Il sogno di una vita

di IndianaJones25
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SECONDO TEMPO

   Costa portoghese

   L’assordante deflagrazione coprì il vocio incessante delle onde e l’urlo del vento e fu così accecante da squarciare le tenebre ed illuminare a giorno una vasta area. L’esplosione provocò un’ondata che lo trascinò abbastanza lontano per potersi considerare al sicuro dal risucchio della nave che andava a fondo, seppure ancora non potesse dirsi del tutto fuori pericolo. Se erano bastati così pochi fusti di carbonite liquida a provocare tutto quello sconquasso, significava che quella roba doveva avere un potenziale esplosivo veramente alto; chissà a cosa diavolo sarebbe dovuta servire: di certo, non per scavare una semplice miniera.
   In verità, Indiana Jones non ebbe il tempo di stare a rifletterci troppo a lungo; investito da ogni lato dall’acqua impazzita, rischiò di affondare nelle acque gelide ed agitate ma, con un sommo sforzo di volontà, riuscì a tenersi a galla ed a guadagnare con poche bracciate un salvagente che se ne stava andando alla deriva. Vi strinse le mani intorpidite e, proprio in quel momento, vide galleggiare a poca distanza il cappello di paglia del ladro, l’uomo che aveva soprannominato Panama, annerito e lacerato dalla violenta esplosione che aveva distrutto completamente la Coronado e l’aveva mandata a picco con una velocità sorprendente, quasi come se non fosse mai neppure esistita. Lo guardò e, per un momento, uno soltanto, rivisse nella propria memoria gli ultimi concitati momenti, nonché tutti i grandi sforzi che aveva dovuto compiere per riuscire a giungere a quel risultato.
   Durante la trasvolata dall’America, aveva tentato di schiacciare un sonnellino, tirandosi il cappello sugli occhi; solitamente, il rollio degli aeroplani gli conciliava il sonno e lo aiutava ad addormentarsi. Quella volta, però, era troppo agitato per poter anche solo credere di riuscire a prendere sonno. Il vortice di pensieri che gli batteva sulle tempie non gli avrebbe mai permesso di addormentarsi, così come l’adrenalina che gli faceva tremare le membra.
   Ciò nonostante, si era mantenuto assorto sul sedile, con il cappello abbassato e le braccia conserte; non aveva voglia di chiacchierare con Jock, voleva restarsene solo con se stesso per almeno qualche minuto, preparandosi mentalmente a portare a termine un’impresa che, per quello che lo riguardava, aveva avuto inizio ventisei anni prima, quando era ancora poco meno che un adolescente.
   Il giovane Indy - già allora si faceva chiamare così, poiché rinunciare al nome di suo padre era stata una specie di ribellione, sebbene all’epoca ancora non potesse sapere che sarebbe stata solamente la prima di una lunghissima schiera - a quel tempo viveva nello Utah, a non troppa distanza dal confine con il Colorado; vi si era trasferito con il genitore, da Princeton dove era nato, dopo la morte di sua madre Anna. Henry Senior aveva voluto andare il più lontano possibile dai luoghi in cui aveva conosciuto e amato sua moglie, consapevole che, altrimenti, il dolore sarebbe stato troppo grande da sopportare. In quanto a Indiana, si era dedicato a diverse attività, per costringersi a non pensare troppo alla mamma da poco scomparsa: era entrato negli scout e si era dedicato a diverse ricerche di storia locale, trascorrendo il tempo libero tra escursioni e biblioteche.
   Durante questi suoi solitari studi, si era imbattuto nella cronaca della vita straordinaria di Francisco Vasquez de Coronado. Ancora bambino, costui aveva ricevuto in dono dal celebre conquistador Hernan Cortés una croce d’oro e pietre preziose, forgiata con i tesori del Nuovo Mondo; questo lo aveva spinto, una quindicina d’anni dopo, ad intraprendere a propria volta un’avventura in America, sperando che potesse renderlo ricco e potente.
   Grazie alle proprie doti, Coronado ottenne molto presto il titolo di governatore della Nuova Galicia; bramoso di conoscere meglio il territorio e di impadronirsi di grandi ricchezze, egli inviò due esploratori - il frate Marco da Nizza ed il berbero Estebanico - verso i deserti del Nord, affinché si facessero un’idea della regione e gliene portassero un resoconto.
