Autore: _ALE2_
Genere: Triste,
romantico
Avvertimenti: Shonen
ai, One shot
Rating: Giallo
Desclaimers: Il titolo
è ispirato alla canzone dei 30 Seconds to Mars “A
Beautiful lie” che ne detengono tutti i diritti.
Note: Allora,
prima fan fiction originale che partorisco in assoluto, ha partecipato
al concorso ‘Love contest, Yaoi, Slash is
everywhere’ classificandosi in terza posizione.
La
citazione che ho scelto per questo lavoro tra quelle suggerite
è “Solo chi ama senza speranza conosce il vero
amore.” di Pablo Neruda. Mi sono immediatamente innamorata
della citazione che ho scelto, appena l’ho adocchiata in
mezzo alle altre, non ho avuto dubbi sul fatto che sarebbe stato
‘il corpo’ di questo lavoro.
Non
ho molto da aggiungere, anche perché se ci prendo gusto
finisco per scrivere delle note più lunghe della fan
fiction. Buona lettura!
Just a game. (Such a beautiful
lie)
Aaron
percorreva a passo svelto l’ampio corridoio
dell’ospedale.
Si
sentiva come una preda braccata dal nemico, percependo addosso le
diverse occhiate più o meno ostili che gli venivano lanciate
alle spalle. Nonostante l’espressione fosse impassibile come
sempre, il suo umore era stato contaminato dall’irritazione
che gli circolava, ormai prepotente, nelle vene.
Che
diavolo avevano tutti da guardare?
La
risposta era semplice: scandalo.
Otto
lettere che perfettamente riassumevano la sua vita nella settimana
appena trascorsa.
Il
ragazzo accelerò il passo, con gli occhi puntati davanti a
sé a fissare il tutto ed il nulla; non riusciva a guardare i
volti delle persone in cui s’imbatteva, fossero essi
tirocinanti, medici, infermieri o quant’altro: in ognuno dei
loro sguardi non leggeva altro che scherno e disprezzo… le
stesse cose che aveva visto anche negli occhi di Stephan,
d’altronde.
Si
costrinse a non pensarci, irrigidendo appena la mascella ed inspirando
profondamente: era bastata una parola equivoca ascoltata da un collega
troppo chiacchierone e, nel giro di una sola settimana, la loro tenera
intimità era stata sbriciolata dalle chiacchiere malevoli
dell’opinione comune, troppo perbenista per tollerare due scherzi
della natura come
loro.
Sospirò,
sentendo il nervosismo accrescere dentro di lui; ne aveva davvero fin
sopra i capelli di quella situazione.
Entrò
nello spogliatoio, chiudendosi la porta alle spalle. Non ebbe nemmeno
bisogno di controllare di essere solo: il chiacchiericcio che sentiva
era ovattato e distante.
Chiuse
per un attimo gli occhi, rilasciando un sospiro di sollievo;
l’atmosfera in ospedale si era fatta decisamente pesante ed
Aaron accolse quella mera impressione di solitudine con gratitudine.
Raggiunse
il suo armadietto, dove si spogliò velocemente del camice
che, mai come negli ultimi tempi, gli era sembrato costrittivo come una
camicia di forza.
Si
sentì improvvisamente stanco, come logorato, ed
appoggiò la fronte al freddo metallo
dell’armadietto, incapace di tacciare quel senso
d’impotenza che ormai aveva preso possesso del suo corpo.
Lo
sapeva, era inutile negarselo.
Quella
storia non sarebbe mai stata seppellita; l’avrebbe
perseguitato per sempre. Percepì improvvisamente un senso
d’oppressione al petto, sentendosi come sul filo di un
rasoio: bastava un solo passo falso, un’innocua sciocchezza,
e per lui si sarebbe scatenato l’inferno.
Sorrise
amaro: a confronto di quello che gli si prospettava, la sua attuale
situazione era nulla, una semplice bazzecola.
Aprì
l’armadietto lentamente e ne tirò fuori uno zaino
nero, che poggiò sulla panca alle sue spalle.
Frugò tra le tasche della sacca e trovò il suo
cellulare spento; lo accese e digrignò i denti rabbioso,
quando si rese conto che, per il sesto giorno consecutivo, lui non si
era fatto vivo.
