Ungheria:
musica, dolci e…
Budapest Ferihegy, 9
agosto, ore 13:00
Scesi
dall’aereo, finalmente. Nove ore di volo possono
essere davvero stancanti, a maggior ragione se non riuscite a chiudere
occhio
per l’eccitazione.
Avevo degli ottimi motivi
per essere eccitato, una volta
tanto. Uno di loro, il principale, mi stava aspettando
all’ingresso
dell’aeroporto, in compagnia di un danese sui
vent’anni. Avevo già visto
Morten, ma anche stavolta non potei fare a meno di notare quanto
sembrasse perfetto. Non a caso ne
ero stato
geloso, una volta, e mi considero tutt’ora fortunato a non
averlo come rivale.
Fu, però, la
figura accanto a lui a mozzarmi il fiato.
Milla, la fonte della mia
agitazione, era persino più bella
di quanto ricordassi. In quel momento stava ridendo, probabilmente ad
una
battuta di Mort. Mi affrettai a raggiungerli.
«Ragazzi…»
Mort mi sorrise; Milla mi
buttò direttamente le braccia al
collo. «Mi sei mancato», mi sussurrò in
quella sua strana lingua così musicale.
Una lingua che in quei mesi avevo imparato a conoscere.
Certo, non ero
assolutamente in grado di affrontare una
conversazione in italiano, ma le frasi base le capivo. Quelle tre
parole poi le
conoscevo bene ormai. «Anche tu, ragazzina»
mormorai, incantato.
Non mi ero reso conto di
quanto davvero mi fosse mancato
stringerla tra le braccia fino a quel momento. Lasciai il bagaglio e
ricambiai
l’abbraccio.
Ci separammo poco dopo;
guardai Mort, imbarazzato per averlo
quasi ignorato. «È bello vederti».
«Anche per
me», mi rispose nel suo solito tono apparentemente
distaccato, anche lui in
inglese.
Spostai lo sguardo
dall’uno all’altro; avevamo molte cose da
dirci, ma in quel momento calò il silenzio.
Pensai io a spezzarlo.
«Sto morendo di fame» annunciai, profondo
come sempre. Era vero, però.
Milla scoppiò a
ridere. Posò lo sguardo sulla mia non
trascurabile valigia. «Prima passiamo in hotel».
Uscii
dall’aeroporto figurandomi già uno scomodo viaggio
in
autobus in cui avrei cercato disperatamente di non urtare nessuno;
quando vidi
Morten fermarsi di fronte ad una Station Wagon bianca ed aprirla
stentai a
crederci.
«È
tua?» mormorai. Era troppo bello per essere vero.
Mort mi guardò
divertito. «L’ho noleggiata»,
spiegò. Mi
aiutò poi a sistemare la valigia nel portabagagli.
Mentre mi accomodavo sul
sedile posteriore pensai che tutto
sommato non mi dispiaceva, che il mio amico danese fosse
così perfetto.
~
Dopo una rapida sosta in
albergo mi portarono in un
ristorantino “nascosto” in una delle vie minori per
evitare i prezzi esagerati
del centro; lungo il tragitto mi guardai intorno: Budapest era
veramente
meravigliosa, totalmente diversa dalla mia New York. Gli edifici erano
pittoreschi, antichi, e in questo senso mi ricordava un po’
l’Italia, ma
trasmettevano qualcosa di completamente diverso. Moltissime le
costruzioni
allungate, sembrava che chiunque avesse costruito quella
città avesse voluto
toccare il cielo con le sue creazioni. Notai, comunque, che erano
presenti
diversi stili. Forse era proprio questa mescolanza a rendermela diversa
dall’Italia; o forse ero solo troppo affamato per avere
pensieri di senso
compiuto.
Al ristorante imitai
Morten ed ordinai un gulasch, praticamente
una zuppa a base di patate e carote; la condii abbondantemente con la
paprica.
Milla invece ordinò un piatto di cui non colsi il nome,
consistente in uno
spezzatino di carne con gnocchetti all’uovo.
Approfittammo di quel
momento per aggiornarci sulle vite di
ognuno; parlare dal vivo è davvero tutta un’altra
cosa. Notai con piacere che
l’inglese di Milla era migliorato, nonostante
l’accento italiano fosse sempre
riconoscibile.
L’accento di
Mort, invece, era quasi impercettibile: se mi
avesse detto di essere madrelingua inglese - britannico magari - gli
avrei
creduto.
Dissi loro dello
stupefacente risultato che avevo ottenuto
all’esame finale - io, il caso quasi
perso!