   Mesi più tardi, il solo frate fece ritorno, in cattive condizioni, raccontando di aver trovato una città d’oro ma di essere stato attaccato dagli abitanti, che uccisero il suo compagno; il religioso italiano si disse più che mai convinto che, quella, fosse una delle sette leggendarie città di Cibola, fondate da alcuni vescovi spagnoli fuggiti sull’Oceano dalla loro città, Merida, conquistata dai Mori nel 713. Quando Marco da Nizza espresse il desiderio di tornare lassù, Coronado decise di mettersi personalmente a capo di un corpo di spedizione.
   La spedizione - partita da Città del Messico - fu lunga e si protrasse dal 1540 al 1542; infine, dopo aver attraversato gli infuocati territori rossastri dei deserti americani ed aver valicato impervie montagne e profondo vallate, i militari giunsero in vista di uno sparuto e misero gruppo di capanne, abitate da pochi indiani. Accusandolo di averla condotta fin lì inutilmente, la soldataglia tentò di uccidere il povero frate, che si schermì, dicendo di non essere riuscito a ritrovare la strada percorsa nel suo precedente viaggio; in cambio della vita, giurò che avrebbe condotto veramente gli uomini alla città d’oro.
   Coronado, però, era rimasto profondamente deluso dai suoi uomini; da devoto quale era, non avrebbe mai più tollerato che si cercasse di usare violenza ad un ministro di Dio. Quindi, lasciati i soldati presso il villaggio che avevano scoperto, partì insieme a Marco e ad alcuni indigeni, rimanendo lontano per qualche mese. Nessuno seppe mai dove si recò; ma quando fece ritorno - da solo, avendo rispedito il frate in Messico - raccontò che la storia delle sette città era niente altro che una leggenda infondata e che, quindi, la spedizione era stata del tutto inutile. Tuttavia, tra i soldati si diffuse la diceria che egli avesse realmente scoperto le città e che avesse nascosto nella sua croce, che non aveva più con sé al ritorno dal viaggio, un indizio per riuscire a rintracciarle. Ma di quella croce, ormai, non si sapeva più nulla, sebbene con gli anni si fosse sparsa la voce che Coronado l’avesse lasciata nello Utah, non lontano dall’ingresso delle sette città nascoste.
   In verità, col trascorrere degli anni, furono pochi a credere che Coronado avesse raggiunto quelle favolose città e le loro ricchezze prodigiose; l’ardito esploratore, difatti, morì una dozzina d’anni più tardi, in completa miseria, come aveva vissuto sin dal suo ritorno dalla spedizione, dopo aver perso la carica di governatore. Poteva un uomo povero e indigente essere il depositario di un tale segreto?
   Indiana Jones, ancora un ragazzo sognatore e pieno di aspirazioni, si era lasciato affascinare da quella storia; e, quindi, era stata per lui come una folgorazione la scoperta che alcuni ladri erano riusciti a trovare la croce. Era stato un evento casuale a condurlo proprio alle spalle di quei briganti; ma fu un evento che lo segnò per il resto della sua vita. In un vano tentativo aveva tentato di impadronirsi della croce, anche se inutilmente, poiché aveva scoperto molto presto di essersi messo contro un nemico troppo subdolo e potente per un ragazzo di tredici anni: il denaro e tutte le porte che esso può spalancare.
   Quel giorno aveva perduto, la croce era finita tra le mani dell’uomo dal cappello di Panama senza che lui potesse impedirlo; se l’era vista portare via per essere consegnata ad un affarista avido e meschino. Ma Garth, lo scagnozzo a capo di quella banda di ladri, gli aveva impartito una lezione che non si sarebbe scordato neppure se fosse campato cento anni: gli aveva insegnato a non arrendersi mai, di fronte a niente ed a nessuno. E, come se quello potesse essere quasi un diploma a perenne ricordo di quell’importantissima e vitale lezione, gli aveva fatto dono del suo cappello. Cappello che, dopo così tanti anni, portava ancora, un monito a non chinare mai il capo davanti ai fallimenti.
   E non si era mai arreso, infatti.
