Cold Symphony
Note
di introduzione.
Ciao a tutti. Eccoci qui, al secondo capitolo. Io sono basita
perchè non credevo sarei mai riuscita a finirlo e
perchè allo stesso tempo questo capitolo mi ha prosciugato.
Spero la lettura possa essere piacevole nonostante tutto, lo spero con
il cuore il mano. Volevo solo dire che io ho un profondo e totale
rispetto per questi personaggi, in particolar modo per Loki, e che ho
provato con tutte le mie forze a non snaturarli e a dar loro onore e
giustizia. Purtroppo credo di aver miseramente fallito e di questo mi
dispiace, mi dispiace molto. Li lascio a voi, con la speranza che
questa storia vi possa piacere nonostante i suoi innumerevoli difetti.
Un grazie a chi leggerà.
Un immenso grazie e abbraccio a Jill Shitsuji, Victoria Buchanan, Mari
Lace e Miryel, per ascoltare i miei deliri quotidiani e sopportarmi,
supportarmi. Siete delle meraviglie.
Grazie ad un mio amico che ormai è lontano.
And... there is no Loki
without Thor
-Tom Hiddleston
If I told you what I was,
Would you turn your back
on me?
And If I seem dangerous,
Would you be scared?
I get the feeling just
because,
Everything I touch isn't
dark enough
If this problem lies in
me
Monster, Imagine Dragons
Esistono delle realtà, verità sottili e
sussurrate alle orecchie degli uomini, capaci di spezzare la vita con
dolcezza, lentamente.
Con amore.
Si narrano piano, per non turbare l’innocenza degli infanti,
e si rivelano con un sorriso, per rendere dolce anche la morte.
Lui, a raccontare storie, non era mai stato bravo, come non era mai
stato abile a capire quando qualcosa iniziava e quando finiva, dove
trovare i limiti dei punti e dei silenzi.
Una parola avrebbe potuto riassumere la crepa della sua vita, il nodo
sciolto che aveva fatto cadere le linee di un gioco secolare.
Ghiaccio.
Ghiaccio tra le sue mani e nel suo cuore.
Spine di acqua solidificata in grado di viaggiare nelle sue vene e di
tagliare i suoi nervi.
Il gelo era semplice nella sua crudeltà, era un fenomeno
naturale efficiente a spaccare i vasi capillari di un essere vivente e
a lasciare segni evidenti del suo passaggio, come macchie blu e viola,
larghe e disomogenee.
Segni premonitori di morte.
Arterie ristrette, alta pressione e sangue viscoso erano un
deterioramento, uno sfaldarsi un pezzo di pelle alla volta.
Non era necessario studiare i suoi effetti e i suoi traumi
consequenziali su un volume medico o su un’enciclopedia
tecnica, non ad Asgard, perché bastava cercare un banale
libro di favole antiche da cantare e narrare ai bambini.
Lo sapevano tutti i padri e le madri, lo avevano imparato da piccoli
grazie ai loro genitori, e conoscevano l’importanza di
raccontare ai loro figli, come favola della buonanotte, la cattiveria e
la mostruosità dei Giganti di Ghiaccio.
I mostri crudeli che rapiscono i neonati, li mangiano, gli abomini
della natura capaci di massacrare intere specie, i mostri rei di aver
tentato di vincere contro il nobile popolo asgardiano.
I Giganti di Ghiaccio non erano anime buone e nessuno poteva illudersi
del contrario, nessuno avrebbe mai contradetto le favole lette dalla
propria amorevole madre, a voce bassa e con passione.
A letto, al caldo, sotto le coperte, al sicuro, ad ascoltare gli
orribili crimini di una stirpe maledetta, fredda e senza cuore.
Lui lo sapeva meglio di chiunque altro.
Da uccidere tutti, una carneficina e un orrore di urla, pianti e
preghiere. Un’intera specie da estirpare, sangue eterno tra i
palmi e i capelli, negli occhi e sui vestiti.
Morte ai Giganti di
Ghiacci, stirpe corrotta, e lunga vita ad Asgard.
E vissero tutti felici e
contenti.
Loki sollevò le palpebre e si costrinse a non mostrare alcun
segno di debolezza, a non distruggere la stanza e a non fare altro se
non osservare l’immagine che lo specchio gli restituiva,
respirando piano e mantenendo un atteggiamento algido e distaccato.
Il suo viso era diviso.
Non in una perfetta metà, non in maniera simmetrica. Era
piuttosto una maschera di cui si erano persi dei pezzi.
Nessuna illusione, nessuna finzione: lui era davvero così
orribile.
Il lato destro era il volto di sempre, l’aspetto che aveva
scelto di continuare ad indossare, la pelle bianca e i tratti di un
nobile asgardiano.
Una piccola bugia, un inganno a cui anche lui aveva voluto soccombere,
spinto dall’abitudine e da un mai irrisolto desiderio di
appartenenza.
Il lato sinistro, invece, era ciò che aveva celato al mondo
e ai suoi ricordi, ai suoi incubi notturni.
Il Gigante di Ghiaccio, il neonato piangente in un Tempio.
Poche volte, -mai-,
si era osservato allo specchio con il suo reale aspetto.
Aveva preferito rinnegare, celare l’abominio non rivelato,
non detto spontaneamente.
La sua guancia sinistra era blu e attraversata da delle linee bianche,
l’occhio sinistro era rosso e gli conferiva un’aria
spaventosa, obbrobriosa.
Un mostro.
“Dovrebbe alzare il mento e dirmi-“
“Deve subito andarsene da questa stanza o giuro di ucciderla,
non importa come. Dovessi impiegarci cento anni, lo farò
comunque.”
Distolse l’attenzione dallo specchio posto dinanzi a
sé e riservò il suo disgusto
all’ingombrante figura del Guaritore che si trovava in piedi,
vicino alla sua sedia.
Era stato convocato personalmente dal Re ed era accorso in piena notte
nella grande stanza dorata, in maniera efficiente e servile, quasi
stucchevole.
Aveva domandato, con un inchino, come poteva servire il suo
Signore, come poteva aiutare.
Vecchio, grasso, tedioso come una vipera in seno: l’immagine
perfetta di un cortigiano, pronto a tutto pur di scalare i ripidi
gradini delle classi sociali.
Aveva reso un supplizio le ore successive, con i suoi quesiti e il suo
annuire e il pensare e ripensare, indovinare, il suo credere di sapere
e poi no, ogni cosa da riconsiderare.
Perché forse era meglio fare così, forse era
meglio non muoversi, forse era meglio sforzarsi, forse, forse, forse.
Forse era meglio rimanere morto.
Tante parole vomitate e nessuna spiegazione, tante supposizioni
fantasiose e nessuna certezza a cui rifarsi.