-, ma tenni per me una certa informazione. A Milla l’avrei
detto più avanti, in
un momento un po’ più… speciale,
speravo; Mort invece lo sapeva già, mi ero consigliato con
lui in precedenza.
La cucina ungherese mi
lasciò un’impressione molto buona.
Uscendo dal ristorante
pensavo che avremmo girato un po’ la
città, ma la mia stanchezza doveva essere evidente
perché i miei amici
insistettero perché tornassi in hotel e mi riposassi un
po’.
«Ho bisogno che
tu sia ben sveglio stasera», mi sussurrò
Milla in inglese.
Non capii a cosa alludesse
ma non protestai. D’altra parte
il viaggio mi aveva davvero stremato.
«Non divertitevi
troppo, senza di me» mi raccomandai
scherzosamente prima di rimanere solo nella mia stanza. A disfare la
valigia
avrei pensato al risveglio, decisi infilandomi nel letto.
~
Dormii poco più
di un paio d’ore; svuotai diligentemente i
bagagli e mi preparai per uscire. Scelsi d’indossare un paio
di jeans e una
maglietta di cui andavo particolarmente fiero, un’edizione
limitata decorata
con una cover dei Pink Floyd.
Aprii la porta della
stanza e mi ritrovai di fronte a dei
bellissimi occhi verdi che, vedendomi, si riempirono di stupore.
«Stavo per
bussare», mi spiegò Milla. Sorrise.
«Tempismo perfetto!»
Mi persi a pensare che
avere il suo sorriso davanti, non in
foto, era bellissimo… per questo ci misi qualche secondo di
troppo a
rispondere. Nel frattempo lei mi guardava vagamente divertita.
Mormorò
qualcosa in italiano, ma non riuscii a capire bene.
Qualcosa a proposito di un gatto ed una lingua…
probabilmente avevo sentito
male.
«Dove mi
porti?» le chiesi, ricomponendomi.
«È
una sorpresa!» dichiarò lei afferrandomi una mano.
Mi
lasciai trascinare fuori dall’albergo senza opporre
resistenza; si fermò solo davanti
ad un’apertura sotterranea del marciapiede.
L’entrata della metro,
probabilmente.
«Dov’è
Morten?» chiesi, realizzando solo in quel momento
l’assenza del danese.
Milla iniziò a
scendere le scale. «Preferiva non venire
stasera. Ha detto che non fa per lui».
«Qualcosa che
non fa per il buon vecchio Mort? Devo
preoccuparmi?» scherzai, sempre più curioso.
«Chissà»,
fu la sua non-risposta. Sfuggente come
un’ombra.
La seguii dentro alla
stazione. Non ne avevo mai vista una
così: la struttura era più o meno moderna, ma a
stupirmi furono le colonne. Più
che portanti mi sembrarono decorative: il corpo era semplice, un
rettangolo
color mattone decorato solo da una doppia colonna di cerchi sporgenti
al
centro. La parte “fuori contesto”, strana ma
bellissima, era quella superiore –
capitello, credo si chiami. Mi lasciò a bocca aperta.
«Che fai? Dai,
vieni, prendiamo il treno».
La voce di Milla mi
riportò alla realtà. Effettivamente era
appena arrivato un treno - giallo! - in stazione. Mi affrettai ad
entrarci.
«Non posso
ancora sapere dove andiamo?»
Lei scosse la testa con
decisione. C’era qualcosa di strano,
però; sembrava… agitata?
Notai che non riusciva a
star ferma un attimo, ora si
torturava le mani, ora giocherellava con una ciocca di
capelli… se avesse
potuto si sarebbe messa a saltellare, indovinai.
Scendemmo dopo solo tre
fermate.
Senza più fare
domande, la seguii per le strade di Budapest,
che sembrava conoscere stranamente bene per essere lì
soltanto da due giorni.
Immaginai che avesse già provato, e memorizzato, quel
percorso. Doveva essere
qualcosa a cui teneva molto.
Arrivammo ad un ponte;
Milla vi salì.
Era imponente: chiunque
volesse attraversarlo non poteva
ignorare l’enorme leone di pietra al suo inizio. Sotto, il
Danubio scorreva
tranquillo.
Non avevo idea di cosa ci
aspettasse dall’altra parte del
ponte. Lo chiesi a Milla, senza sperare più di tanto in una
risposta. Mi stupì,
invece.
«Obudai
szyget,
ovvero Isola della vecchia Buda», mi spiegò.
«È l’isola in mezzo al Danubio
più
grande della città. C’è una famosa
statua di pescatori, la vedrai tra poco».
Notai che continuava a
torturarsi le mani.
