Domus est ubi cor est
‘Le mie scuse. Temo mi
sia impossibile essere presente per accoglierti stasera. Sono sorte
alcune questioni che non sarebbe saggio rimandare.’ MH
‘Ok, nessun problema.
Anch’io ho del lavoro da portarmi a casa. Facciamo un’altra sera?’ GL
‘Posso suggerire che tu
mi aspetti a casa mia? La stima del mio probabile ritardo è di un’ora e
mezza. Due se il traduttore è nato prima del 1975.’ MH
‘? Qualunque cosa voglia
dire. Sicuro che non è un problema?’ GL
‘Assolutamente certo.’ MH
‘A più tardi, allora…’ GL
Mycroft Holmes mise da parte il telefono cellulare, facendo cenno ad
Anthea di riprendere.
“Potremmo rimandare, Mr Holmes. Forse non di 24 ore, ma fino a
domattina di sicuro,” disse Anthea scorrendo la sua agenda
sull’inseparabile black berry.
“Non è necessario, Anthea. Ci atterremo ai programmi di oggi,” le
ripose Mycroft. “Procediamo.”
Tutte le questioni furono risolte per le 19.08. Il traduttore era
effettivamente nato prima del 1975, e quindi abbastanza vecchio da aver
vissuto e assorbito il linguaggio tipico dell’URSS prima della
Perestrojka, cosa che lo aveva portato ad impiegare termini
inconsciamente faziosi, che avevano di poco rallentato il
raggiungimento di una felice conclusione di quel piccolo e tempestivo
negoziato.
Mycroft non se ne rammaricava: se anche la cosa aveva reso il colloquio
più lungo e irritante, per non dire insopportabilmente noioso, gli
aveva anche fatto perdere tutto il tempo necessario. Mentre spegneva le
luci dell’ufficio e seguiva i tacchi alti di Anthea fino all’ingresso
dell’edificio, Mycroft calcolò che con il traffico di quell’ora sarebbe
arrivato a casa, da Gregory, con esattamente due ore di ritardo.
Ne aveva la certezza perché quando l’Ispettore Lestrade era arrivato
all’appartamento di Pall Mall, la sicurezza, già allertata
precedentemente, gli aveva inviato un fotogramma delle telecamere di
sorveglianza per conferma. A Mycroft sembrava di avere ancora sotto gli
occhi il profilo di Gregory che si avvicinava alla porta d’ingresso con
le spalle un po’ curve, la borsa del portatile a tracolla e una
bracciata di fascicoli. Nell’immagine, Gregory aveva la testa sollevata
ad osservare la facciata dell’edificio e avanzava con falcate poco
ampie. Doveva esser sceso dalla macchina con il suo solito passo svelto
ed elastico, per poi rallentare in vista della sua meta, mentre la
studiava e la valutava e ragionava…
Mycroft salutò Anthea e salì in macchina, seduto perfettamente rigido e
composto, le mani sul manico del suo ombrello.
“A casa.”
Chissà se l’inusuale traffico di taxi per l’elevato afflusso di turisti
provenienti dalla Francia avrebbe regalato loro ancora qualche minuto.
Mycroft avrebbe potuto impiegarli per rivedere mentalmente una foto
aerea del Mali e valutare se i segni che si intravedevano rimandavano
ad attività sospette.
Aprì la porta dell’appartamento alle 19:37, esattamente all’ora che
aveva sperato. Si guardò immediatamente attorno in cerca di segni della
presenza di Gregory. Niente cappotto appeso nell’ingresso. Più spesso
che no, specie se non c’era Mycroft a sfilarglielo dalle spalle,
Gregory tendeva a portarselo fino al piano di sopra. A maggior ragione
quella sera, che aveva entrambe le mani occupate, era probabile che
Gregory si fosse levato il soprabito solo nello studio. Appena entrato
era passato in cucina a prendere un bicchiere d’acqua al volo, posando
solo per un minuto i suoi dossier sul bancone accanto al lavandino,
dove poi aveva abbandonato il bicchiere vuoto.
Mycroft salì al piano di sopra con calma, seguendo le tracce di luci
accese e la porta socchiusa dello studio che Gregory sicuramente aveva
lasciato aperta per farsi trovare subito e per non dare l’impressione
di non voler essere disturbato in una casa che non era la sua. Mycroft
si concesse ancora qualche secondo sulla soglia, preparandosi alla
vista, poi entrò nello studio. Gregory lavorava sul tavolino tra la
poltrona e il divano Chesterfield davanti al camino, nonostante l’ampia
scrivania di Mycroft fosse libera.
“Ehi…” lo salutò Gregory con un sorriso nervoso, come qualcuno
pizzicato a fare qualcosa di non completamente pulito.
“Bentrovato,” gli rispose Mycroft, sorridendo a sua volta.
