harbours&lighthouses
Non
era facile viaggiare di giorno in giorno, per ore e ore nello spazio
aperto. Guidare era stancante, cavalcare l'infinito snervante.
Sapevano
che non sarebbe stato semplice tornare sulla Terra.
Keith
ormai aveva acquistato un'altra tempra: i mesi trascorsi nei Blade of
Marmora lo avevano abituato al silenzio, alla solitudine; i due anni
spesi con sua madre lo avevano avvicinato all'idea della pazienza. La
sola idea di poter viaggiare in compagnia era di per sé
già
abbastanza perché la fatica pesasse di meno meno, ma si
rendeva
conto che per i suoi compagni era diverso.
La
perdita del castello era ancora troppo fresca e L'unica ad aver
affrontato viaggi davvero lunghi a bordo dei loro fidati alleati era
Pidge. Ma, anche per lei, era fondamentale avere l'occasione di
fermarsi, sgranchire le gambe, respirare al di fuori della cabina dei
propri leoni.
Spesso,
Keith aveva notato, i suoi compagni si guardavano intorno un po'
sperduti, confusi, come se si aspettassero di trovarsi di nuovo
davanti quella che era diventata la loro casa per tanto tempo. E
nessuno poteva interpretare quelle occhiate meglio di lui.
Si
erano appena fermati su un pianeta abbastanza ospitale, lontano da
sguardi indiscreti, quando Keith in silenzio si allontanò di
qualche
passo verso uno stretto passaggio tra due alte pareti di quello che
sembrava vetro smussato. Il pianeta era piuttosto freddo: rocce
simili a ghiacciai sembravano ricoprire gran parte della sua
superficie. Come spesso – molto spesso – aveva
fatto nelle ultime
settimene, colse l'ennesima occasione di specchiarsi su quelle pareti
riflettenti e, istintivamente, sfiorò di nuovo il marchio
che era
comparso sulla sua guancia dopo aver salvato Shiro.
Era
strano? Non avrebbe saputo dirlo. Da una parte, era come se un
vecchio amico fosse tornato allo scoperto; in un certo senso, ora
sapeva che era al posto giusto, che quel volto era davvero suo.
Dall'altra... sembrava un'etichetta, come uno slogan:
“guardatemi,
sono metà Galra!” e, anche se aver conosciuto sua
madre, Krolia,
aveva riempito quei vuoti creati dal dubbio (quante volte si era
chiesto se non fosse sbagliato,
se non fosse anche lui, in fondo, come Zarkon, Lotor, Sendak),
continuava adesso a sentirsi in un limbo in cui si sentiva diverso:
da sua madre, da suo padre, da Shiro, dai suoi amici.
Aveva
bisogno di tempo, immaginava.
«Keith?
Tutto ok, amico?» Keith quasi trasalì e, quasi
fosse stato colto in
flagrante, si voltò immediatamente verso chi lo aveva
interpellato.
A pochi passi da lui, all'interno di quel cunicolo ghiacciato, c'era
Lance – il suo autonominato rivale, il suo braccio destro (o
così
ancora credeva, forse sperava). Aveva questa sua peculiare
espressione sul volto, una stramba via di mezzo tra il preoccupato e
il curioso, che sui suoi lineamenti affilati risaltavano persino di
più.
Il
Paladino Rosso accennò un mezzo sorriso, poi si
allontanò dalla
fredda parete rocciosa, quasi a voler lasciare indietro quei
sentimenti contrastanti che lo lenivano da giorni.
«Nessun
problema, controllavo i dintorni».
Con
Lance, era tutto strano da
quando era tornato – più strano di tutto il resto,
il che la
diceva lunga; non erano mai andati particolarmente d'accordo ma per
il breve periodo in cui Keith aveva assunto la guida del team, Lance
si era dimostrato non solo un compagno di squadra affidabile, ma
persino il suo personale supporto nei momenti più critici.
Il
ritorno di Shiro (o, per meglio dire, del clone di
Shiro) li aveva di nuovo allontanati, scombinando quel delicato
equilibrio che avevano raggiunto e adesso—beh, Keith non
aveva idea
di cosa gli passasse per la mente, ma aveva la crescente sensazione
che Lance lo cercasse.
Non era la prima volta che Keith si allontanava per un po' e
puntualmente il Paladino Blu si premurava di vedere dove fosse, cosa
stesse facendo.
«Mh»
gli rispose e, anche in quel momento, Keith vide l'esitazione sul suo
volto. Lance era fortemente espressivo, il che rendeva facile
persino per lui capire cosa l'amico provasse, più o meno.
(In
realtà, Keith aveva il dubbio di essere semplicemente un po'
più
percettivo, nei suoi confronti, rispetto al passato.)
«È che sei
un sacco pensieroso, da quando sei tornato».
Forse,
Keith si disse, senza perdere la calma, avrebbe dovuto aspettarselo:
Lance era così, attento osservatore nel momento del bisogno,
pronto
a tendere la mano a chi gli sembrava in difficoltà. Poteva
sembrare
superficiale e, proprio per questo, in grado di coglierti di sorpresa
all'improvviso quando invece si rivelava non solo premuroso, ma un
vero e proprio sostegno.
E
tanti saluti ai suoi tentativi di non far preoccupare i suoi amici.
Keith
scrollò le spalle, deciso comunque a tacere. «Sono
successe un bel
po' di cose, non è facile digerire tutto».
«Oh,
puoi dirlo forte. A partire da questa tua nuova versione che sembra
uscita dalle copertine di un fumetto». Di fronte
all'espressione
confusa di Keith, Lance continuò: «Andiamo! Torni
da una
sottospecie di viaggio nel tempo...»
