Mask.
“Una rosa,
anche con altro
nome, avrebbe lo stesso profumo”.
*\* Non so da dove mi sia uscita,
premettiamolo.
Dovevo scrivere una specie di Seguito della Shot di Niobe – The
White Mask –, ma più che una Shot
normale, a me questa sembra una specie di
PWP idiota e scritta male.
Ma tant’è: ho
fatto del mio meglio per usare uno stile simil-Nio. Cioè,
più che simil-Nio, abbastanza puccio, ecco.
Il sottotitolo, come forse i
più svegli
avranno capito, è ispirato a Romeo e Giulietta, indi ha a
che fare con
Shakespeare. Io mi sono limitata a trascrivere la frase così
come la ricordavo:
e, per chi non lo sapesse, ho una memoria che definire pessima
è di poco.
Comunque: spero non faccia troppo
schifo. No, davvero.
Perché,
nell’ultimo periodo, non riesco
a scrivere: lo sanno bene quelli che aspettano il capitolo di BL, vero?
XD Anche
perché, beh, quella fic procede.
Nel
senso che il capitolo lo sto scrivendo, ma è accidentalmente
rimasto nel mio
portatile. Portatile ora in riparazione, perché il tasto C ha deciso di
saltare: se non si riesce a metterlo a posto, una tastiera nuova mi
verrà a
costare sessanta euro. ._. Vabbe’.
‘Sta roba non mi
convince, ve lo dico
subito. Ma a Nio-chan – aka Onigiri – piace, indi
gliela regalo (?) e la posto
per farla contenta. XD Speriamo bene!
Non morite durante la
lettura, mi
raccomando. >.>*/*
“Sei
un piccolo ladro bastardo”.
“E
tu una mogliettina fedifraga”.
“Quando
tornerai?”.
“Alla
prossima luna nuova, Kagome”.
Koga
non era un gran marito, né
un grand’uomo. Suo padre, anni prima, aveva investito in una
piccola ditta che
produceva videogiochi: piano – forse troppo – i
guadagni avevano iniziato a
quadruplicarsi e lui, che possedeva la maggior parte delle quote della
minuscola società, si era ritrovato tra le mani
più denaro di quanto ne avesse
precedentemente speso.
Era
stato viziato, e abituato ad
ottenere tutto, Koga.
La
playstation. Quando aveva
sette anni, aveva voluto una playstation, e sua madre –
premurosa come solo una
donna dal cuore puro può essere –
gliel’aveva comprata, facendogliela trovare
tra le coperte la sera del suo compleanno.
Poi
era venuto il turno del
motorino, della moto, della macchina.
E poi quello di Kagome.
L’aveva
vista camminare a passo
spedito fuori dalla sua scuola – un liceo privato nel quale
solo i figli di
papà erano i benvenuti –, zaino in spalla e
sorriso dolce come il miele. E non
aveva resistito: una settimana, due, poi suo padre si era trovato
costretto ad
andare dagli Higurashi, e a questi chiedere la mano della ragazzina.
Ma
andava tutto bene, anche se
lei non aveva ancora sedici anni e lui era poco più di un
bambino. Andava tutto
bene.
Si
erano sposati quando lei aveva
finito la scuola, lui aveva avviato una società con sedi
all’estero, sembravano
– apparivano –
la coppia dei sogni.
Lei era bella come una principessa e lui era premuroso come un principe.
Eppure.
Tutte
le fiabe hanno un lieto
fine. In tutte le fiabe il giovane sposa la sua amata, e poi
c’è il vissero felici e
contenti. Ci sono i
baci, gli abbraccia, i figli, la vita che è un sogno ad
occhi aperti.
Ma dopo il lieto fine, cos’altro
c’è?
Koga
non era un gran marito, né
un grand’uomo, ma amava Kagome con tutto il suo cuore.
Koga
era il genere di persona
che, pur vedendo dei succhiotti – che
non
sono suoi – sul tuo corpo, finge che non ci siano.
Koga era il genere di
persona che, pur facendo sesso con te una volta ogni tre mesi
– perché il resto del
tempo è in viaggio
–, cerca sul tuo ventre le tracce di una possibile
gravidanza, sperando ogni
giorno in un erede.
