Mezzanotte
e dintorni
“Non
poter fare a meno di qualcosa significa che non la possediamo, ma che
ne siamo posseduti.” – Enrico Maria Secchi.
— Per
me stesso e per quello stolto di Godric
Grifondoro!
Hai finito di spiare quei due e ti decidi a passare all’azione?
— gracchiò improvvisamente una voce alle spalle di
un esile corpo
femminile rannicchiato dietro un ammasso informe di ortiche. Presa
alla sprovvista, Merope si alzò di scatto, sibilando
spaventata,
lasciando scivolare tra l’erba incolta il grosso anello
d’oro che
si stava rigirando tra le dita appassite; il suo busto si torse
così
velocemente che perse l’equilibrio e cadde tra le verzure
urticanti, mentre malediceva se stessa e la mala sorte. Districandosi
dal fogliame, fece appena in tempo a veder svanire nel nulla una
figura eterea, impalpabile, con un sorriso crudo stampato sul volto
incartapecorito. Da oltre la siepe, giunse l’eco della voce
soave
di una bella ragazza che stava civettando, camminando a braccetto,
sotto l’ombra protettiva dei faggi, assieme
all’affascinante Tom
Riddle; mentre ignari la oltrepassavano, digrignò i denti,
rosa
dalla gelosia.
— Merope!
Avanzo di capra, ho fame! — Dalla finestra di una catapecchia
imbrigliata tra i rovi del Tranello del Diavolo, sbucò la
faccia
rinsecchita e arcigna di suo padre, Orvoloson Gaunt, — Sei
una
nullità, — continuò stizzito,
— stupida buona a nulla di una
Magonò, appena rientri ti faccio assaggiare la mia frusta!
—
intimò inasprito, facendo roteare minaccioso,
nell’aria densa del
mezzodì, la sua bacchetta.
Merope
sospirò piano, raccolse l’anello nascondendolo in
fondo alla tasca
dell’abito sudicio e, dipingendosi sul volto scarno
un’espressione
distratta, quasi sognante, sfoggiando il suo miglior sorriso
bambinesco, rientrò lentamente in casa, grattandosi le
pustole che
si andavano formando sul corpo emaciato, masticando parole di scusa,
come se stesse assaporando la Puzzalinfa della Mimbulus Mimbletonia
che cresceva in fondo al prato. Orfin, il fratello,
l’aspettava
sulla porta ghignante: — Ho fatto la spia, sorellina
— sputò
gongolante a un passo dal suo orecchio mentre lo superava guardinga,
— ora vedrai che bella sorpresa ti riserverà
nostro padre.
Come
per tutte le cose che accadono, anche Merope era nata per adempiere
il proprio Destino, o almeno era quello che suo padre, un uomo
ignorante e crudele, troppo attaccato alle proprie origini magiche
per vedere oltre il suo ‘essere donna’, voleva
farle credere ogni
volta che la massacrava di botte, perché, secondo lui, era
solo
questo che meritava. Così si ritrovò a vivere una
vita di stenti
nella sua stessa casa, appartenuta a un’antica famiglia di
Purosangue caduta in disgrazia, e, quando rimase orfana della madre,
ogni speranza di mostrare il proprio talento morì con essa,
tanto
più che il fratello contribuì largamente ad
alimentare l’odio del
genitore verso la sua persona. Trascorreva le giornate ai piedi del
focolare sognando una vita diversa, magari corteggiata dal bellissimo
giovanotto che abitava al di là del boschetto di betulle.
Non
era stupida, Merope, seppur ignorante nelle arti magiche, aveva
sviluppato una morbosa passione per gli intrugli, così,
nelle lunghe
serate solitarie, mentre il padre cadeva addormentato in preda ai
fumi dell’alcol e il fratello raggiungeva il villaggio
Babbano per
seminare terrore, la ragazza riuniva davanti a sé diverse
erbe
raccolte lungo i fossi per combinarle in vari decotti e unguenti, che
poi aggiungeva in piccole dosi ai miseri piatti che presentava in
tavola, con la speranza che i suoi aguzzini morissero avvelenati.
Nel
proprio cuore covava un amore fanciullesco verso
l’affascinante
vicino di casa, fatto di rimpianto miscelato a un bisogno viscerale
di essere amata, compresa. Per lei, lo scandire delle stagioni era
diventato un doloroso solco nel petto, un traguardo irraggiungibile,
un ostacolo insormontabile: il sogno che si liquefaceva sotto il
giogo dei gesti tirannici del padre.
Quel
giorno, uguale a tanti altri per come era iniziato, portò un
viandante ad arrancare lungo il sentiero di sassi sotto il sole
cocente. L’uomo, vestito in modo buffo, si fermava spesso a
sventolare nervoso un grande fazzoletto macchiato davanti al viso
arrossato, si muoveva a scatti, come se non fosse abituato a
camminare a lungo, roteando gli occhi, socchiusi per la troppa luce,
in ogni direzione. Al terzo bivio, dopo essersi guardato attorno con
fare circospetto, oltrepassò la staccionata in legno
scrostato
addentrandosi, incolume, tra i folti cespugli di rovi.
Arrivò
ansante sull’uscio di un rudere e, dopo aver controllato un
appunto
sul foglio che teneva dentro una valigetta di cartone, senza bussare,
si infilò lesto nel primo pertugio che trovò
spalancato, venendo
subito inghiottito dalle dense ombre.
Il
locale in cui sbucò era tetro, uno spesso strato di caligine
ricopriva i muri e i resti di cibo ammuffivano nei piatti vicino a un
lavello che gocciolava acqua scura; c’era un grande tavolo
sudicio,
che occupava buona parte del locale, con sopra dei boccali in peltro
annerito che rotolavano lenti su se stessi vomitando a scatti il
liquido biancastro ivi contenuto. La sua attenzione, ancor prima di
proferire verbo, fu attratta da due figure che si accanivano su una
terza rannicchiata sul lurido pavimento.
— Te
la fai con un Babbano? — sibilava livido di rabbia uno dei
due
mentre l’altro lo incitava eccitato. —
Expelliarmus, — gridò,
e due bacchette finirono nelle sue mani, — Incarceramus,
—
aggiunse. Delle corde presero vita dal nulla e, come serpenti,
avvolsero in spire i corpi recalcitranti dei due avventori. —
Appena in tempo, — disse sollevato mentre allungava il
braccio
verso la ragazza ancora stesa a terra, — tu devi essere
Merope, —
sussultò lievemente alla vista di quel corpo macilento,
trattenendo
a stento una smorfia disgustata, — sono venuto più
in fretta che
ho potuto, — le sorrise triste, a mo’ di scusa.
— Non è stato
facile convincere i miei superiori, il messaggio che hai spedito non
era molto chiaro. — In sottofondo le voci dei due disgraziati
si
sovrapponevano tra loro.
— Liberami!
— imperava il più vecchio, — Non toccare
mia figlia con quelle
luride mani da ‘sanguesporco’! —
Contemporaneamente il più
giovane urlava: — Appena mi libero ti faccio vedere io,
— il
volto scimmiesco contorto dall’odio, — Chi
è quest’uomo? —
chiese il padre di Merope contorcendosi come una coda di lucertola
appena mozzata, — Che messaggio? — gli
parlò sopra Orfin,
rivolgendosi in cagnesco alla sorella.
Merope,
testa bassa e gli occhi nascosti dietro una frangia bisunta, sorrise
fiera di se stessa. Si era rivelato arduo convincere il fratello a
insegnarle a scrivere poche righe, con la scusa che se fosse successo
loro qualcosa non sarebbe stata molto d’aiuto. Aveva
sopportato
ogni angheria e perfidia da parte di Orfin; per intere settimane
aveva dovuto dormire all’addiaccio, con solo una misera
coperta che
le copriva a malapena il busto, ma ne era valsa la pena: alla fine
aveva ottenuto ciò che si era prefissata e il messaggio era
stato
spedito all’insaputa dei suoi parenti.
Ora,
appoggiata allo stipite della porta di casa, le dita magre che
rigiravano pigre l’anello d’oro del padre, guardava
senza
emozione gli uomini del Ministero portare via ciò che
restava della
sua famiglia.
— Devo
riconoscere che sei stata furba. —
Alla sua sinistra,
lo strano personaggio della mattina era intento a scrutarla, le iridi
di un verde intenso sembravano perforarla da parte a parte, fermi e
duri. — Chi sei? — chiese con astio, —
Fuori dalla mia
proprietà! — intimò battagliera.
L’uomo, un vecchio centenario,
rise. — Tu
non saresti in grado di farmi nulla: sono
Salazar Serpeverde, — si
presentò, lo sguardo fiero
e superbo, — uno
dei quattro Fondatori della più prestigiosa scuola di
stregoneria...
— A quelle parole la ragazza si
chiuse in se stessa
pensierosa. – Non ho mai sentito
parlare di lui,
eppure mi sembra un volto familiare,
percepisco
come se tra di noi ci
fosse un filo
invisibile che ci lega. Emana
potere, lo avverto, di
gran lunga più pericoloso
e misterioso di
quello di mio padre.
Il
vecchio se ne stava lì, immobile, come se avesse piegato
l’eternità
a sua immagine e quel contrattempo fosse solo un diversivo alla noia,
continuando la sua filippica atta a impressionarla. — Non
avresti potuto quando ero in vita, figuriamoci ora che sono morto,
— concluse. Merope sgranò gli occhi, un velo di
eccitazione a
illuminarle il volto. – Potrei servirmi di lui,
– pensò
folgorata da un’idea malsana, – non
potrà di certo
uccidermi visto il suo stato, –
sogghignò
interiormente. – Farò in modo che mi
riveli i
suoi segreti così che io possa realizzare il mio sogno.