«Ho
già detto che il tempo si percepiva in modo
diverso--»
«Sì,
sì, ho capito» lo liquidò bruscamente,
incrociando le braccia sul
petto. «Dicevo, torni grande e grosso insieme a tua madre e a
un
lupo spaziale, e--» e qui si schiarì la voce,
aggrottando le
sopracciglia in quella che forse doveva essere la sua imitazione,
«”Seguitemi!”, mentre ti getti al
salvataggio di Shiro come nei
colossal di azione e non solo! Torni anche con un segno sul volto che
ti fa sembrare uno guerriero pellerossa, non so! Pazzesco».
Keith
esitò, poi si sfiorò di nuovo la guancia.
«È un marchio Galra»
lo corresse con un mezzo sorriso, non potendo fare a meno di pensare
che, raccontato da Lance, tutto sembrava più facile, quasi
entusiasmante. «Anche Krolia li ha sul volto».
(Nonostante tutto,
si sentiva ancora un po' in imbarazzo a chiamarla
“mamma”.)
«Un
marchio, uh?» Improvvisamente, Lance si fece più
vicino, a pochi
centimetri dal suo volto. «E ha un qualche significato? Non
so, tipo
tatuaggio, sai».
«Mia
madre ha detto che rispecchiano il percorso di un individuo»
mormorò
il moro, un po' a disagio sia per la vicinanza che per l'attenzione.
Perché tanto interesse? «ma non ho approfondito,
non mi interessa».
«E
perché no?» Aveva quasi dimenticato, in compenso,
quanto il
Paladino Blu potesse essere inopportuno ed insistente. La sua
curiosità era da paragonare a quella di un felino:
pressante,
imprevedibile e il più delle volte dettata da pura
innocenza.
«...
Perché è solo un marchio» concluse,
prima di superarlo e tornare
verso lo spiazzo in cui erano atterrati con i leoni, consapevole di
non essere per niente bravo a mentire, neanche a se stesso.
***
«Posso
farti una domanda?»
Krolia
doveva aver sentito così tante volte quella frase che Keith
la
avvertì sonoramente sospirare alle sue spalle; il giovane si
ritrovò
a corrucciarsi lievemente, ma tenne la bocca chiusa e lo sguardo
fisso alla vastità dello spazio davanti a sé.
Yorak, il lupo
spaziale, ormai suo compagno inseparabile, dormiva placidamente in un
angolo della cabina.
«Che
cosa vuoi sapere?» Due anni passati assieme e Keith, dopo
aver
esitato i primi giorni, aveva cominciato a chiederle di tutto. Il
tempo era passato così in fretta, con lei, quasi da non
essere
sembrato abbastanza ma, nonostante tutte le storie che gli aveva
raccontato, c'erano ancora delle lacune che non sapeva come colmare.
Non
era semplice essere un ibrido.
«Mi
avevi detto che i marchi hanno un significato».
«Lo
hanno, anche se per ognuno ci sono delle differenze a seconda della
tribù, della discendenza e della
personalità» spiegò la madre,
portandosi al suo fianco e poggiandosi alla poltrona del pilota
–
chiaro segno che la spiegazione poteva essere lunga. «Non
tutti i
Galra li ottengono e per alcuni sono così chiari che li
detengono
alla nascita. Nella nostra famiglia... beh, per i miei genitori, i
miei nonni e anche per me sono sempre comparsi in momenti
particolari».
Keith
strinse con maggior fermezza i comandi di Black, non sapendo bene
cosa aspettarsi. Forse era solo una sensazione, ma avvertiva il
marchio formicolare.
«Che
genere di momenti?»
Con
la coda dell'occhio, vide Krolia sfiorarsi i lati del volto con fare
pensieroso, come se stesse rivivendo i ricordi della comparsa di quei
segni.
«Il
primo l'ho ottenuto quando ero ancora molto giovane. Ho scacciato dei
soldati di Zarkon dal mio villaggio e mia madre disse che era il mio
tidser, il mio
destino». Un sorriso compiaciuto si formò sulle
sue labbra perché
era evidente che avesse combattuto tanto a lungo anche per quel
motivo: Krolia credeva davvero nella lotta agli oppressori, tanto da
averne fatto una vocazione. «Il secondo è spuntato
quando Kolivan
mi ha proposto di unirmi ai Blade of Marmora, che è quello
che mi ha
guidato da tuo padre... e ad avere te. Forse mi ha solo avvertito che
ero sulla strada giusta».
Per
un po', calò il silenzio. Keith aveva capito cosa quei
marchi
potevano significare per sua madre, ma faceva fatica ad associare
qualcosa di così specifico al suo: doveva salvare Shiro, era
quella
la sua vocazione? Lo aveva fatto, più e più
volte, dopotutto. Mai
aveva rinunciato a colui che più a lungo aveva considerato
la sua
unica famiglia e mai lo avrebbe fatto.
«So
cosa ti stai chiedendo, Keith. Il tuo caso è diverso
perché,
beh—non sei completamente Galra. Non pensavo neanche ti
comparissero». Il giovane avvertì la mano calda di
Krolia
sfiorargli la guancia, con un malcelato orgoglio nelle dita che
percorrevano la pelle ora violacea. A detta di Shiro, somigliava
moltissimo a Krolia e per lei, forse, quei marchi ne erano l'ennesima
prova. «Solo tu puoi darti una spiegazione».
Keith
sospirò. «Ho capito» disse, lasciando
che Krolia lo accarezzasse
fin quando ne sentiva il bisogno; lui, dal canto suo, aveva ancora
qualche problema a gestire le effusioni ma fortunatamente neanche sua
madre sembrava molto brava, in questo. Infatti, dopo poco fu lei a
spontaneamente porre fine a quel contatto. Shiro aveva ragione, si
somigliavano davvero molto – forse addirittura troppo.