Ora era quasi mezzogiorno e la lunga tortura non pareva voler giungere
al termine, proseguiva senza interruzioni sotto l’attento
sguardo di Thor.
“Vorrei solo accertarmi dello stato della sua salute,
Signore. È importante.”
Loki strinse con forza le mani intorno al bordo del legno e gli
indirizzò un’altra occhiata velenosa, una smorfia
di rabbia esasperata dal suo nuovo volto.
Un piccolo effetto
collaterale.
“Riprenderà a camminare prestissimo,
basterà solo esercitarsi” continuò,
stoico, quell’omuncolo insignificante, futuro pasto di
formiche e insetti sporchi.
Bile di esasperazione grattò la sua gola e un fastidioso
senso di impotenza artigliò le sue costole fino a sfondarle.
“Lei desidera ardentemente essere trucidato. Un Guaritore
masochista non l’avevo mai incontrato, di solito sono
sadici.”
Delle mani posate pesantemente sulle sue spalle lo bloccarono, lo
fecero così velocemente da non lasciargli neppure il tempo
di iniziare a pensare a tutti i modi in cui poter torturare quel
patetico medico.
Adesso ti ricordi di
intervenire? Mi onori troppo.
Suo fratello doveva essersi allontanato dalla finestra su cui ore prima
si era appoggiato, la schiena curva e le braccia conserte ad osservare
in silenzio quel teatrino grottesco, e ora aveva deciso di trattenerlo
dal compiere un omicidio.
Sempre molto premuroso, con
gli altri.
“La ringraziamo per i suoi servigi. Mio fratello adesso
è stanco, ha bisogno di riposare.”
Lui tentò di sgusciare via e Thor strinse più
forte le sue spalle, schiarendosi la voce con un colpo di tosse.
Sempre molto gentile, con
gli altri.
Un insistente pungere di lame gli colpì la nuca, a
tradimento, e consumò la sua scarsa pazienza e diplomazia.
Cosa credi? Pensi io sia
diverso, che la morte mi abbia cambiato?
“Non parlare per me” sibilò, lentamente.
Parlare con me
è più difficile. Giusto?
Chiedere a me, guardare
me.
Per te è
troppo difficile.
“Le siamo infinitamente grati” proseguì
suo fratello, sordo alle sue parole, e allentando piano la presa vicino
al suo collo.
Sordo anche ai suoi pensieri, cieco dinanzi a qualsiasi
verità, così avvolto nel suo vestito di fede e
ideali, -buoni, giusti, magnifici e splendenti-, da non immaginare
quanto male potesse infliggere con la sua caritatevole compassione.
Sempre molto, molto
stupido.
Dovrei provare
gratitudine? È il tuo prezzo?
Riprenditi i tuoi grandi
propositi e cuciti un mantello con cui strozzarti. Ti dispiace,
fratello?
“Andatevene entrambi. Adesso.”
Loki non si mosse dalla sua scomoda sedia e nel riflesso dello specchio
vide Thor annuire, sorridere al Guaritore e poi, con un semplice cenno,
congedarlo dalle stanze reali.
Il tratto nobile e regale di ordinare con semplici movimenti, in
silenzio, era qualcosa che non gli era mai appartenuto.
Aveva sempre dovuto urlare per farsi notare, fare rumore per essere
ascoltato.
Dopo un’intera vita di bugie stese e confuse nel silenzio,
nelle omissioni quotidiane, aveva capito di aver bisogno di urla e
chiasso, di qualcosa capace di riempire la sua esistenza crollata a
pezzi quando gli anni del passato si erano rivelati per quello che
erano.
Semplice, stupida, normalissima polvere.
Quindi, adesso basta.
Che fuggissero da lui, corressero lontani, sparissero in mille
coriandoli di cenere.
Voleva riflettere da solo.
Era stanco, esausto di condividere la sua aria con altre persone, che
se ne andassero via tutti, basta, -per grazia e carità,
basta-, lui aveva tollerato la presenza altrui per troppo tempo, troppe
ore di niente.
Solo, aveva bisogno di rimanere da solo e del buio, non di quel cielo
tanto azzurro.
Odiava le ore del mattino, le ore di Sole, odiava l’oro
luminoso intorno a loro.
Odiava ogni cosa capace di ricordargli il passato.
Dovrei provare amore?
Dovrei davvero, Thor?
Eppure credevo di essere
io, tra noi due, l’illuso.
Con le dita si toccò la gola e si massaggiò il
collo, seguendo lentamente il percorso delle ossa fino al mento, e da
lì proseguì a sfiorarsi le labbra, distratto.
Le tende erano state tirate e la luce filtrava appesantita dalla
polvere del vetro delle finestre, illuminava la camera con pozze di
chiari raggi sul pavimento e con una striscia stesa lungo il muro
frontale al letto.
Durante la notte appena trascorsa non aveva notato gli affreschi sulle
pareti, le immagini di fiori e piante rigogliose, di alti alberi con le
foglie dorate e i nomi dei soldati scritti su ognuna di esse con
inchiostro rosso e sbavature di nero.
Tutta la stanza era istoriata, le figure dipinte parevano rincorrersi,
le une vicino alle altre, ammassate in quadrati e cerchi aperti, in un
grande ovale intrecciato alle linee spesse e doppie, bordate con nuove
decorazioni floreali.
Un racconto di morti splendenti e sacrifici eroici, una storia a cui
non aveva potuto prestare attenzione perché, fino a poche
ore prima, il nero della notte appena trascorsa, come una cappa
asfissiante, l’aveva coperta fino agli angoli.
Ma ora il Sole era alto nel cielo e, per un momento, questo pensiero
indurì i suoi lineamenti, rendendo inguardabile il lato
sinistro del suo viso, mentre una strana nostalgia gli fece socchiudere
gli occhi.
Si accorse tardi che il grande Re non si era allontanato dallo
schienale della sua sedia, anche se il vecchio incapace e viscido
aveva già imboccato la strada verso l’immensa
porta di legno scuro.
Sì.
Suo fratello era capace di essere molto, molto stupido.
Uno stupido sentimentale.
“Anche tu devi andare via.”
Stese le braccia sul tavolo, tormentandosi i palmi delle mani.
“Loki-“
“Vattene.”
Spostò indietro la sedia e si voltò verso il
letto, considerando come poterlo raggiungere senza dover strisciare su
mattonelle e tappeti.
Non voleva nessuno, voleva essere
solo.
Il suo corpo si ribellava e il suo animo era assediato da sensazioni
ambigue, da pensieri folli e idee che solo la mente di un povero pazzo
poteva concepire e mormorare in punto di morte.
E lui?
Quanto tempo lui aveva dormito tra quelle coltri, in bilico tra la
morte e la vita? Da quanto tempo lui esisteva?
Quando si esisteva?