Koga
era una brava persona, tutto
sommato, e la viziava come solo un uomo innamorato e molto
ricco può fare.
Le
sarebbe mancato, questo sì.
“Morto?”.
Sussultò.
“Sì, Holden. Morto.
Era… Era in Cina, o in quella che credo fosse la Cina.
E… E l’autista era
ubriaco, e c’era un camion e…”. Scosse
il capo, mentre un singhiozzo le
impediva di continuare: aveva pianto.
Forse
non come doveva. Forse non
quanto ci si aspetta da una sposa devota. Forse non abbastanza per
tenere a
freno le malelingue.
Ma
aveva pianto, e i suoi occhi
gonfi ne erano l’inconfutabile prova.
“Signora”,
esordì il vecchio cameriere,
posando goffamente una mano sul suo braccio, nel più intimo
dei contatti
consentitegli. “Signora Kagome, se ha bisogno di qualcosa,
sappia che noi siamo
con lei”. Si ritrasse, imbarazzato, un lieve rossore che gli
copriva le gote.
“Mi dispiace”, aggiunse appena.
La
donna si sforzò di
sorridergli. “Grazie. Davvero”. Prese fiato.
“Grazie a tutti. Io… Beh. Grazie”.
Non riusciva a trovare
parole migliori, e
sperò che quelle bastassero.
“Grazie”,
ripeté, abbassando lo
sguardo verso le mani giunte sul ventre. Era seduta sulla poltroncina
di pelle
che un tempo Koga aveva comprato appositamente per lei, indecisa se
liberarsene
o spostarla in un’altra stanza: avrebbe chiesto ad InuYasha
di occuparsene in
seguito, quella specie di troglodita era abbastanza forte da
trascinarla via.
“Se volete, oggi potete prendervi la giornata
libera”, proferì in tono solenne,
guardando di sfuggita Holden – era il suo modo per dichiarare
che quello non
era un invito, ma bensì un ordine. Voleva restare sola.
Il
vecchio si voltò verso i
presenti, facendo cenno di uscire. “Come vuole lei”.
Kagome
sorrise accondiscendente,
aspettando che lasciassero la stanza: le cameriere, tutte in lacrime, i
giardinieri, rigidi come statue, e gli autisti, rattristati. E poi
Holden, con
passo marziale, e Yumi, indecisa se dire qualcosa o costringersi a
tacere.
Li
vide uscire tutti, uno per
uno, più o meno lenti, chi dispiaciuto e chi indifferente.
Riservò
ad ognuno lo stesso
sguardo amareggiato, limitandosi solo di rado a qualche occhiata
più accondiscendente.
Uscirono
tutti.
Tutti.
Tutti,
ma non lui.
“InuYasha”,
sbottò, quando si
rese conto – con rammarico – di non essersene
liberata. “Mi spieghi perché sei
ancora qui?”.
Lui
le riservò un’occhiataccia.
“Non mi va di lasciarvi sola”, sbuffò,
posando le cesoie – che sino a quel
momento aveva stretto tra le dita – sul tavolo in legno ed
avvicinandosi alla
donna. “Vostro marito è morto da neppure un
giorno, eppure voi evitate di
sfogarvi: non si fa così, signora”.
La pronuncia era diversa.
Kagome
notò subito il lessico
dell’hanyou, ora più ricercato del passato, e la
strana luce che gli illuminava
lo sguardo. Notò il taglio che ancora gli solcava la mano
destra, e le labbra,
rosse, apparentemente ruvide.
Scosse
il capo, per evitare quel
tipo di pensieri. “Il dolore è un qualcosa di
soggettivo”, ruggì, irritata. “E
credo mi sia concesso soffrire come meglio credo, InuYasha. Nessuno ha
chiesto
il tuo parere, grazie”, aggiunse infine, sarcastica.
Lui,
d’altro canto, non si mosse
di un millimetro.
“Sei
forse sordo?”, domandò.
I capelli d’InuYasha erano argento, i
suoi occhi oro…
Deglutì,
abbassando gli occhi,
decisa a giocherellare con un lembo della camicetta bianca.
“Allora?”.
