicoli vertici dei Governi strisciare a terra a leccarmi i piedi.”
La mano di Jim si serrò attorno alla spalla di Sherlock che, colto da un moto di repulsione, provò ad allontanarsi, ma le dita scheletriche dell’altro lo trattennero.
“Ci sono vicino, Sherlock, vicinissimo… Un immenso puzzle che ho composto con pazienza all’oscuro di tutto e di tutti, e ora a questo puzzle manca solo un tassello… e sei tu.” Senza dare il tempo al detective di rispondere, alzò gli occhi su Mary, ancora immobile con uno sguardo intimidatorio sul viso. “Procedete.”
Lei annuì e sfrecciò in direzione di un uomo dal camice lindo appena entrato nella stanza delle poltrone. Si scambiarono qualche parola, poi lei uscì in fretta dalla stanza, seguita dagli altri individui in nero, e l’uomo estrasse dalla tasca una siringa ricolma di un liquido rosso, avvicinandosi al bambino che piangeva e gridava dei pietosi mamma. Il piccolo provò a dimenarsi, ma il dottore era troppo forte e le cinghie troppo strette. Sherlock osservò con orrore la siringa svuotarsi lentamente e il corpo del bambino calmarsi gradualmente, fino a raggiungere una totale infermità.
“Will! Will!” strepitava la madre in preda a singulti incontrollati, dimenandosi come indemoniata su quella maledetta poltrona.
“Guarda quella povera sciocca.” sussurrò Jim ancora attaccato all’orecchio del consulente investigativo. “Teme per la vita del suo bambino… Ancora non può saperlo, come andrà a finire, ma fossi in lei la mia ultima preoccupazione sarebbe quel moccioso.”
“Che cosa gli hai fatto!?” ringhiò Sherlock riscuotendosi improvvisamente, e, mosso da una rabbia istintiva, afferrò Moriarty per il collo e lo sbatté contro il vetro. Magnussen fece per intervenire, ma la voce del suo apparente padrone lo bloccò.
“La domanda, Sherlock, non è che cosa io gli ho fatto, ma cosa lui farà.”
“Che intendi?”
Ma alla sua domanda non vi fu risposta. I suoi occhi intercettarono un movimento nella stanza oltre il vetro e si rese conto che il ragazzino si stava rianimando, un’espressione imperscrutabile sul volto, gli occhi vacui.
“Sono pronto a seguire ogni comando del mio padrone.” pronunciò con voce quasi metallica, scrutando il vuoto.
Jim allontanò senza troppa difficoltà il corpo di Sherlock e si portò un auricolare uguale a quello di Magnussen all’orecchio. “Ehilà, mio piccolo amico. Io sono Jim e ci divertiremo molto insieme. Dunque, per prima cosa, voglio che tu risponda a qualche domandina, giusto per rompere un po’ il ghiaccio.” Il suo sguardo saettò e si incatenò con quello di Sherlock. Il detective contemplò quel volto paragonabile a quello del diavolo. Anzi, non avrebbe saputo dire se Dio esistesse o meno, ma se qualcuno gli avesse chiesto di rappresentare il diavolo, avrebbe disegnato James Moriarty. “Qual è il tuo nome?”
“William.”
“E tua madre?”
“Jenny.”
“Quanti anni hai?”
“Dodici.”
“Vuoi bene a tua madre?”
“L’amore è una cosa stupida e inesistente.”
“Bene! Molto bene! Bravo, Billy! E adesso, dovrai fare una cosuccia per me.” Nella stanza entrò nuovamente Mary, la sua pistola in mano, sulle labbra, un ghigno traboccante di cattiveria. Sherlock tremò, un brivido gli percorse la schiena, la paura lo investì senza motivo. “Spara a tua madre.”
Sherlock spalancò gli occhi. “Che stai…” ma le sue parole vennero interrotte dalla visione del bambino che accoglieva senza esitare la pistola che gli stava porgendo la donna. Gli occhi del ragazzino scivolarono lentamente in quelli della madre che aveva ricominciato ad urlare il nome del figlio, un suono stonato e così acuto da straziarle la gola. “Will! No! Sono io! Amore mio, sono la mamma!”
Ma William, una volta libero dalle cinghie che gli fissavano le braccia alla poltrona, alzò la mano armata, occhi scuri, occhi vuoti. Sherlock sbatté un pugno sul vetro. “No…” mormorò. “No.”