– Un
sorriso sgradevole le piegò le labbra screpolate.
– A questo
punto, nessuno mi potrà più fermare!
— Hai
finito di arrovellare
il cervello? — la interruppe
sprezzante, — Chiedi
e ti sarà dato. Se lo meriti,
— aggiunse subito
dopo. — Non perdi tempo, mi piace, e io, d’altro
canto, ne ho
perso fin troppo! — Merope raddrizzò la schiena,
in un guizzo di
antico orgoglio. — Stamani, mi hai sorpreso mentre mi
nascondevo
dietro la siepe, — disse senza vergogna, — voglio
quella Babbana
morta, — rivelò spiccia, — Cecilia,
— la voce intrisa di
disprezzo, — deve essere annientata, di lei non
dovrà rimanere
neanche il ricordo! — Il vecchio annuì distratto,
perso in lontani
ricordi, poi i suoi occhi divennero due lame fredde, cupe e
senz’anima. — Io
aiuto te e tu aiuti me, —
sentenziò, gli occhi fissi
sull’anello che teneva in mano.
Aspettò
il suo cenno d’assenso prima di scivolare
all’interno della
costruzione, una volta entrato fece una smorfia disgustata alla vista
del sudiciume e altezzoso proferì: — Non
pensare che io possa rimanere in questo letamaio! Sarò pure
morto ma
è indecoroso per la mia persona.
— La guardò con
occhio critico avvicinarsi a un secchio contenente un liquido oleoso
e maleodorante, prendere uno straccio talmente lurido che rimase
rigido tra le sue dita. La ragazza immerse la mano, strizzò
bene e
passò il cencio sul tavolo senza proferire verbo.
— Usa
la magia! — l’interruppe
spazientito, — O
devo dedurre
che sei una Magonò? —
disse oltraggiato, quasi
avesse bestemmiato. — Se solo avessi dimostrato una qualunque
capacità magica sarei stata venduta o uccisa: loro temono il
potere
della donna, — lo rimbeccò alzando le spalle
indifferente,
nascondendo ai suoi occhi il dolore di una vita passata nei tormenti.
— Se
le cose stanno così, non se ne fa nulla,
— disse
perentorio, — senza
rancore. — Si girò e il
suo profilo si assottigliò
nella luce chiara che entrava dall’uscio spalancato.
— Aspetta! —
urlò la ragazza; nel disperato tentativo di fermarlo, si
lanciò in
avanti finendo per sbattere contro un mobiletto senza una gamba, che
traballò sotto l’impeto dell’urto.
— Non puoi andartene,
abbiamo un accordo, — cercò di convincerlo mentre
le dita
afferravano l’aria. — Farò qualunque
cosa, — farfugliò, —
conosco un posto dove per poche falci mi venderebbero una bacchetta
contraffatta. — Il vecchio si girò trafiggendola
con uno sguardo
spietato. — Non
c’è modo che tu possa imparare granché,
forse giusto un paio di formule, ma per quello che ho in mente
dovrebbero bastare. Ripasserò quando ne avrai trovata una.
— la liquidò, sparendo alla sua vista.
I
giorni passarono pigri, tra lezioni di magia, – Salazar
Serpeverde si rivelò un ottimo insegnante
– la ricerca
di erbe e immersioni nei fumi bollenti di alcune pozioni.
Con
finta casualità, prese l’abitudine di far visita a
un piccolo
giardino all’italiana, passando più e
più volte davanti a un
delizioso chiosco frequentato dal giovane Tom Riddle, – ancora
lui non lo sapeva – suo futuro sposo.
Osservò con morboso
distacco ogni piccolo gesto della sua rivale, Cecilia, imprimendo a
fuoco vivo nella memoria il timbro lezioso della sua voce. Spesso,
quando la notte prendeva il sopravvento, lasciava che la propria
fantasia vagasse libera, oltre i cancelli imposti da suo padre, dalla
società a cui apparteneva.
A
volte, si immaginava intenta a spazzolarsi i lunghi capelli seduta in
riva al fiume, accanto a lei Tom le leggeva delle poesie intrise
d’amore. Se chiudeva gli occhi avvertiva il profumo di
gelsomino
languire sotto lo sguardo attento delle stelle mentre lei,
abbracciata al suo uomo, danzava leggiadra come una farfalla; mentre
grilli e cicale frinivano pigri nel sole, lei correva sommersa dal
frusciare ipnotico del grano e si lasciava raggiungere da Tom...
— Stai
sognando a occhi aperti! — Merope
voltò il capo di
scatto e immerse gli occhi in quelli duri e carichi di biasimo del
vecchio: immediatamente soffocò i propri pensieri, non
voleva
mostrarsi debole, non adesso che era così vicina alla meta.
— Sto
pregustando la vittoria, — rispose prontamente riprendendo a
mescolare il liquido pastoso sobbollente nel calderone. — Non
mi
hai ancora detto perché ti hanno allontanato da Hogwarts,
— chiese
la ragazza per distrarlo, sapendo bene che al vecchio piaceva parlare
di sé. — Salazar le girò attorno,
controllò il colore della
pozione, annuì e le rispose con voce arrogante: — Non
ero d’accordo su alcune questioni gestionali ma, in
particolare,
Priscilla mi sorprese a testare questa pozione,
—
indicò con un gesto del capo il pezzo di carta bisunta alla
sinistra
di Merope, — sui
Nati
Babbani. — Gli occhi di Salazar
luccicarono sinistri,
intrisi di puro odio.
— Controlla
se hai tutti gli ingredienti per la pozione Extrapolate
vitae,
— intimò, — deve
essere creata con estrema precisione perché possa dare
frutto. Una
volta ultimata devi far cadere nel calderone il pezzo di pergamena
con la frase che ti ho dettato: Ut
malediceret tibi:
vos gerunto quod ad me pertinet at
fetus.
— Il vecchio ghignò cattivo; Merope, perplessa,
allungò le dita e
prese il pezzo di carta, fece scorrere gli occhi arrossati dagli
effluvi del calderone elencando mentalmente gli ingredienti:
gocce
di veleno di disphoidus typus
– 12 μl
soluzione
di natron
– 9 litri, maneggiare con cura usando dei guanti molto spessi.
‘Triade
della morte’
– 3 funghi per ogni specie
semi
di tasso
– 279 mcg di polvere affumicata con la corteccia della stessa
pianta
Albizia
julibrissin
– 6 hg di resina estratta dalla pianta.
— Che
significa questa frase? A che serve aggiungere la pergamena?
—
chiese curiosa Merope. — Di
questo non devi preoccuparti. —
rispose acido il
vecchio; stizzito si voltò e, in un fruscio silenzioso delle
vesti,
sparì oltre la porta, lasciandola nuovamente sola.
La
campana in fondo alla valle suonò e i suoi rintocchi
raggiunsero
nitidi l’orecchio attento di Merope; poco distante, Cecilia
passeggiava pigra aspettando di essere raggiunta dal giovane Tom, al
limitare del prato antistante villa Riddle. Cautamente, lanciando un
debole Confundus, costrinse la ragazza a inoltrarsi nel fitto bosco
finché non cadde inciampando su una radice sporgente,
ferendosi alla
caviglia, e rotolò di qualche metro lungo un morbido pendio
fino al
letto di un rigagnolo asciutto. Merope, fulminea come un serpente
letale, raccolse ogni singola ciocca dei capelli della ragazza
rimasta imbrigliata tra i rami e i rovi.
Lesta,
raggiunse la giovane che, dolorante, si massaggiava la gamba
piagnucolando senza sosta. – Ma quanto sono fragili
queste
fanciulle Babbane,
– pensò con distacco alle
proprie cicatrici sparse sulla schiena e sull’addome,
– per un
piccolo taglio credono di essere a un passo dalla morte.
–
Stampandosi in faccia la sua solita aria svagata, si
avvicinò con
cautela, manifestando una gentilezza che non le apparteneva.
— Ha
bisogno? — chiese porgendo la mano dalle unghie ingiallite e
spezzate. La ragazza alzò gli occhi spaventata, troppo
assorta nel
suo dolore per accorgersi della presenza di Merope, guardò
disorientata la mano per poi allontanarsi disgustata. — Non
toccarmi! — strillò impaurita. — Come
desidera, — le fece eco
l’altra; accennando un vago inchino, si voltò e
prese a risalire
il dosso.
— Aspetta!
— Si era già addentrata nel folto del sottobosco
che la voce
ansiosa di Cecilia la raggiunse, — Saresti così
gentile da andare
a chiamare il figlio del padrone della bella casa che confina qui
vicino? — chiese senza degnarla di uno sguardo, poi aggiunse
sprezzante, — fai il mio nome, Cecilia, vedrai che Tom Riddle
ti
crederà. — Merope si morse il labbro, sicura che
se avesse aperto
bocca si sarebbe lasciata sfuggire l’euforia che galoppava al
centro del suo petto. Ritornò sui propri passi e, tenendo
basso il
capo, dopo aver rovistato nella bisaccia che teneva a tracolla,
estrasse un canovaccio unto.
— Che
stai facendo? — squittì Cecilia chiudendosi a
riccio; una smorfia
di dolore le deformò per un attimo il bellissimo volto.
— Le
spalmo un decotto preparato da me, — sussurrò
all’altra, — non
abbia timore, — sibilò davanti alla sua
espressione dubbiosa, —
non l’uccideranno un po’ di erbe macerate al sole.