Portò una mano al colletto dell’abito e ci
giocherellò, gli occhi chiusi e il respiro affannato.
C’era rabbia nelle sue vene, serpeggiava lenta mangiando se
stessa, piena di risentimento e disperazione, bianca e limpida, quasi
fosse lo stesso rancore di anni prima.
Lui si sentiva perso, di nuovo.
“Vuoi sederti sul letto?”
“Cosa devo fare per farti lasciare questa stanza? Cosa devo
fare di più?”
Lo guardò e nel sorridere vide se stesso da fuori, si vide
chiaramente, con le linee bianche ingrossate sulla guancia sinistra e
l’occhio quasi senza pupilla.
Il mostro delle favole.
“Devo ripetertelo ancora? Pregarlo o scongiurarlo? Se urlassi
e chiamassi le guardie loro accorerebbero oppure hanno ricevuto
l’ordine di obbedire solo a te?”
Si alzò, a fatica, e si aggrappò al mobile
più vicino trattenendo un sospiro tra i denti, la lingua
contro il palato in uno schiocco secco.
“Vattene, Thor. Vattene via.”
Lasciami riposare in
pace, in eterno.
Lasciami rinchiuso in
questa torre d’avorio.
“Ti comporti sempre come un bambino capriccioso.”
Non poteva inciampare e non doveva cadere, non adesso.
Loki sollevò lo sguardo da terra e tese le labbra in un
sorriso più aperto, più brutto.
Una smorfia di compiacimento, il ghigno di chi ha sempre avuto
l’ultima parola in ogni litigio, perché capace di
pronunciare frasi crudelmente precise.
Tra le poche cose in cui si era sempre dimostrato eccelso, ma che
grande onore, c’era l’arte della parola e la
certezza di saper fare del male in ogni scontro verbale, di poter
vincere con un solo e letale affondo.
Durante le gare, le giostre e le battaglie del passato aveva potuto
dimenticare pugnali o altre armi ma mai, sarebbe stato impossibile,
aveva perso il cuore freddo e assassino.
Qualsiasi cosa pur di fare del male e di farsi del male,
perché nel suo masochismo glorioso era sempre stato
maniacale.
Un’incomprensibile malessere gli graffiò la gola e
lui sbatté le palpebre e strinse la cassettiera su cui si
era posato prima, non cedendo di un passo.
“E tu rimani uno zotico anche se indossi gli abiti di un
Re”, disse, e non cadde in ginocchio nonostante il dolore
alle ossa.
E non cadde in ginocchio nonostante la sensazione, pura e magnifica,
della punta della lama scivolata a fondo tra le vertebre.
Non cadde in ginocchio, non si gettò implorante ai suoi
piedi, anche se lo tormentava l’assurdo desiderio di
chiedergli scusa, -scusa,
mi dispiace, perdono-,
perché era arrabbiato e voleva fare del male e lo faceva
sempre a lui.
Prima o poi te ne
andrai, dovrai andartene. C’è un limite al male
che si può fare sempre alla stessa persona e noi lo abbiamo
superato da molto tempo.
Ma lui non piegò le ginocchia e non fece altro, se non
ridere a denti stretti.
“È appagante essere Re? Perché mi
sembra tu sia distrutto. Oserei dire infelice.”
Thor lo raggiunse in due falcate e gli strinse le guance con il pollice
e l’indice, alzandogli il viso.
Allora lui rise ancora, piegando la bocca in una smorfia di finto
rispetto e stupore.
Suo fratello gli fece male ma non si lamentò, non
uscì un sospiro da lui, neppure quando un bruciore
insistente gli pizzicò tutta la base della schiena e lo
costrinse a rafforzare ancora di più la presa della mano
sulla cassettiera.
“Noto che anche le tue rudi maniere da contadino sono rimaste
le stesse, Thor.”
Respirò rumorosamente e digrignò i denti, con il
volto imprigionato dalle sue dita calde e ricoperte di cicatrici.
E nel tuo sguardo cosa
c’è? Cosa c’è ancora, cosa
vuoi?
“Non mi sembra vero che tu sia qui. Ho paura sia un altro
sogno.”
Thor aveva parlato a voce bassa senza lasciarlo andare, gli occhi
attenti a scrutarlo. Allora Loki strinse a pugno il palmo
dell’altra mano e batté le nocche contro il suo
petto, nel tentativo di allontanarlo.
Vattene, vattene.
“Per questo mi tocchi così tanto, Thor? Non
è abbastanza?”
Sparisci.
“Sei reale. Non mi sembra ancora possibile.”
Ma suo fratello ancora non lo ascoltava e continuava a parlare
lentamente, rivolgendosi solo a se stesso in un mormorio sottile.
Colpì un’altra volta il suo sterno protetto dal
completo rosso e poi si fermò, come se avesse inflitto quei
colpi a se stesso e i suoi polmoni si fossero raggomitolati e
accartocciati tra le sbarre delle costole.
Non si impara mai a cadere.
Il palmo della mano con cui lo aveva colpito era diventato blu e ora la
pelle bianca cercava di riaffiorare.
Lui non imparava mai.
“Cosa ti aspettavi? Cosa credevi di ottenere con questo?
È una follia peggiore della mia”, lo
accusò, mostrandogli il braccio.
Non ottenne risposta e dunque, adirato, gli afferrò il polso
cercando di liberarsi le guance. Non serrò le palpebre e
continuò a fissarlo, ancora in piedi e accasciato contro il
mobile e il muro, senza cadere al suo cospetto.
Thor non perdeva la presa sul suo viso, lo stringeva come se volesse
lasciargli dei lividi e l’impronta delle dita.
Cosa
c’è nel tuo sguardo affranto adesso? Delusione?
“Loki, vorrei solo aiutarti.”
Speranza?
“Ma io non ho bisogno di te”, gli
sussurrò in risposta, contro la pelle del palmo e contro le
vene scure.
Lasciò la sua mano e lo osservò, per godersi il
colore nero delle sue pupille restringersi sempre di più e
il chiaro azzurro dei suoi occhi spegnersi nello stesso modo in cui lo
fanno le giovani stelle morenti.
Il suo cuore non perse un battito, continuò imperterrito.
Lui non provò nulla.
“Sai sempre dove fa male. Lo sai con una precisione
spaventosa.”
Quando Thor gli lasciò il volto, velocemente e senza
rendersene conto, con il pollice gli tracciò il profilo del
mento e gli sfiorò le labbra.
Certe cose, lui, non aveva mai smesso di notarle.