“No,
signora. Non sono sordo”,
biascicò il mezzo demone. “Ma neppure ho voglia di
eseguire quest’ordine, indi
resterò con voi, se non vi spiac-”.
“Mi
spiace”, lo interruppe
all’improvviso, attorcigliandosi distratta una ciocca di
capelli intorno alle
dita. “Quindi, credo che dovresti andare”.
InuYasha
inarcò un sopracciglio –
e lei deglutì ancora, a vuoto, cercando una ragione
abbastanza forte che le
imponesse di scacciarlo. Era sempre stato così bello? I suoi
occhi erano sempre
stati così vivi?
La
sua bocca l’aveva sempre
attratta così tanto? E i suoi capelli? Erano sempre stati
così setosi, e lisci,
e perfetti?
L’aveva
mai attratta così tanto,
quello sciocco giardiniere?
“Non
vi lascerò sola”, ripeté
lui: poggiò le mani sui braccioli della poltrona,
impedendole di alzarsi. Volto contro volto,
occhi che osservano
occhi. “Siete ancora triste, no?”,
soffiò sulle sue labbra, ironico. “Avete
pianto così tanto, i vostri occhi lo dimostrano”.
No, non era ironico, no. Era serio.
“Il
signore era il vostro primo
marito, vero?”, chiese, quasi con interesse.
Kagome
si costrinse a non
baciarlo – perché non avrebbe ricavato nulla, da
quell’insulso sfioramento – e
a rispondergli. “Sì”.
“La
vostra prima volt-”.
“Non
sono fatti tuoi”, rantolò,
indispettita. Poi arrossì appena, affondando ancor di
più nella poltroncina. “E
comunque, no. Non è stata con lui”.
Portò una mano a sistemarsi una ciocca di
capelli che le era scivolata sul volto, ma InuYasha la prese,
stringendole
leggermente tra le dita. “Perché sei rimasto con
me?”, domandò d’un tratto.
Lui
la guardò con evidente
divertimento. “Mi sembrava di averlo detto: non voglio
lasciarvi sola. Non in
questo stato”.
“In
questo periodo, mi lasciano
sola tutti, sai?”, mugugnò lei.
“Tutti?”.
“Sì”.
“Vostro
marito non desiderava di
certo lasciarvi sola”.
“Lo
so”, brontolò Kagome,
dimenandosi appena per farsi lasciare la mano. Tuttavia, lui fece finta
di
nulla, serrando maggiormente la presa, immobile nel suo equilibrio
precario. “Neppure
i miei genitori volevano lasciarmi sposare così giovane, ma
io non li ho
ascoltati”.
“Beh,
eravate accecata
dall’amore”, ribatté lui piatto, mentre
si chinava verso il suo volto: sembrava
indeciso, incerto. Sembrava chiedersi se baciarla avrebbe compromesso
qualcosa.
“Lo volevate a tutti i costi, e logicamente non avete
resistito”.
“No”.
“No
cosa?”.
Kagome
sollevò il capo, irritata
– troppo vicino, quel maledetto giardiniere era troppo, troppo vicino – e infastidita.
Perché, pur non dovendo spiegazioni
a nessuno per quanto faceva, sapere che lui la credeva follemente
innamorata di
Koga la irritava non poco. Si morse il labbro inferiore.
“No
cosa?”, ripeté l’hanyou, con
una voce quasi troppo dolce per essere sua. Un brivido corse lungo la
schiena
della donna, ma si limitò a scuotere il capo, cercando di
calmarsi. “No cosa,
signora?”.
“Non
ero accecata dall’amore”,
gemette, voltandosi di lato e osservando la sua mano destra –
la cicatrice
rossastra, la pelle abbronzata, le dita lunghe.
Lo ricordava.
Sfiorò
la mano dell’uomo con aria
incerta, curiosa: era ruvida, ma non fastidiosa. Grande, ma non
spaventosa.
La conosceva.
Un
battito, due. Tre battiti,
quattro.
Il
suo cuore accelerò
d’improvviso, e si scoprì a fissare gli occhi di
InuYasha, quasi implorando una
risposta che temeva – ed agognava. Sbatté
più volte le palpebre, troppo
sconvolta per fare altro, poi prese un profondo respiro.