Come se non fosse vissuto per fare altro, il bambino tolse la sicura alla pistola, la canna pronta a latrare morte. Il tempo rimase sospeso, ogni cosa sembrò paralizzarsi, perfino le lame di luce che filtravano dalla porta che dava sullo studio reale. William sbatté piano le palpebre, poi la detonazione. Il corpo strepitante della madre abbandonò la vita e la testa ricadde pesantemente indietro, gli occhi vitrei e la bocca ancora spalancata in una disperata preghiera. Sulla fronte, il foro di un proiettile. Il figlio abbassò con calma innaturale la pistola, mentre Mary slacciava frettolosamente le ultime cinghie e lo trascinava fuori dalla stanza con malagrazia.
Sherlock rimase raggelato sul posto, intento a fissare l’ormai cadavere di una madre uccisa dal suo stesso figlio. “Perché?” sussurrò poggiando la fronte sul vetro. “Perché… perché… PERCHE’?”
Il suo grido non smosse o intaccò la sicurezza che traspariva sul volto di Moriarty.
“E’ quello che le persone fanno, Sherlock.”
“Le persone muoiono, sì, muoiono sempre, ma perché…”
“Mio Dio, Sherlock… Quanto sei diventato umano… Dovrò fare un bel lavoro con te. Non mi riferivo al morire, mi riferivo all’uccidere. Le persone uccidono in così tanti modi che non puoi neanche immaginarlo.” Jim sospirò con fare annoiato e incrociò le braccia al petto, poggiandosi al vetro. “L’amore di un figlio verso una madre… Un amore grande, grandissimo… E’ vero che alterare il subconscio di un moccioso non è poi così difficile, ma è comunque un passo avanti, non credi? Pensa quanto potere acquisterei soltanto iniettando un po’ di questo siero nel corpo di qualunque persona: sarebbero burattini nelle mie mani, involucri completamente vuoti… Non trovi che sia geniale?”
“E’ folle.”
“Suvvia, la follia è solo un modo dispregiativo per indicare un qualcosa di estremamente intelligente.”
“Tu sei pazzo. A che pro rendere un bambino un assassino?”
“Dovevo testare la potenza del siero e, a quanto pare, funziona a meraviglia. Le prime cavie molto spesso si ribellavano e non svolgevano i compiti più difficili, alcune invece non reggevano alla sua azione e morivano. Con svariate prove e interventi chimici, l’abbiamo potenziato e allo stesso tempo abbiamo cominciato a capire come padroneggiarlo, ma dovevamo comunque testarlo su di un essere dotato di… intelligenza.”
Sherlock indietreggiò istintivamente, la sua mente che cominciava a collegare ogni singolo evento di quello stupido giochetto che lo aveva inseguito per tutto quel tempo. Il tassista… il tassista e i due veleni, le vittime, cavie che non avevano retto al siero.
“Quindi… gli ostaggi e le sfide erano dei semplici esperimenti per testarmi?”
“Ammetto che erano cominciati con questo scopo, sì, ma il gioco era così intrigante che non sono riuscito a trattenermi e a inserire diversi ostacoli anche per il caro dottor Watson.”
Al sentir pronunciare il nome di John, Sherlock s’irrigidì completamente, le mani vennero scosse da un lieve tremore. Si disse che John non c’entrava niente con tutto quello, che se lui avesse fatto il bravo sarebbe stato libero, che ogni cosa sarebbe andata nel verso giusto. In qualche modo.
“Sai, Sherlock, è orribile a dirsi, ma… sono arrivato alla conclusione che la tua mente, per quanto geniale, non sia niente di fronte alla potenza di questo siero. E’ ben altro che ti tiene ancorato a terra, cosciente.” continuò Moriarty abbandonando la sua posa sicura di sé e assumendone una ponderosa, concentrata. “E adesso ti dirò qualcosa che probabilmente ti lascerà stupefatto: dal tuo incontro col caro Hope, il tassista, il tuo corpo ha ospitato il siero.”
“Non è possibile. Non mi è stato iniettato.” ribatté il detective, portandosi istintivamente una mano al braccio, dove la vena principale si intravedeva leggermente al di sotto della pelle perlacea.
“Non serve iniettarlo. Può essere assunto anche mediante inalazione, un po’ come la cocaina. Tu più di tutti sei dotto in materia.” Sherlock digrignò appena i denti, ma non lo interruppe. “Quando le siringhe sono cadute a terra, il siero si è sparso a terra e l’aria è stata contaminata. Ergo, se l’aria è stata contaminata e tu hai respirato l’aria contaminata…”
“Sono stato contaminato a mia volta.” completò con un sussurro. “Ma c’era anche John… anche lui ha respirato quell’aria.”
“Infatti! E devo dire la verità: mi ha stupito. Nonostante si sia dimostrato instabile dal punto di vista emotivo, è riuscito a resistergli fino alla prova al Barts.” Gli occhi di Moriarty si spostarono lentamente sul cadavere della donna, nell’altro vano, e le sue labbra guizzarono impercettibilmente verso l’alto. “Ma guardala… così sola, così morta. Se mi concentro, posso quasi sentire le sue urla e i suoi singhiozzi per il suo povero figlioletto. Anche tu sei stato posto dinnanzi ad una situazione simile, ricordi?”