Lo vide fare due passi indietro e portarsi una mano davanti agli occhi
stanchi, altri due passi e un sospiro lungo e affaticato, ancora di un
passo lontano e ora entrambe le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Thor si ritrovò perfettamente colpito da un raggio dorato,
immerso in una pozzanghera di luce al centro della stanza, vicino allo
specchio che rifletteva ovunque la sua immagine e sotto le
raffigurazioni a mosaico delle guerre compiute. Sembrava bruciare tra i
mobili, i tappeti e gli arazzi, sembrava una stella tra lingue di fuoco.
Ma guarda, guarda un
po’, come il Sole illumina questa stanza. Lo vedi?
“Sapevo che avrei dovuto pagare a caro prezzo il mio
desiderio e che avrei dovuto convivere con il tuo odio. Ma non importa,
va bene così. L’alternativa era
peggiore.”
Thor si bloccò e lo scrutò, bloccato al centro
della stanza, fermo ad una distanza incalcolabile, come se qualcuno
avesse creato una voragine tra i loro piedi e le loro intenzioni.
Quel vuoto, indistinguibile a occhio nudo, lo aveva realizzato lui stesso
grazie all’indifferenza di chi lo aveva sempre circondato, lo
aveva scavato con una furia cieca, con epitaffi ripetuti
in maniera cantilenante.
Il legittimo erede al Trono.
Il magnifico figlio di Odino.
Il prediletto, l’amato, il Principe dorato.
Quale spreco concedere tutto ad una sola persona, incartare doni
preziosi e consegnarli ad un arrogante, sconsiderato, imprudente uomo.
Si era dato tutto a chi non meritava niente.
Non si era dato niente a chi meritava tutto.
“Loki. Io voglio davvero aiutarti.”
La voce di Thor lo risvegliò dai suoi pensieri e gli
ghiacciò l’anima mentre le schegge del mobile gli
tagliuzzavano la pelle della mano e le gambe, pesanti e rigide, gli
dolevano.
Una fredda carezza di ghiaccio gli fece alzare il braccio e puntare il
dito verso la porta.
Un gesto dignitoso compiuto seguendo una volontà implacabile.
La sua carne tremò e delle gocce di sudore colarono sulle
sue ciglia, offuscandogli la vista, le ossa stridettero tra loro e il
cuore rimbombò nelle sue orecchie come un tamburo.
E la sua mano... la sua mano era blu.
Vedere quel colore gli provocò un dolore inimmaginabile.
“Allora vattene. Vattene via, allontanati da qui. Sparisci
per sempre dalla mia vista e non parlarmi più, mai
più. Pensami morto, credimi morto, e vattene via, vattene
via da questa stanza. Liberami da te, dalla tua presenza e dalle tue
parole. Separa definitivamente le nostre vite!”
La camera era completamente illuminata e lui non si era neppure accorto, non
fino a quel momento, di occupare uno dei pochi angoli rimasti in ombra.
Era stato un caso ritrovarsi lì, cadere di nuovo proprio
nell’ombra lasciata dalla figura di suo fratello, era stato
naturale.
Perché ognuno ritorna sempre al luogo a cui appartiene.
Quindi, alla fine, io...
cosa dovrei provare?
“Considerami morto e sepolto, Thor. Io sono morto.”
*******
Odiava il tempo, il
tempo odiava lui.
Non esisteva alcuna
altra possibile spiegazione.
“Il Re chiede-“
“Andatevene.”
Il rumore sordo del
legno contro le ginocchia lo stava imparando cadendo, momento dopo
momento.
È tutto nelle
ossa e nella carne.
Si può
imparare, un pezzo alla volta.
Ma il tempo continuava a
tormentarlo.
“Il Re chiede-“
“Sparite.”
Poteva imparare a
convivere con la paura, ma non a lasciarla andare.
Ricominciava a sentire,
riconosceva se stesso, solo rimanendo fermo sull’orlo di un
abisso.
I mostri nascono sempre
da altri mostri.
E il tempo lo
imprigionava.
“Il Re supplica-“
“No.”
Era un folle oppure
davvero tutti i giorni erano identici?
Scorrevano uguali, si
snocciolavano l’uno dopo l’altro, con lentezza, e
le giornate fluivano placide.
Lui si annoiava,
terribilmente.
“Il Re prega-“
“Lasciatemi solo.”
L’alba non
arrivava mai troppo presto.
*******
Nuova Asgard.
Quanta banalità e poca invettiva, quanta ipocrisia.
Persino uno zotico ignorante avrebbe potuto fare di meglio.
Persino un analfabeta sarebbe stato in grado di scegliere un nome
più rappresentativo, pieno di gloria, ricco di significato,
bello e incastonato nella mente di chiunque.
Un nome splendente, capace di brillare oltre la loro chiusa cerchia,
oltre il semplice spettro dei Nove Regni.
Ma suo fratello no, invece.
A lui mancava una visione di insieme più ampia, non
possedeva il concetto stesso di regnare né alcun desiderio
di elevarsi, di vera iniziativa. Peccava di falsa presunzione, di
orgoglio.
Non riusciva a immaginare nulla di magnificamente incomparabile e
potente, neanche un nome da cui Asgard avrebbe dovuto raccattare le sue
ceneri e crescere, progredire, irrobustirsi in un perfetto dorato
Impero.
Thor aveva sempre avuto il cuore di un Re, non la mente.
Gli era scomodo il trono, era infelice tra gli obblighi reali nello
stesso modo in cui ogni comandante si illude di poter vivere in pace e
non in guerra.
Eppure... il popolo lo amava. Il popolo amava Thor, sinceramente.
Loki si sedette e sbatté la fronte contro il vetro della
finestra, ricominciando a guardare le formiche di uomini che
passeggiavano nei giardini, sull’erba curata che si poteva
osservare dalla vetrata della sua camera.
Posò una mano vicino al viso e piegò le dita come
a voler stringere qualcosa di lontano, un riflesso inconscio di cui si
accorse appena.
Dei soldati si allenavano, dame passeggiavano, sguattere camminavano
raso raso ai muri più nascosti e bui, uomini di corte si
inchinavano dinanzi alle donne nubili che intendevano corteggiare.
Thor discuteva con un manipolo di uomini in toga rossa, con il volto
rivolto verso il basso e la fronte aggrottata, incedendo lento e senza
gesticolare.
Ecco la corte di Nuova Asgard, in un parco curato del grande palazzo,
in un’imprecisata ora pomeridiana, ecco il centro del nuovo infinito
potere, lì, proprio dinanzi ai suoi occhi.
E lui, invece?
Lui era in una stanza con ciotole piene di bacche rosse e mensole
ricolme di libri.
Gli ricordava l’immagine sbiadita della sua vita in prigione,
nei sotterranei, e così riusciva a rivedere se stesso, isolato dal resto del
mondo e rinchiuso in una gabbia con le grate belle e preziose, un gioco
per gli occhi.
Grate letali se solo uno avesse avuto l’ardire di
avvicinarsi.