—
Sogghignando perfida, le spalmò l’unguento
puzzolente sulla
caviglia e poi attese, in silenzio, che l’effetto della
calendola,
mischiato a quello soporifero della lavanda,
facesse effetto.
Con
morboso interesse guardò la bella ragazza perdere lentamente
conoscenza e afflosciarsi delicatamente su se stessa, composta, quasi
avesse un pubblico a cui offrirsi; per accertarsi che fosse del tutto
addormentata, le diede un calcio tra le costole che poggiavano al
tronco di un vecchio albero rugoso. La spogliò dei suoi
abiti
pregiati, storcendo il naso per il delicato profumo di rose che
emanavano, e se li mise addosso, direttamente sulla propria pelle
corrosa dalla sporcizia. Deliziata, assaporò il fruscio
leggero
della stoffa compiuto a ogni movimento, la dolce carezza del tessuto
sul piccolo seno: si sentì libera e potente.
Per
anni aveva domato il proprio Desiderio,
l’aveva nascosto
nelle viscere del cuore, seppellito sotto strati di lividi, soffocato
dagli abusi, ma ora, tutto quello, stava per finire!
Impaziente,
estrasse dalla bisaccia una fiaschetta contenente un liquido pastoso
e vi immerse un capello strappato a Cecilia, attese qualche secondo e
poi ingollò con un sol fiato il nauseabondo decotto. Dopo
aver
trattenuto il primo conato, avvertì subito le carni
trasformarsi,
espandersi e ritirarsi, modellarsi attorno alla propria anima: era
esattamente come le aveva anticipato il vecchio, come si ostinava a
chiamare Salazar Serpeverde, nonostante lui l’avesse
maledetta più
volte. Merope, investita di una gioia furiosa, indossò
l’anello
del padre, – Il vecchio, giorni prima, le aveva
spiegato che il
diamante incastonato non era altro che la Pietra della Resurrezione,
uno dei tre Doni della Morte, ecco
perché appariva
ogni volta che lei indossava il monile. Non che a lei importasse,
comunque. – e
si ritrovò, in men che non si
dica, pronta a portare a termine la prima fase del proprio piano.
— Cosa
stai facendo? Torna indietro! Non erano questi i patti.
— sibilò furioso Salazar, appena apparso
richiamato dalla pietra;
— dovevi
immergere anche il ciondolo! —
Rimase inascoltato.
Merope
raggiunse in fretta la casa di Tom, aggirò un gruppetto di
giovani
intenti a bere assenzio, accomodati sotto un gazebo scarlatto,
ricambiò distrattamente il saluto di due vecchie comari e,
un attimo
prima che la luna apparisse all’orizzonte, si sedette su un
divanetto sotto il pergolato.
— Cecilia,
— Sull’uscio della porta gli occhi scuri di Tom la
trapassarono;
trattenne il fiato, colpita dall’intensità di
quello sguardo fisso
su di sé. — Finalmente sei qui, —
sospirò languido
raggiungendola in un balzo, — mi avevi promesso un ballo e io
obbedisco sempre ai tuoi desideri. — Le sorrise compiacente
prendendole delicatamente la mano. Merope scattò in piedi,
forse con
troppa irruenza, ma il suo cuore galoppava forsennato, senza tregua,
stordendola.
Si
lasciò trascinare avvinghiata a quelle forti braccia e, per
la prima
volta in vita sua, credette di essere amata. — Sei
silenziosa, —
le disse Tom, parlando direttamente in un orecchio; si
limitò ad
arrossire mentre un lieve guaito le sfuggiva dalle labbra ansanti.
Percepiva un fuoco bruciarle la pelle, nel punto in cui le dita del
giovane premevano sulla schiena, ondate di caldo le infiammavano il
corpo facendola boccheggiare in cerca d’aria, si muoveva
goffa,
come se stesse sotto metri d’acqua e non tra le braccia del
suo
amato. Ogni cosa che la circondava si affievolì, perse
consistenza
finché il fulcro di tutta la sua esistenza non divenne la
luminosità
e vitalità che era certa di risvegliare negli occhi di Tom;
un
istante dopo, mentre le labbra piene di Tom sfioravano le sue, perse
anche se stessa.
Riemerse
dalla bambagia quando avvertì il suo braccio sinistro
scuotersi a
causa di uno spasmo doloroso, le dita accartocciarsi e gonfiarsi
simultaneamente. Con forza, si strappò dalle braccia di Tom,
in
fondo alla gola il ristagno del sapore dei loro baci, negli occhi la
promessa che sarebbe stata sua e sua soltanto. Scosse la testa e si
diede della stupida: – lo voglio così
tanto, lo desidero così
intensamente che ho scordato che sto sguazzando nel corpo di
‘quella’! – ringhiò
tra sé. — È ancora giovane la
notte, rimani. — la pregò suadente Tom, ma Merope
borbottò un
rifiuto con voce rasposa, incapace di riorganizzare le emozioni
contrastanti che la stavano assalendo.
Alle
spalle del giovane, la figura sfocata di Salazar sembrava viva. In
un’altra occasione, Merope l’avrebbe anche deriso,
ma ora, nella
frenesia di allontanarsi, le apparve come un vecchio triste, solo, la
copia sputata del padre, mentre si agitava con veemenza scagliandole
addosso un vasto repertorio di ingiurie. –
La
ragazza non poteva sapere che Salazar aveva aggiunto
la
pergamena per rafforzare la maledizione
sull’anello
con l’intenzione di ucciderla, certo che quel rifiuto umano
non
potesse essere in alcun modo una
sua
discendente. –
Tom
riuscì ad afferrarle la mano e le accarezzò le
dita, persuasivo: —
Rimani, — insistette. Merope, protetta dalle ombre,
tentennò
ancora un secondo, assorbendo il calore di quel semplice gesto, poi,
frustrata, conscia che ormai di Cecilia avesse ben poco, si
voltò di
scatto, sfuggendo al suo contatto, rifugiandosi nel bosco; tra le
dita impazienti di Tom rimase intrappolato l’anello di
Salazar
Serpeverde.
Ritornò
ansante da Cecilia e la trovò ancora nella stessa posizione,
la
rivestì velocemente dei suoi abiti non prima di aver fatto
una
scorta abbondante dei suoi capelli, e, con l’aiuto delle
tenebre,
levitò il corpo fino alle porte del paese adagiandola su una
panchina nei pressi del campanile. Passò più
volte una piccola
manciata di sali sotto il naso della ragazza e, una volta che si fu
ripresa, le sussurrò melliflua: — Si vocifera che
Tom abbia un
anello antico e lo darà solo a colei a cui appartiene il suo
cuore:
magari sei proprio tu la prescelta, sei così bella,
— insinuò
sfiorandole lo zigomo; non le lasciò il tempo di replicare,
dileguandosi nella notte.
Al
buio, coricata sul materasso macilento, Merope lasciò la
propria
mente fantasticare sull’agonia che avrebbe colpito
l’odiata
Cecilia nel momento stesso in cui il suo adorato Tom le avesse
infilato l’anello al dito. Infatti, quella stessa mattina,
aveva
lasciato cadere l’anello nel calderone e l’aveva
guardato
affondare nella viscosità della pozione, ideata da Salazar
stesso,
per uccidere tutti i Nati Babbani.
Due
giorni dopo, era pomeriggio inoltrato quando Merope decise che era
arrivato il momento di far visita a Cecilia. Furtiva, aggirò
il muro
cieco della sartoria del villaggio, raggiunse la recinzione che
costeggiava l’orto della canonica e camminò in
mezzo ai filari
d’uva, finché non giunse ai piedi della quercia
secolare, imboccò
lo stretto vicolo acciottolato e si fermò sotto il davanzale
di una
modesta costruzione in mattoni rossi. Scosse con decisione il portone
in ferro e attese impaziente che una donna ormai sfiorita dal tempo
le aprisse.
— Dov’è
la malata? — l’apostrofò senza
preamboli; la donna sbiancò
scuotendo il capo, i lunghi capelli stopposi a incorniciare il viso
stanco. — Non capisco, si sbaglia, non
c’è nessun malato. —
biascicò; intanto, lentamente, arretrava verso una porta
bianca
rimasta socchiusa nella fretta di raggiungere il cancello. —
Io so
che c’è! — insistette, spintonandola di
lato, gli occhi bramosi
inchiodati all’uscio da cui uscivano nitidamente dei brevi
lamenti.
— Dimmi dov’è! — chiese di
nuovo, ormai a un passo dalla
soglia. — La prego si fermi. — supplicò
vergognosa la donna, nel
disperato tentativo di nascondere ciò che si celava dietro i
battenti. In quell’istante la voce tormentata di Cecilia le
raggiunse: — Madre! Madre! Vi prego, fateli tacere.
— Merope, con
un largo sorriso di trionfo, varcò la soglia.
Cecilia
era accartocciata su se stessa, in ginocchio sul letto sfatto, le
mani premute sulle orecchie, scuoteva la testa convulsamente, come a
scacciare dei fastidiosi insetti. La sua pelle, solitamente lucida e
fragrante di giovinezza, appariva spenta e in alcuni punti violacea,
frastagliata, dalle cui crepe fuoriusciva del liquido pastoso e
maleodorante; l’anello
riluceva sinistro, tra le dita contratte e annerite, come un monito
di morte. — La porto via, — disse alla madre della
ragazza
rimasta poco più indietro, rigida e sconfitta, con una mano
premuta
sulla bocca nel vano tentativo di trattenere i singhiozzi.
Cecilia
alzò la testa di scatto, — Sei tu! —
boccheggiò riconoscendo la
voce di Merope; i suoi occhi, neri e vuoti, grondavano ruggine.