Uno, due, tre. Quanti respiri aveva
fatto, prima di ricominciare ad
osservarlo? Quante volte aveva deglutito, osservando la sua camicia
leggermente
sbottonata? Quante volte si era data della sciocca, quando quella bocca
era
divenuta troppo invitante?
“Dove
ti ho già visto?”, chiese
all’improvviso, sovrappensiero, socchiudendo gli occhi per
guardarlo meglio.
“Dove? Non ci siamo incontrati solo come padrona di casa e
giardiniere, vero?
Noi ci siamo già visti”, insisté,
nervosa. “Dove?”.
Lui
curvò leggermente le labbra –
ruvide – in un sorriso che
sapeva di
scherno. “Chissà”, le soffiò
nell’orecchio. “Forse in un sogno”.
“In
un sogno?”. Perplessa, Kagome
si sporse maggiormente verso di lui. Sospirò, indecisa,
confusa. Scosse il
capo. “Che genere di sogno?”.
InuYasha
ghignò, piegandosi verso
di lei. “Nel sogno di una notte senza luna,
principessa”.
Un attimo, e il suo mondo era cambiato.
“Tu…”,
esordì, sbarrando appena
gli occhi. “Tu…!”.
“Io
cosa, mia signora?”, domandò
l’hanyou divertito, dandole un rapido bacio sul collo
– e lasciando che la
lingua scivolasse sino alla scollatura. E lasciando che le labbra
accarezzassero la pelle morbida. E lasciando che i denti sfiorassero i
bottoni,
strappandoli.
E lasciando che la camicia s’aprisse,
scoprendo ventre e reggiseno.
“Sei
un idiota”, sospirò lei,
costringendosi a non urlargli contro. Lo allontanò senza
voglia, irata,
desiderosa di dargli una lezione di un qualsivoglia genere.
“Un idiota”,
ripeté, afferrando il suo volto tra le dita, per
costringerlo a guardarla. “Un
idiota”, disse ancora una volta, avvicinandosi alle sue
labbra, mentre la
rabbia svaniva. “Davvero, davvero un idiota”.
InuYasha
ridacchiò. “Dovevo forse
dirvelo, signora?”.
Scandì l’ultima
parola quasi con comico sdegno, per poi ricominciare ad accarezzare la
pelle
morbida della donna. La spinse contro la poltrona, bloccandola,
impedendole
ogni movimento.
Non poteva opporsi, non poteva scappare.
“Dovevo
afferrarvi un braccio, signora, e
spingervi in un anfratto del
giardino, signora? Dovevo baciarvi,
e
costringervi a capire, signora?”.
Kagome
lo sbuffò. Beh, non aveva
tutti i torti: gli avrebbe creduto, se lui le avesse detto la
verità?
Forse no.
“Non
sapete”, esordì,
strappandole via la camicetta, per poi gettarla al suolo.
“Non sapete quante
volte, in pieno giorno, ho sognato di afferrarvi per la vita e
stringervi a me.
Non ne avete idea”, ringhiò, baciandola.
“Non avete idea di quanto abbia
desiderato gettarvi su questo stesso divano, e farvi mia. Una volta al
mese era
poco, per me”.
“Anche
per me”, sussurrò Kagome,
sospirando. “Ogni mio sogno ti ha come
protagonista”.
“Ogni
sogno? Tutti?”, rise lui,
carezzandole la guancia con il dorso della mano.
“Devono essere sogni molto noiosi”,
affermò infine, spostandole una ciocca di
capelli dietro l’orecchio e mordicchiando il lobo –
ingordo, eccitato, esuberante. Non
c’era più quello sciocco lupo, era
sua. Nessuno si sarebbe messo in
mezzo, era sua.
Kagome era sua.
Guardò
il reggiseno con fastidio,
inarcando un sopracciglio. “Questo non serve”,
commentò acido, passandole una
mano dietro la schiena e cercando di slacciarlo: più facile
di quel che
credesse. Un clic, e
l’oggetto che
tanto lo infastidiva scivolò al suolo, affiancando i resti
della camicia della
ningen.
E
della sua, che lei si era tanto
prodigata a togliergli. “Sei uno sciocco”,
mormorò di nuovo lei, senza fiato.
“Credevi che non ti avrei amat-”.