Fece una smorfia e graffiò il vetro con le unghie, in
maniera distratta.
Le lame dei raggi di Sole gli rilassarono i tratti del volto fino a
quando non intravide, nel vetro limpido, il suo riflesso distrutto,
ancora diviso a metà.
La pelle della sua guancia sinistra era ruvida come petali di rosa
viola incastrati in grossi granelli di sale, il blu rimaneva vivido e
le linee bianche ben tracciate.
Il suo viso era sfregiato e la verità rivelata
perché lui non possedeva più la forza necessaria
a mascherare la sua natura.
Perdeva la ragione alla vista di quelle macchie di un blu innaturale,
imperituro ricordo e marchio della sua stirpe, maledetta da intere
generazioni e da innocenti morti urlando, affogati nel loro stesso
sangue.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Che lui fosse sempre stato un mostro, sia fuori che dentro, lo sapeva
da tempo e non si era mai fatto illusioni al riguardo.
Ma ora... non aveva il controllo.
La sua magia c’era ancora, la sentiva crepitare tra i
polpastrelli e le vene del dorso delle mani, ma non era abbastanza, non
era come prima.
Esisteva, leggera e sottile, quasi fosse una melodia di corde pizzicate
dal vento.
Sembrava irraggiungibile.
Le unghie contro il vetro fecero un rumore spiacevole nello stesso
istante in cui gli parve di vedere Thor schiudere le labbra in una
risata aperta.
Chiuse la mano e la lasciò scivolare al suo fianco. Le sue
dita erano pallide e fin troppo bianche.
Si sporse leggermente e afferrò una ciotola di bacche rosse,
agguantandone una manciata e portandosene due alla bocca. Le assaporava
con calma e si sporcava le labbra, così un sapore dolce gli
invadeva il palato e poi, un piccolo morso alla volta, un gusto
amarognolo strisciava ai lati della sua lingua e scendeva
giù per la gola.
La prigionia aveva lo stesso sapore, odore e consistenza di una bacca
estiva, lo stesso agrodolce piacevole dolore.
Mangiò un’altra bacca e un’altra e
un’altra ancora, fino a quando non rovesciò la
tazza e non la sbatté contro la panchina imbottita su cui
era seduto.
La magia era sua e neppure la morte poteva strappargliela dalle vene.
Prese tra le dita una bacca e un pezzo di ceramica, li
osservò e se li rigirò, ispirando a denti stretti
e concentrandosi su tutte le altre bacche e i pezzi di ceramica sparsi
intorno a lui, e poi spostò di nuovo lo sguardo su quelli
che erano posati sulla sua mano.
Sorrise di sbieco e sentì quei due oggetti bruciargli il
palmo, pizzicandolo come leggeri spilli legati tra di loro.
Cosa dovrei provare?
Lasciò cadere la bacca e strofinò sulle labbra il
pezzo di ceramica, mangiando e masticando il frutto che ora aveva delle
sembianze diverse, modificate, ingannevoli.
In quel momento toccare le bacche rosse avrebbe significato tagliarsi e
macchiarsi con il proprio sangue.
Un’agrodolce conquista.
Si voltò verso la finestra e si rese conto che, tra la
schiera dei cortigiani, mancava un uomo in toga rossa, uno dei tanti
sempre al seguito di suo fratello, costantemente tra i piedi e pronto a
voler esaudire qualsiasi richiesta del proprio Re.
Lui sapeva cosa stava per accadere, di nuovo.
Socchiuse le palpebre e vagò ad osservare le alte guglie del
palazzo e il paesaggio, i colori ambrati stesi sul chiaro cielo azzurro
e il Sole inginocchiato verso la linea dell’orizzonte.
Nel fango lui ci era
sempre vissuto e il Sole non era mai riuscito a raggiungerlo.
Fu un pensiero improvviso che lo costrinse a posare la mano vicino al
viso e a respirare grave, appannando il vetro.
Era tutto troppo uguale al passato.
Cosa dovrei provare,
adesso? Non questa arrendevole apatia, questa insoddisfazione costante.
Cosa dovrei provare?
Gratitudine?
Le porte si aprirono e lui se ne accorse a causa degli spifferi
d’aria e delle altre strisce di luce gettate sul pavimento.
Neppure si diede la pena di guardare chi fosse, lo sapeva
già.
Quel cortigiano doveva aver imparato a sopportare ogni cosa pur di
ottenere più potere e considerazione, tanto da essere
disposto a ripetere una tale quotidiana pantomima solo per non negare
alcun favore al Re di Nuova Asgard.
Sapeva già anche lui cosa sarebbe accaduto, la stessa scena che
si ripeteva ogni giorno.
Presto il messo sarebbe ritornato nell’immenso parco al di
sotto della sua vetrata, tra gli alti funzionari in toga, e avrebbe
bisbigliato due frasi veloci all’orecchio di Thor, rimanendo
poi lì, al suo fianco, sempre pronto a correre attraverso i
passaggi pietrosi dell’intero palazzo, anche a costo di
consumare le suole delle proprie scarpe.
“La mia risposta non cambia. Potete andarvene.”
Thor sedeva su una panca di marmo, ancora in quel giardino, e
continuava a conversare attorniato dai suoi fedeli soldati, dai sudditi
e dalle nobildonne che si erano alla fine avvicinate, vincendo ogni falsa
ritrosia.
Ognuno pareva muoversi in base alle sue mosse, alla sua postura, ai
suoi gesti scattanti, come se fossero dei semplici satelliti.
“Il Re mi ha ordinato di riferivi nuovamente la sua
richiesta, la stessa che vi porge da più di un mese. Chiede
se può visitare le vostre stanze, se potete gradire la sua
compagnia e le sue parole. Un vostro semplice cenno, il vostro
permesso, chiede solo questo.”
Loki non distolse lo sguardo dall’esterno e
picchiettò un dito contro la finestra.
Due soldati si stavano inchinando al cospetto di due dame e un uomo
anziano claudicava verso la panchina di marmo più vicina,
con un libro sotto braccio e l’orecchio già
rivolto all’aneddoto che Thor stava narrando alla sua cerchia
di cortigiani.
“Il Re afferma di essere tremendamente rammaricato. Vorrebbe
essere certo del miglioramento del vostro stato di salute. Chiede di
potervi incontrare, anche solo per pochi minuti.”
Suo fratello finì di raccontare e tutti risero insieme a
lui, le mani dinanzi alla bocca e gli zigomi alti, le guance rosse.
Rammaricato.
Sì, era davvero rammaricato.
Si vedeva chiaramente.
Immagino il peso e il
tormento della tua vita, il dolore che provi, il malessere che offusca
ogni tua possibile serenità, pace.
Ti immagino
così, Thor, ti immagino rammaricato.
Io sono tornato in vita,
per un tuo capriccio, e non sono soddisfatto.