—
Che mi hai fatto, strega? Da quel giorno nel bosco non faccio altro
che vomitare e rinsecchire. — Il suo petto
sussultò e un rivolo
rossastro le scivolò lungo il collo. — La porto
via con me, —
ripeté Merope e poi, rivolgendosi a Cecilia, —
Sicura di quello
che affermi? Perché a me sembra che tu sia stata in grado di
camminare, dopo. — La ragazza abbassò il capo
stanca, una nuova
ferita squarciò la coscia chiazzando di rosso vivo un altro
angolo
della vesta gialla che indossava.
— Esca
da casa mia! — intimò la madre di Cecilia.
Cercando di ghermire
Merope, le afferrò il mantello che la copriva strattonandolo
malamente cosicché scivolò ai suoi piedi;
sbigottita, la donna
rimase impalata in mezzo alla stanza a guardare quella figura
emaciata deriderla. — Conosco cose che potrebbero ucciderla
soltanto sfiorandola con i propri occhi, — inventò
lì per lì, —
ma, per grazia sua, Cecilia possiede qualcosa che bramo e che voglio
per me. In cambio, col suo permesso, — barattò
conciliante, —
l’accudirò in un luogo solo a me conosciuto.
Merope
osservò attentamente la lotta interiore ingaggiata dalla
donna
alternarsi in smorfie sul pallido viso: gli occhi le si annebbiarono
dai dubbi che vennero prontamente vaporizzati dal fuoco della
speranza, l’amore materno battagliare deciso e uccidere il
suo poco
buon senso, infine, la vide abbassare il capo sconfitta. —
Perfetto. — Merope cercò di soffocare
l’entusiasmo rilasciando
un lungo respiro, quasi avesse trattenuto il fiato per tutto il
tempo. — All’imbrunire mi muoverò, lei,
a quel punto, dovrà
solo recarsi in paese e far sapere a tutti che sua figlia è
andata
via, magari presso un lontano parente di Londra, sta a lei far in
modo che tutti le credano. — Ritenuto chiuso il discorso si
girò,
tirò fuori dalle tasche un cilindro contenente un infuso
alla
camomilla e lo porse alla malata. Cecilia, seppur incerta lo prese:
un secondo dopo annegò in un sonno agitato; non vide mai
più la
luce del giorno.
Assieme
ai pochi averi che la madre di Cecilia le aveva affidato, Merope mise
nella bisaccia pochi oggetti: il medaglione che tanto piaceva a
Salazar; alcune boccette già pronte di Pozione Polisucco,
– così
l’aveva chiamata il vecchio mentre le spiegava come crearla,
raccomandandole di aggiungere sempre 15 fiori di cannella,
nel momento stesso in cui
l’avrebbe dovuta
bere, per
amplificare il tempo della durata.
– la scorta dei capelli di Cecilia; un paio di gioielli
appartenuti
a sua madre, tutti gli altri li aveva barattati per la bacchetta e
alcuni ingredienti rari, e le istruzioni per come eseguire alcuni
decotti. Non si voltò indietro, quando oltrepassò
l’uscio di
casa, la bacchetta dimentica sul tavolo, non sprecò nemmeno
un
secondo a salutare Cecilia che macerava nei suoi stessi fluidi,
rinsecchita e debole, ormai prossima alla morte, con l’anello
del
padre colpito dal primo raggio del sole nascente.
Quando
era rientrata nella catapecchia, la notte appena trascorsa,
l’aveva
lasciata cadere in terra davanti al camino freddo e si era seduta al
tavolo ancora ingombro dai resti degli ingredienti. —
Guardati,
stupida ragazza, — aveva sibilato sferzante, —
così bella e
ricercata sempre pronta a deridermi. Dimmi, ora, — aveva
chiesto
con scherno. — a chi credi che andranno le attenzioni di Tom?
—
Poi aveva riso, prima con calma, via via, sempre più forte.
Si era
inginocchiata sul lurido pavimento e aveva iniziato ad infierire
contro quel corpo indifeso, colpendo più volte le piaghe
purulente,
facendola urlare, seppur fosse preda di un sonno profondo. Ogni
minimo particolare dell’agonia di Cecilia le si era impresso
nella
mente come un segno di giubilo, come una colomba che si alzava in
volo al rintocco delle ore. I minuti erano passati inclementi e
avevano portato disfacimento e distruzione, esattamente come per lei
i lunghi anni, rinchiusa in quella casa, avevano scavato tetri tunnel
illuminati solo dal dolore.
Raggiunse
il colle vicino appena in tempo per prendere lo strano mezzo che
usavano i Babbani per spostarsi nelle lunghe distanze,
comprò il
biglietto per Londra, come la madre di Cecilia le aveva spiegato, e
si addormentò serena, il volto emaciato irradiato da un
sorriso
predatore. Sognò di nuvole e fumo grigio, di prati in fiore
e il
cinguettio festoso dei cardellini, di baci al fiele rubati e di corti
capelli neri che incorniciavano un viso furioso, le urla stridenti di
un neonato. Si destò di soprassalto sudata e in preda al
panico, con
la fredda sensazione che, quel sogno, fosse un Presagio di Morte.
Le
ci volle un po’ per ricordare dove era e soprattutto dove
stava
andando; tirò un sospiro profondo per farsi coraggio, in
fondo che
ne sapeva lei del mondo al di fuori di casa Gaunt, e chiese
informazioni per raggiungere la casa londinese della madre di Tom che
il padre aveva riaperto per allontanarlo dal villaggio; scese a un
bivio. Immediatamente fu investita dalla caoticità della
città e,
impaurita dalla confusione dei rumori che arrivavano da ogni dove, si
rifugiò dentro un androne, nascondendosi
nell’angolo più buio
finché il suo cuore smise di battere furibondo e il
desiderio di
raggiungere Tom non le morse la carne come un mastino rabbioso.
Scivolò in quella sera uggiosa rasente i muri, trepidante,
con passo
impaziente e la voglia di vederlo che prudeva l’anima,
insistente.
Una volta arrivata a destinazione, rimase parecchi minuti appostata
dietro una recinzione, a fissare il massiccio portone in legno scuro
dietro il quale sapeva esserci Tom.
Ricordava
bene l’accesa discussione avvenuta qualche sera prima a casa
Riddle, dove il padre infuriato obbligava il figlio ad andare a
Londra per evitare di essere vittima di uno scandalo.
— Ma
cosa ti frullava per la testa, — gli aveva detto contrariato,
—
ora suo padre pretenderà un ‘risarcimento’,
se capisci bene a cosa alludo. — L’uomo,
palesemente seccato,
stava camminando avanti e indietro, mani allacciate dietro la
schiena, davanti al giovane figlio, seduto mollemente sul divano
intento a sorseggiare vino. — Non ti preoccupare, —
gli aveva
risposto con sufficienza Tom, — sono in grado di gestire la
situazione. — Noncurante aveva appoggiato il calice sul basso
tavolino a fianco. — Tu non farai proprio niente, —
l’aveva
contraddetto il padre, — ho dato ordini a Golfrin di riaprire
la
casa di tua madre a Londra, — stizzito aveva interrotto sul
nascere
le rimostranze del giovane, — andrai lì
finché le acque non si
saranno calmate: ci penserà McLound alla ragazza.
— aveva concluso
perentorio.
Impaziente,
estrasse la fiaschetta contenente la Polisucco e bevve avidamente una
lunga sorsata, precedentemente arricchita dai fiori di cannella, e
attese che la pozione facesse effetto; attraversò la piazza
antistante la staccionata, girò attorno alla zampillante
fontana in
marmo e, finalmente, colpì il legno del
portone con il
battete in ottone antico: a chi le aprì disse di essere
un’amica
del padrone di casa. La fecero accomodare in una saletta elegante,
tende in pizzo fresco di bucato e seta preziosa ad abbellire le
pareti, un divanetto damascato e il camino spento e vuoto. Tutto
quel lusso la fece sentire inadeguata come un piccolo fiorellino nero
in mezzo a delle statuarie rose bianche; per un folle istante ci
ripensò e, in preda al panico, spalancò la
finestra respirando a
grosse boccate l’aria pesante e caliginosa della notte
londinese.
La
porta alle sue spalle cigolò piano e il giovane Tom Riddle
scivolò
al suo interno, la noia stampata in volto. — Cecilia?
— disse
stupito quando lei si voltò, — Che piacevole
sorpresa. Quando sei…
— Non riuscì a finire la frase perché
Merope gli saltò addosso,
premendo le gelide labbra sulle sue. Si baciarono con passione e la
lingua esperta del giovane violò la sua bocca e la sua
pelle,
insaziabile. Merope, febbricitante, con dita tremule, sciolse il
cravattino del ragazzo: voleva toccarlo, graffiare la sua pelle,
ingorda, sempre più ingorda, bramosa di lui e delle forti
sensazioni
che risvegliava in lei, vergine d’amore e di attenzioni.
Lo
amò lì, contro il muro, l’uscio
spalancato sul brusio degli
invitati, incurante di essere vista e sentita, finalmente paga.
Bruciò in fretta, Merope, come una candela sacrificata alla
luna
morente, il cuore che galoppava incontro all’estasi mentre la
schiena raschiava contro il muro, le gambe schiuse come
un’avida
sgualdrina. Nessun tentennamento, nessun pentimento, solo il vorace
desiderio che la rese audace, provocatoria, spazzando via ogni remora
dall’anima; consumò in fretta e con cupidigia la
lussuria perché,
assetata di lui, non potette aspettare oltre, rendendosi schiava
della sua stessa brama.
