Analgia
“Portaglielo,
il mio ultimo pegno d’amore per lei.”
Il vento
soffiava feroce, trasportando fiocchi di neve nelle sue folate gelide
e, assieme, le ultime parole di Erd Jinn. Ma Eren Jaeger, parte della
Squadra di Esploratori, riuscì a coglierle ugualmente
assieme al vento e alla neve.
Lasciò
andare l’uomo, che gli morì tra le braccia, con i
capelli e le ciglia incrostate di ghiaccio, gli occhi vitrei e il naso
in un principio di cancrena dovuta all’assideramento. Il
corpo sarebbe stato seppellito dalla neve, andava bene così:
la neve non si sarebbe mai sciolta, non l’aveva fatto per
secoli e non avrebbe cominciato proprio quel giorno.
Si
alzò in piedi, spezzando con quel movimento una lastra di
ghiaccio e ulteriore neve soffice depositata sulla schiena: si disperse
in polvere bianca, mista a frammenti simili a vetro.
In un pensiero
fugace, cercò di muovere le gambe e scoprì di
riuscirci, anche se pesavano, circondate da neve e ghiaccio. Non le
guardò, finse di dimenticarsi quello che era accaduto alla
città abbandonata. Fu comunque in grado di spostare le dita
dei piedi, ma non se ne preoccupò particolarmente: era
abituato, non le muoveva da giorni.
Raccolse la
tela dove erano state stipate tutte le provviste trovate
nell’ultima disastrosa spedizione: carbone da lasciar
asciugare, un po’ di scarti metallici e qualche pezzo di
ricambio per le caldaie recuperato dall’ultimo appostamento
in cui erano stati, prima di precipitare con il pallone aerostatico e
trovarsi nel mezzo di una tormenta.
Una
città come tante altre visitate nel corso delle esplorazioni
che, però, non era sopravvissuta ai periodici cali drastici
della temperatura, forse perché aveva poco carbone con cui
alimentare la gigantesca caldaia centrale, forse perché gli
edifici non erano stati isolati sufficientemente bene. Faceva effetto,
vedere quei luoghi un tempo vivi, vitali, completamente congelati nel
tempo: pareti dipinte da uno strato di ghiaccio, coni simili a vetro
che pendevano dai soffitti con ancora agganciate carrucole, pelli,
ricordi di vita. Entrando nelle abitazioni, in cerca di cibo, oggetti
utili o vestiti, Eren sentiva di invadere qualcosa di privato, per
molti una tomba: scorgeva coppie strette assieme nel proprio letto, per
addormentarsi prima del grande gelo e non svegliarsi più, ma
anche bambini, anziani, rannicchiati in cerca di un calore che non
sarebbe mai arrivato.
All’inizio
non ce la faceva, si arrabbiava, per l’indifferenza o la
mancanza di rispetto con cui i suoi colleghi toglievano spesso da mani
ibernate, spezzandole, coperte, ricordi, frammenti di chi quelle
persone erano state prima di morire. Poi, rientrando a casa dopo ogni
esplorazione, tra chi era morto in quell’impresa, chi ne era
uscito con un arto in cancrena per il congelamento, aveva compreso che
era inutile farsi degli scrupoli: la vita era diventata
così, una legge della sopravvivenza. Ed Eren doveva
sopravvivere, doveva portare indietro qualcosa; non per se
stesso, forse per la città di Raylight, ma soprattutto... per lui.
Però,
ogni volta non mancava di ringraziare i morti, per consentire comunque
loro di vivere.
Da come il
sacco allacciato da una robusta corda pesava nella neve, Eren dedusse
infine che doveva essere parecchio carico, ma lo trascinò
senza sforzo, affondando passo dopo passo fino a riuscire a sentire la
terra ghiacciata e sterile al di sotto.
Mosse
più volte le ciglia, per evitare i depositi di ghiaccio e
rischiare di non riuscire più a vedere, mentre la sciarpa
ormai era incollata al viso e al naso, il che però non gli
impediva di cercare grandi boccate di ossigeno. Sperò che i
regali custoditi, raccolti scioccamente per semplice sfizio, non
venissero danneggiati; a conti fatti non erano nulla di speciale,
parecchi anni fa sarebbero stati addirittura qualcosa di terribilmente
ordinario, ma dopo tutto quello che era successo forse... potevano
rendere altre persone un po’ più felici.
Continuò
lento ad avanzare, determinato, i pensieri che volavano lontani, oltre
il cielo notturno, le stelle e il vento carico di neve. A un certo
punto dovette sollevare di più il piede destro, era pesante
e non riusciva a muoverlo particolarmente bene.
Abbassò
lo sguardo, rendendosi conto di non averlo più fatto da
quando avevano lasciato la città; gli venne da ridere e da
piangere allo stesso tempo.
Osservò
il piede e vide che si era piantato un pezzo di metallo che sporgeva,
appuntito, da oltre lo stivale. Trattenne il respiro,
deglutì, e annuì come per comunicare qualcosa a
se stesso.