La
sua mente, intanto, viaggiava altrove.
La
sua parte Galra, fino ad allora sempre dormiente, si era risvegliata
solo quando aveva dovuto combattere Shiro con tutte le sue forze,
affrontando i mostri e le paure che da sempre lo attanagliavano:
essere abbandonato dall'unica persona che gli aveva promesso di non
farlo mai. Forse, si disse, il suo destino lo aveva condotto
lì,
dove il Paladino Nero ne aveva più bisogno.
Si
rispose così, mentre accelerava appena, spingendo i comandi
di Black
in avanti. Si era trovato lì, ad affrontare la persona per
lui più
importante in assoluto per salvarlo e per poi succedergli nel guidare
quel leone.
***
«Ci
fermiamo di nuovo?»
«Coran
dice che questi luoghi hanno le biblioteche più vaste della
galassia». La voce di Allura risuonò chiara
nell'interfono e, se
negli ultimi due anni la memoria di Keith non aveva subito colpi, era
piuttosto sicuro che quello fosse il tono di: “non si
accettano
obiezioni”.
Keith
sospirò. «Va bene, ma se non ci sbrighiamo non
arriveremo neanche
alla Via Lattea nei prossimi cinque anni» mormorò,
tenendo a
sottolineare il suo disappunto.
Virarono,
nella solita formazione a forma di “v” verso una
massa di
satelliti che galleggiavano pigramente attorno ad un pianeta
grigiastro, la cui atmosfera sembrava essere quasi del tutto invasa
da un pulviscolo scuro, il quale rendeva difficile vedere la
superficie. La biblioteca, Coran spiegò, era divisa per
enormi
sezioni proprio sui satelliti, più vivibili del pianeta
attorno cui
gravitavano.
Si
diedero appuntamento per qualche ora dopo, così che tutti
potessero
curiosare all'interno di quell'enorme luogo di conoscenza.
La
struttura dove Keith era entrato sarebbe bastata da sola a contenere
la maggior parte delle più grandi biblioteche terrestri:
erano
strane costruzioni, fatte di lunghi ed infiniti corridoi che si
rincorrevano dietro per tutta la superficie della massa rocciosa,
ricoprendola completamente. Un vero e proprio labirinto fatto di una
sostanza friabile ma resistente, tanto che persino le librerie
che ospitavano i tomi erano fatte dello stesso materiale, facendo
quasi pensare che l'architetto di quel progetto immenso avesse
scavato la superficie stessa del satellite per ricavare la struttura.
L'interno era fiocamente illuminato da alcune luci biancastre, tenute
basse forse per non nuocere troppo alla vista.
Sembrava
assurdo, ma quel luogo non era – almeno apparentemente
–
sorvegliato; Keith si ritrovò ben presto a vagare lungo i
corridoi
di una sezione chiamata “Vita”, un termine alquanto
generico a
suo parere.
Probabilmente,
però, la generalizzazione era necessaria, quando si parlava
dell'intero universo: i libri erano disposti a
seconda delle
galassie, dei sistemi solari ed infine dei pianeti, seguendo un
ordine certosino; descrivevano una ad una le specie che vi si
potevano trovare o raccoglievano informazioni circa usi, costumi e
via discorrendo. Un complicato sistema di traduzione riusciva a
visualizzare in forma olografica il testo nella lingua richiesta da
chi leggeva (persino le lingue terrestri). Seppur inizialmente
irritato da quella pausa non prevista, adesso Keith iniziava a farsi
curioso: quante diverse specie popolavano l'universo? Tante, troppe
perché un singolo essere potesse conoscerle tutte. E Zarkon,
pensò,
aveva pensato di poterle addirittura conquistare.
Sorrise
lievemente a quel pensiero, pensando che ci avevano pensato dei
terrestri – una specie ritenuta inferiore
sia ai Galra che
agli Alteani, sotto molti punti di vista – a mettere un punto
al
suo piano.
Certo,
restava Haggar. Ma insieme avevano fatto molto, moltissimo.
Fu
immerso in questi pensieri che Keith si ritrovò davanti ad
una
sezione particolarmente grande; l'automatica traduzione virtuale
galleggiò pigramente di fronte alla targa che dava inizio
alla
sezione “Galra e tribù discendenti”, che
da sola occupava
probabilmente lo stesso spazio dell'intera biblioteca interna della
Garrison.
Keith
inspirò a fondo e poi, mordendosi il labbro inferiore,
cominciò a
leggere uno per uno i titoli dei numerosi volumi posti sugli
scaffali.
In
millenni di conquiste, sembrava che i Galra avessero cominciato
sempre di più a mischiare il loro sangue con quello dei
popoli che
era andato conquistando: molti dei libri, infatti, parlavano degli
ibridi. Certo, niente parole lusinghiere
né accenni a casi
particolari (come il suo o quello di Lotor) ma riconobbe alcune
illustrazioni di creature descritte del simili al quartetto che
seguiva Lotor con fedeltà altalenante.
Si
spinse ancora più in là, seguendo affascinato i
titoli che si
spingevano oltre gli studi dell'anatomia Galra: “Metodi di
combattimento”, “Mitologia”,
“Zarkon l'Imperatore
dell'Universo: una Biografia Sintetica di 3000 anni” e molto
altro,
finché finalmente non trovò ciò che
catturò davvero la sua
attenzione.
Keith
dovette mettersi sulle punte dei piedi per riuscire ad afferrare un
tomo grande ed impolverato; poteva anche essere più alto, ma
non
aveva di certo la stazza di un Galra. Il titolo del libro brillava di
una scrittura lineare e geometrica che Keith aveva visto numerose
volte ma che mai aveva conosciuto e recitava, secondo il traduttore:
“Marchi Galra, sviluppo e significati”.