Ma tu lo sai, vero?
Perché io, soddisfatto, non lo sono mai stato, è
contro la mia natura.
Quindi, dimmi, cosa
dovrei provare?
Sono in catene, come le
belve, in catene, come i mostri.
“Riferisci al tuo Re che io sono morto. Riferisci al tuo Re
che i morti non devono essere disturbati”, disse, senza
scomporsi.
È
interessante.
Tu non sei stanco. Tu
non rinunci mai a donarmi nuove occasioni, nuovi modi, per ferirti.
Eppure lo sai, lo sai
bene, che sono in grado di farmi del male, di morire, pur di fare del
male a te.
In cosa speri? In cosa
riponi la tua fiducia? Dove è la tua fede?
È una idea,
Thor, è un’ombra, un fantasma.
Non esiste alcun legame
tra di noi, non c’è mai stato, non
c’è più.
Tu non sei mio fratello.
Quindi rinuncia, lascia
andare il passato che mai potrà tornare.
Lascia andare, Thor,
lascia che finisca.
Non ho mai capito cosa
fosse la soddisfazione e, nonostante tutto, non la troverò
in te.
Il solo guardarti mi fa
male agli occhi.
Respirare la tua stessa
aria mi provoca nausea.
Ricordare la tua voce mi
spezza le costole e strappa via i polmoni.
Io non ti voglio vicino.
Lo vedi, mio Re, dove ti
hanno portato i tuoi buoni sentimenti e la tua gentile
pietà?
Dimmi, Altezza, tu ora
riesci a vedermi?
Puoi sostenere la mia
vista o volgerai il capo dall’altra parte?
Il tuo furore
è inutile così come vane sono state le mie urla.
Lo sai, vero? I bambini
piangono per attirare l’attenzione mentre gli adulti gridano
frasi taglienti.
E poi ci sei tu, con il
tuo cuore caldo.
Tu, proprio tu, che sei
riuscito a diventare un mostro, persino più terribile di me,
e lo hai fatto in silenzio.
La bellezza lancinante
del tuo sacrificio è una ferita aperta su cui ti piace
scavare agitato, a fondo, con le punte delle dita, senza curarti della
disperazione di nessuno.
Ti ricordi cosa ti
piaceva sempre fare, da bambino, dopo avermi salvato da un danno che io
avevo creato da solo?
Oh, alla fine rimani
sempre lo stolto Thor che non si accorge di quanto qualcuno brami il
suo sguardo.
Sentì la porta chiudersi alle sue spalle e si
sistemò più distante dalla finestra, aspettando
paziente di godersi la solita scena.
Da lì poté vedere, che splendida e incantevole
visione, l’uomo con l’abito rosso rifare il suo
ingresso nel rigoglioso giardino e accostarsi al Re, riportando poche e
concise parole, forse appena sussurrate.
Te lo ricordi?
Appena Thor sollevò il capo verso la sua finestra, un
movimento spontaneo che lo tradì, lui percepì
degli spilloni conficcarsi nelle pupille, a eterno monito della sua
follia.
Te lo ricordi?
Suo fratello si alzò dalla panchina, di slancio, e si mosse
incurante degli altri, poche falcate, fino a fermarsi
all’improvviso con il mento verso l’alto e i pugni
talmente stretti da irrigidire le braccia.
Mi toccavi sempre il
collo.
Loki si allontanò dalla vetrata, girò su se
stesso e gli diede le spalle raggiungendo l’altro lato della
stanza.
Continuò a sentire il suo sguardo sulla pelle anche quando
sfiorò la porta, domandandosi come e dove scappare.
Del legno e poche guardie sparse in quell’ala del palazzo non
sarebbero riusciti a fermarlo, almeno di quello era certo.
Gli serviva soltanto un’illusione.
Quindi mi hai salvato
per questo?
Perché hanno
rotto il collo che tanto amavi?
*******
Si poteva sentire un canto, all’alba, una melodia bassa di un’eco di note scordate, suonate nel momento esatto in cui le ombre
assumevano dei contorni chiari.
C’era sempre, poco prima del sorgere del Sole, quel lamento
dolcemente straziante che filtrava tra le fessure delle torri
più alte e che poi rimbombava sopra ogni soffitto, cadendo
pesantemente sui pavimenti e disperdendosi tra le fughe delle
piastrelle.
Il vento strisciava negli spiragli e assumeva un suono differente,
più musicale, e lui rimaneva fermo, ogni volta, ad ascoltare
quella litania che pareva mormorare una profezia.
Poi tutto si interrompeva, all’improvviso, e lasciava ciascun
animo insoddisfatto.
Quella sinfonia doveva esistere a causa di un errore di costruzione.
Sì, un errore di costruzione.
Certe cose, anche se belle, rimanevano comunque un errore.
*******
Vagava da ore, da una sala all’altra, macinando infinite
distanze e percorrendo cunicoli stretti e claustrofobici, le cui pareti
tendevano a incurvarsi su loro stesse.
Aveva scovato camere non curate, prive di decorazioni e avvolte da
grigio pulviscolo e aveva esplorato biblioteche, salotti e banchetti,
alla ricerca di passaggi segreti e corridoi nascosti
nell’incastro di pietre e librerie.
Si era aggirato come uno spettro silenzioso, rimirando tutto e non
sfiorando nulla, e si era confuso nel buio della notte tra le ombre
oblique degli oggetti dimenticati su tavoli o scaffali.
Aveva camminato, seguendo l’istinto addomesticato da un
attento ragionamento, e anche adesso si accaniva contro le sue gambe
che supplicavano pietà e gli chiedevano la grazia di poter
riposare.
Ma lui non si fermava e proseguiva un passo dopo l’altro a
ritmo sostenuto, sforzando i suoi muscoli ad ubbidire solo al suo
volere, a tendersi e piegarsi secondo il desiderio della sua indole
caparbia.
Bastava solo
esercitarsi, giusto?
Bastava solo sforzarsi
fino a far sanguinare le giunture, non era così?
Troppo tardi si rese conto di essere ritornato nella zona attigua ai
suoi appartamenti, nella guglia più alta di quella regale
dimora, come se avesse girato in tondo, ritornando
all’entrata del crudele labirinto.
Si massaggiò la fronte, frustrato, e maledì la
porta della sua stanza, un’imponente porta di legno con gli
intarsi dorati e le venature verdi, che si ergeva di fronte a lui,
quasi volesse schernirlo.
Avrebbe potuto scappare eppure era ancora lì.
Inclinò il capo verso destra e poi verso il basso,
sogghignando, e abbassò le palpebre sbocconcellando la
verità tra la lingua e i denti.
Non poteva andarsene, non ancora.
Dei rumori di passi lo insospettirono e delle chiacchiere, risate
strozzate, gli diedero la conferma.