Non
importa, già, non è importante. Devo andare
avanti. Tanto non fa male. Tu non puoi sentire il dolore, Eren,
né gli arti congelati andranno mai in cancrena
com’è successo a Erd, a Mina o a Erwin.
Finché
non provi dolore, arriverai dove devi.
Strinse i
denti, trattenne un’istintiva voglia di piangere
all’idea che quella chiazza rossa imprigionata negli strati
di ghiaccio del suo piede fosse il proprio sangue e ignorò
la voce malevola nella sua testa che gli suggeriva che
l’infezione o il tetano erano tutto un’altro
discorso.
“Ce
la farò – mormorò, ma la voce
uscì in nient’altro che un flebile suono
– ho le vite e i doni di chi non è
sopravvissuto.”
Nel mezzo
della tormenta, tra il ghiaccio e la neve Eren Jaeger, unico
sopravvissuto di quattro esploratori, avanzò trascinando il
piede ferito e il sacco di tela con le scorte per la città
di Raylight.
*
Levi,
responsabile del settore ovest della gigantesca caldaia centrale di
Raylight, osservò i valori della fucina, dette una stima al
quantitativo di carbone rimasto per passare il resto della notte e si
massaggiò il collo. Si guardò la canotta sporca e
sollevò appena un labbro in una sorta di disappunto
interiore; anche dopo anni, non si sarebbe mai abituato al sudiciume di
quel posto. Ma era quel posto a far vivere tutta la fottutissima
città, dunque se lo fece andare bene ugualmente.
“Non
torni a casa, Levi?”
Questi
sollevò lo sguardo e vide Erwin: aveva indosso la giacca
portata tante altre volte durante le numerose esplorazoni a cui aveva
preso parte, mentre la protesi meccanica spuntava oltre la manica dal
bordo un po’ liso. Un tempo non la metteva, specie i primi
mesi da quando il braccio era stato amputato in seguito alla cancrena,
ma ultimamente si era reso conto che la sua menomazione gli impediva di
fare troppe cose per accettare di non mettersi la protesi.
Aveva un
accenno di barba non fatta. In passato, prima che tutto cambiasse,
prima di quello che era accaduto a Hanji, Erwin se faceva la barba ogni
giorno, così come ogni giorno si pettinava i capelli, quasi
fossero ancora a Londra senza la disastrosa glaciazione e i cambiamenti
climatici di dieci anni fa.
“Non
riuscivo a dormire. Ho preferito allungare il turno.”
Si guardarono
un istante, poi Erwin gli disse, lanciandogli l’asciugamano
appeso di fianco alla giacca lunga appartenente a Levi:
“Tornerà.”
“Lo
so che tornerà. Il problema è... come? In che
stato? Quando la smetterete di lanciarlo in quelle missioni suicide,
circondato da persone che schioderanno e che lui non può
salvare, eh?”
Aveva alzato
leggermente la voce, che rimbombò tra le pareti metalliche e
gli echi delle fucine. Ma il volto era rimasto quasi indifferente,
appena adombrato, coi ciuffi scuri che gli coprivano la fronte pallida,
in contrasto con le guance arrossate per il lavoro.
Si mise
l’asciugamano al collo e cominciò ad avanzare, per
riprendersi la giacca e uscire.
Erwin lo
lasciò passare, per poi voltarsi e guardargli la schiena:
“Nonostante
quello che ti è successo, tu continui comunque a lavorare
qui dentro. Perché sai che c’è qualcosa
di più importante di te stesso – vide Levi
arrestarsi e portarsi istintivamente una mano dietro al collo, come per
coprirlo dopo aver tolto l’asciugamano – avrei
voluto che Eren fosse uno come tutti gli altri. Ma lui non è
come tutti gli altri e questo, a discapito dei traumi e dei rischi che
subisce, ha incrementato le nostre possibilità di
sopravvivere. Mi dispiace, Levi.”
Questi si mise
la giacca, fissò brevemente Erwin, infine gli disse asciutto:
“Già.
Sembra che tutti debbano dispiacersi di un sacco di cose. Torna da
Hanji, o sarò io a essere dispiaciuto. E per quanto io ti
rispetti, non ti piacerebbe vedermi rammaricato.”
Erwin fece un
accenno di sorriso amaro, consapevole del peso di tante situazioni
irrisolte:
“Un
giorno la glaciazione finirà. E per allora potrò
dire di aver fatto il possibile per garantire la sopravvivenza della
razza umana, con o senza il Sindaco Zachary.”
“Lo
so, Erwin. È anche per questo che ti rispetto.
Buonanotte.”
Uscì
dalla struttura, scendendo le scalette metalliche che circondavano il
gigantesco cilindro centrale, cuore vero e proprio di Raylight:
un’enorme caldaia dalla quale si diramava il riscaldamento in
tutta la città, esteso grazie a delle caldaie aggiuntive a
vapore collocate nelle zone più distanti; tale riscaldamento
si irradiava tramite i diffusori di calore posti in ogni edificio, per
evitare che persino nelle notti in cui la temperatura scendeva oltre i
70° C si congelasse.
Spegnere la
caldaia centrale significava morte per assideramento, perdita delle
coltivazioni e degli animali. Senza quella, ogni speranza di vita in
Raylight cessava di esistere.