Riusciva a leggere i movimenti di Gregory attraverso lo studio come se
fosse stato lì ad osservarli non visto. Gregory aveva esitato in centro
alla stanza solo per un attimo, per poi dirigersi al tavolino di fronte
al divano per posare i dossier e la borsa del portatile che gli segava
la spalla destra. Era sempre lì che si sedeva, quando Mycroft lavorava
alla scrivania o quando sprofondava nella poltrona. Il cappotto era
ripiegato sul bracciolo del divano, nonostante il servo muto dietro il
paravento sulla destra. Gregory aveva posato il suo lavoro e gettato il
cappotto sul divano, poi era rimasto a ciondolare per qualche minuto,
osservando la stanza dal porto franco della zona salotto, un po’ in
imbarazzo, forse annoiato. Dopo poco si era seduto davanti ai suoi
casi, ma le numerose pieghe sui suoi pantaloni raccontavano che si era
alzato più volte (una per recuperare il cellulare dalla tasca del
cappotto, una per mettere in un posto in cui fosse meno di ingombro la
tracolla del portatile, una per una passeggiata fino alla finestra). A
un certo punto aveva raggiunto il mobile bar per versarsi da bere, ma a
giudicare dal livello del liquore nel bicchiere e dalla dimensione dei
cubetti di ghiaccio che lo accompagnavano, doveva essersi deciso nel
corso degli ultimi venti minuti.
Gregory ormai quasi fremeva sotto il suo esame. Si riscosse, alzandosi
deciso a interrompere quel momento di imbarazzo che lo prendeva tutte
le volte che si ritrovava ad attendere Mycroft da qualche parte, che
fosse al Diogenes, o in un parcheggio qualunque dopo essere stato
prelevato da uno degli autisti di Mycroft (nell’ultimo caso,
l’imbarazzo faceva il paio con l’aggressività), ma che si stemperava e
con un po’ di pazienza evaporava quando poi i due uomini si ritrovavano
assieme.
Gregory gli si fece incontro.
“È bello vederti,” gli disse sottovoce prima di baciarlo, posandogli
una mano sul fianco e una sulla spalla, pronta a scorrere lungo il
braccio di Mycroft.
“Il sentimento è assolutamente reciproco,” gli assicurò Mycroft,
fissandolo con affetto, sorridendo ancora.
L’imbarazzo tornò all’improvviso sul viso di Gregory, facendogli
sgranare leggermente gli splendidi occhi marroni e arrossare un po’ le
guance e il collo.
“Mi sono messo comodo,” disse, schiarendosi la gola. “Spero non ti
dispiaccia…”
“Al contrario,” gli rispose Mycroft in un mormorio.
Aveva già visto Gregory mettersi comodo nel suo ufficio a Scotland
Yard, e questo non aveva niente a che fare con la rilassatezza che
trasmetteva abbandonando la schiena contro lo schienale della sua
poltrona, con la familiarità con cui buttava le cose nei cassetti, o la
beata noncuranza con cui mangiava e beveva sopra i fascicoli
abbandonati in disordine sulla sua scrivania. Ma era già un passo
avanti.
Mycroft sapeva che la sua casa non era particolarmente calorosa:
classica, imponente e decisamente troppo lussuosa perché Gregory ci si
trovasse a proprio agio. Ma allo stesso tempo neppure l’appartamento
che Gregory si era trovato dal momento della separazione dalla moglie
sembrava essere ‘casa’, per lui. Ci passava (per fortuna) poco tempo e
rievocava fallimenti troppo dolorosi per essere davvero un posto
felice. E Mycroft desiderava che Gregory avesse un posto in cui
sentirsi a casa, che gli ispirasse risate e quelle sue occhiate calde e
profonde. Voleva che il suo studio fosse familiare e confortevole, un
luogo dove versarsi da bere in maniche di camicia e sonnecchiare
aspettando che Mycroft ritornasse dal lavoro
Gregory cominciava ad essere sospettoso del suo sguardo e Mycroft si
scostò da lui dopo un altro bacio a fior di labbra
“Hai quasi finito?” gli chiese.
“Mi manca poco.”
“Eccellente. Potresti ascoltare un po’ di musica mentre preparo la
cena.”
“Io…posso darti una mano,” replicò Gregory.
Non si era neppure avvicinato al giradischi, constatò Mycroft. Chissà,
se la prossima volta avesse lasciato in vista qualcosa di interessante
da suonare, in linea con i gusti di Gregory…
Lasciargli tempo e spazio per abituarsi alla casa senza sentirsi
addosso gli occhi costantemente attenti di Mycroft avrebbe risolto
molti imbarazzi, riteneva Mycroft. La settimana successiva avrebbe
potuto tardare un altro paio d’ore tenendosi occupato con la questione
Libano (e quelle che erano missioni di pace solo sulla carta) per
tenere sotto controllo il desiderio di correre a casa, ogni volta che
aspettava Gregory, e lasciare all’altro l’occasione di rilassarsi.
Mycroft si versò un dito di brandy e scontrò il bicchiere con quello di
Gregory, dopo averglielo passato
“Non è assolutamente necessario,” declinò la sua offerta di aiuto.
