Capitolo
terzo
Oggi è un giorno come tanti, Leo.
Mio padre si è svegliato, si è messo la divisa e
ha bevuto il suo caffè in
piedi in cucina, con la cravatta ancora slacciata e il cappello sul
mobile,
vicino alla foto di mamma.
Poi si è lavato i denti, si è pettinato, ha fatto
il nodo alla cravatta, ha
preso il cappello e la borsa nera.
Ed è uscito senza salutarmi.
Perché io non sono più qui, Leo.
Tua S.
Ed esco fuori da ogni vita
perché ho paura di non vivere abbastanza
e ancora, ancora, ancora.
come nulla fosse
ancora, ancora, ancora
arrivederci e grazie
Arrivederci e grazie – Nesli
I
genitori di Sabina erano nati a tre anni e cinquecento metri di
distanza l'uno
dall'altra, avevano frequentato lo stesso liceo e si erano conosciuti
soltanto
ormai quasi maggiorenni a ottocento chilometri da Roma.
Suo padre, Stefano, era di Via delle Sette Chiese, nato e cresciuto in
uno di
quei palazzi costruiti dal fascismo e che parevano non essere mai stati
ristrutturati e aveva un fratello, Carlo, mentre sua madre, Marta, era
di Via
San Nemesio, di uno stabile decisamente più moderno sito
davanti al CTO ed
aveva una sorella, Lucia.
Avevano fatto lo stesso liceo all' Eur senza mai rendersi conto di
camminare
negli stessi corridoi e studiare sugli stessi libri finché
non si erano parlati
per la prima volta nella piazzetta innevata della borgata di montagna
dove le
due famiglie avevano due grange attaccate.
Così quando si erano sposati avevano deciso di buttare
giù il muro che le
divideva e creare una sola grangia che i membri di entrambe le
famiglie, quella
di Stefano e quella di Marta, potessero andare a rotazione. Fino a che,
poche
settimane dopo l'incidente che aveva tolto la vita alla donna, quasi
dieci anni
prima, il maresciallo aveva pagato agli altri eredi la loro parte di
casa e vi
si era trasferito coi figli, lasciandosi alle spalle Roma e tutto il
resto.
Sabina e Cesare, ragazzini, avevano seguito l’uomo lontano da
casa e si erano
abituati a quella nuova vita. Quando aveva finito il liceo il ragazzo
si era
trasferito per l’università, e la piccola di casa
era rimasta sola col padre.
Fino a quel giorno.
L’aria di fine estate rinfrescava la vallata e le ultime
famiglie in vacanza
erano giàr ripartite, quella mattina di agosto.
Il borsone della palestra della ragazza rotolò
giù dalle scale. Lei lo seguì
salterellando.
- Sabina!- La richiamò il padre dall’angolo
cottura.
- Scusa, è che facevo prima così. In un viaggio
solo ho portato giù la borsa
degli allenamenti, il computer e lo zaino coi libri.-
- E che ti manca ancora?-
- I vocabolari di latino e greco, due valige e la mia borsa per il
viaggio,
quella con le cuffie, un libro, i cicles…
- Le gomme, Sabina. Abituati.-
- Quello che sono.-
- Va bene.- Concluse l’uomo voltandosi verso il lavabo per
finir di sciacquare
dei piatti. – Sistemo la cucina e vengo a darti una mano con
le ultime cose.
Cesare te a che punto sei?- Urlò sperando che, da qualche
parte, il figlio
maggiore lo sentisse.
- Finisco di lavare i denti e salgo a prendere le mie cose,
Pa’.-
Sabina si rigirò verso le scale e tornò al piano
di sopra, nella sua camera.
Non sembrava la stanza di una che stava andando via, era la
normalissima camera
di un’adolescente. La libreria piena, un armadio semichiuso
da cui usciva un
paio di jeans, il telefonino in carica sul comodino.
Si sedette sul letto rifatto e si guardò intorno. No, non
sembrava che stesse
andando via.
Perfino la scrivania raccontava un’altra storia, con un libro
e un quaderno
aperti e vario materiale di cancelleria in disordine.
- Hai lasciato tutto fermo.- Sentì dirsi alle spalle.