Passò
al chiosco delle zuppe poco distante dal luogo di lavoro, si fece
incartare due ciotole ancora bollenti e prese a camminare lungo le
strade ormai deserte. Chi era ancora sveglio non aveva il turno
programmato per l’indomani, o si trattava dei gestori dei pub
e delle arene in cui la gente si sfogava picchiandosi
vicenda. Un tempo Levi era stato uno di quelli. Si guardò il
palmo libero della mano, sfregiato da cicatrici di ustioni che non si
sarebbero mai del tutto sanate.
Passò
oltre, sentendo l’eco ovattato di chiacchiere, tintinnare di
bicchieri e, più distante, l’esultare selvaggio di
un buono scontro, pagato con sangue e sudore.
Quando
arrivò a casa, un appartamento modesto di due stanze,
appoggiò il sacchetto di tela con le ciotole accanto a un
mucchio modesto di libri già letti e riletti, una foto
ingiallita sopravvissuta al tempo, di quando erano ancora a Londra,
prima della glaciazione e prima che non ci fosse più posto
per chi non aveva abbastanza soldi.
Scorse il
carillon non funzionante: un oggetto vezzoso, recuperato ostinatamente
da Eren perché all’interno, una volta aperto,
aveva ancora uno specchio. Ogni volta che dovevano farsi la barba,
vedevano anche la figura di una ballerina un po’ scolorita
che non riusciva più a danzare, senza la sua musica; persino
patetico, a ben pensarci, ma non era la sola a sentire la mancanza
della musica.
Attese qualche
istante, pensò persino di scaldare dell’acqua che
già arrivava tiepida, in quanto passava vicina alle tubature
del riscaldamento sotterranee e isolate, per evitare di farlacongelare.
Ma non lo fece. Non riuscì a pensare di lasciare passare
ancora del tempo, di sistemarsi, di avere cura di sé in una
qualche distorta forma, mentre Eren era là fuori.
Secondo i
calcoli della Gilda degli Ingegneri la spedizione sarebbe
già dovuta rientrare il giorno prima e, per quanto gli
sarebbe piaciuto condividere la fiducia di Erwin, proprio non credeva
che quel ritorno sarebbe stato così facile.
“Fanculo.”
Afferrò
la giacca più pesante, appesa al chiodo piantato nelle
pareti imbottite e isolate per evitare la dispersione di calore,
indossò il cappello, la sciarpa ed ebbe un ripensamento
all’ultimo. Si tolse le scarpe, mise un doppio strato di
calzini e indossò gli scarponi da escursione. Gli andavano
un po’ larghi – moccioso troppo cresciuto
– ma meglio di niente: lui, a differenza di Eren, il gelo
purtroppo lo sentiva eccome.
Pensò
che, una volta avuto Eren a casa, le zuppe anche se fredde sarebbero
state ugualmente buone.
*
In lontananza,
Eren vide le luci della città rischiarare appena
l’orizzonte della distesa innevata nel cuore della notte.
Aveva passato il valico che isolava Raylight e per un attimo,
circondato da pareti rocciose immense, con il suono ovattato dei suoi
passi lenti sulla neve, aveva pensato che non sarebbe riuscito ad
andare oltre, sarebbe morto prima di stanchezza, di fame, di stupida
nostalgia.
Si
leccò istintivamente il labbro, avvertendo il gusto ferroso
del sangue: doveva essersi spaccato per via del freddo e del vento. Ma
andò avanti, la luce lontana gli aveva dato un nuovo motivo
per non fermarsi, per non lasciare che il male accumulato eppure non
percepito lo bloccasse. Ormai il piede era completamente zuppo di
sangue, come il ghiaccio che lo circondava, ma l’emorragia
sembrava essersi bloccata per via del congelamento. Pensò
che forse quella volta, rientrando a casa, avrebbe potuto realmente
fare male. Rise, scuotendo appena il petto stanco, nel rendersi conto
che stava già dando per scontato di arrivare in
città e, non solo, rifugiarsi tra le mura di casa con un
pezzo di ferro piantato nel piede.
Non si era mai
sopravvalutato così tanto come allora, forse la morte
prossima gli stava facendo acquisire una fiducia in se stesso mai
sperimentata in maniera tanto forte; forse era solo delirio dovuto allo
sforzo sovrumano di rimanere in vita e trascinare chili di ferro.
Arrivò
fin quasi ai margini della città. Mancavano pochi
chilometri, magari qualcosa di più. Sentì la
vista farsi offuscata, le luci diventare più confuse.
Intravide
un’ombra stagliarsi contro la luce ed estendersi.
La morte?
Stava venendo a prenderlo?
Magari avrebbe
fatto male. In un certo senso lo sperava.
Prima di
potersi accasciare a terra però due braccia lo sostennero,
avvolgendolo. Non c’era delicatezza, in quel gesto, ma andava
bene: non era la delicatezza a reggere un peso morto.
Poi intravide
il suo volto. Sembrava preoccupato, arrabbiato, forse sollevato. E in
tutte quelle sensazioni, si rese conto che nessun altro avrebbe potuto
decifrarle così bene come se stesso.