“Clara.”
“Proprio così, ma sapevamo che il siero non era abbastanza abbondante nel tuo corpo, visto che gran parte l’avevi sicuramente già espulsa, perciò ne abbiamo fatto rilasciare altro al 221B, poco prima della prova con la tua amica. E nonostante tutto, il tuo… affetto verso quella donna ti ha impedito di premere il grilletto. Disgustoso, vero?”
“Ma così anche Clara ha assunto il siero.” puntualizzò Sherlock.
“L’ha fatto, eccome se l’ha fatto… A questo proposito, ho saputo che è stata rinchiusa in un manicomio, dovrei passarla a trovare di tanto in tanto.”
Il detective inarcò un sopracciglio, ma poi i tasselli del puzzle che gli si stava formando in testa presero ad andare ognuno al suo posto. “Il siero? E’ il siero che l’ha resa così?”
Moriarty scrollò le spalle con noncuranza. “E’ stata una sorpresa, ma sì, il suo organismo ha avuto una reazione quasi… allergica. Ma non temere, le passerà tutto quando il suo corpo avrà espulso gli ultimi residui della sostanza.”
Adesso ogni cosa acquistava un senso. Ora capiva il significato nascosto delle prove del dinamitardo, l’incontro col tassista, i due sieri, le parole di Victor… Un grande, gigantesco, mastodontico gioco. Un gioco per cui erano morte delle persone, per cui lui e John avevano sofferto e si erano fatti del male a vicenda, durante il quale non erano stati altro che delle marionette nelle mani di un pazzo.
“Se era me che volevi, perché hai tirato dentro anche John?”
Moriarty sbuffò sonoramente. “Perché ogni singola cellula del tuo corpo è fatta d’amore, Sherlock. Tu sei… amore vivente, e John è il centro motore che ti tiene in vita. Come ho detto, non è l’intelligenza, non sarà mai l’intelligenza a salvarti dal siero… E’ l’amore che provi per quello stupido medico. Dovevo verificare e vedere con i miei occhi quanto a fondo ti saresti spinto per il tuo tenero coinquilino, per questo ho chiesto a Charles un aiutino.”
Magnussen, che fino ad allora era rimasto appoggiato alla parete ad assistere a quella conversazione in silenzio, si staccò dal muro e camminò elegantemente verso di loro. “Ho chiesto agli Agra di darmi una mano affinché la distanza tra lei, signor Holmes, e il dottor Watson venisse sanata, e loro mi hanno fatto il favore di infilarvi tra le fiamme assieme. A quanto pare, abbiamo ottenuto l’effetto sperato.”
“Quindi è lei che mi ha inviato quel messaggio… E i suoi uomini hanno appiccato il fuoco alla fattoria.”
“E l’hanno anche spento, sì. Non potevamo certo lasciarvi morire.”
Moriarty applaudì platealmente al resoconto sommario del suo collaboratore e passò un braccio attorno al collo di Sherlock, stringendolo amichevolmente. “Perfetto! Ora che ogni cosa è stata chiarita, passiamo ad illustrarti come andranno a finire le cose: abbiamo testato il siero potenziato su qualsiasi tipo di essere umano, dagli idioti ai geni, dai ricchi ai poveri, dai feriti agli innamorati, e ognuno di loro è diventato un burattino nelle nostre mani. Perciò, manca un ultimo gradino per dichiarare l’esperimento riuscito, e quel gradino siete voi: Sherlock Holmes e John Watson.”
“Che vuoi fare?” domandò flebilmente Sherlock, appiattendosi contro il vetro, quasi nella speranza di svanire e ricomparire in cella, al fianco di John.
Moriarty ghignò. “Bruciarti il cuore.”

SPAZIO AUTRICI
Allora, vogliamo una medaglia solo per essere riuscite a finire e a pubblicare un capitolo simile. La nostra tempra ha resistito alle interrogazioni di latino, alle versioni di greco, al rewatch della quarta stagione di Sherlock e sì, anche a questo maledetto capitolo che entrambe odiamo con tutte noi stesse. Ad ogni modo, ci sembra giusto che se voi siate costretti a odiare qualcuno, quel qualcuno siamo noi. Perciò non vi diremo di non insultarci o di non inviarci maledizioni di vario tipo e... non abbiamo neanche una scusa pronta. Ci vediamo al prossimo capitolo, signori nostri, molto probabilmente... l'ultimo. Felice settimana, ragazzi!




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