Loki appoggiò le spalle contro una parete e
allontanò da sé la luce della luna, immobile,
mentre due guardie passarono accanto a lui senza rendersene conto.
Aspettò fino a quando non li vide imboccare le scale del
piano inferiore e fino a quando una melodia straziante non
iniziò a spirare, impercettibilmente, tra le scanalature
delle pareti.
L’alba era vicina.
Uno, due, tre...
Ritornò al centro del corridoio, le ginocchia stanche e
imploranti, e fissò inespressivo la grande porta alla sua
sinistra.
Nonostante tutto, io torno sempre qui.
Avanzò, quasi fosse al patibolo, e i suoi stivali sfiorarono
il legno, i polpastrelli i battenti.
Me ne andrò quando saprò.
Rientrò nella propria camera e, ancora prima di richiudere
la porta dietro di sé, seppe di non essere solo.
Inclinò il polso e con il pollice sfiorò i
polpastrelli delle altre dita, ritrovandosi nella mano destra un
pugnale di ghiaccio affilato. Avrebbe presto dovuto procurarsi dei veri
pugnali, perché non amava ricorrere a quel trucco, non gli
era mai piaciuto.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Loki si girò di scatto e si fermò con il braccio
a mezz’aria.
Oh.
Che stupido, stupido
sentimentale.
Suo fratello era lì.
Seduto su una sedia spostata sotto la finestra più piccola
della stanza, il capo basso e tra i palmi un bicchiere accostato alle
labbra.
Quando Thor si voltò a guardarlo, dentro di lui qualcosa si
smorzò in una piega innaturale e un sospiro gli
uscì dalle labbra, dandogli l’impressione che si
trattasse di sollievo e che lo strano grumo in gola si sarebbe sciolto
solo con il tempo.
Aveva camminato tanto e lo aveva fatto invano.
Che spreco.
“Cosa fai qui?”, gli domandò, avanzando
circospetto.
Suo fratello lo osservò e gli sorrise, indicandogli le
costellazioni sparpagliate sopra le loro teste.
“Ascolto la musica. Le stelle cantano, lo sapevi? E il cielo
è il loro strumento.”
Colpo basso, Thor.
Meschino citare proprio
una storia conosciuta da entrambi, ascoltata milioni di volte, ripetuta
sempre con le stesse parole, frasi, pause e sospiri.
Una delle tante favole
materne raccontate in alcune umide sere di primavera, una fiaba capace
ancora di conservare il sapore della loro prima infanzia.
I ricordi cominciarono a sopraffarlo e lui riconobbe la trappola, le
molle e gli ingranaggi arrugginiti di quel meccanismo pronto a
schiacciarlo e a soffocarlo in una morsa più pericolosa di
una mano intorno alla gola.
“Lo diceva sempre nostra madre”, mormorò
Loki, piano.
Un’improvvisa fredda ustione gli attraversò la
schiena, marciando tra gli spazi delle sue ossa, e una spiacevole
sensazione di ghiaccio gli contorse l’addome come viscere
annodate alle costole e ai muscoli.
Pensieroso, si accostò alle cere disposte sul tavolo, in
parte consumate, e le riaccese gettando il pugnale accanto alle loro
basi metalliche.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Aveva freddo e sapeva che, se avesse arrotolato le sue maniche, avrebbe
ritrovato le sue braccia di un colore più scuro.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
“Cosa ci fai qui?”
Accese altre candele e le posò su un comodino, nonostante
l’alba fosse prossima e il cielo fosse attraversato da linee
e sprazzi meno oscuri.
Ma lui aveva freddo.
“Dovevo vederti.”
La voce di Thor gli sembrò impastata e le sue parole poco
controllate, quasi biascicate.
Gli occhi corsero a riosservare la figura del fratello e il dettaglio
importante del bicchiere stretto in mano.
La camera era in penombra, le tende accostate, e sul ripiano di pietra
della finestra si trovava un fiasco di vino, in bilico.
“Hai bevuto molto?”
Thor abbassò le palpebre e abbandonò la nuca
contro la sedia.
“Mi manchi.”
Un crudo dolore gli offuscò i sensi e la rabbia
diramò via le fitte ragnatele in cui stava precipitando.
Tu vuoi qualcosa da me,
io ti servo. Ma per quale fine?
Sotto pelle si annidò una sensazione strana,
un’emozione instabile, che lui decise doveva essere estirpata
all’istante e senza tentennamenti.
“Devi aver bevuto davvero tanto. Ti ci vogliono molti
bicchieri prima di iniziare a delirare. Più del solito,
intendo”, constatò, calmo, e poi volse lo sguardo verso il profilo del
fiasco vuoto.
“Ho bevuto poco. O meglio, la giusta quantità che
serve per allentare i nervi.”
Stupido.
L’effimera maledizione della vulnerabilità di suo
fratello, mostrata senza vergogna, le consonanti arrotondate dal vino e
la postura riposata, gambe aperte e braccia stese con noncuranza, lo
avvinghiarono scavando una crepa tra i suoi incubi, tracciando una
strada di mattoni dorati nel suo desolato menefreghismo.
Essergli indifferente non era mai stato facile e lo era ancora meno in
quel momento, ora che si presentava da lui in quel modo,
così indifeso da poter essere distrutto da un sospiro
tremante.
Sentimentale.
Gli
sfilò la coppa dalle mani e bevve l’ultimo sorso
rimasto.
“Thor, non mi troverai sul fondo di un bicchiere di
vino.”
Eppure più dolorosa era la consapevolezza della sua
incapacità di colpirlo con un affondo letale.
Quando posò via il bicchiere, Thor lo trattenne per un
braccio, affondando le dita nel tessuto verde della sua manica, e
staccò le spalle dallo schienale per sporgersi verso il suo viso.
“Non dormi, non è così? I servi mi
dicono che ogni mattina le lenzuola sono sgualcite ma i cuscini non
sono toccati.”
Loki si strattonò dalla sua presa e l’altro lo
liberò continuando a parlare.
“Hai distrutto questa stanza. Tre volte.”
“Non mi convinceva l’arredamento. Cose che
capitano.”
“Perché non dormi?”
Perché
dormire è come morire.
“Concedi qualche domanda anche a me, Thor. Sii gentile. Come
ti sei procurato questo nuovo occhio?”
“Mi è stato regalato da un... coniglio.
Chiamiamolo così.”
Suo fratello abbozzò un sorriso, più una smorfia,
e lui fece un passo indietro e sgonfiò il petto, lasciando
andare l’aria che non si era accorto di trattenere.
La situazione era un delirio senza fine.
“Avevo detto di non volerti incontrare. Il tuo uomo di
fiducia non ti ha riferito bene?”