Senza
neanche premurarsi di trovare un altro luogo dove sfogliare il libro,
Keith si sedette sul pavimento e cominciò a sfogliare le
pagine una
ad una, notando per la prima volta quanti tipi diversi
di
segni i Galra potessero avere.
Per
lo più si trattava di forme piuttosto nette e non troppo
invadenti;
altre volte, invece, erano più appariscenti e grandi, che
andavano a
ricoprire l'interezza del cranio e magari si intrecciavano lungo il
corpo, come una ramificazione di rami. Trovò i segni di sua
madre,
descritti pressapoco come lei gli aveva raccontato: “Il
marchio di
solito compare quando l'individuo trova la sua vocazione. Si sdoppia
nel caso in cui trovi un mezzo con cui ottenere il suo
compimento”.
Keith sfogliò ancora e ancora, fin quando—non
trovò quello che
cercava.
Accarezzò
l'illustrazione come molteplici volte aveva fatto con la sua pelle,
perché il segno raffigurato era lo stesso: una linea
lievemente
curva che finiva in una punta, “di solito si manifestano ai
lati
del volto, puntando verso il centro di esso”.
Il
Paladino Rosso continuò a leggere, col cuore che batteva
all'impazzata: si era ripromesso, in quei due anni trascorsi con sua
madre, di non dare troppo peso alle sue origini – ora che
sapeva
che Krolia aveva sempre combattuto dalla parte
“giusta” della
guerra, la sua stessa parte, non aveva più motivo di
preoccuparsi
del sangue che scorreva nelle sue vene. Ma al tempo stesso, risultava
difficile da ignorare se decideva di marchiargli il volto, lo stesso
volto che doveva affrontare ogni santo giorno.
“Questi
marchi sono, oltre ad essere piuttosto rari, di tardiva comparsa: non
è inusuale che ne compaia solo uno. Sono chiamati la Via
del
Marinaio.”
Keith
sollevò un sopracciglio, non sapendo come sentirsi pensando
che
persino quel segno sul suo volto fosse inusuale.
Chissà se,
in vita sua, avrebbe mai avuto il piacere di avere qualcosa di
semplice.
Continuò
a leggere.
“Il
primo simbolo si manifesta di fronte al riconoscimento di un luogo o
una presenza sicura nella propria vita. Rappresenta il porto di
partenza del Marinaio. Il secondo, invece, è chiamato Faro e
rappresenta un qualcosa o un qualcuno che fa sì che si
proceda in
avanti, verso la scoperta. Questi segni compaiono di rado proprio
perché sono fortemente legati a forti sentimenti, mentre le
tradizioni Galra scoraggiano i legami troppo stretti tra individui o
luoghi.”
Keith
chiuse il libro con cautela e, altrettanto lentamente, lo ripose.
Non
era difficile immaginare quale fosse il suo porto – Shiro.
Nello
sfiorarsi la guancia destra, ricordò ogni singolo istante di
quello
scontro che lo aveva quasi prosciugato... se aveva combattuto fino
all'ultimo secondo, lo sapeva, era perché a Shiro non
avrebbe mai
potuto rinunciare.
Non
sapeva se avrebbe mai fatto per qualcun altro quello che aveva fatto
per lui.
Ma
un faro? Keith era abbastanza sicuro di avere
già abbastanza
motivi per proseguire nella sua vita: cosa, più della
salvezza
dell'universo, poteva costringerlo ad avanzare, ancora e ancora?
«Keith?»
Una voce lo colse di sorpresa, immerso com'era nei suoi pensieri:
aveva preso a camminare verso l'uscita senza rendersene conto e,
proprio in prossimità di questa, aveva trovato Lance sul suo
cammino. Sembrava alquanto abbattuto, ma fu veloce nel nasconderlo,
stranamente.
«È
quasi ora» si limitò a dire, risultando forse
brusco. Il compagno
non sembrò farci caso.
«Già.
Trovato qualcosa di interessante?»
Keith
scrollò le spalle. «Mi sono solo tolto una
curiosità. Tu hai
fatto?»
«Direi
di sì». Non era da Lance rimanere sul vago; era un
tipo a cui
piaceva parlare e lo faceva per ogni piccolezza, anche per il solo
gusto di interrompere il silenzio. Ma Keith decise di non farsi
troppe domande al riguardo. Erano tutti stanchi, dopotutto.
«Andiamo,
allora».
***
Ormai
non mancava molto al sistema solare.
Si
erano fermati su un pianeta di modeste dimensioni, per permettere a
Pidge di ultimare le modifiche al suo sistema di comunicazioni, in
modo che fosse intercettato solo da suo padre; meglio non mettere in
allarme tutto il pianeta presentandosi a bordo di Leoni alieni per
metà tecnologici e metà magici e lasciare che il
signor Holt si
occupasse di avvertire chi di dovere.
«Questo
viaggio si sta rivelando più lungo del previsto»
osservò Shiro,
sedendosi al fianco di Keith che stava seduto in disparte, con Yorak
al proprio fianco. Allura, Coran e Hunk stavano aiutando Pidge con le
loro conoscenze, mentre Lance si occupava di far sgranchire un po' le
zampe a Kaltenecker, al sicuro in un casco che Pidge le aveva
costruito su misura. Le cabine dei leoni potevano essere grandi, ma
una mucca rimaneva pur sempre una mucca e aveva pur bisogno di
pascolare.
«Spero
che la situazione non si sia complicata, in nostra assenza»
gli
rispose Keith, senza poter fare a meno di sciogliersi in un mezzo
sorriso. Ormai si era abituato al nuovo look di
Shiro e quei
capelli bianchi, si disse, rispecchiavano quanto meno la sua anima
–
ancora pura, persino dopo tutto quello che era successo.