- Già fatto, papà?-
- Mi mancavano due piatti. Sai, potrei comprarmi una lavastoviglie ora
che non
ci sei più neanche tu, ma per una persona sola sarebbe uno
spreco.- Provò a
scherzare. Non era molto d’accordo con quell’addio
improvviso, gli sembrava di
veder sua figlia crescere troppo prima del tempo, ma Sabina aveva
bisogno di
tornare a Roma.
- Puoi sempre prenderla e con l’occasione trovarti una nuova
fidanzata, dopo
dieci anni non credo la mamma si arrabbierebbe .-
- Ci penserò su. Certo è che non sarà
facile; la casa vuota, la cena da solo,
addirittura camera tua in ordine. -
- Ti mancherà meno quando verrai a trovarmi, quella di Roma
sarà la mia solita
stanza.- Rise la ragazza.
-Già. Mentre qui sarà sempre come entrare in
camera tua il quindici gennaio. -
- Quattordici.- Lo corresse lei. – È tutto come
fosse sempre il quattordici
gennaio. Il quindici era già un’altra cosa. -
Sospirò. Poi si alzò e andò verso
il muro dall’altra parte della camera, dove teneva appese
quelle che a occhio e
croce dovevano essere un centinaio di foto.
Ne prese una.
Era più piccolina, in quella foto, aveva quattordici anni e
mezzo e indossava
una camicetta nera su dei pantaloni neri. I capelli, sempre
lunghissimi, erano
racchiusi in una treccia che le cadeva dalle spalle al petto, e
abbracciava
un’altra ragazzina, più alta e magrolina con i
capelli a caschetto. Davanti a
loro una torta di compleanno con tredici candeline appena spente
proprio
dall’altra.
- Quella la porti con te? - Le domandò il padre.
Sabina ci pensò un attimo, poi rimise la fotografia al suo
posto e tornò verso
di lui. – No, per ora no. Ho bisogno di ricominciare, di
dividere prima e dopo,
di non… pensare troppo a perché vado via.
Più avanti però credo che la
prenderò, penso ne avrò bisogno a un certo punto.
- Concluse.
Il maresciallo non continuò la discussione,
preferì lasciar cadere l’argomento
e parlare di altro.
- Ti do una mano a portar giù le ultime cose, Sabina.
Così partiamo, almeno
saremo a Roma entro cena.- Le disse.
La ragazza annuì e iniziarono a prendere le ultime valige
aiutati da Cesare.
L’auto del maresciallo era nel parcheggio
all’inizio della borgata, tirata
fuori la sera prima per fare più in fretta in quella
mattinata che sembrava non
passare mai.
Davanti alla Opel nera li attendevano due uomini che aveva superato la
mezza
età, intenti a fumare la pipa mentre ridevano tra loro.
- Sergio! Gian! – Urlò Sabina correndogli
incontro.
- Eccola, la donna in partenza.- La salutò ridendo uno dei
due.
- Volevamo salutarti ancora prima che andaste, non è facile
vederti così…
grande.- Sospirò l’altro.
- Beh, non è che me ne vada perché son
grande…- Sospirò lei.
- Vero, ma se fossi piccola non potresti andare, quindi sei anche
grande. E poi
hai diciotto anni, per chi come me e Sergio ti ha vista neonata sei
davvero
adulta.- Sabina sorrise. – Siete venuti per le
raccomandazioni prima del
viaggio?-
- Quelle te le farà tuo padre.- Disse quello di nome Sergio.
– Noi volevamo solo
augurarti buona fortuna, e dirti che questa sarà sempre casa
tua. Non importa
cosa pensino altri.-
Sabina sorrise. Sergio e Giancarlo erano quasi come degli zii, per lei,
due
delle poche persone di cui si fidava ciecamente, due delle poche
persone che le
dispiaceva lasciare lì.-
- Lo so, grazie. Tornerò a trovarvi.-
Li abbracciò con calma uno per volta, godendosi quella
sensazione di casa che
raramente aveva provato, poi si diresse verso la portiera della
macchina.
- Ce’, posso stare io davanti?- Domandò al
fratello.
- Come ti pare, tanto io voglio dormire per tutte e nove le ore del
viaggio.
La ragazza sospirò.
Era tutto così strano, quel giorno di fine estate.
Coraggio
lasciare tutto
indietro e andare
Partire
per ricominciare
Che
non c’è niente di più vero di un
miraggio
E per quanta
strada ancora c'è da fare
Amerai il finale
Buon viaggio – Cesare Cremonini
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