“Siete
viziata, Kagome, e non
conoscete né il rischio né la paura”,
la canzonò lui, sfiorandole il seno con
le labbra. “Se vi avessi detto che ero un mezzo demone
– il vostro sciocco
giardiniere, per di più – di certo avreste smesso
di frequentarmi, perché
infastidita. Voi volete quello che già non possedete, e io
lavoro per voi: vi appartengo”.
“Oh,
no”.
“Presto
vi annoierò”, continuò,
sfilandole la gonna. “Non vi piacerò
più, vi stancherete di questo piccolo
ladruncolo da quattro soldi, e cercherete un divertimento migliore. Ma
non
riuscivo più a resistervi”, mugugnò
quindi, baciandola. “Non ne ero più capace:
siete solo una sciocca, frivola donna, ma non riesco a resistervi, amore”.
Kagome
gemette, costringendolo ad
allontanarsi, seppur leggermente. “Non mi
stancherò mai di te, perché ti amo”.
Arrossì. “Sono una stronza, vero? Mio marito
è morto da… Quanto? Ventiquattro
ore e dodici minuti? Sì? Forse sì. Un giorno,
eppure già prometto amore ad un
altro”.
“Sì”,
confermò lui, passandosi
una mano tra i capelli d’argento. “Sì,
siete una stronza. Però, se è vero che
non l’avete mai amato…”.
“Non
l’ho mai amato”.
“Allora
non sentitevi in colpa,
signora”.
Scosse
il capo. “Non sono i sensi
di colpa a rodermi. Più che altro, è
l’aver promesso amore eterno ad una
persona che ho continuamente tradito con
voi. L’ho tradito con le mente, sognandovi, e con
il corpo, baciandovi.
L’ho tradito con lo spirito, quando ho capito di amarvi. Mi
fa male. E mi fa
male anche la consapevolezza di averlo privato della
possibilità di trovare una
donna davvero innamorata di lui: gli ho rovinato la vita”.
“Sono
sensi di colpa, questi”,
sottolineò InuYasha, serio. “E, beh, se vi dicessi
che non dovete provarli,
mentirei, perché sono i sensi di colpa a darci la forza di
vivere. Mi sarei
lasciato morire tempo fa, se i sensi di colpa non mi avessero spinto ad
infilarmi nel vostro letto”.
“I
sensi di colpa ti hanno spinto ad infilarti
nel mio letto?”,
chiese lei perplessa, guardandolo – bello, bello, fottutamente bello. Si leccò
le labbra, irritata: era troppo,
troppo bello.
Perché non se n’era mai accorta?
“Vi
desideravo”, ammise lui, non
senza un po’ di fastidio nella voce. “Troppo.
Eppure, quello sciocco di vostro
marito mi aveva accolto in casa, mi aveva dato un lavoro. Non avrei
dovuto
desiderare la donna di chi mi aveva dato di quanto necessitavo: ma vi
volevo. La maschera bianca
è nata per cercare
una forma di sostentamento alternativo al lavoro di
giardiniere”.
Deglutì.
“Non vuoi più lavorare
nella villa?”, si costrinse a chiedergli, spaurita.
Lui
sorrise, storcendo appena il
naso. Dare quel genere di spiegazioni lo irritava.
Così
come detestava pronunciare
quei nomignoli così teneri – principessa,
mia signora –, perché quando li
sussurrava non poteva baciarla. E così come
detestava osservarla passeggiare per il giardino, perché
quando passeggiava
tutti i camerieri – e gli autisti, e i valletti, e i
servitori – la guardavano,
eccitati.
Ma lei era sua.
Nessuno
aveva il diritto di fissarla
in quel modo.
Nessuno.
“Mi
sentivo in colpa, perché vi
volevo. Ma poi, trovato un nuovo lavoro”.
Kagome inarcò, scettica, un sopracciglio, e lui la
freddò con un’occhiataccia.
“Dicevo: mi sentivo in colpa perché vi desideravo,
ma, trovato un nuovo lavoro, beh,
ho pensato di poter provare
a conquistarvi. Me lo meritavo, del resto”.
“Oh”.
“Già”,
sussurrò, senza tuttavia
smettere di guardarla con desiderio malcelato. “Oh.