Razionalmente,
lo capiva; sapeva perfettamente che Stephan non era in una posizione
migliore della sua: la storia di un medico di rilievo con un suo
vecchio allievo era un cliché piuttosto frequente, ma
diventava un pettegolezzo decisamente insolito quando l’ex
tirocinante in questione era un uomo.
Si
voltò verso l’armadietto e lo chiuse con violenza,
facendo rimbalzare l’anta.
Capiva
Stephan, ma non per questo era meno furioso; certo, magari la
sfavillante corsa al successo del suo amante avrebbe avuto qualche
battuta d’arresto, ma era Aaron che rischiava di bruciarsi
una carriera non ancora nata, buttando così al vento anni di
sacrifici e di duro lavoro! Le parole ‘finocchio
raccomandato’,
gentilmente dette da un suo vecchio compagno di corso, continuavano a
rimbombargli in testa e ad alimentare la furia cieca che stava covando.
Fu
tentato di scagliare il suo cellulare lontano, ma si bloccò,
quando vide il suo volto sfigurato dalla rabbia riflesso in uno
specchio a muro. Stentò a riconoscersi: era sempre stato un
ragazzo piuttosto posato, quasi freddo, e l’abbandonarsi a
certe emozioni non era certo da lui. S’impose la calma.
Posò
il cellulare ed andò al lavabo, dove lasciò che
l’acqua fredda gli schiarisse le idee.
Doveva,
doveva assolutamente provarci ancora con Stephan.
Doveva
raggiungerlo, doveva chiamarlo, doveva parlargli, doveva vederlo.
Lo
percepiva come un bisogno viscerale e non era la prima volta che
succedeva: si ricordò immediatamente di quando si era
catapultato a casa sua nel bel mezzo della notte, dove non aveva fatto
nemmeno in tempo ad entrare, che lo aveva iniziato a baciare con foga.
Ricordava ancora il suo sguardo stupito ed il suo sorriso dolce, quando
gli aveva confessato, tra un balbettio ed un altro, di
amarlo…
Aaron
chiuse gli occhi, perso in quei ricordi dolci: poteva quasi percepire
il calore delle sue carezze e del suo abbraccio, mentre avevano fatto
l’amore come se fosse stata la loro prima volta.
Riaprì
gli occhi e si ritrovò nel freddo spogliatoio
dell’ospedale.
Ingoiò
la frustrazione, quando si rese conto che quei ricordi gli sembravano
lontani come non mai; pareva che un colpo di spugna avesse cancellato
tutto.
Stephan
non aveva più sorrisi e parole dolci per lui: lo evitava nei
corridoi, non gli rivolgeva la parola, non rispondeva ai suoi messaggi.
Stephan
non lo guardava nemmeno più in faccia.
Si
riscosse; doveva agire.
Gli
scrisse velocemente un messaggio, con le mani appena tremanti.
'Dobbiamo
parlare. Ti prego rispondi al messaggio. Va bene quando e dove vuoi, ma
ti prego parliamo.'
Si
sentì quasi patetico, mentre avvertiva la speranza
affievolirsi e l’inquietudine accrescere.
Decise
di non pensarci e si cambiò in fretta, uscendo di corsa
dall’ospedale, diventato ormai la sua prigione, ed ignorando
i commenti malevoli che gli arrivavano alle spalle.
Il
cellulare, al sicuro nel giubbotto di pelle, ancora non dava segni di
vita, notò con delusione, ed ormai sconfortato si diresse
verso la sua moto.
Persino
lei, la sua amata motocicletta, non gli risparmiò dolorose
reminescenze e subito si rivide abbracciato a Stephan, mentre la
sceglieva, oppure alla sua guida con l’uomo che amava
abbracciato con forza alla sua vita…
“Basta” si
rimproverò per l’ennesima volta; la situazione era
delicata ed Aaron doveva necessariamente ricorrere a tutta la sua forza
di volontà, se voleva risolverla.
Ci
sarebbe riuscito: lo avrebbe di nuovo avuto tra le sue braccia e gli
avrebbe ripetuto quello che provava.
Ma
come sarebbe andata a finire?
Mai
come in quel momento il lieto fine gli sembrava assurdo.
Sospirò,
infilandosi il pesante casco e salendo sulla moto; in quel momento,
finalmente, il cellulare vibrò ed Aaron, nervoso, lo prese,
leggendo l’unica frase più volte, fino ad
impararla a memoria.