Cercò
di sorridergli, uno di quei sorrisi idioti e altruistici che tirava
fuori mentre aveva le sopracciglia aggrottate per mostrare la sua
costante determinazione. Ma realizzò che aveva ancora la
sciarpa incollata addosso, nonché il sangue e il gelo che
gli aveva paralizzato persino la pelle funerea del volto.
Levi.
Lo disse nella
sua testa. Cercò di alzarsi in un moto di orgoglio, di
bisogno di dimostrare che poteva ancora camminare, come tante altre
volte prima di allora.
“Sta’
fermo. Che cazzo hai fatto al piede, Eren? – sembrava esserci
una vibrazione preoccupata nella voce – ti porto a
casa.”
Eren
cercò di afferrargli il braccio. Riuscì a
emettere un suono: “... sacco...”
Levi
inarcò un sopracciglio, poi guardò alle spalle
dell’altro e vide il sacco di tela che doveva essersi
trascinato dietro per infiniti chilometri. Schioccò la
lingua: “Porterò anche quello. È per
tutta quella roba che gli altri sono morti e tu ti sei quasi fatto
uccidere.”
Lo
lasciò disteso nella neve per alzarsi, mettersi attorno alla
vita le corde usate per trainare il contenitore di tela, infine si
caricò Eren in spalla, sentendolo più pesante del
solito. Che fosse per il ghiaccio accumulato o per il ferro, era
difficile comprenderlo.
Non lo
sentì protestare, ostinato come al suo solito. Con la coda
degli occhi vide che era svenuto; portò un dito davanti al
naso e, dopo essersi accertato che respirasse, avanzò per
ritornare indietro.
*
Quando si
infilò nelle vie strette della città, Levi aveva
già bene in mente dove andare. Gli seccava, ma non aveva
molte altre alternative. Eren doveva essere scaldato con coperte prima
ancora di metterlo nell’acqua calda, in modo da evitare
ulteriori scompensi circolatori, inoltre qualcuno doveva togliere quel
ferro piantato nel piede e ricucirglielo, possibilmente evitando una
qualche forma di infezione.
Assurdo non
morire per la cancrena, ma rischiare comunque per un pezzo di metallo.
Bussò
alla porta di Hanji. E di Erwin. Un tempo, prima
dell’incidente, era convinto che fossero felici. Ora che
Erwin aveva perso il braccio e Zachary gli aveva vietato di prendere
parte alle esplorazioni, sembrava essersi irrimediabilmente rotto
qualcosa.
Dopo qualche
istante gli venne ad aprire Hanji con una tunica leggera, priva del
solito camice pieno di tasche tipico di chi lavorava nella Gilda degli
Ingegneri; alle sue spalle, Levi scorse la figura alta di Erwin.
Sembravano essere svegli e, dalle loro facce, non perché
stavano facendo sesso. Poi fare sesso vestiti era una cosa patetica
persino per un figlio di puttana come Erwin e una psicopatica come
Hanji.
“Eren
è tornato, come tutti dicevamo, ma se non facciamo qualcosa
rischia di andarsene di nuovo. E questa volta per sempre –
guardò direttamente Erwin quando gli disse – con
me ho tutta la merda che i vostri esploratori hanno trovato. Ah, tra
parentesi, sono schiodati tutti. Ed Erd aspettava anche un bambino.
Spero che vivremo tutti felici e contenti con questa roba.”
Erwin
sospirò, muovendosi per andare ad aiutare Levi con il sacco
trascinato dietro in un clangore di ferraglia e neve sciolta, assorbita
dalla strada, mentre Hanji lo aiutò a trasportare Eren
dentro.
Lo posarono
sul tavolo vuoto, lasciando dietro pezzi di ghiaccio che cominciarono a
staccarsi dagli abiti e dai capelli.
“Togliamogli
i vestiti; Erwin, prendi le coperte e il coltello, Levi dovrai aiutarmi
a tagliare gli scarponi, prima dobbiamo assicurarci che la circolazione
di Eren riprenda, poi penseremo all’affare che ha piantato
nel piede ma che, se non altro, ha impedito che lui morisse
dissanguato.”
Gli altri due
si dettero da fare, mentre Hanji svestiva con rapidità Eren,
ancora svenuto, per circondarlo progressivamente di coperte,
avvolgendogli anche i capelli ora fradici, mentre ai loro piedi
c’era una pozza d’acqua scongelata.
Quando gli
scoprì le mani e i piedi, Hanji sospirò,
realizzando che un tempo aveva trovato Eren un caso di studio
meraviglioso. Ora, dopo le morti a cui aveva assistito e le amputazioni
viste, era semplicemente sollevata che quel giovane uomo non sentisse
male, né rischiasse la cancrena: gli arti si congelavano, ma
rimanevano lì, come in attesa, senza subire alcun danno. Una
condanna e una fortuna perché altrimenti, quella notte, Eren
avrebbe perso con ogni probabilità tutti e quattro le
estremità.