— Sei
qui da sola? — la voce composta di Tom la riportò
bruscamente alla
realtà; il ragazzo era di spalle intento a sistemare con
abili gesti
il cravattino specchiandosi sul vetro spalancato della finestra;
Merope sbatté più volte le ciglia cercando di
mettere a fuoco la
stanza. Si scoprì seduta sul pavimento, la schiena
appoggiata al
muro e la testa pesante che ciondolava sul petto. Chiuse gli occhi
per riordinare le idee e le vertigini l’investirono come una
mandria di ippogrifi al galoppo: non ricordava affatto di essere
scivolata in terra. In un gesto distratto, si portò dietro
le spalle
una ciocca di capelli, e rabbrividì ripensando al momento
esatto in
cui aveva perso la ragione; avvertiva ancora su di sé i
residui
d’euforia attraversarle la pelle.
— Sono
sola, — pigolò piano, cercando di camuffare la
voce, — ho il
permesso di stare qui, con te. — Lo guardò con
occhi adoranti. —
Non ti darò fastidio, — si affrettò a
dire, scuotendo il capo
come a confermare quanto detto, quando si accorse che Tom si era
rabbuiato, — permettimi di vivere qui, in questa casa, di
starti
vicino, di esaudire ogni tuo desiderio, — lo
supplicò. — E sia,
— acconsentì il giovane, in fondo era
così arrogante e sicuro di
sé da pensare che sarebbe stato in grado di gestire la
situazione,
lontano dal padre. — Ti farò immediatamente
preparare una camera.
Golfrin! — Chiamò, e un uomo in abito scuro
apparve sull’uscio
e, dopo un attimo di sbigottimento, fece una lieve riverenza verso
Cecilia che nel frattempo si era ricomposta e stava impacciata in
mezzo alla stanza. — Desidera? — chiese con voce
monocorde al
padrone. — La signorina Cecilia si fermerà da noi,
prepara la
stanza blu, — gli disse conciso e sprezzante; poi rivolto
alla
ragazza: — Sali, più tardi verrò da te.
— Merope non ebbe modo
di aggiungere nulla perché Tom uscì subito dalla
stanza, attraversò
l’ampio atrio e si infilò tra due porte spalancate
da dove
fuoriusciva una lieve musica e il brusio dei suoi ospiti. —
Scusate, — disse, — un piccolo contrattempo, nulla
di ché…
Si
abituò presto ai colori accesi della camera, lei che, fino a
quel
momento, aveva vissuto un’esistenza grigia, al materasso
morbido e
la coperta dai mille ricami, all’intimità che le
offriva la
stanza; Londra, invece, non le piacque per nulla. Tom, di giorno,
l’accompagnava per le vie, per i musei, per le chiese e i
negozi;
Merope, in mezzo a tutta quella confusione, si aggrappava al suo
braccio come un naufrago che è certo di aver perso la
battaglia per
la propria vita. Se non avesse saputo con certezza di essere lei,
mascherata dentro il corpo di Cecilia, nulla le sarebbe apparso
diverso da prima! Infatti, come quando lo spiava da dietro le siepi,
doveva dividerlo con altri, doveva
lottare perché un
suo sguardo rimanesse incatenato a lei, doveva
combattere
perché ogni parola e pensiero di Tom le appartenesse.
Ma
c’era un momento durante la notte, quando le campane
suonavano il
loro ultimo canto, prima di cedere al sonno, che era ‘loro’
e ‘loro’ soltanto. Nella piccola
stanza blu, con la brezza
soffocante che smuoveva di poco le tende, il letto a baldacchino col
pizzo sgargiante, Merope ringalluzziva il suo sogno d’amore
concedendosi senza pudore.
— Domani
pomeriggio ti porto a teatro, — le disse una sera mentre si
infilava nudo sotto le lenzuola, — sarà presente
anche Miss
Clotilde Dirne–Ramera,
vorrei fartela conoscere. — Merope singhiozzò
forte e scosse la
testa assentendo, trattenendo l’urlo che le raschiava il
fondo
della gola; avrebbe ceduto a qualsiasi lusinga quando Tom, con la
lingua, la deliziava nella sua intimità. —
Starò via una
settimana, — riprese poco dopo mentre si sdraiava sulla
schiena
sudata, una mano che le accarezzava il ventre,— le ho chiesto
di
ospitarti e ha acconsentito. Ti troverai bene, — concluse
sbrigativo, troppo impegnato per dare altre spiegazioni e lei per
starle a sentire.
— Ragazze,
— la voce acuta e stridente di Clotilde sedò
all’istante la
furiosa lotta intrapresa dalle giovani occupanti la sua casa, che si
contendevano il possesso di un ventaglio verde in piume di struzzo.
—
Suvvia, — strappò decisa l’oggetto della
discordia dalle dita
scure di una ragazzina magra, — chissà cosa
penserà la nostra
nuova amica, — ammiccò verso Merope, —
di tutta questa
confusione. — La donna la prese sotto braccio e la condusse
attraverso scale e corridoi arredati di rosso squillante, quasi
volgare nel suo perpetuo ripetersi, su cui si affacciavano delle
porte in mogano.
Si
fermò al terzo piano dello stabile e spalancò un
uscio
sospingendola con urgenza all’interno della stanza; dal fondo
del
corridoio, con la coda dell’occhio, vide incedere verso di
loro un
uomo canuto che, con gesti bruschi, si lisciava il gilet sulla pancia
prominente. — Ecco qui è dove dormirai,
— le comunicò
sbrigativa, il corpo grasso incastrato tra i battenti, — si
pranza
e si cena in fondo al corridoio che abbiamo appena superato,
—
sventolò la mano ingioiellata nell’aria,
— quando sarà il
momento verrà a chiamarti una delle mie ospiti. —
Sorrise
brevemente, poi, come a ripensarci, aggiunse seria: — Ti
pregherei
di non lasciare questa stanza senza invito, — la
fissò dura, —
per quanto tu abbia un posto privilegiato nella cerchia dei miei
conoscenti, in quanto amica intima di Riddle, potrei risentirmi,
—
concluse vagamente minacciosa.
— Non
si preoccupi, — cercò di tranquillizzarla Merope,
— se è
possibile preferirei mangiare in camera, — propose
speranzosa, la
mente rivolta alla scorta di capelli che si era notevolmente
assottigliata e all’urgenza di trovare un modo per legare Tom
definitivamente a sé. — Ultimamente mi sento poco
bene, non
trattengo i cibi, — rivelò incautamente; Clotilde
aggrottò un
sopracciglio accuratamente disegnato sulla fronte rugosa. —
Come
desideri, — le disse pensierosa guardandole il ventre piatto
messo
in risalto dal vestito pervinca che indossava, — se cambi
idea o ti
serve qualcosa, quello, una volta premuto, farà accorrere un
inserviente. — Indicò un pulsante nero incastrato
nel muro accanto
al letto. — Perfetto, — le rispose greve Merope.
— Non
ho ancora finito, — apostrofò piccata la ragazza,
bloccando la
donna sul posto, nell’atto di varcare la soglia. —
Conosce il
motivo per cui Tom starà via e quando tornerà?
— chiese con
sufficienza guardandola dritta negli occhi porcini. — Le
iridi di
Clotilde lampeggiarono infuocate ma sul volto grassoccio si dipinse
uno stantio sorriso di circostanza, le unghie perfettamente laccate
conficcate nella carne. — Non saprei, — le rispose
annoiata, gli
occhi grandi fintamente ingenui, — io mi limito a procurargli
ciò
che vuole. — Detto ciò, fece un breve inchino e si
dileguò
camminando ciondoloni sulle gambe tozze.
Era
notte fonda quando Merope, annoiata dopo tre giorni chiusi nella
piccola stanza, decise di uscire a camminare lungo il corridoio, le
gambe gonfie e il ventre dilatato, fasciato dagli stretti abiti di
Cecilia. Fuori brillavano due sole candele i cui cerchi di luce
accarezzavano morbidamente i tessuti alle pareti accendendoli di
rosso sangue; parevano respirare. Scivolò silenziosa sul
folto
tappeto che ricopriva il pavimento fino alle scale che si diramavano
verso la soffitta; un attimo prima di inforcare il buio pertugio,
sentì delle voci parlottare concitate sul piccolo ballatoio
al di
fuori delle mura della casa.
— Hai
sentito che Ann si sposa? — disse una voce invidiosa,
— Lord
Bright le ha procurato un marito, un lontano parente sembra,
—
sospirò romantica. — È il minimo che
potesse fare, — sogghignò
l’altra, — ora che aspetta un figlio suo.
— Si lasciò andare a
una risatina sarcastica. — Miss Clotilde non è
affatto contenta, —
riprese la prima, — avrebbe voluto risolvere la cosa a modo
suo, —
rabbrividì vistosamente. — Ann è stata
furba, — le fece eco
l’altra, — ha tenuto nascosto il pancione
finché ha potuto e,
una volta avuto di nuovo tra le grinfie il Lord, ha confessato tutto.
— Scosse la testa con ammirazione. — È
tutta colpa mia! Avrei
dovuto capire, — confessò, — che non era
influenza! — L’amica
le batte comprensiva una mano sulla schiena, — Non faceva
altro che
star piegata in due sulla tinozza giù in lavanderia!
— disse
frustrata, pestando il piede in terra. — Ormai è
fatta! — Cercò
di consolarla, — Clotilde non è stata troppo
cattiva con noi e la
mistura che dobbiamo bere ogni sera, per evitare altri inconvenienti,
non è poi così tremenda, — la
rassicurò. — Mary-Sue dice che
tra un paio di mesi si sarà scordata di tutto e
allora… — Le due
ragazze rientrarono portando con sé l’odore
raffermo della notte e
quello rancido del tabacco scadente continuando a parlare tra loro
sottovoce; non si accorsero di Merope avvolta
nell’oscurità come
in un sudario.