«Non
possiamo saperlo, ancra. Non ci resta che andare avanti» gli
rammentò Shiro e questo non fece che far corrucciare
lievemente
Keith. “Andare avanti”, il Faro.
Il suo amico, mentore e
fratello maggiore non poté fare a meno di notare quel suo
cambiamento di espressione – chi lo conosceva meglio di
Shiro,
dopotutto? «Vuoi parlare di qualcosa, Keith?»
«...
Come?»
«Potrò
essere un po' ammaccato, ma ho la mente lucida. E riconosco il modo
in cui aggrotti le sopracciglia, sei pensieroso».
Keith
inspirò, poi prese a guardare altrove – dove si
trovava Lance, ad
esempio. Sembrava impegnato a convincere Kaltenecker a muoversi,
spingendola da dietro, ma il bovino non voleva saperne.
“E
ha un significato? Non so, tipo un tatuaggio”.
«È
una stupidaggine» mormorò, ma ben presto si
ritrovò a raccontare a
Shiro molte cose che aveva preferito evitargli, fino a quel momento;
si stava ancora riprendendo, dopotutto, i suoi problemi potevano
aspettare un po', si era detto. E invece, si rese conto, certe cose
non cambiavano proprio mai: era assurdo, ma Shiro era davvero il suo
porto, dove potersi ritenere al sicuro:
più parlava, più
sentiva il peso sulle sue spalle che diminuiva, poco a poco.
Gli
raccontò di come quel marchio fosse comparso mentre
combatteva
contro il suo clone, di come sua madre gli avesse spiegato il
significato che poteva avere e di come nella biblioteca avesse letto
ciò a cui venivano associati secondo quegli studiosi.
«Ma
io non sono uno che si lega così tanto alle persone. Come
posso
trovare qualcuno che—mi spinga oltre?» concluse.
«Magari
in modo aspettato, guarda tua madre. Ha dovuto schiantarsi su un
pianeta sconosciuto per arrivare fin qui. È difficile
prevedere che
cosa può riservare il destino» osservò
Shiro, con un sorriso. «Ma
non c'è solo questo, vero?»
Keith
si rese conto di essersi corrucciato quando Shiro accennò
una
risata. «E va bene. Tanto è inutile che tenti di
negarlo, con te»
si arrese.
«Beh,
ci sono voluti più di dieci anni, ma alla fine lo hai
capito».
«Da
quando sono tornato—non so, credo di... essere ancora
più diverso
di prima. Ho paura di...non saprei, come se...»
«Come
se il tuo posto non ti appartenesse più?» Keith
annuì, lentamente.
«Beh, non credo che qualcuno la pensi così. Ci hai
colti di
sorpresa, questo è sicuro, ma... Sei mancato molto a tutti.
Soprattutto a Lance».
Keith
lo fissò, confuso. «Come?»
«Si
è sentito molto solo, in tua assenza. O così
credo io». Shiro
allungò la mano per accarezzare Yorak, che per tutta
risposta sbuffò
appena ma lo lasciò fare. Il lupo aveva avvertito sin
dall'inizio il
legame che c'era tra loro, così nei confronti dell'uomo
rimaneva
docile quanto al fianco di Keith. «Non è stato
semplice, per lui. E
io non ho migliorato le cose, spesso... Credo che con te si trovi
più
a suo agio. Ti ammira, a disdetta delle apparenze e crede in te tanto
quanto ci credo io». Senza volerlo, Keith tornò a
guardare il
soggetto dei loro discorsi: Lance stava dando a Kaltenecker la sua
scorta personale di verdura aliena, adesso, così che potesse
ruminare in tranquillità, testardamente ancora ferma nel
solito
punto.
Keith
aveva visto Lance piangere di fianco a Shiro, schiacciato dal senso
di colpa. Lo aveva visto venirgli incontro non appena era tornato,
carico del suo sarcasmo ma comunque primo nel
dargli il
bentornato.
Con
l'andare dei giorni, poi, Keith aveva avvertito una spaccatura
sensibile prima tra lui e Allura e poi, in un certo senso, tra lui,
Pidge e Hunk. Non era evidente: era una sorta di serpeggiante disagio
che aleggiava nelle loro conversazioni e che il lungo viaggio in
solitaria (ognuno nel proprio leone) non doveva aver aiutato. Fino a
quel momento, però, Keith non ci aveva dato troppo peso
– Lance a
volte sapeva essere pesante, col suo modo di fare, ma sembrava che la
situazione non fosse nata da un banale screzio.
«E
che cosa dovrei fare, secondo te?»
«Ripartire»
rispose semplicemente Shiro, alzandosi, ancora un po' debole sulle
proprie gambe. «Non devi sforzarti di abbracciare tutti, ma
puoi
intanto iniziare da chi ti tende la mano».
***
Ripartire,
aveva detto Shiro.
Con
quella parola in testa, Keith, dopo aver inspirato a fondo, nel
momento in cui aveva proposto una divisione temporanea – si
trattava solo di perlustrare l'area attorno alla Terra, per
assicurarsi che non ci fossero brutte sorprese ad attenderli
–
aveva scelto Lance. Forse gli avrebbe chiesto comunque di
accompagnarlo perché, questo lo ricordava bene, da quando
pilotava
Black il Paladino Blu era stato il primo ad averlo fatto sentire a
proprio agio... ma adesso voleva fare qualcosa di più,
qualcosa che
non fosse strettamente per se stesso.
Stavano
viaggiando fianco a fianco, a velocità moderata. Era
difficile
capire quanto potersi avvicinare, a causa dei numerosi satelliti che
gravitavano attorno alla Terra, quindi avevano deciso di mantenere la
distanza e avvicinarsi il minimo indispensabile per testare il nuovo
sistema di comunicazioni di Pidge.