Occhieggiò
Levi, gli occhi incavati e come sempre adombrati,
l’espressione vagamente apatica, e gli disse:
“Ce
la faremo, Levi. Eren è testardo e ostinato. Altrimenti non
avrebbe mai finito per stare con te.”
Quella volta
l’uomo sollevò lo sguardo, scoprendosi
più vulnerabile.
Poi,
ribatté con una sorta di affetto incomprensibile ai
più:
“Già.
A quanto pare essere testardi sembra il requisito per stare con
determinate persone.”
Occhieggiò
Erwin che era andato a prendere altre coperte, Hanji lo
guardò a sua volta, poi sorrise, sentendosi amichevolmente
presa in causa.
D’altronde,
per amare bisognava crederci veramente. Fino all’ultimo.
*
Eren
sbattè più volte le ciglia, sentendosi
piacevolmente intorpidito. Intravide un fascio di luce provenire dalla
stanza in penombra, mentre il corpo era pesante eppure lo avvertiva,
tra le coperte e il peso della testa sul cuscino. Fece per alzarsi a
sedere, ma deglutì, cominciando a ricordare.
Era tra la
neve, Levi l’aveva afferrato, poi... aveva qualcosa. Un pezzo
di metallo, infilato nel piede.
Boccheggiò
un istante, per sollevarsi a sedere di scatto, annaspando tra le
coperte, con la paura tremenda di trovarsi qualcosa di amputato: una
gamba, un braccio, delle dita. Un punto del suo corpo che aveva smesso
all’improvviso di fare miracoli, cominciando a essere come
tutti gli altri, con il principio di congelamento che conseguiva la
cancrena.
Respirando a
fatica si controllò i piedi, le mani, il viso ed
espirò nel realizzare che era ancora vivo, niente
amputazioni, nulla, tranne una fasciatura al piede ferito. Si
appoggiò alla testiera del letto, socchiudendo un istante
gli occhi.
“Cos’è,
adesso hai preso anche a farti un check-up da solo?”
Eren
riaprì gli occhi per vedere Levi sulla soglia della porta
d’ingresso. Aveva la giacca addosso e doveva essere appena
rientrato.
“Le
cose... gli oggetti. Dove sono?” Domandò
d’istinto Eren.
Levi
inarcò un sopracciglio: “Hai un piede bucato e ti
preoccupi delle robe raccattate in quella città merdosa?
– visto che Eren lo guardava, senza chiudere gli occhi grandi
fastidiosamente fissi su di lui, sospirò breve e aggiunse
– Al deposito smistamento. Mi hanno restituito due oggetti,
dicendomi che forse erano tuoi.”
Appoggiò
sul tavolo un contenitore di cuoio rigido, con dentro una scatoletta di
quella che pareva latta e un orologio fermo.
Eren
sembrò sollevato e, paradossalmente, avvolto da un velo di
malinconia.
“Sì.
Uno è mio, l’altro è da dare a Nanaba.
L’ha preso Erd per lei – assottigliò le
labbra – sono tutti morti, Levi. Non ce l’ho fatta
a riportarli indietro.”
Levi lo
guardò, ma non disse nulla.
Non era mai
stato bravo a consolare, né a usare le parole. Anche le sue
soluzioni spesso erano brusche e prive di amore, per chi non lo
conosceva.
Si tolse la
giacca e le scarpe, rimanendo con addosso una delle canotte che usava
per lavorare e i pantaloni scuri. Afferrò una ciotola
posizionata vicino alla stufa che irradiava il calore della caldaia
centrale, prese un cucchiaio dalla cucinetta di fianco e la porse a
Eren, mettendosi in piedi di fianco al letto:
“Mangia.
L’ho presa ieri notte, prima che tu decidessi di farmi andare
da Hanji per ricucirti. Non strafogarti, perché non ho
intenzione di pulire il tuo vomito. Non dovresti nemmeno avere nausea,
visto che non sei costretto a imbottirti di antidolorifici.”
Eren fece un
accenno di sorriso, prendendo la ciotola:
“Grazie,
provvederò a non sputare vomito sul letto. Posso anche
venire a tavola, ce la faccio.”
“Stai
a letto e riposa quelle fottutissime gambe –
tagliò corto Levi, per poi allontanarsi – prendo
l’acqua. Puzziamo e questa cosa mi fa schifo.”
“Ok.”
Replicò semplicemente Eren. Percepì vagamente il
calore della ciotola, ma anche se fosse stata ustionante, non se ne
sarebbe reso conto. Solo che la sua pelle le ustioni, a differenza del
congelamento, le avrebbe sentite eccome, corrodendosi irrimediabilmente.
Si sentiva
già decisamente meglio e più riposato,
però, considerando che Levi aveva finito il turno di lavoro,
avvertì un senso di colpa all’idea di essere
rimasto a dormire in stato quasi comatoso tutto il giorno. Sapeva che
doveva riprendersi, ma proprio non poteva fare a meno di provare un
moto di fastidio, visto che i suoi compagni erano morti e lui...
dormiva.
Mangiò
la zuppa, mentre Levi metteva a scaldare l’acqua e sistemava
la grande bacinella in legno. Lo osservò, poi pian piano
loro due cominciarono a parlare.