   Aveva continuato a tenersi informato sulla croce, aveva fatto ricerche ed era sempre stato pronto a scattare per riuscire a riprendersela. L’occasione non si era mai presentata, eppure aveva sempre saputo che sarebbe bastato pazientare per poter giungere alla conclusione; aveva avuto dei validi maestri, in questo. Ogni tanto, per esempio, ripensava ad Abner Ravenwood: il suo vecchio docente aveva trascorso la vita intera a ripetere che l’Arca dell’Alleanza doveva esserci davvero, celata da qualche parte; e, alla fine, le sue ricerche si erano rivelate fondate e l’Arca era stata trovata, sebbene quel giorno il vecchio Abner non fosse più lì a festeggiare. E poi, ovviamente, c’era suo padre Henry: l’anziano Jones aveva consacrato la propria esistenza alla ricerca del Santo Graal, la coppa di Cristo; e, sebbene dopo quarant’anni non fosse ancora giunto neppure lontanamente vicino ad una valida conclusione, non si era mai arreso.
   Infine, al termine di un lungo percorso - durato ventisei anni - fatto di pazienza e insuccessi, ce l’aveva quasi fatta: era in volo sull’Oceano Atlantico, diretto alla volta della croce di Coronado che, questa volta, non si sarebbe fatto strappare dalle mani.
   Jock lo aveva scosso quando, dopo parecchie ore di volo, erano stati in vista della nave americana; non c’era da sbagliarsi, era proprio quella che cercavano, diretta verso il meridione per imboccare lo Stretto di Gibilterra ed entrare nel Mediterraneo. Sfortunatamente, le condizioni atmosferiche erano assai peggiorate e, adesso, si trovavano nel mezzo di una tempesta, con fulmini, pioggia e raffiche di vento; una sfortuna che, però, in qualche maniera si sarebbe rivelata una loro alleata, dato che, in mezzo a quel fracasso infernale, nessuno dei marinai a bordo si sarebbe potuto accorgere del sopraggiungere del grosso bimotore.
   Jones non aveva esitato a dare avvio al proprio folle piano, senza perdere neppure un minuto a chiedersi come si sarebbe comportato se le cose si fossero messe male: del resto, quando mai lo aveva fatto? Senza dare ascolto agli avvertimenti di Lindsey ed alle sue ultime e flebili proteste, si era infilato lo zaino contenente il paracadute e si era preparato al lancio, aprendo il portellone da cui entrò una raffica di aria gelida. Voltatosi verso il pilota che lo aveva raggiunto, gli diede un’ultima disposizione per il loro incontro a recupero terminato, poi si lanciò nel vuoto, sfidando il forte ed impetuoso vento che aveva preso a tirare da occidente.
   Non era la prima volta che si buttava da un aereo in volo - una volta, non se lo sarebbe mai potuto dimenticare, si era salvato da un aeroplano che stava precipitando grazie ad un canotto gonfiabile - ma dovette riconoscere che tentare di atterrare sopra un bastimento nel mezzo del mare in tempesta non sarebbe certo stata una passeggiata. Eppure, in qualche maniera, ci riuscì.
   Dirigendo il paracadute ed approfittando di una forte corrente discendente, si approssimò alla Coronado; appena fu a solamente poche centinaia di metri dal cargo, tirò le cordicelle per stringere il paracadute e piombò verso il basso ad una velocità più che raddoppiata, andando sempre dritto verso l’imbarcazione. Capì di star andando troppo forte e cercò di rallentare, ma non ci riuscì; volando ormai bassissimo, guardò con una certa stizza la nave sfrecciargli sotto i piedi e si preparò ad atterrare in mezzo alle onde; a quel punto, per non annegare, avrebbe dovuto improvvisare qualcosa. Del tutto inaspettatamente, però, si bloccò con un forte urto e, dopo essere stato tirato all’indietro, si ritrovò a penzoloni. Gettò uno sguardo verso l’alto e vide la tela squarciata del suo paracadute impigliata in una delle gru della nave.
   Fu un’insperata fortuna, che gli permise molto probabilmente di salvarsi. Del resto, la dea bendata, in ben più di un’occasione, si era dimostrata provvista di una vista formidabile, nei suoi confronti.
   Mantenendosi aggrappato all’imbragatura con una mano, con l’altra si sfilò rapidamente lo zaino ormai inservibile e, senza badare alle forti correnti che lo sballottavano di qua e di là, iniziò ad arrampicarsi lungo la corda.