«Pensi
davvero che potrebbero attaccarci?» chiese Lance, l'ansia
nella voce
percepibile.
«Stavano
per mettere Shiro in isolamento, ricordi? Meglio non
rischiare».
Non
solo; non era neanche detto che Haggar non avesse previsto i loro
spostamenti e che quindi non li avesse seguiti, in chissà
quale
modo, fin laggiù. Meglio essere prudenti, su ogni fronte.
Giunsero
a poca distanza da Marte e lì, consapevoli di non poter
procedere
oltre, si fermarono: dovevano soltanto aspettare che l'aggeggio di
Pidge si collegasse alla rete privilegiata che cercava: era
abbastanza potente da poter raggiungere il loro pianeta da quella
distanza e cercare Sam Holt tra i numerosissimi canali che recepiva.
Da lì, inoltre, la Terra era visibile: il pianeta blu
spiccava
sullo sfondo infinito dello spazio. Se Lance non poté fare a
meno di
lasciarsi sfuggire un verso meravigliato, quasi commosso,
Keith si sentì... combattuto.
Era
il pianeta dove era nato, era vero; ma era anche il pianeta che gli
aveva strappato suo padre e che gli aveva reso la vita un inferno,
prima che Shiro si prendesse cura di lui. E anche dopo che lui era
scomparso durante la missione Kerberos.
«Hai
proprio una brutta faccia, in questo momento». Keith
trasalì e si
trovò di fronte la comunicazione video aperta con Lance, che
lo
fissava come se avesse di fronte un idiota. Sentì il volto
scaldarsi
un po', difficile dire se per l'irritazione o l'imbarazzo.
«Sei
proprio irritante come ti ricordavo» mugugnò il
moro, incrociando
le braccia. Lance per tutta risposta ridacchiò e Keith,
ancora
memore delle parole di Shiro, si chiese se non
dovesse—parlargli.
Provare a dire qualcosa. Voleva diventare un buon leader ma, prima di
questo, anche qualcuno su cui gli altri potessero contare, no? E
quindi sì, su cui anche Lance potesse contare, soprattutto
visto che
era così isolato dagli altri.
«Pensavo fossi cambiato anche
tu, ma a quanto pare mi sbagliavo». A modo suo, certo.
L'espressione
di Lance mutò in un sorriso pensieroso e, quasi
immediatamente, si
lasciò andare allo schienale, forse cercando di
sdrammatizzare.
«Nah,
sei tu quello che ha avuto un'esperienza spazio-temporale, mica io.
Sono il solito».
«Però
chiacchieri di meno».
La
consapevolezza poteva fare magie: il solo sapere che Lance aveva
qualcosa che non andava gli fece notare il modo in cui
adocchiò
preoccupato allo schermo, come se fosse stato scoperto. Se Shiro non
gliene avesse parlato, dubitava fortemente che ci avrebbe fatto caso.
«...
Secondo te, sono strano?»
Era
incredibile. Per qualche assurda ragione, Keith sentì il
proprio
battito cardiaco accelerare – Lance era in grado di creare e
cancellare muri in un attimo. Ricordava come si era presentato da lui
per chiedergli se non fosse meglio farsi da parte dopo il ritorno di
Shiro; da lui, non da nessun altro. Si chiese se
schermaglie
su schermaglie non fossero sempre state un modo come un altro per
avvicinarsi a lui, una sorta di complicata e perversa strategia per
far sì che entrambi avessero almeno una certezza a cui
aggrapparsi:
la loro rivalità, in cui anche Keith aveva finito con
l'essere
coinvolto.
Era
assurdo. Ma essere assurdi era la specialità di Lance.
«Lo
sei sempre stato, senza offesa».
«Ah-ah,
grazie, Keith».
«...
Ma sei meno rumoroso del solito. E non fai l'idiota con
Allura».
Cadde il silenzio e Keith capì che doveva aver centrato,
almeno in
parte, il punto. Lance era un libro aperto, in certe situazioni.
«È
Allura il problema?»
«No,
lei è--». Lo vide mordersi il labbro e
istintivamente Keith
maledisse quel poco contatto che quegli schermi potevano garantire
–
freddo, di certo non adatto a quell'improvviso dialogo serio.
Anche se, c'era da dire, non sapeva neanche se era pronto ad avere
una discussione seria con Lance. «Sono
successe un po' di
cose mentre non c'eri».
«Me
lo avete raccontato».
«Beh,
non—proprio tutto». Lance si portò una
mano sul collo, in
imbarazzo. «Insomma, lei è innamorata di Lotor. E
sì, lo è
ancora, direi piuttosto chiaramente». Doveva aver notato che
Keith
stava aprendo bocca per manifestare il suo dissenso. «Ma non
è
questo il punto. Sono io ad essere... confuso, credo».
«Su
cosa?»
Ma
la conversazione venne interrotta da una miriade di finestre che, con
la faccina sorridente di Pidge, segnalavano un
“SUCCESS!” scritto
in maiuscolo.
«Beh,
missione compiuta». Lance fu velocissimo a cambiare discorso
e il
caso, in un certo senso, giocò a suo favore non una ma ben
due
volte.
Anche
se era difficile definirla fortuna.
Un'ulteriore
schermata si aprì di fronte agli occhi di entrambi,
visualizzando
due oggetti non identificati in avvicinamento; Keith sentì
immediatamente fremere il suo corpo a causa dell'adrenalina, mentre
assottigliava lo sguardo per analizzare la situazione nel minor tempo
possibile.
Terrestri? Le forze di Haggar?