— Quindi
aspetto un bimbo, — sospirò sorpresa mordendosi
nervosa le labbra;
chinò il capo verso il rigonfiamento passando la mano grigia
in una
maldestra carezza. — e se quello che hanno detto quelle due
è
vero, questo figlio farà in modo che Tom mi sposi!
— farfugliò
soddisfatta, già persa in nuovi scenari.
Merope
non sapeva molte cose, praticamente nulla della vita, riconosceva
soltanto il fermento che la sconvolgeva ogni qualvolta Tom entrava
nella sua testa. Era successo per caso, un pomeriggio grigio col
cielo plumbeo in cui piangeva lacrime di sale; si era fermata a
osservare affascinata un ragno tessere la sua tela, appena fuori il
piccolo cimitero con le lapidi in pietra rosicchiate dai licheni Tom,
un bambino tutto sorrisi e capelli neri, l’aveva urtata
mentre
correva con le sue scarpette lucide; un uomo rigido lo seguiva
chiamandolo a gran voce. I suoi occhi si erano sgranati
all’inverosimile accendendosi come le mille stelle che la
volta
celeste donava a chi sapeva guardare, e lei era rimasta impalata, la
ragnatela confusa tra i capelli stopposi, il fiato corto e il cuore
che batteva furioso, le iridi dilatate puntate su Tom. Da allora,
ogni suo pensiero e sospiro era stato pregno di lui e del folle
desiderio che le infiammava l’anima.
Tornata
in stanza, si sdraiò sul letto sfatto, le lenzuola
impigliate nelle
unghie sbeccate dei piedi. Rimase tutta la notte imbambolata a
riflettere sulla nuova situazione: un bambino.
Erano giorni
che avvertiva dei movimenti nel basso ventre, come piccole onde che
le irrigidivano la pelle, dei minuscoli bozzi che le gorgogliavano in
pancia: un bambino. – Quale
potente magia può creare
‘ciò’, –
pensò esterrefatta. – Mio padre non ne ha
mai fatto voce con me. – Si girò su un
fianco, perplessa. –
Non riesco a ‘vedere’ questo bambino, non
riesco a dargli un
volto, non so nemmeno cosa sia un bambino. – Con
gesti lenti
prese a grattarsi il polpaccio con la crosta ruvida del tallone.
–
Però so che lo userò per incatenare la
mia esistenza a quella di
Tom. – Ghignò.
Trascorse
i restanti giorni annichilita dall’ansia, prostrata per il
desiderio sempre più lacerante di rivedere il suo amato,
confusa e
frustrata dai mille e più pensieri che vorticavano
incessanti nella
sua piccola testa.
Pioveva
a dirotto, con tuoni e fulmini che accecavano e stordivano i
viandanti, quando finalmente Golfrin bussò alla sua porta.
— Sono
qui per riaccompagnarla a casa, — le disse ossequioso da
dietro
l’uscio, — l’aspetto di sotto.
— E, silenzioso come era
apparso, scese le scale con in mano il misero bagaglio che la ragazza
gli aveva allungato da uno spiraglio della porta. Merope, euforica e
carica di una nuova energia, finalmente stava per rivedere Tom; si
sentiva potente e sicura di se stessa. Non prese subito la pozione
–
era l’ultimo sorso e voleva conservarlo per dopo –
ma si nascose
sotto un vecchio pastrano da viaggio col cappuccio che le copriva
quasi tutto il volto.
Mentre
attraversava l’atrio della casa di Clotilde, le porte
spalancate
sulla pioggia battente, alcune ragazze parlottavano concitate tra
loro, aspettando che un lacchè, lo stemma disegnato sulla
giacca
elegante le parve quello dei Riddle, depositasse in pile ordinate i
loro poveri averi. — È stato tutto magnifico...
quanti regali...
dei veri gentiluomini... — sospiravano eccitate ridendo come
oche.
— Mie care, — si intromise la voce aspra di
Clotilde, —
bentornate! — Dietro di lei stava Golfrin rigido e impettito.
—
Suvvia, suvvia, non ostruite il passaggio, —
gesticolò con le
braccia paffute, spingendo le ragazze oltre l’uscio a
sinistra
delle scale, un sorriso calcolatore dipinto sulle labbra laccate,
—
avremo modo più tardi di consultarci. — Il
gruppetto, obbediente,
si lasciò trasportare lasciando dietro di sé uno
sgradevole
silenzio, grave quanto una profezia inascoltata.
La
carrozza su cui salì era pregna di profumo di donna,
dell’odore
acre del sudore e quello grezzo del sapone da bucato, una miscela che
le fece rivoltare dal disgusto lo stomaco. Nell’abitacolo, i
suoi
pensieri poterono vagare liberi tra le strade buie di Londra,
insinuandosi in ogni androne che la sua fervida fantasia
riuscì a
raggiungere. Si vedeva ‘signora’ tra le sue
cortigiane, ammirata
e invidiata, con accanto Tom seduto ai suoi piedi, adorante. Si
immaginava camminare lentamente per le vie cittadine, con la gente
che si fermava per riverirla, lei splendida e unica perché
scelta da
Tom sopra tutte le altre. Per l’impazienza di giungere a
casa,
scalciò il pavimento di legno con i piedi nudi, troppo gonfi
per
entrare nelle scarpette di raso, buttando continuamente uno sguardo
nervoso fuori dal finestrino della vettura. Tra le dita stringeva
convulsamente la fiala di Polisucco, unica ancora per non impazzire
dal desiderio: si sentiva bruciare, fin dentro le ossa, di
un’euforia
incontenibile, un’estasi che le inaridiva il respiro.
Il
viaggio fu stranamente lungo e, al contempo, troppo breve. Sapeva
cosa fare, ne era più che certa e desiderosa, ma una strana
reticenza, piovuta insieme al ricordo del padre, le
ingarbugliò la
lingua rendendola insicura, proprio mentre Golfrin apriva lo
sportello. — Signorina Cecilia, — disse pomposo
allungando una
mano guantata di bianco, — il Lord ha espressamente chiesto
che la
conduca nella sua stanza. — Merope sbatté le
ciglia frastornata,
la luce proveniente dal patio per un attimo
l’accecò;
inconsapevolmente, fece scivolare tra le dita la fiala per portare il
braccio a schermare gli occhi dalle iridi di un verde così
sbiadito
da sembrare bianco. Per un momento si ritrasse nell’ombra
sicura
della vettura, sospirò più volte per riprendere
l’autocontrollo,
si aggiustò il pastrano sulla testa e accettò la
mano tesa. —
Preferirei vedere Tom, subito! — imperò notando
l’esitazione
dell’uomo. — Come desidera, — si
limitò a rispondere lui,
accompagnando le parola con un inchino, — per di qua.
La
stanza in cui la condusse era spartana, il poco mobilio era in legno
scuro massiccio e il profumo di Tom era l’unica cosa ricca
che
impregnava l’aria. Fece vagare le dita sopra
l’imponente
scrivania, in un angolo erano perfettamente impilati tre libri
dall’aria funerea, sormontati da un lume in ferro battuto;
due
poltrone dallo schienale rigido voltavano le spalle alla finestra che
dava sul giardino interno della casa; un enorme quadro raffigurante
dei corpi nudi al ‘bagno’
troneggiava alle spalle della
seduta rivestita di velluto rosso a coste; un’alta libreria,
tristemente vuota, completava l’arredo.
Nell’attesa, i suoi occhi
scivolavano di continuo sulle forme toniche dei corpi di giovani
uomini protesi verso quelli più delicati delle donne,
braccia e
gambe intrecciate in una danza perenne, bella e selvaggia come il
paesaggio che la accompagnava; sfumature e colori si accendevano al
passaggio della carezza della fioca luce proveniente dalla finestra.
— Non ti preoccupare, non ci metterò molto mia
cara Denise, torna
pure dai nostri ospiti. — Merope si girò di
scatto, il cuore
martellante nel petto, la gola asciutta. Tom, mano aggrappata al
pomello della porta, si stagliò improvvisamente
sull’uscio, il
corpo completamente rivolto verso una giovanissima ragazza
avvinghiata a lui nell’atto di baciarlo. Merope
digrignò i denti
dalla rabbia.
— Avevo
dato disposizioni diverse, — cominciò a parlare
Tom, gli occhi
accesi di bramosia fissi sulla figura che si allontanava; nemmeno si
scomodò a entrare nella stanza. — considerato che
hai chiesto di
vedermi subito, Cecilia, desidero farti sapere che…
— Merope non
gli lasciò finire la frase e gli si buttò addosso
goffa, il
mantello che impediva i movimenti, cercando la sua bocca. —
Ma! —
esclamò sorpreso Tom, mentre con fermezza le bloccava i
polsi, —
Cosa stai facendo? — le chiese arrabbiato.
Merope
respirò forte, la lingua impastata incollata al palato,
rigida e
allibita davanti all’atteggiamento scostante del giovane; era
confusa: non capiva, non riusciva a comprendere il perché
Tom la
stava guardando con alterigia, mantenendo il vuoto tra loro.
—
Domattina presto tornerai da tua madre, — dalla nebbia
dell’apprensione in cui era sprofondata, quelle semplici
parole,
vergate in aria come fiamme roventi, diradarono la foschia che per un
momento le aveva offuscato il cervello.
— No!