Arrivammo
all’altra estremità del ponte e ammirai i
monumenti; non solo la statua, c’era anche un palazzo che
trovai davvero bello.
Milla, però, mi lasciò solo pochi minuti per
godermi il panorama: subito dopo
ripartì verso la nostra misteriosa destinazione.
Notai la presenza di molte
bancarelle ai lati delle strade
che percorrevamo; strade che divenivano sempre più affollate.
Svoltò in
quella che sembrava una piazza e si fermò di
colpo; le finii addosso. «Potevi avvisare...»
mormorai.
Lei non mi rispose. Da
dov’ero non potevo vederla in faccia,
quindi mi spostai alla sua destra.
Mi sembrò
concentratissima. Studiava la piazza come se ne
dipendesse della sua vita.
Seguii il suo sguardo e,
finalmente, capii.
Al centro della piazza
c’era un palco: era circondato da
centinaia di persone.
In quel momento si stavano
esibendo tre ragazzi, ma da
quella distanza e con il rumore della folla non riuscivo a sentire
nulla. Milla
aveva ripreso a torturarsi le mani con più frenesia di prima.
Non l’avevo mai
vista così agitata, neanche sulla
Scacchiera. Eppure lì la posta in gioco era stata un
po’ più alta di un
concerto.
Si mordicchiò
un labbro. «C’è troppa gente»,
disse piano.
Quasi non la sentii. Controllò l’orologio come, mi
resi conto, nell’ultima
mezz’ora aveva fatto spesso.
«Si esibisce
qualcuno in particolare?» domandai. Sono sempre
stato bravo ad enunciare ovvietà.
Lei sospirò e
si decise a fissarmi. «Il mio gruppo preferito»
mi spiegò. «Mi dispiace, avrei dovuto
prevederlo… È che… Ieri sera
c’erano meno
persone».
L’ultima parte
della frase fu coperta da un urlo delle
persone intorno a noi; vidi i ragazzi lasciare il palco ed essere
rimpiazzati
da un uomo, probabilmente il presentatore della serata.
Vidi lo sguardo di Milla
accendersi d’eccitazione e
incertezza allo stesso tempo. Certo da lì non ci saremmo
goduti molto lo
spettacolo. Fu quello a farmi decidere.
«Ho visto di
peggio» affermai deciso afferrandole la mano.
Non so se mi avesse sentito.
Iniziai a farmi strada tra
le centinaia di persone
accalcate, forte delle mie esperienze agli eventi della mia
città. Quello era
niente, o quasi: mi era capitato di addentrarmi in folle anche
più numerose. La
mia unica preoccupazione era finire separato da Milla,
perciò strinsi la sua
mano il più forte possibile finché non arrivammo
a pochi metri dal palco; lì
allentai leggermente la stretta.
Non era stato facile, ma
l’espressione di pura felicità che
scorsi sul volto di Milla mi ripagò completamente della
fatica. Mentre lei
osservava i suoi idoli salire sul palco, io rimasi a fissare lei.
Era
bellissima, e
non solo per i capelli rossi e i grandi occhi verdi, caratteristiche
che al
nostro primo faccia a faccia mi avevano colpito subito.
Ad essere bellissima
era
soprattutto la sua espressione, in quel momento. Partì la
prima canzone e lei
iniziò a ballare, imitata da quasi tutto il resto del
pubblico. Io, però, avevo
occhi solo per lei.
Le luci colorate del palco
le illuminavano il volto ora di
un colore, ora di un altro, mettendo in risalto ora i suoi occhi, ora
la bocca,
ora le guance… Ero come ipnotizzato.
In più si
muoveva bene, Milla, notai sorridendo quando
riuscii a smettere di fissarle il volto.
Ricordai che era stata
proprio lei a proporre l’Ungheria
come luogo del nostro incontro: doveva aver avuto in mente il concerto
fin da
subito. Avrei dovuto immaginarlo, sapevo bene che la musica era la sua
passione.
La mia invece era lei;
lo sapevo già, ma in quegli attimi lo avvertii con una
chiarezza nuova.
Mi unii al suo ballo e,
nel momento di pausa tra una canzone
e l’altra, avvicinai la bocca al suo orecchio, sussurrandole
il pensiero che
aveva prepotentemente invaso la mia testa: «Sei
stupenda».
Mi sembrò che
arrossisse, ma forse era solo un altro effetto
delle luci del palco.
Ballammo così
altre cinque canzoni. Uscire dalla folla fu
quasi più faticoso che entrarci.
Ci allontanammo dai rumori
della piazza, stremati ma
contenti.
Milla si sedette sulla
prima panchina che trovammo; davanti
a noi c’era una bellissima aiuola che poteva vantare fiori di
praticamente
qualsiasi colore.