Non avete idea di quante notti – quando vostro marito era in
viaggio – mi sia appostato fuori dalla vostra finestra,
osservandovi dormire
beatamente tra quelle lenzuola puzzolenti”.
“Puzzolenti?”.
“Hanno
l’odore di vostro marito”,
spiegò InuYasha pazientemente, afferrando una ciocca di
capelli della donna tra
le dita e carezzandola – era morbida, e odorava di fragole.
Doveva essersi da
poco fatta una doccia. “Non sopporto”,
rantolò, sbuffando sonoramente. “Non
sopporto l’idea che lui abbia passato anche solo una notte
accanto a voi”.
Kagome
ridacchiò, divertita. Non
era una risata di scherno, né di orgoglio. Era una risata
compiaciuta – la risata di chi ha
troppe colpe. “Sei
gelosissimo”. La voce era leggiadra – la
voce di una peccatrice. “La cosa non mi
dispiace”, aggiunse, piano – la
lentezza del desiderio che cresce.
Lo
guardò, avvampando appena, poi
si sporse: le labbra di InuYasha odoravano di alberi, di montagne, di
boschi
innevati. Sapevano di noci, di bacche, di mirtilli. La sua stessa
esistenza
sembrava selvaggia, il suo stesso nome richiamava un qualcosa di
profondamente
misterioso.
La sua stessa natura non era umana.
Affondò
la lingua nella sua
bocca, impaziente: non era nel giusto, no.
Era
una peccatrice, lei.
Una
moglie fedifraga. Una
traditrice.
Non
aveva mai amato Koga, non
come doveva. Aveva desiderato un buon matrimonio, una famiglia felice.
L’uno l’aveva ottenuto,
l’altra no.
Aveva
incontrato InuYasha troppo,
troppo tardi. L’aveva incontrato quando lei era solo una
sposa depressa, e lui
un ladro di fama nazionale. L’aveva incontrato nel momento
meno perfetto.
Eppure,
non se ne pentiva.
Aveva
tanti difetti, lei. Era
gelosa, possessiva, infantile, irritante, cocciuta e viziata,
sì.
Sua
madre gliel’aveva sempre
ripetuto, ridendo, e suo padre non aveva mai pensato di farglielo
presente se
non attraverso battute scherzose. Lo stesso Koga non aveva mai badato a
quelle
pecche, rendendole anzi quasi dei pregi.
Nessuno
l’aveva mai vista per
quello che era. Nessuno le aveva mai dato della viziata.
Solo La maschera bianca aveva osato tanto.
Era
entrato nella sua vita –
nella sua camera da letto – in una notte in cui la luna aveva
deciso di non
essere necessaria, ed aveva oscurato il cielo, privandolo del suo tanto
amato
splendore. Era penetrato tra le quattro mura che componevano la sua
camera da
letto con straordinaria agilità, e s’era
avvicinato, mentre lei, ancora
intontita dal sonno, non era riuscita neppure ad urlare:
l’aveva osservato.
E
quando lui l’aveva baciata,
carezzandole il volto con una dolcezza disarmante, non era riuscita a
resistere:
aveva accettato – per la prima
volta!
– i suoi mille difetti, stringendolo a sé. Aveva
– finalmente! –
capito che l’illusione in cui viveva non era amore.
Che Koga, pur essendo dolce e premuroso, non era quello che faceva al
caso suo.
Aveva tradito.
Non
riusciva a pentirsi.
Male, un altro difetto.
Non
era neppure capace di provare
del rimorso nei confronti di un morto.
“Sono
proprio una stronza”,
ripeté, afferrando con le dita i capelli di InuYasha per
costringerlo ad
avvicinare le sue labbra alle sue. Se doveva essere una peccatrice,
voleva
farlo con classe.
Se doveva andare all’inferno, doveva
sprofondare nel luogo più buio.
“Proprio
una stronza”.
“Io
sono un idiota”, la consolò
lui, sarcastico, spingendola sotto di sé e carezzandole le
gambe. “Siamo una
bella coppia, no?”.
Kagome
gli sorrise, annuendo a
malapena. Poi lo baciò: “Proprio una bella coppia,
sì”.
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