   La tela era molto resistente e, in poco meno di una decina di minuti, raggiunse la relativa sicurezza della gru; lì, però, per poco non rischiò di perdere la presa, mentre i capelli gli si rizzavano in capo: i ferri dell’argano erano carichi di elettricità statica e, a non molta distanza da lui, vide brillare i fuochi di Sant’Elmo. Senza badarvi, cominciò a discendere verso il ponte della nave. Lanciò un’ultima occhiata verso il cielo buio e carico di nubi, dove notò le luci dell’Electra che, dopo aver compiuto alcuni lenti sorvoli della nave, si dirigeva infine verso la costa, alla ricerca di un punto in cui atterrare.
   Non appena i suoi piedi ebbero toccato la superficie sdrucciolevole della tolda, Jones si guardò attorno, sperando che nessuno si fosse accorto di lui; ma i marinai dovevano essersi rifugiati tutti quanti al coperto per sfuggire al maltempo. Impiegò qualche istante per riuscire ad adattarsi al beccheggio della nave, quindi cominciò a darsi da fare per trovare la croce. Era talmente vicina, ormai, che gli pareva quasi che lo stesso invocando a gran voce.
   Non gli ci volle molto. Dopo essersi arrampicato sul castello di poppa, penetrò da una porta all’interno di un corridoio e lo seguì fino ad imbattersi nella zona delle cabine. Tutte le porte erano metalliche, dipinte di bianco e screziate di ruggine, tranne una, che appariva rivestita di legno di tek.
   «Ci siamo» pensò.
   Si avvicinò alla porta e, lentamente, badando a non provocare alcun rumore - anche se, in realtà, i cigolii ed i lamenti metallici provocati dalle onde che si infrangevano contro la struttura, uniti al rimbombo dei tuoni, erano sufficienti a mascherare qualsiasi altro suono - abbassò la maniglia e spinse.
   Come aveva previsto, si ritrovò in un ufficio arredato molto lussuosamente, dal quale si accedeva ad un’altra cabina, nella quale scorse un letto su cui era sdraiata una figura addormentata. Sopra una sedia, erano appoggiati una giacca bianca ed un cappello di Panama. Jones sorrise. La resa dei conti era finalmente giunta.
   Si guardò attorno e notò una cassaforte fissata contro una parete. Era a combinazione, ma se l’era aspettato ed era pronto; tra le sue tante conoscenze e amicizie, vi era pure quella con un ex scassinatore che, dietro lauta ricompensa, gli aveva insegnato il modo per riuscire ad aprire una cassaforte sigillata.
   Senza perdere tempo, si inginocchiò davanti al forziere e, toltosi il cappello e poggiatolo sul pavimento affinché non gli desse qualche impedimento, vi accostò l’orecchio. Cominciò a girare la manopola e, poco alla volta, riuscì a comporre la combinazione esatta: 1 1 3 8. Sorrise nuovamente quando la serratura scattò.
   In quel momento il battito del suo cuore accelerò violentemente, mentre una strana sensazione si impadroniva di lui. Si rivide, ancora bambino, mentre si impadroniva della croce nel tentativo di sottrarla a quella banda di ladroni da quattro soldi. Aprì lo sportello e, alla luce di un fiammifero che prese dalla propria tracolla e accese sfregandolo contro il metallo, guardò.
   La croce era lì, sfavillante di mille colori al barbaglio tremolante della fiammella; era più bella di quanto la ricordasse, un tesoro degno di essere ammirato da chiunque: un oggetto d’oro, in parte smaltato in pietra vitrea di un blu lucente ed impreziosito da grosse perle. Con la mano libera e leggermente tremante la prese; quando le sue dita vi si strinsero attorno, l’oro sembrò animarsi ed emanare un calore sconosciuto. Si sentì come se, dentro di lui, si fosse acceso un fuoco nuovo, una consapevolezza vivida e forte. Ma non era ancora finita, no.
   Rapidamente, infilò la croce nella borsa e stava quasi per andarsene quando alcuni fogli contenuti nella cassaforte attirarono nuovamente la sua attenzione. Li afferrò e diede un’ultima occhiata. Lesse chiaramente un nome, Cibola, prima che il fiammifero, ormai consumato completamente, si spegnesse, non prima di avergli scottato un dito.