Eren gli
descrisse l’ultima città in cui era stato, le
insegne, i cartelli congelati nel tempo, i negozi di mercanti con i
pochi pezzi di ferro recuperati, i luoghi di svago ormai deserti, le
fucine inattive, i meravigliosi coni di ghiaccio che pendevano come
lacrime dai soffitti bassi degli edifici.
Levi lo
ascoltava, ringraziando dentro di sé di poter sentire il
suono della sua voce. Non glielo disse, altrimenti Eren avrebbe
sofferto e reputato più difficile partire, quando sarebbe di
nuovo stato il momento.
Lui invece gli
raccontava degli ultimi avvenimenti della città in quelle
settimane di assenza di Eren, dalla messa idiota dei Predicatori
attorno alla gigantesca caldaia – patetici, come se fossero loro
con delle fottutissime preghiere a tenere al caldo le fucine e non il
carbone – gli ultimi lavori al laboratori
portati avanti da Hanji e dai suoi pazienti assistenti, Moblit e Armin
– vide Eren sorridere nel parlare del migliore amico
– o del fatto che Mikasa, incinta, non avesse ancora ucciso
Jean in preda a uno sbalzo ormonale.
“Il
bambino – chiese Eren, appoggiando la ciotola ormai vuota
– pensi che ce la farà? So che è una
domanda idiota, ma dopo aver creduto che Hanji ed Erwin potessero a
loro volta veder nascere il loro figlio ed è morto,
nonostante tutto, io... ecco, io... non sono poi così tanto
sicuro delle cose. Tranne che devo tornare. Questa è la mia
certezza.”
Levi lo
guardò. Dilatò impercettibilmente le narici, poi
gli disse:
“Hanji
forse nemmeno riuscirà più a rimanere incinta.
Erwin... credo sia per questo che ha perso il braccio, è
stato disattento, meno stronzo del solito. Si sono fottuti a vicenda,
ma si amano. Supereranno anche questa. Mikasa è forte, Jean
è un uomo troppo umano, responsabile, protettivo pur
lasciandola indipendente come è sempre stata. Per questo
funzionano così bene. E per questo ci sono i presupposti che
il bambino sopravviva. Ma... la vita non è mai un calcolo di
probabilità, purtroppo, è fatta di eccezioni.
Grazie a queste eccezioni tu sei vivo. E ringrazio che tu creda ogni
volta di poter tornare.”
Si
arrestò. Sfiorò il tavolo, un gesto quasi
irrilevante per dare meno importanza alle parole.
“L’acqua
è calda.”
Eren
annuì, sentendo il petto più leggero. Levi era
cosi straordinariamente bravo, senza saperlo, nel dirgli la cosa giusta
al momento giusto. Non sapeva come ci riuscisse, ma accadeva e basta.
Sollevò
le coperte, mise giù i piedi e si alzò. Con le
braccia incrociate l’altro lo fissava, come per controllare
che lui ce la facesse, che reggesse, che per qualche misterioso motivo
il piede non cominciasse a fargli male, come accadeva agli altri comuni
mortali capaci, a differenza sua, di sentire il dolore.
Quando si
avvicinò alla vasca, Eren si morse un labbro e fece per
allungare un braccio verso Levi che, però, si era
già girato. Prima di potergli afferrare la maglia, Levi se
l’era tolta, senza cura, un gesto come un altro.
Rivelò la schiena, nuda, per quello che era: un insieme di
cicatrici profonde e frastagliate che arrivavano fin quasi alle
natiche, dovute a un’ustione curata con quel poco che
all’epoca avevano. Erano passati cinque anni da allora e la
schiena di Levi era rimasta così, terribilmente sfregiata.
Ma a Eren non
importava. Trovava l’uomo sempre bellissimo, nelle sue
sfumature d’ombra, nel modo in cui i muscoli del dorso si
intravedevano al di sotto, esattamente come le vertebre che risalivano
fino all’altezza del collo e di parte della nuca rasata.
Lo
osservò finire di togliersi anche i pantaloni sporchi di
fuliggine, lasciati a terra assieme al resto, e rimase a fissarlo anche
quando si girò, contemplando così il suo torace
robusto per via del lavoro sfiancante, il ventre asciutto e la sua
virilità, poi, le gambe meno slanciate delle proprie toniche
che scendevano fino agli spigoli per lui erotici delle caviglie, coi
piedi magri, nervosi, saldamente piantati a terra.
Sentì
un principio di erezione e non se ne vergognò. Sicuramente,
da Levi aveva preso il modo poco imbarazzato di approcciarsi al sesso,
pur adoperando maggiore inventiva
del proprio compagno. Si ritrovò a sorridere, il sorriso di
chi si rendeva conto di essere in vita dopo il gelo della morte; e non
si vergognò nemmeno di quello.
“Ti
si è ibernato l’encefalo, Eren?” chiese
con ironia Levi.
“In
un certo senso. – replicò l’altro,
scrollando le spalle – Ti stavo guardando: mi sei mancato in
queste settimane.”