La raggiunsi; era
accaldata ed aveva tutti i capelli fuori
posto. Dubitavo di essere in condizioni migliori.
Rimanemmo in silenzio per
qualche minuto, troppo impegnati a
riprendere fiato.
Come sempre, pensai io a
rompere il ghiaccio: «È stato
divertente».
Lei sorrise; il rosso
delle sue guance rese ancora più bello
quel sorriso… ma forse era il mio cervello che, andato
definitivamente in tilt,
mi permetteva solo di ammirarla.
«Moltissimo»,
confermò.
Ci guardammo negli occhi
per qualche secondo. Non potevo più
resistere: feci quel che avevo desiderato dal momento in cui aveva
iniziato a
ballare. Azzerai la distanza tra le nostre labbra e lei mi rispose
senza esitazione.
Sapeva di cannella.
Sentii le sue braccia
passarmi intorno al collo e stringermi
come a volersi accertare che non sparissi; se non avessi avuto la bocca
occupata, l’avrei rassicurata dicendo che non andavo da
nessuna parte.
Interruppi il bacio solo
quando mi mancò l’aria. Le
accarezzai i capelli, beandomi del suo sguardo.
Era rossissima, ora, e non
più per il ballo.
«Ti sono
piaciuti?» mi chiese.
La fissai inebetito per
una manciata di secondi; mi era
piaciuto cosa, il bacio?
No,
idiota, i cantanti,
mi risposi da solo. La verità era che non avevo prestato
troppa attenzione alla
musica, concentrato com’ero su di lei.
Comunque era a loro che dovevo l’ottimo umore di Milla;
vederla mostrare le sue
emozioni così apertamente come quella sera era un evento
più unico che raro –
nascondersi, d’altra parte, è nella natura
dell’ombra.
«Certo»
risposi. Se il mio tono tradì incertezza lei parve
non accorgersene.
Passammo il resto della
serata a parlare di musica e skate,
di tutto e di niente, e lasciatemelo dire: fu semplicemente magico.
~
Un po’ meno
magico fu risvegliarsi la mattina seguente,
vista l’ora che ci vide tornare in hotel.
Con un curioso senso di
benessere contrastato solo da un
leggero mal di testa, mi alzai a mezzogiorno.
Afferrai il cellulare e
trovai dieci chiamate perse da mia
madre.
In un altro momento forse
mi sarei indispettito, ma allora
mi limitai a scriverle che stavo bene, in aeroporto non mi aveva rapito
nessuno, e di non preoccuparsi per il ritardo della mia risposta; per
quest’ultimo diedi la colpa al jet lag.
Feci in tempo solo a
lavarmi i denti prima di sentir bussare
alla mia porta.
Sulla soglia trovai Mort,
perfettamente sveglio, vestito e
profumato.
Mi scrutò con
curiosità, ma non chiese niente. «Milla dorme
ancora», mi informò. «Sto andando in
aeroporto ad aspettare Satsuki. Voi potete
farvi un giro e mangiare qualcosa, nel frattempo» mi
consigliò.
Esitai a rispondere.
Saremmo dovuti andare tutti insieme a
prenderla, ma con me in pigiama e Milla ancora nel mondo dei sogni
avremmo solo
rischiato di non farle trovare nessuno.
«Va bene. Grazie
Mort».
«A dopo,
Ryan».
~
Poco più tardi,
dopo essermi vestito, vidi Milla uscire
dalla sua stanza.
Mi guardò
assonnata.
«Ho trovato una
nota di Mort, è andato…»
iniziò, ma non la
lasciai finire.
«In aeroporto,
lo so. Ti va di mangiare qualcosa?»
«Assolutamente
sì».
Uscimmo
dall’hotel e ci infilammo in una stradina. Le
architetture di Budapest continuavano a lasciarmi a bocca aperta, era
veramente
una città bellissima.
Milla si fermò
davanti a una bancarella; mi avvicinai. Fu
facile capire cos’avesse attirato la sua attenzione:
l’uomo dietro al bancone
stava lavorando un impasto, permettendo a tutti di assistere.
Ricavò due
piccoli cilindri e, uno alla volta, li avvolse
intorno ad uno strumento che non avevo mai visto prima in cucina: una
specie di
rullo tenuto in alto da un sostegno metallico.
Fatto questo prese due
barattoli e ne sparse il contenuto su
entrambi i rulli, poi li mise su una specie di forno aperto; potevo
vedere le
fiamme lambirli.
Qualsiasi cosa ci avesse
sparso sopra iniziò presto a
sciogliersi, dorando l’impasto. Era a dir poco invitante.