Non puoi! — gridò con tutto il fiato che aveva in
gola, attirando
curiosa, verso la porta, la ragazza di prima, — Ho un
bambino
che cresce dentro di me, — gli disse accorata. Tom
spalancò gli
occhi e per un attimo tentennò, poi, stizzito, le
afferrò il
braccio scuotendola con rabbia. — Non è possibile,
stupida
sgualdrina, — le sputò in faccia, — sono
stato attento. —
Presa in contropiede dalla veemenza delle parole, Merope
scattò
all’indietro, quasi fosse stata colpita da un bolide vacante;
il
pastrano, rimasto incastrato tra le dita nervose del ragazzo, le
scivolò inesorabilmente di dosso rivelando il suo vero
aspetto.
Negli
occhi neri di Tom passò l’inferno, il disgusto
verso di lei gli
dilatò così tanto le pupille da renderlo simile a
una fiera pronta
a sbranare. — Tu sei, — deglutì un paio
di volte per il
ribrezzo, — tu sei l’orrenda creatura che,
— dietro di lui,
Denise tratteneva il fiato con una mano delicata posata sulla piccola
bocca rosa, — che infesta il bosco vicino a Little Hangleton!
—
esclamò visibilmente nauseato, guardando con orrore
l’enorme
rigonfiamento che deformava l’addome scheletrico di Merope.
—
Fuori da casa mia, bestia immonda, — tuonò,
— vattene! — Fece
un passo indietro, travolgendo Denise nella fretta di allontanarsi da
lei. — Golfrin! Golfrin! Chiama le guardie! —
urlò infervorato
sparendo dietro l’angolo.
Per
tutto il tempo Merope rimase immobile, gli occhi slavati enormi come
Pluffe, sgomenta di fronte alla reazione di Tom, una mano aggrappata
al pendaglio di Salazar contenente l’ultimo capello di
Cecilia; ai
piedi, il mantello sembrava la bocca di un pozzo nero rigurgitante.
–
Perché? Perché? –
urlava nella sua testa, – Tom! Tom!
Sono io, non andartene!
– supplicava, accecata
dall’ossessione di avere Tom per sé. Si
guardò intorno
disorientata, non ancora ben cosciente di non avere più le
sembianze
di Cecilia, distrutta e defraudata del suo sogno.
Si
mosse veloce, come un serpente letale, dietro al giovane, dimentica
del ventre gonfio a un passo dallo scoppiare. Fece solo pochi passi,
finì tra le braccia di Golfrin che la strinse in una morsa
ferrea
mentre scalciava e vomitava l’intero repertorio di ingiurie
del
padre. L’uomo, tanto grosso da parere una montagna, la
trascinò
come fosse un fuscello di gramigna, il volto impassibile e una goccia
a solcare la fronte liscia. Attraversarono la casa con le urla
dolorosamente acute di Merope che venivano amplificate dalle porte
sbattute per non vedere e provare pena. Venne fatta uscire sul retro,
come una mendicante, e buttata senza cura tra i rifiuti nel vicolo
buio e puzzolente di piscio animale. Non demorse, Merope,
picchiò i
pugni sul legno fino a sanguinare, versando ogni lacrima possibile,
urlando e spergiurando finché la lingua si
rattrappì in fondo alla
gola.
Si
svegliò il giorno dopo, fradicia dell’acquazzone
notturno, la
testa che scoppiava e il cuore denso d’amarezza.
Vagò per giorni
in balia di se stessa, la visione di Tom che le riempiva la mente, e
l’odio crescente verso il bambino, unico colpevole
ai suoi
occhi. Qualche settimana dopo,
un’anima pietosa la
depositò presso l’orfanotrofio Wool, ormai
sciancata e pronta al
parto; non aveva più con sé il medaglione,
venduto tempo prima per
pochi Galeoni. Durante la notte, Merope, debilitata dal dolore, in
preda alla febbre e con gli occhi spiritati colmi della visione di
Tom, inveì contro il bambino che stava
per nascere, le parole
sferzanti intrise di magia: — Maledico
te!
Perché
sei tu
la causa di tutto! Perché
senza te
sarebbe mio. Cresci solo
e
muori polverizzato dall’odio che tu
stesso hai creato.
Mentre
la gente si apprestava ad accogliere il nuovo anno, Merope
morì
folle con le labbra inumidite dalle maledizioni sputate con ferocia e
l’anima inacidita da un amore vissuto solo nel suo cuore;
nemmeno
si avvide delle urla strazianti del suo bambino.
— Cos’è
tutto questo trambusto? — biascicò Merope, la gola
intorpidita e
il gusto acre delle mele acerbe che le ribolliva nello stomaco.
—
Dove sono? — chiese spaesata alle foglie che le svolazzavano
sulla
testa. Il cielo, sopra di lei, era un turbine incessante di colori
rosso e lilla, di grigi spenti e fiamme di luce che esplodevano in
farfalle luccicanti. Chiuse gli occhi frastornata, la testa che le
pulsava selvaggiamente e le orecchie assordate da un insistente
fischio; deglutì un paio di volte a vuoto, in cerca di
saliva e
risposte. Alla sua sinistra l’erba frusciò e volse
il capo
spaventata, troppo in fretta per evitare che le proprie orbite
diventassero due ombre bianche.
Era
ormai calato il sole quando il suo corpo si destò
sussultando per il
freddo. — Ma cosa? — ruminò infastidita,
rotolandosi nell’erba
umida in cerca di un appiglio per potersi alzare. Fece leva con le
esili braccia, il corpo ancora indolenzito non le fu di aiuto,
aggrappandosi al tronco più vicino finché non fu
eretta, sebbene le
gambe traballassero vistosamente. — Ma cosa è
successo? — si
chiese per l’ennesima volta allungando il collo verso la
vallata
dietro di sé. Nella frescura della notte, che le accarezzava
le
guance accaldate, fremette in attesa di un segno, di qualcosa che le
schiarisse le idee: sentiva nel profondo del cuore come un punto
sospeso che pungeva, che premeva per emergere.
Barcollando,
fece qualche passo verso le luci che pattugliavano
l’orizzonte alla
sua destra, distinguendo, man mano che si avvicinava, l’eco
di voci
allegre. Distratta, forse dalla delicata musica che l’avvolse
una
volta raggiunto lo steccato bianco, che la pallida luna mordeva
dall’alto del cielo, inciampò sui suoi stessi
passi finendo, di
nuovo, distesa a terra. Batté nervosa i palmi sui sassi;
sbuffando
irritata, alzò la sottile polvere che le finì
dritta nel naso: un
forte starnuto le procurò un enorme bitorzolo in piena
fronte.
— Accidenti!
— urlò frustrata, ma poi, improvvisamente,
qualcosa nella sua
testa fece ‘crac’ e tutto
l’universo sembrò
riallinearsi. — Orfin! — ragliò alle
stelle, — Che tu sia
maledetto! — abbaiò in Serpentese,
— Non credere che questo tuo stratagemma mi
impedirà di avvicinare
Tom, — si rialzò in fretta, dirigendosi veloce
verso un boschetto
di betulle, oltre il quale c’era la sua casa. —
stanotte sarà
mio, mio per sempre. — Giunta a destinazione, freneticamente,
incurante delle grosse spine della Is breà-verloren,
acuminate come artigli di drago, del loro sgargiante color vinaccia e
del profumo velenifero, rovistò tra le foglie in cerca del
prezioso
pacchetto nascosto mesi prima.
– Oh
sì, so bene cosa hai fatto, Orfin! –
pensò affaccendata Merope,
fortemente indispettita per la capacità del fratello di
scovare
sempre i suoi nascondigli. Spesso, la vecchia fornaia al villaggio le
donava dei biscotti quando la vedeva girovagare tra la polvere e lei,
gelosa del prezioso tesoro, lo occultava ai suoi famigliari. Ma
risultò non essere mai abbastanza astuta perché
il fratello era
sempre un passo davanti a lei. Pochi giorni prima, dopo aver subito
l’ennesima violenza da parte del padre, perché
Orfin gli aveva
rivelato che voleva andare al ballo organizzato dal Babbano, vicino
di casa, il fratello, non pago e conoscendo il profondo desiderio
nutrito da Merope verso quel giovane, aveva preso le sue dovute
precauzioni avvelenando i biscotti che lei custodiva in una fossa ai
piedi del grande albero all’incrocio tra la loro
proprietà e
quella dei Riddle. Così si era ritrovata quella sera, dopo
aver
mangiato con gusto tutti i suoi biscotti, nuovamente vittima degli
‘intrugli-dispensa-incubi’ del fratello.
Con
un forte sospiro di sollievo, srotolò un cencio
dall’aria consunta
e, con dita tremanti, estrasse una piccola fialetta nera: unico
regalo, da parte di sua madre, che era sfuggito alle grinfie di
Orfin. Lo rigirò tra le dita annerite dalla cenere guardando
in
controluce il liquido pastoso dimenarsi lento nella piccola
costrizione. Sorrise beffarda al pensiero che il fratello, ormai, non
poteva farle più nulla. Infatti, proprio quella mattina
all’alba,
un funzionario del Ministero era venuto ad arrestare entrambi i suoi
carcerieri. Rientrò in casa col cuore più
leggero, la mente rivolta
al ballo e a Tom, che molto presto sarebbe stato suo.
Senza
indugio, si ripulì come meglio poté e si
infilò il miglior abito,
una lunga tonaca pervinca presa tra gli abiti smessi della madre, e
corse a perdifiato verso casa Riddle col petto che pulsava in
sincronia con lo scorrere impetuoso del sangue, la collana con lo
stemma di famiglia, rubata al padre, che le danzava sul petto, e la
fiala stretta in mano. Fu facile mescolarsi agli invitati, muovendosi
ai bordi della rumorosa massa a testa china, scivolando leggera tra
loro come una biscia. Sapeva bene dove trovarlo, al chiosco giallo
con l’edera rampicante, circondato da pochi e tra loro,
sicuramente, Cecilia, la sua rivale.