Fece per
cominciare a togliersi la maglia ma, con un sospiro solo apparentemente
seccato, Levi con uno scatto gli afferrò il braccio per poi
dire:
“Lascia
stare. Faccio io, finiresti per essere lento.”
“Hai
paura che l’acqua si raffreddi, Levi?”
domandò Eren, provocandolo con tono scherzoso.
Questi
sollevò lo sguardo verso di lui, dopo avergli tolto la
maglia per lasciarlo a petto nudo e ribatté, asciutto:
“No.
È che voglio vederti nudo in fretta. Sei mancato anche a me,
Eren.”
Specificò
a sua volta il nome, con affetto, nonostante il tono tagliente.
Questi
annuì, come se la risposta fosse effettivamente abbastanza
per capire qualunque cosa. Così, lasciò Levi
libero di agire; lasciò che gli facesse scivolare i
pantaloni un po’ larghi fino a terra e, assieme, le mutande,
avvertendo i polpastrelli piagati dell’uomo ruvidi contro la
propria pelle e la leggera peluria.
Si guardarono,
Levi con le mani ancora sui suoi fianchi ed Eren che gli prese quelle
mani e le sollevò, fino a baciarle.
“Grazie
per avermi trovato nella tormenta. Non potevo permettermi di non
farcela.”
Le sue parole
si dispersero tra le dita dell’altro che sembrò
volerle serrare per non farle fuggire via.
“Nemmeno
io potevo permetterti di non tornare.” ribatté
Levi, diretto, guardandolo negli occhi.
Lasciarono
infine rispettivamente la presa e l’uomo aggiunse:
“Inizia a entrare e allunga la gamba fasciata, non bagnarla
per nessun motivo, anche se non vorrei insultare la tua intelligenza
specificandolo. Aggiungo un’altra bacinella d’acqua
calda.”
Eren
annuì, umettandosi le labbra quasi per concentrarsi nei
movimenti, senza stupirsi particolarmente di quella che era la propria
erezione, più interessato invece alla fasciatura e a non far
cadere il piede ferito o Levi avrebbe anche potuto incazzarsi, a
ragione.
In
un’ondeggiare d’acqua riuscì a sedersi,
lasciando parte della gamba appoggiata sul bordo e il piede che pendeva
di fuori, poi mise i gomiti distesi e si concesse qualche secondo per
contemplare Levi, la sua erezione, intento a raggiungerlo con tra le
mani un catino.
Ma non
poté guardare molto più a lungo,
perché l’uomo gli rovesciò
l’acqua calda sulla testa. Eren nemmeno percepì la
temperatura, segno che non doveva essere particolarmente bollente
– di questo ringraziava sentitamente – e si
ritrovò a ridere appena, portandosi poi indietro i capelli
fradici che gli si erano spostati fino a coprirgli la fronte.
Pensò che avrebbe dovuto tagliarli, Levi era uno che teneva
a quelle cose; forse glieli avrebbe spuntati prima di partire di nuovo,
forse prima ancora gli avrebbe fatto la barba che cominciava a crescere.
L’uomo
sospirò, lasciò il contenitore ancora
piacevolmente caldo e disse:
“Sposta
un po’ la gamba, Eren, dove vuoi che mi sieda, in
braccio?”
“Sì
– rispose l’altro, per poi guardarlo con gli occhi
verdi accesi di sentimenti e specificare – appoggiati a me,
dammi la schiena. Posso lavarti io.”
“Non
sono io quello con un paletto conficcato nel piede.”
“Appunto.
Accontentami, allora.” Ribatté Eren, con quel suo
modo a volte sfacciato che aveva di provocare Levi.
Questi
schioccò la lingua, replicando: “I tuoi
stratagemmi fanno veramente cagare. Ma apprezzo la tenacia.”
Entrò
in acqua, le cosce così vicino a Eren, poi la sua erezione a
pochi millimetri dall’altro che la guardò con
intenzione, il respiro più breve, la bocca avvolta dalla
stretta eccitata dei denti.
Ma Levi si
sedette, girandosi, con il movimento delle onde che andò a
lambire le spalle di Eren.
Questi allora
andò ad abbracciare la schiena di Levi, senza fretta,
né impaccio. Lasciò scivolare le sue mani sotto
l’acqua, fino a sentire il ventre asciutto leggermente
incavato, mentre Levi avvertiva il torace dell’altro contro
il suo e, più sotto, l’erezione che si faceva
spazio tra le proprie natiche. Gli andò più
contro, pur mantenendo il dorso leggermente incurvato, mentre le mani
di Eren gli toccavano la vita e, subdole, gli sfioravano
l’intimità già eccitata.
Avvertì
il sospiro carico di desiderio di Eren, il suo respiro contro il
proprio collo quando il ragazzo gli appoggiò il mento.
“Ti
ho portato un regalo dall’ultimo viaggio.”
Levi non
cambiò espressione, ma allargò le braccia,
appoggiando un gomito sulla coscia dell’altro.
“Quello
in cui ti sei trovato con un piede quasi fottuto? Grazie, Eren,
ricordami di non chiederti mai regali.”
Lo
sentì ridere appena per quella battuta tagliente, fatta per
difendersi dai sentimenti, dalla paura quasi viscerale di non rivederlo
più, un giorno.