“Mycroft, davvero. Mi sentirei a disagio se…” provò ancora Gregory.
“Sciocchezze,” lo interruppe Mycroft gentilmente. Si diresse alla
porta. “Ci vorrà un quarto d’ora appena.”
Forse sarebbe bastato dire a Gregory quanto ci teneva ad averlo lì,
quanto non vedesse l’ora di passare quelle serate tranquille con lui (a
volte Mycroft aveva l’impressione che sarebbe bastato lasciarsi
guardare da quegli occhi trasparenti per un secondo di troppo, perché
tutto quello che provava diventasse palese), invece che ordire piani
per far restare Gregory solo in casa sua, ma non era così che Mycroft
Holmes faceva le cose.
Prima o poi, Gregory avrebbe capito cosa cercava di fare, perché era un
uomo intelligente e conosceva Mycroft ogni giorno di più, senza
accennare a stancarsene. Forse anche a Mycroft facevano bene quelle ore
lontano dallo sguardo di Gregory, per mettersi a suo agio con quel
pensiero.
Aveva cominciato a cucinare da cinque minuti quando dal piano di sopra
lo raggiunse una cascata di note dal giradischi. Mycroft non poté
impedirsi di sollevare gli occhi al soffitto, immaginando i movimenti
prima esitanti e poi decisi, quasi baldanzosi, con cui Gregory aveva
scelto la musica per la loro serata.
Più tardi quella sera, Mycroft sentiva troppo rilassato per
preoccuparsi delle domande che Gregory stava per rivolgergli.
“Hai intenzione di spiegarmi cosa significa quell’espressione
soddisfatta?” gli mormorò Gregory contro la nuca, stringendoselo al
petto al buio, sotto le coperte.
“È un’espressione soddisfatta, precisamente,” replicò Mycroft, “affatto
inusuale dopo certe…attività tra di noi. Anzi, in tutta onestà ero
convinto di aver espresso tutta la mia soddisfazione
verbalmente, in modo più che inequivocabile.”
Gregory ridacchiò: “Shht, non c’entra il sesso. Ce l’avevi già quando
sei tornato a casa e quando mi hai chiamato per la cena.
Stai…macchinando. E vedi i risultati in cui speravi.”
Mycroft sorrise. Sapeva che sarebbe successo. Gregory non notava forse
tutto, e non sempre riusciva a ricostruire correttamente tutte le
relazioni causa-effetto degli avvenimenti che lo circondavano, ma se
qualcosa riusciva a suscitare il suo sospetto, non avrebbe lasciato
correre. E che importava, se non riusciva a dedurre il rapporto
causa-effetto da solo: Gregory era un poliziotto, il suo lavoro era
fare domande.
“Allora? Stai pensando a come depistarmi?” incalzò Gregory con un
ghigno.
Mycroft poteva sentirlo dal suo tono e nel suo respiro che gli
accarezzava un orecchio.
“Avrei qualche idea, ma non credo di avere la forza di metterle in
pratica, ora come ora, sfortunatamente,” gli rispose Mycroft. “Pensavo
semplicemente a quanto è bello trovarti qui quando torno,” aggiunse.
Non era quello che aveva avuto intenzione di dire. Troppo vicino alla
verità, troppo semplice. Però copriva bene il suo vero piano: lasciare
Gregory ad abituarsi alla sua casa. Alla sua vita. Poteva immaginare le
sopracciglia aggrottate di Gregory se avesse formulato la questione
così: “Ohi! Cosa sono, un cane che deve imparare a non sporcare sul
tappeto?”
Gregory rimase in silenzio qualche secondo.
“Sì, è bello,” sussurrò poi, dandogli un piccolo bacio tra lo zigomo e
l’orecchio.
“Escluderesti l’idea di potertici abituare, un giorno?” gli chiese
Mycroft.
“Non escludo mai niente, con te. Che si tratti di intrighi
internazionali alla John Le Carré o di deliri paranoici riguardo noi
due,” sorrise Gregory.
Mycroft si schiarì la gola.
“Fai bene, probabilmente,” ammise.
Be’, se quella verità era ormai sul tavolo, e Gregory non escludeva che
quella potesse diventare la loro routine, in futuro (e soprattutto si
rendeva conto che Mycroft avrebbe sempre escogitato piani contorti e
lievemente manipolatori per venire a patti con le sue emozioni…),
allora non c’era più bisogno di inventarsi una scusa per tenere a freno
e mascherare il desiderio di passare del tempo con lui. Con buona pace
delle missioni in Libano, si disse Mycroft con un sorrisetto, mentre
entrambi si preparavano a scivolare nel sonno senza altri pensieri.
Note:
Questa storia è slegata da ‘Observing’ (ambientata dopo la fine della
quarta stagione) e si svolge in un momento qualunque nel corso delle
prime tre stagioni. Non ha grandi pretese, anzi è tutto un mezzo
cliché! Anche il titolo! XD Ma grazie per aver letto fin qui:)
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