Ripose
il cellulare e partì velocemente, con il cuore che
minacciava di uscirgli dal petto.
Un
appuntamento, ancora.
Ma,
se la speranza avrebbe dovuto risollevargli il morale, in quel momento
nei suoi pensieri aleggiava un’unica domanda.
E
se fosse stato l’ultimo?
Nel
vedere la villetta di Stephan, Aaron si sentì sprofondare:
fu quasi tentato dal rimandare di qualche ora l’incontro, ma
la brezza serale gli pizzicò il viso libero dal casco e lo
riscosse. Chiuse gli occhi, infondendosi il coraggio necessario, e
parcheggiò la moto. A passi lenti, arrivò davanti
la tanto temuta porta e bussò, attendendo che Stephan gli
aprisse.
Dopo
pochi secondi lui arrivò.
Sospirò
nel sentire l’uscio aprirsi, ma non seppe dire se di sollievo
o per altro, dato che nel petto vorticava una miriade di sentimenti
contrastanti.
Stephan
gli comparve davanti così come lo ricordava, ma gli occhi
neri quella volta erano ostili e la bocca non era schiusa nel sorriso
con cui solitamente lo accoglieva; il medico si limitò a
farlo entrare, senza dire nulla.
Si
ritrovarono nuovamente da soli in quella grande casa, solitamente
accogliente, ma che, per la prima volta, Aaron percepì
fredda, inospitale, inadatta a loro due e a quello che, fino ad allora,
li accomunava.
“Stephan…”
“No,
Aaron. Sai già quello che devo dirti.” La sua voce
era fredda come il suo sguardo.
Ed
Aaron chiuse vigliaccamente gli occhi, mentre il suo corpo rabbrividiva
incontrollato.
Si
sentiva come sull’orlo di un burrone, pronto per essere
spinto dentro, abbandonato al suo destino; non sarebbe mai stato pronto
per nulla di simile: essere lasciato, abbandonato, tradito dalla
persona che aveva rappresentato tutto per lui in quegli ultimi anni era
una cosa che non riusciva a sopportare.
Sentì
le mani cominciare a sudare, strette in dei pugni tremanti, mentre le
unghie gli graffiavano la tenera pelle dei palmi, ma in quel momento
nulla era importante.
“Allora
dillo e falla finita!”
Si
era ripromesso di essere cattivo, rancoroso, ed invece la sua voce
aveva emesso un flebile appello disperato; evidentemente, si disse, non
era sufficientemente forte per reagire a quel dolore lacerante di
fronte a lui.
“Non
possiamo andare avanti. Adesso sta diventando troppo. Non
possiamo…”
“STA
DIVENTANDO TROPPO?”
Gli
occhi di Stephan si allargarono per la sorpresa, mentre la bocca si
schiudeva soffice e leggera, come l’aveva sempre ricordata.
Anche Aaron si sorprese per quello che aveva detto, e per il tono con
cui l’aveva urlato, ma non cambiò comunque
espressione, guardandolo con gli occhi velati da tutta la rabbia e
dalla disperazione che provava.
Cosa
doveva fare per tenerlo stretto a se? Rinunciare al suo sogno, alla sua
vita? Se glielo avesse chiesto, era certo che l’avrebbe
fatto: era innamorato, ed avrebbe fatto qualsiasi cosa. Qualsiasi.
“Non
puoi dire che sta diventando troppo, Stephan, non ora, non in questo
momento! Il punto di non ritorno l’abbiamo raggiunto mesi fa,
quando abbiamo fatto l’amore. Lì abbiamo superato
il ‘troppo’!”
Continuò
imperterrito, ignorando le stilettate di dolore che percepiva dentro di
sé.
Si
domandò cosa provasse lui in quel momento, cosa stesse
pensando, ma quegli occhi erano sempre più insondabili e
continuavano a ferirlo. Decise di non lasciarsi prendere dallo
sconforto e gli si avvicinò rapido, prendendogli un braccio
e spingendoselo addosso, approfittando della sua altezza per parlargli
direttamente in faccia.
“Però
allora non hai detto niente! Allora non te ne sei preoccupato! Ed
adesso…” si interruppe con la voce leggermente
incrinata “Dio Stephan io ti amo! Perché mi stai
facendo questo?”