   Cibola… era il nome delle sette leggendarie città cercate da Coronado, il primo possessore della croce. Perché l’uomo dal cappello di Panama si era interessato a quella storia? Che avesse in qualche maniera a che fare con il suo viaggio verso la Spagna? Ci avrebbe riflettuto più tardi, ora non poteva concedersi il lusso di perdere altro tempo. Doveva, invece, scoprire una maniera sicura di andarsene: effettivamente aveva pianificato a grandi linee l’arrivo, ma non aveva neppure dedicato un mezzo pensiero alla partenza. Non che fosse una novità, per uno come lui.
   Infilò i fogli nella borsa, raccattò il cappello e, mentre se lo calcava in testa, andò alla porta. Nel momento stesso in cui usciva nel corridoio, un marinaio apparve al capo opposto.
   «Ehi, fermo! Chi sei?» gridò l’uomo, correndogli incontro.
   Per tutta risposta, Jones si precipitò nella sua direzione e, con un micidiale montante, lo mise al tappeto. Quindi scattò verso il ponte, sperando che nessun altro si fosse accorto di lui, ma lì ebbe un’amara sorpresa: qualcuno aveva notato i resti del paracadute ed aveva dato l’allarme.
   Provò ad eclissarsi, ma fu visto e trascinato all’esterno da numerose mani. Colpì con calci e pugni gli uomini più vicini, ma all’improvvisamente si sentì bloccare le braccia dietro la schiena, mentre una voce gridava: «Qualcuno svegli il capo, presto!»
   Jones tentò di divincolarsi, ma invano. Un grosso marinaio, stringendo i pugni, gli si avvicinò con aria minacciosa. L’archeologo gli rivolse un sorriso sarcastico e quello, per tutta risposta, lo colpì con un pesante pugno in pieno viso.

   Infine, dopo essere rimasto per oltre un’ora in balia delle onde, facendosi venire i crampi alle gambe nel tentativo di vincere la corrente, Jones guadagnò la riva, gettando da parte il salvagente e sputando acqua salata. La tempesta si era finalmente dissolta ed i primi raggi dell’alba illuminavano il nuovo giorno.
   Era stanco e dolorante - non una novità, per lui - ma si sentiva euforico. Dopo essersi sdraiato a riposare sulla battigia, aprì la borsa e ne estrasse la croce di Coronado, rigirandosela tra le mani e mirandola come se fosse una reliquia. Effettivamente, lo era davvero: una reliquia della sua giovinezza. Il simbolo di una ricerca che, finalmente, era stata portata a termine, sebbene con sommo sforzo.
   Ricordandosi delle carte che aveva rubato a bordo, provò a tirarle fuori, ma ebbe un’amara sorpresa: il suo bagno fuoriprogramma le aveva inzuppata a tal punto da ridurle ad una poltiglia informe. Quei documenti non avrebbero più rivelato alcunché e l’uomo dal cappello di Panama si era portato il loro segreto in fondo al mare. Una questione, ormai, su cui non sarebbe più valsa neppure la pena di tornare a meditare.
   Adesso, invece, non gli restava che concedersi qualche minuto di riposo, prima di partire alla ricerca di Jock, che doveva essere atterrato nei dintorni, come gli aveva ordinato lui. Non avrebbe atteso molto, perché il pilota si era di sicuro impensierito: l’esplosione era stata di tale portata che non avrebbe potuto non notarla. Una volta ritrovato l’amico, avrebbero fatto una rapida tappa al più vicino aeroporto per rifornirsi di carburante e sarebbero subito ripartiti per l’America; di lì ad un giorno al più tardi, avrebbe convocato Brody al Barnett e gli avrebbe consegnato la croce, affinché la mettesse al sicuro in una teca del museo del Marshall College. Era un regalo davvero prezioso, per il museo di Bedford: Marcus, oltre a pagargli il solito compenso, avrebbe come minimo dovuto offrirgli una cena annaffiata da champagne.
   Guardò con malinconia la croce di Coronado. Molto presto sarebbe quindi finita in un museo - il posto in cui avrebbe sempre dovuto rimanere - ed un capitolo intero dell’esistenza di Indiana Jones sarebbe stato definitivamente chiuso.
   Era difficile crederlo, ma era davvero così.

 [scritto: gennaio 2018]




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