«Lance,
non possiamo tornare indietro. Dobbiamo abbatterli, prima di tornare
dagli altri o rischiamo un agguato».
«Abbatterli?»
Era evidente che, dal tono usato, il suo secondo in comando non fosse
del suo stesso avviso. «Keith, potrebbero essere gente della
Terra!»
«E
se non lo fossero?»
«E
se lo fossero?»
Keith
sbuffò, innervosito. Era tardi per nascondersi –
quelle navicelle,
un po' rudimentali in confronto ai loro leoni, erano ormai nel pieno
del loro campo visivo e si avvicinavano a velocità sostenuta
(ma non
tale da renderli pericolosi) verso di loro.
Prima
che Keith potesse fare qualcosa (ovvero, aprire il fuoco), Lance
stabilì un contatto.
«Ehilà,
gente!» si sentì risuonare e Keith trattenne a
stento
un'imprecazione; aveva dimenticato che, tra loro, era sicuramente
Lance quello a cui più premeva tornare sulla Terra e questo
poteva... oscurare il suo giudizio, in una situazione come quella.
«Identificatevi».
Una voce gracchiò con difficoltà nelle loro
cabine, tradendo la
ecnologia scarsa.
«Wow,
beh, siamo i paladini di Voltron! Terrestri, per giunta, sapete?
Umani proprio come voi!»
Le
parole di Lance non dovettero suonare granché convincenti,
perché
il fuoco fu aperto un attimo dopo, dritto nella loro direzione.
I
due leoni reagirono in un batter d'occhio anche se, nel caso di
Lance, fu piuttosto Red a spostarsi che non il suo pilota a
comandarle di farlo. Entrambi schizzarono verso l'alto e Keith si
portò prontamente di fronte a Lance, in modo tale da
fornirgli uno
scudo e dandogli così il tempo di tornare con i piedi per
terra...
beh, sui comandi, almeno.
«Non
hanno intenzione di parlare, pare» mormorò il
Paladino Rosso,
mentre faceva sì che Black spalancasse le ali. Avrebbe
voluto
evitare di suonare così sarcastico, ma non poteva proprio
farne a
meno.
«Non
possiamo neanche abbatterli!» Keith scrollò le
spalle, ma non gli
rispose direttamente. «Sulla Terra dobbiamo scenderci e non
mi pare
un buon biglietto da visita buttare giù due navicelle, cosa
dici?»
Keith
schioccò la lingua: punto a suo favore. «E che
cosa proponi di
fare?»
Lance
non gli rispose, inizialmente e il moro pensò di averla
avuta vinta,
una volta tanto; quell'idiota sapeva essere più testardo di
Kaltenecker, quando ci si metteva... ma in quell'occasione, si
illuse, non avrebbe fatto di testa sua.
Si
illuse, appunto.
Un
attimo dopo, Red aveva spalancato le fauci, per rivelare Lance che,
dall'interno della sua bocca, sbracciava in segno di resa di fronte
alle navi (ormai quasi certamente di provenienza terrestre) le quali
cessarono il fuoco e, confuse, si fermarono.
«Quel
cretino—Lance!»
tuonò, attraverso la voce di Black. «Torna
immediatamente in postazione!» Inutile dire che fu ignorato.
Keith
quasi ringhiò dalla frustrazione – ma non si
rendeva conto del
pericolo a cui si stava sottoponendo? Non riusciva a capire che
potevano trattarlo come un prigioniero, così come avevano
fatto con
Shiro?
Toccava
a lui risolvere le cose, senza far danni. (Il che era piuttosto
ironico, considerando che aveva dato per scontato che fosse Lance
il suo freno razionale nelle situazioni in cui tendeva ad
agire
senza pensare).
Inspirò
profondamente, poi chiuse gli occhi mentre afferrava i comandi di
Black. La pazienza precedeva la concentrazione, dopotutto: Keith si
spostò lentamente poco sopra Red e poi diede di nuovo il via
all'interfono, per far sì che la sua voce si disperdesse
nello
spazio e giungesse anche ai loro inseguitori.
«Siamo--»
non poteva credere a quello che stava per dire, davvero.
«--venuti
in pace. Siamo al comando di un'unità che si propone di
difendere
l'universo. Abbiamo dei contatti sulla Terra, fateci parlare con
loro». Con Black si portò nelle immediate
vicinanze di Red, in un
tentativo di mostrarsi pronto a tutto, ma non ostile. O così
sperava, non era bravo in quel genere di cose.
Da
parte delle navicelle, seguì un lungo silenzio in cui forse
i piloti
stavano consultandosi con le loro basi sul da farsi; Keith si
augurò
con tutto il cuore che il signor Holt avesse preso contatti non solo
con la Garrison, ma in generale con tutti i centri di ricerca
aerospaziale terrestri.
«Quali
sono le vostre condizioni?» dissero, e fu abbastanza da
permettergli
di distentedere i nervi.
La
domanda lo colse alla sprovvista (perché di certo non si
aspettava
di risolvere la questione così in fretta; era possibile che
fosse
merito anche del canale di comunicazione che avevano appena
installato) e, istintivamente, gettò un'occhiata a Lance che
nel
frattempo aveva aspettato per tutto il tempo ancora fissato per un
cavo alle fauci di Red. Lo vide voltarsi verso Black, sorridergli e
con la mano fargli il segno della vittoria.
Keith
trasse un sospiro di sollievo e, disattivando per un attimo
l'interfono, fece in modo che la sua voce raggiungesse solo il casco
di Lance. «Ora vedi di tornare a bordo, idiota».
***
«Lo
hai detto davvero!» esclamò Lance, luminoso come
di rado lo aveva
visto ultimamente, non appena misero piede a terra (o, per meglio
dire, sul satellite che avevano scelto come “base”
prima di avere
il via libera per la Terra, quella vera). Aveva ancora il casco
addosso, ma il suo sorriso si vedeva persino attraverso la visiera.