Lo
vide tentennare.
In
quell’esatto momento si rese conto che l’orlo del
burrone era stato superato: Stephan lo aveva spinto dentro ed ora lui
stava cadendo in un baratro nero.
“Perché
non ti amo Aaron. Non ti amo e tutta questa cosa è senza la
minima speranza. Non manderò la mia
carriera…”
D’istinto
Aaron lo spinse lontano, facendolo cadere a terra. Lo guardò
con gli occhi erano sbarrati, mentre le braccia, ancora a
mezz’aria, tremavano vistosamente.
“Cosa?”
Anche la sua voce tremava vistosamente.
Stephan
lo guardò quasi con affetto e, se Aaron avesse potuto,
avrebbe incenerito in un istante quello sguardo così
disgustosamente compassionevole.
Ed,
improvvisamente, si ritrovò ad odiare quell’uomo
che tanto aveva amato.
Lo
guardò rialzarsi con calma e porre una ragionevole distanza
fra di loro, come a temere uno scontro fisico.
“Non
ti amo Aaron. Anche se tu ti sei convinto del contrario, dovresti
capire che non è così.”
Quella
voce, da sempre così calda e tranquillizzante, lo stava
lentamente uccidendo con freddezza, quasi deridendolo per la sua
ingenuità. Si sentì morire e sperò di
annullarsi in quell’istante, troppo umiliante da vivere.
Alzò
un’ultima volta lo sguardo contro quella maschera di cera,
che lo aveva ingannato così a lungo, e pronunciò
una sola frase con decisione.
“Vai
al diavolo.”
Lo
odiava, lo odiava con tutto se stesso. E l’amava,
l’amava come non aveva mai amato in vita sua.
Abbassò gli occhi tremanti, mentre il dolore lo accecava e
gli opprimeva il petto, rendendogli difficile respirare.
Perché?
Perché gli stava capitando tutto quello?
“Vai
al diavolo, vai al diavolo, VAI AL DIAVOLO!”
Scappò
via da quella casa glaciale, ferito ed umiliato, e raggiunse correndo
fino alla moto. Si infilò il casco con gesti troppo veloci,
graffiandosi una guancia rovente.
Sentì
il rumore del motore in accensione che si scaldava e partì,
con il giubbotto appena aperto e l’aria gelata ad entrargli
nelle ossa.
Corse
per oltre un’ora, senza meta, completamente in balia delle
emozioni che lo sovrastavano.
La
moto correva per la strada e scivolava leggera fra le ombre della
notte, permettendo ad Aaron di sfogare, con quella corsa liberatrice,
tutta la rabbia che lo stava intossicando.
Tutte
le parole, i momenti, tutti i suoi gesti, tutta la loro storia stavano
scivolando via, impetuosi ed irrefrenabili, come l’asfalto.
Non
era caduto in un burrone; stava per essere seppellito da una frana: era
sommerso dai detriti che lo continuavano a ferire e lui non poteva fare
altro che lasciarsi sopraffare. Non poteva far nient’altro
che rimanere in balia di se stesso.
Improvvisamente,
la rabbia e l’umiliazione lo abbandonarono, mentre la moto
continuava a correre, e la disperazione di quell’abbandono lo
travolse; quell’atroce dolore, che già aveva
provato, si ripresentò forte come un pugno in uno stomaco.
Le
mani sul manubrio cominciarono a tremare, la vista gli si
appannò e pesanti lacrime amare cominciarono a scendergli
dagli immensi occhi verdi.
Decelerò
la corsa, ed accostò sul ciglio della strada. Si tolse il
casco, scoprendosi ansimante, e sentì le lacrime bruciargli
le guance come fuoco, mentre continuavano a scendere incontrollabili.
Si prese la testa fra le mani, mentre il corpo era scosso da
singhiozzi, ormai completamente fuori controllo. Le parole di Stephan
ancora gli vorticavano nella mente, impietose e cattive, ed un totale
senso di disfatta lo colse, ancora una volta, totalmente impreparato.
Stephan
non lo amava.
Stephan
non l’aveva mai amato.
Lui
soltanto aveva costruito castelli in aria, beandosi di una stupenda
bugia, e tutto si era trasformato in un gioco.