«Che
cos’è?» sentii chiedere a Milla.
Vidi l’ungherese
sorriderle. «Si chiama trdelnik,
signorina, è un nostro dolce tradizionale».
Lei mi guardò
speranzosa. «Ti va di pranzare con questo?»
Come dire di no con i suoi
occhi verdi puntati addosso?
Annuii.
L’uomo prese due
dolci già pronti e ce li incartò,
augurandoci un buon pasto. Lo ringraziammo e pagammo, per poi andare
alla
ricerca di un posto in cui consumarli.
Trovammo un parco perfetto
a questo scopo. Sedemmo
sull’erba.
Addentai il trdelnik. Se
avessi dovuto descriverlo avrei
usato due parole, soffice e dolce; in più sapeva di
cannella, il che
mi riportò con la mente alla sera prima. Mi riscoprii a
fissare le labbra di
Milla.
Scossi la testa e la
guardai. Era già a metà del suo dolce.
«Ehi, mangi
troppo in fretta» la sgridai scherzosamente. Lei
mi ignorò.
Finimmo il pasto in
silenzio.
«Buonissimo»,
disse Milla alla fine. C’era qualcosa di
strano però; non saprei dire il perché, ma il suo
tono non mi convinse del
tutto.
«A che
pensi?» le chiesi.
Lei non mi
guardò. «A niente in particolare; sono felice di
essere qui».
Iniziai a preoccuparmi sul
serio: era chiaro che mi stesse
nascondendo qualcosa.
Ero deciso a scoprire
cosa, però.
L’ombra
sfugge, ma
nemmeno lei può fuggire il fuoco.
Mi misi davanti a lei,
oscurandole il panorama con la mia
faccia. Se fosse scappata l’avrei quasi capita.
«Davvero, Milla,
che è?»
Sobbalzò
stupita nel sentirmi usare la sua lingua,
l’italiano. Sperai davvero di non aver fatto errori.
Abbassò gli
occhi e si mordicchiò il labbro.
Alla fine cercò
il mio sguardo e cedette. «Sono davvero
felice di essere qui, Ryan, è solo
che…» fece una pausa e sospirò.
«Mi sei
mancato in questi mesi, nonostante tutte le chiamate, anche video, che
abbiamo
fatto mi sei mancato da impazzire. Vorrei solo godermi questi giorni,
ma… se
penso che dopodomani riparto, e non so quando ci
rivedremo…» non finì la frase,
ma non ce n’era bisogno.
Avevo colto il messaggio.
Stupendola, sorrisi.
«Potremmo rivederci prima di quanto
pensi» dichiarai.
Mi guardò
scettica. «Non vedi più il futuro, a quanto ne
so».
Il mio sorriso
s’incrinò leggermente; sulla Scacchiera avevo
effettivamente potuto vedere il futuro in un paio di occasioni, ma
quest’abilità si era rivelata più
nociva che utile.
Comunque continuai.
«Ho finito le superiori» dissi.
«Quindi?»
Decisamente non era
un’appassionata di deduzioni, la mia
ragazza. Decisi di non farla aspettare oltre.
Le presi la mano.
«Vengo a studiare in Italia, Milla»
annunciai. La vidi sgranare gli occhi. «Mi hanno
già accettato per il corso di
architettura all’università di Firenze».
Mi guardò
incerta: sembrava non riuscire a decidere se
credermi o meno. Forse le sembrava troppo bello per essere vero?
«Dai,
dì qualcosa» l’esortai. «Cosa
stai provando in questo
momento?»
Mi guardò negli
occhi. «È vero?» mormorò. Non
riuscii a
decifrare il suo tono.
«Certo»,
risposi. Non era esattamente quella la reazione che
mi ero aspettato. «Non sei felice?»
Lei mi buttò le
braccia al collo e mi baciò.
Quando si
staccò notai che aveva le lacrime agli occhi, ma
sorrideva.
Un sorriso bellissimo,
forse anche più di quello del
concerto.
«Non sono mai
stata così felice, prima» mi rispose per poi
tornare a baciarmi.
NdA
Buongiorno cari lettori!
Non so bene che pensare di questa OS,
lascio a voi i commenti.
Dirò solo che normalmente
rifuggo la prima persona, ma in questo caso ho lasciato parlare Ryan
per coerenza con i romanzi originali.
Questa storia è stata
scritta per il contest di missredlights, e risponde ad alcuni prompt;
"Estate, Szyget Festival, Luci colorate, Passione" e la frase: "Cosa
stai provando in questo momento?".
Grazie mille a chi mi
lascerà un parere.
Alla prossima!
Mari
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