“È
del the – rispose l’altro, ignorando la
provocazione – the vero, non come quello alle erbe e licheni
che definisci... com’è che lo definisci? Vomito misto a sottoprodotto
della merda? Sei sempre terribilmente artistico quando
parli di defecazione, Hanji ha ragione.”
“Oi,
sei qui per disquisire delle mie capacità dialettiche o per
parlarmi del the? È quella scatoletta, vero?”
Si
girò appena, ma gli occhi caddero sulle labbra di Eren.
Pensò che gli mancava morderle mentre scopavano. Gli
mancavano tante cose, le labbra erano una di queste.
Lui
annuì: “È quella scatoletta.”
Poi si
chinò appena e portò la bocca vicino alla spalla
di Levi. Così vicina da aprirla e poggiarvi sopra le labbra,
senza smettere di guardare l’altro, per leccargli una goccia
d’acqua colata dal collo nudo, oltre i capelli rasati.
Infine gli
baciò la schiena sfregiata, le cicatrici che la ricoprivano,
ogni simbolo del dolore che Levi aveva provato anni fa, per
proteggerlo, quando lui invece non l’avrebbe mai
sperimentato, non avrebbe mai fatto sua la sofferenza di chi amava. Gli
morse il collo delicatamente, eppure con passione, con il fuoco che
aveva dentro e non avrebbe lasciato estinguere nonostante il ghiaccio
del mondo che li circondava.
Levi
sospirò, un sospiro più roco. Sentì il
cuore accelerare in un rush di sangue e, lo sapeva, avvertì
anche il respiro di Eren farsi irregolare, dal modo in cui gli scaldava
la pelle baciandola.
“Dopo
mettiamo sulla stufa altra acqua e beviamo il the ormai scongelato;
domani consegneremo l’orologio a Nanabe.”
“Perché
non dopo, perché domani?” domandò Eren
lasciando la mano sul ventre dell’altro, sfiorando la peluria
del pube e, poco oltre, l’erezione.
“Perché
oggi voglio che tu sia solo mio. Non dei ricordi, non dei morti, non di
nessuno al di fuori di questa casa. Ti basta come risposta,
Jaeger?”
È
perché oggi, almeno oggi, voglio pensare alla vita.
Questi gli
baciò il collo e avvicinò le labbra al suo
orecchio quando gli rispose in un sussurro:
“Domani
andrà bene.”
Allora, Levi
gli prese la mano e non la lasciò quando gliela mise sulla
propria erezione. Torse leggermente il busto ed Eren lo
baciò sulle labbra, cominciando a masturbarlo. Un principio,
un’idea, per quando sarebbero usciti da lì,
grondanti d’acqua, sapone e desiderio, fino ad andare sul
letto, bagnarlo, e fare l’amore.
Solo in quei
giorni, quando non era fuori nel ghiaccio e nella neve, Eren si sentiva
un privilegiato: per non sentire dolore, ma poter comunque sentire
Levi, il suo e il proprio orgasmo, la vita al di là del gelo.
Sproloqui
di una zucca
Mi mancavano Eren e Levi in un rapporto più o meno sano.
Questa è l'idea che ho di loro due, al di là dei
traumi del passato. Tanto incapaci di parlare, di comunicare, ma alla
fine riescono a sentirsi, a capirsi, a esserci sempre l'uno per
l'altro. E sono tutti e due forti, orgogliosi, non mezze pippe; Eren
è vitale, è energia, è il fuoco nel
rapporto sessuale, in questo senso è più Levi che
deve stargli dietro XD
Oltre a ciò, volevo descrivere una condizione estrema, in
cui per qualche motivo il mondo è coperto di ghiaccio e le
città sorte hanno come cuore pulsante una gigantesca caldaia
che va a carbone. L'idea mi è stata ispirata dal videogioco
gestionale Frostpunk; penso di essere la prima da queste parti a
scrivere una roba del genere, ma a me piace sperimentale. Dopo
l'atompunk, il cyberpunk e lo steampunk non potevo esimermi ahahah!
Inoltre, Levi ed Eren hanno una carica erotica pazzesca. Quanto li amo
assieme <3
Ultima cosa, questa è la base di un progetto più
grande. Una volta terminato a Rusty Heart vorrei parlare di questo
mondo, di questo Eren esploratore che soffre di una forma particolare
di analgia (insensibilità al dolore, da qui il
titolo) che oltretutto impedisce ai suoi arti di entrare in cancrena in
seguito al congelamento. Allo stesso modo vorrei parlare di Levi che
spala carbone (lol un'occasione per vederlo a petto nudo e sudato, che
scema sono XD), di quello che è successo anni fa per
portarlo ad essere sfregiato a vita sulla schiena e i palmi delle mani,
ma vorrei parlare anche di Erwin, Hanji, Armin, Jean e Mikasa
(ringrazio la meravigliosa Noa, se mai avrà modo di leggere,
perché mi ha ispirata terribilmente su Jean e Mikasa durante
le nostre chiacchierate).
Vedremo, per il momento work in progress.
Grazie per aver letto <3
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