Un
gioco. Uno
schifosissimo gioco al quale lui aveva partecipato senza aver capito le
regole e che l’aveva risputato fuori, umiliato e distrutto.
Ed
adesso non era nient’altro che un fantoccio distrutto da un
amore impossibile; aveva gettato il cuore in pasto ai lupi ed adesso si
stava sgretolando nelle sue mani.
Il
pianto che lo colse fu opprimente e doloroso. Si morse il labbro
inferiore, cercando di trattenere le urla che gli invadevano la mente,
mentre si abbandonava ad un pianto incontrollato, circondato dalle sue
stesse braccia che sperò lo proteggessero dal mondo.
“Perché
mi sono innamorato di te?”
Entrò
in casa che era già sera inoltrata.
Il
turno all’ospedale, quel giorno, era stato massacrante;
bambini urlanti, madri oppressive ed infermiere isteriche si erano
susseguiti l’uno dopo l’altro incessantemente,
senza dargli tregua.
Massaggiandosi
il collo con una mano, appoggiò la pesante sacca
all’entrata e si diresse spedito verso la camera da letto. Si
stese sul letto, che lo accolse carezzevole ed invitante, e fu tentato
dal concedersi un sonno ristoratore tra quelle candide lenzuola
ristoratrici.
Ma
aveva altro da fare.
Era
il 15 Dicembre.
Se,
cinque anni prima, qualcuno gli avesse detto che, a distanza di anni,
si sarebbe ricordato di quella data, probabilmente gli avrebbe riso in
faccia.
Non
si conserva gelosamente nella mente il giorno del compleanno
dell’uomo che ti ha spezzato il cuore, eppure Aaron ricordava
qualsiasi cosa di lui: il suo odore delicato, i profondi occhi neri, la
voce calda e sicura…
Sorrise
al pensiero di tutto quello che era cambiato e di quanto la sua vita
fosse migliorata, da quando era stato capace di affrontare
quell’oceano di oscurità da solo, riemergendone
vincitore.
Fu
quasi sul punto di prendere il telefono per fargli gli auguri, ma
qualcosa lo distolse dal suo intento.
Robert
entrò in quel momento in camera, stropicciandosi gli occhi
azzurri velati dal sonno, e si stese di fianco ad Aaron assonnato,
accoccolandosi sul suo petto. Soffocò uno sbadiglio sulla
sua spalla ed alzò il volto per guardarlo negli occhi verdi.
“Bentornato.”
La voce, generalmente arrogante, era impastata dal sonno e mortalmente
tenera.
Aaron
sorrise e se lo strinse ancora di più al petto, sfiorando
con le dita le labbra sottili.
“Dormivi
sul divano?” gli sussurrò gentile, mentre
l’altro si allungava ancora un po’ su di lui,
intrecciando le proprie gambe con le sue sopra le coperte.
“Si,
ma faceva tanto freddo…”
Il
ragazzo allargò il sorriso e gli depositò un
dolce bacio sulla fronte rilassata, concedendosi di passargli una mano
fra i sottili capelli rossi, ispirandone l’odore leggero.
“Devi
chiamare qualcuno?” continuò l’altro,
curioso.
Aveva
il cellulare in mano e non se n’era accorto.
Sospirò.
“No.”
Lo
disse con semplicità, segnando quel momento come il punto di
rottura definitivo con il suo passato.
Robert
sorrise consapevole e lo baciò dolcemente sulle labbra
chiuse, mentre gli toglieva dalla mano il telefonino, per
appoggiarlo sul mobiletto accanto a lui.
Aaron
fissò tutti i suoi movimenti senza parlare e
contemplò il suo volto, saggiandone tutte le espressioni e
cibandosi del suo sorriso felice, innamorato e sincero.
Robert
gli salì addosso, a cavalcioni, intrappolando con le sue
mani fredde il volto dell’altro ed incatenando i suoi occhi
in quelli verdi dell’altro.
“Solo
chi ama senza speranza conosce il vero amore.” gli
recitò sulle labbra chiuse.
Aaron
lo guardò senza capire, appena confuso da quelle parole.
“Tu
credi di averlo conosciuto il vero amore?”
Aaron
lo guardò stupito, per poi sorridere, sereno e soddisfatto.
“Sì.”
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