«Non
cambiare discors--» provò a rimproverarlo, ma
l'esuberanza di Lance
sembrava essere tornata tutta in un colpo: si tolse in un attimo il
casco, fischiando come... complimento, Keith supponeva.
«Siamo
venuti in pace» ripeté, con un tono
serio che (anche stavolta,
quella di Keith era solo un'ipotesi) avrebbe dovuto fare eco al suo.
«Te ne sei ricordato! È stata una
figata!»
L'episodio
a cui Lance si riferiva era avvenuto molto tempo prima (almeno, per
Keith) quando, poco prima che ritrovassero Shiro, erano seduti tutti
assieme sui divani dell'area comune del castello; Lance, Pidge e Hunk
stavano parlando animatamente dei loro film preferiti e Lance aveva
detto, senza tanti giri di parole: “Quando torneremo sulla
Terra,
dovremmo dire una cosa tipo 'siamo venuti in pace',
no?
Dobbiamo farlo assolutamente!”. E sì, in quella
situazione di
assoluta tensione, la mente di Keith era tornata a quella serata
passata in tranquillità e alle parole, su cui all'epoca
aveva riso,
di Lance.
«È
stata una follia» lo corresse immediatamente Keith, prima di
prenderlo per l'orecchio e tirarglielo un po'.
«Ahi,
ahi, ahi--»
«Ti
rendi conto che avrebbero potuto catturarti, o peggio?»
«Beh,
ma c'eri tu, lì». Keith si bloccò e lo
lasciò andare quasi
immediatamente, colto del tutto in contropiede. Sbatté le
palpebre,
confuso: sapeva che Lance si fidava di lui, ma fino a quel punto?
Lance si massaggiò l'orecchio, un po' teso ed
evitò accuratamente
di guardarlo negli occhi, mentre si spiegava. «Dovevamo
mostrarci
aperti al dialogo ma anche decisi, no? Io sono quello amichevole e
che parla un sacco dopotutto, ho pensato potesse funzionare! Ma tu...
beh». Accennò un sorriso così spontaneo
che probabilmente Keith
arrossì. E benedì di avere ancora il casco
addosso. «Tu sei stato
un vero leader, capellone. Hai fatto la scelta giusta, anche se non
sapevi a cosa stavo pensando».
Keith
fece a malapena in tempo a togliersi maldestramente il casco
(qualunque cosa, pur di evitare di rispondergli subito... non era
abituato a certe dimostrazioni di fiducia e non se la cavava troppo
bene con i complimenti), quando le braccia di Lance lo raggiunsero e
si ritrovò ad essere—abbracciato.
Sì, le braccia di Lance
lo stavano stringendo, in un gesto che tradiva più
impazienza di
quanta Keith potesse aspettarsi.
«Sono...
contento che tu sia tornato» fu poco più che un
sussurro, ma bastò
ed avanzò per confondere Keith ancora di più.
Era
pietrificato.
Durò
un attimo, perché poi il Paladino Blu si fece immediatamente
indietro e, schiarendosi la voce, si guardò intorno per
accertarsi
che gli altri non fossero nelle vicinanze. Keith ne capì
subito il
motivo, non sarebbe stato molto semplice da spiegare, per nessuno dei
due.
«Beh,
non—c'è bisogno di dirlo, questo»
mugugnò e passò un po', prima
che tornasse a guardarlo, seppur di sottecchi. Un attimo dopo,
però,
l'imbarazzo scomparve: dopo aver aggrottato le sopracciglia, Lance
fece un passò avanti e, con un'espressione confusa, gli
punzecchiò
la guancia sinistra. Gliela tirò, addirittura.
«Che
c'è ora?!» riuscì finalmente a dire
Keith, che iniziava a pensare
che il ragazzo fosse completamente ammattito. Per caso era andato in
carenza di ossigeno, quando era uscito da Red e non se n'era accorto?
«...
hai un altro segno. Sulla guancia, intendo».
Keith
sbatté le palpebre, perplesso e un attimo dopo si
sincerò di quanto
Lance stesse dicendo specchiandosi nella visiera del casco e
sì, il
castano aveva ragione: c'era un altro marchio, adesso, gemello di
quello che già aveva, sulla parte sinistra del suo volto.
Le
parole del libro che aveva sfogliato nella biblioteca risuonarono
immediatamente nella sua mente: “... il secondo,
invece, è
chiamato Faro e rappresenta un qualcosa o un qualcuno che fa
sì che
si proceda avanti, verso la scoperta.”
Sollevò
lo sguardo verso Lance, incapace di dire nulla: il suo... Faro?
Possibile che... ? Intanto il compagno lo stava guardando confuso,
come se non sapesse che cosa aspettarsi.
«Keith?
Stai bene?»
Il
Paladino Rosso scosse la testa, poi sospirò – non
era il momento
di pensarci: dovevano aggiornare gli altri su quanto era successo e
raccontare loro quanto Lance fosse stato stupido. Gli dette una
leggera spinta per invogliarlo a camminare, a cui il ragazzo rispose
lamentandosi ancora.
«Invece
di preoccuparti per me, preoccupati per te: ti aspetta una bella
strigliata da parte di Shiro, poco ma sicuro». Lo disse con
un
sorriso di cui non era pienamente consapevole, mentre pensava che se
davvero Lance era il suo Faro... beh, almeno poteva contare su
qualcuno che credeva in lui e che rendeva la sua vita movimentata.
Sin troppo.
Il cuore,
però, gli batteva più veloce del normale: non
vedeva l'ora di scoprire dove un simile Faro avrebbe potuto condurlo.
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