Era
bello, Tom, da mozzare il fiato con quegli occhi neri penetranti che
le scombussolavano il ventre, bello come poteva essere un sogno
vissuto fino in fondo, bello come i colori vivi che esplodevano in
primavera; scosse la testa, Merope. – È
tempo di agire, –
pensò euforica. – devo essere precisa e
non farmi scappare il
momento giusto. – Voltò le spalle alla
magnifica casa
costeggiando la siepe di lauro finché non si
portò a un passo dal
gruppo, gli occhi febbrilmente fissi su Tom; sullo sfondo gli
invitati ballavano nel giardino sul retro illuminato a giorno.
— Come
sono felice, — cinguettò Cecilia, —
è tutto magnifico, grazie
Tom. — La ragazza si appoggiò appena col busto al
braccio teso del
giovane Riddle. — Lo sai, ogni tuo desiderio è un
ordine, — le
rispose prontamente Tom, mettendole una mano sulla schiena; Cecilia
rise scioccamente sfarfallando gli occhi. — Oh, ecco Golfrin,
—
riprese, andando incontro al cameriere che reggeva un vassoio con dei
bicchieri di cristallo e un cestello contenente una bottiglia scura.
— lascia pure qua, —
l’apostrofò sdegnoso indicando un basso
tavolino in ferro battuto; Golfrin, ossequioso, poggiò il
vassoio,
stappò la bottiglia e si dileguò, non prima di
aver lanciato uno
sguardo bieco nella direzione di Merope.
— Prendete,
uno per uno, amici miei, — disse Tom allungando i calici ai
presenti; sorrise complice quando lo porse a Cecilia. — ho un
annuncio da fare e voglio che voi siate i primi a sentirlo. —
Prese
la bottiglia e cominciò a versare il liquido ambrato; il suo
bicchiere rimase incustodito mentre gli amici gli si serrarono
addosso cicalando allegri. – È il
momento. – pensò
agitata Merope; con cautela, si avvicinò e, fulminea,
versò la metà
del contenuto della fiala nel calice, allontanandosi prontamente un
secondo prima che Tom si girasse.
— Prima
di tutto brindiamo a oggi che mi vede un uomo fortunato circondato da
tutto questo, — alzò il braccio facendo spaziare
lo sguardo per
tutta la sua tenuta, da lato a lato, passando per l’imponente
casa
arroccata al centro del vasto prato, — a me! — e
bevve. Poco
distante, le dita sudate quasi le fecero cadere la fiala, Merope fece
lo stesso. — È fatta! —
ringhiò esultante dalla siepe dietro la
quale si era rifugiata, — Ora non mi resta da vedere se mia
madre
aveva ragione. — si avvicinò di qualche passo
facendosi lambire
dalla luna piena che svettava nel cielo.
— Mia
cara Merope, — sua madre l’aveva chiamata una sera
al suo
capezzale, l’odore di morte che strisciava sibillino lungo i
muri
color pesca della camera nuziale, — ho questa da darti,
— le
aveva sussurrato all’orecchio, sbirciando il marito poco
distante
parlottare con il Medimago, mentre le allungava una scatoletta di
legno scuro. — Conservala. — Poi si era girata e
aveva chiuso gli
occhi, troppo provata per dire altro.
— L’hai
nascosta? — l’aveva apostrofata ansiosamente poco
tempo dopo, —
Brava! — aveva approvato accarezzandole la testa corvina,
— Né
tuo padre né tuo fratello dovranno mai sapere che la
possiedi,
giuralo! — le aveva imposto con sguardo duro, seppur velato
di
un’angosciante tristezza.
— È
una pozione, — aveva ripreso il discorso una notte con la
tempesta
che bussava alla porta e Merope che fissava con gli occhi sgranati i
lampi illuminare il cielo. — è antica, viene
tramandata dalla mia
famiglia da almeno ventisette generazioni: ora è tua. Se mai
ti
potesse servire, fanne buon uso, — aveva sospirato,
stringendo le
palpebre all’insorgere di un nuovo spasmo doloroso.
— Madre,
— Merope, la piccola mano appoggiata al braccio troppo
scheletrico
della donna, la stava scuotendo piano, — a cosa serve?
— aveva
chiesto curiosa, gli occhi accesi e sfavillanti di vita rincorrere i
propri sogni. — Oh! — aveva tossito un paio di
volte, cercando di
trovare dentro di sé la forza per parlare. —
È la pozione Hominem
Imperare.
— le aveva risposto con il fiato corto, — Serve a
‘governare’
chiunque a cui la farai bere, — aveva sospirato pesantemente,
—
un sorso a testa, mi raccomando. — Poi, visibilmente provata,
aveva
chiuso gli occhi. Merope, pensando che il discorso fosse concluso, si
era allontanata distratta dal gatto bigio che faceva le fusa davanti
al camino acceso.
— Devi
essere forte, e volerlo intensamente o la pozione perderà il
suo
effetto. — ma le parole erano rimaste inascoltate, perse tra
le
pieghe del cuscino.
Nel
frattempo, Cecilia guardava Tom con occhi sfavillanti, appoggiata con
grazia al palo che sorreggeva la struttura, facendo ondeggiare
distrattamente il liquido nel proprio bicchiere. — E ora,
amici, vi
annuncio che… — Per un istante gli occhi di Tom si
fecero opachi,
assenti, il suo corpo longilineo vacillò, come sospinto
dalla brezza
marina che risaliva rude lungo la riva. Allarmati, i più
vicini a
lui cercarono di prestargli soccorso ma Tom scosse la testa nera
più
volte; Cecilia si avvicinò sorridendo incoraggiante.
— Dunque
stavo dicendo, — scosse ancora una volta il capo, come se
tentasse
di riordinare le idee, — che sono innamorato, si innamorato,
—
confermò con voce stucchevolmente zuccherosa; Cecilia,
seppur
sorpresa dal tono e dalle parole usate da Tom, lo affiancò
felice. —
di Merope. — Detto ciò, tra lo sbalordimento
generale e lo sguardo
indignato per essere stata presa in giro di Cecilia, quasi corse,
follemente attratto verso la figura al centro del prato che si
stagliava trionfante sotto il giogo della luna.
— È
uno scherzo, — strillò Cecilia. — Ma
è un mostro! — se ne
uscì un tizio con dagli enormi baffi. — Sei
impazzito! — lo
rincorse suo padre, adirato.
— Voglio
lei, voglio lei! — cantilenava Tom abbracciato a Merope,
—
Andiamo? — suggerì, non prima di averla baciata
con passione
davanti a tutti. — Andiamo! — rispose felice,
sfidando chiunque a
contraddirla. Intanto, gli uomini intorno a loro presero a parlottare
tutti insieme, storditi e indecisi su come affrontare
l’assurda
situazione; in un angolo, Cecilia piangeva lacrime di fiele per la
vergogna.
Merope,
approfittando della confusione creata dalla rivelazione del suo Tom,
lo condusse fuori dalla proprietà dei Riddle, strinse forte
il
ciondolo di Salazar, facendo attivare l’incantesimo della
Passaporta castato da suo padre tempi addietro: in uno sbuffo di fumo
sparirono lasciando dietro di sé lo scompiglio.
Nel
cuore in subbuglio della ragazza crebbe la certezza che finalmente
tutto sarebbe andato per il verso giusto, non di certo come le aveva
profetizzato il fratello.
La
Vita oltre le ‘cose’
appartiene al Destino; le ‘cose’
della Vita appartengono soltanto
a noi. – uwetta.
Note
dell’autrice: questa storia
è stata difficile da
scrivere: c’erano molti aspetti da considerare, da far
collimare;
nonostante tutto mi sono affezionata a questa Merope determinata,
così ostinata e ‘preda del proprio
sogno’ da dimenticare tutto
il resto. Spero di non essere uscita troppo dal seminato, almeno nel
mantenere i personaggi dentro il canon, seppur dovessi adeguarmi alle
norme richieste.
Buona
lettura e sono graditi i commenti. Storia corretta seguendo le
indicazione della giudice.
Questa
storia partecipa al contest Raccontami una fiaba – II
edizione
indetto da Freya Crescent _ sul forum con il pacchetto cenerentola:
Merope/Tom sr/Cecilia – voglio una Merope più
crudele, sicura di
sé e calcolatrice mentre pensa a come liberarsi di Cecilia e
conquistare Tom. Stupitemi con la scelta del sortilegio, in fondo non
è stato accertato nel canon l’utilizzo del filtro
d’amore.
Leggenda:
– che Merlino non mi fulmini!
– Salazar Serpeverde
è la fata madrina; così
come sua madre che le regala la pozione.
L’anello
dei Gaunt, ereditato da Salazar, è la scarpetta di
cristallo;
così
come il ciondolo,
sempre di Salazar.
Le
antagoniste di Cenerentola – intese come ostacoli al suo
sogno –
sono il padre, il fratello, che avrà un ruolo importante, e
naturalmente la rivale Cecilia.
Tom
Riddle sr è il principe azzurro,
unico e
indiscusso.
Il
Ballo vero e proprio avviene solo alla fine del racconto;
però la
Pozione Polisucco, a mio avviso, funge benissimo a questo
inconveniente.
Inoltre,
per scrivere la storia, ho tenuto come traccia la frase ‘I
sogni
son desideri’ tratta da una canzone
dell’omonimo film animato
della Disney.
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