La fredda sinfonia di ogni alba si levò acuta, soffiando tra
le immagini e i ghirigori a mosaico, e portò con
sé le prime luci e un’umida foschia all’orizzonte.
Il cielo era lattiginoso e il profilo della luna si stagliava
indifferente, svanendo appena appena.
Pallidi raggi di Sole cominciarono a sgranchirsi verso
l’alto, camminando superbi contro i contorni sbiaditi delle
stelle. Avidamente studiò l’immagine di quel nuovo
paesaggio, dell’alba violetta, delle lontanissime foreste,
confine di Nuova Asgard, e delle alte montagne rocciose.
Almeno aveva
scelto un bel luogo come Nuovo Regno.
“No, ti avrà riferito giusto. Ma le mie parole
sono sempre state vento per te, figlio di Odino. Il tuo volere
è l’unico principio che segui
fedelmente.”
Si allontanò e si diresse alla libreria sistemata sul lato
destro dell’altra finestra e lì si
fermò, a indicare i libri e a passare l’indice sui
dorsi colorati dei vari tomi.
Uno dopo l’altro, come scrigni segreti posti in bella vista,
rivelarono i loro titoli e sottotitoli.
Il palmo si scurì, di nuovo, e allora lui chiuse la mano a
pugno, le nocche sporgenti, e la portò dietro la schiena.
“È questo invece sarebbe l’assurdo
metodo che hai scelto per darmi delle risposte? Libri?”
Libri sulle pietre dell’Infinito, resoconti sui viaggi nel
Tempo, manuali di Magia.
Quello che avrebbe dovuto sapere, il come e il quando, ma non quello
che voleva sapere.
“Nei libri sarà scritto dettagliatamente tutto
quello che hai fatto ma non il perché. Ed io questo voglio
sapere, il perché. Quindi, dimmelo, perché mi hai
riportato in vita?”
Perché lui era vivo?
“Perché sono qui?”
Non per pietà né per altri sciocchi sentimenti
lui non aveva cacciato Thor dalla sua stanza.
No, non per un’improvvisa e falsa umanità, non
sarebbe mai stato così, e solo suo fratello poteva ancora
illudersi del contrario.
Lui voleva solamente sapere.
Lui aveva bisogno di sapere.
Il Grande Re si sollevò dalla sedia, ma che grande e
grandissimo onore, e lo raggiunse fermandosi a pochi passi di distanza
e stropicciandosi il volto con le mani aperte.
Cosa ti ha distrutto
più di me?
“Non si può affrontare lo stesso lutto
più volte. È disumano.”
Suo fratello si interruppe un momento, forse tentando di non
strascicare le vocali, e incrociò le braccia dinanzi al
petto.
“Era la terza volta che piangevo la tua morte e nessuno
può tollerare un dolore tale da... Ma poi ho
capito.”
Balbettava, cercava le parole, cambiava le frasi e seguiva ragionamenti
senza alcun filo logico.
Un disastro annunciato.
“Ho capito che certi legami non si possono spezzare e che il
nostro è uno di quelli.”
Sembrava in affanno, si affrettava a continuare prima di essere fermato
o forse prima di ripensarci, prima di mordersi la lingua e di
riflettere, riflettere almeno una volta nella sua vita.
“Tutti avevano riavuto la loro parte di universo.
Perché io no?”
La sua faccia era stravolta, le occhiaie violacee e più
accentuate, la fronte aggrottata e le labbra screpolate.
Aveva un’espressione esasperata e impaziente mentre si
stringeva il petto, quasi un abbraccio, quasi una richiesta di essere
consolato.
Lì, toccato con grazia dal chiaro cielo mattutino,
lì, tra le note del canto, la sua figura gli
ricordò il perché non ci si doveva mai fidare dei
familiari più devoti.
“Mi mancavi troppo, Loki.”
La melodia si spense, all’improvviso, e un rumoroso silenzio
calò, come foglie secche, in mezzo a loro.
Mosse una mano e la luce delle candele si piegò e spense,
ruotò il polso e il fiasco di vino crollò a terra
insieme alla coppa.
Si vedeva allo specchio e, già lo sapeva, quando usava la
sua magia le linee bianche sulla parte blu del suo volto diventavano
tratti esasperati, aperti, troppo evidenti.
Conficcò le unghie quasi vicino alle vene dei polsi e
caddero i mobili, si rovesciarono le sedie.
“E il grande Re mi ha resuscitato dalla tomba per questo
quindi? Perché gli mancavo tanto?”
“Troppo”, venne corretto, di getto,
“Loki, io ero troppo stanco di accettare una vita senza di
te. Ho sperato, così intensamente, di-“
Inganni.
“No. Non fare il sentimentale. Ti si addice ma non fino a
questo punto. Dì la verità.”
La fiducia, tra di loro, non poteva esistere.
I loro patti si basavano su altro: vendetta, rancore, morte.
Non sui sentimenti.
“Dimmi il vero motivo.”
Nessuno faceva niente per niente, neppure il buono, giusto e nobile
eroe lì in piedi di fronte a lui.
Nessuno.
Thor non abbassò lo sguardo e gli rispose, la voce rotta e
un sospiro stanco.
“Perché sei mio fratello.”
Il rancore piegò i suoi progetti e i suoi piani, distrusse
lo specchio esploso in miliardi di schegge con un rumore acuto e fece
cadere tutti i tomi spaginandoli.
Se suo fratello viveva di illusioni allora lui gliene avrebbe regalata
un’altra.
Marciando, si avvicinò alla panchina imbottita della grande
finestra e afferrò un pezzo di ceramica, uno dei pezzi che
aveva cambiato e che in realtà non era niente altro che una
bacca che non gli avrebbe fatto alcun male.
Tirò su la manica e mostrò il braccio bianco a
suo fratello, quel patetico arrogante che si compiaceva a chiamarlo
fratello, e pose il coccio di ceramica, -la bacca-, contro la propria
pelle.
Non siamo fratelli,
anche il succo di una bacca può dimostrartelo.
Tagliò la vena con una precisione spaventosa, seguendo tutta
la linea dell’avambraccio, a fondo e con forza, ricalcandola
con quel pezzo di ceramica -la bacca, la bacca, la bacca- ora sporco di
sangue, -succo, semplice succo.
Ti puoi illudere, Thor,
ma, come vedi, il nostro sangue è diverso.
“Lo vedi? Lo vedi, sì? Non sono tuo fratello, non
lo sono. E, adesso, dimmi perché sono di nuovo vivo,
dimmelo.”
Il braccio cominciò a dolergli e la vista ad appannarsi ma
lui non ci fece caso, -freddo, aveva freddo-, e continuò
imperterrito.
Che male può
mai fare una bacca?
“Tu sei come Odino. C’è un motivo dietro
tutto questo, dietro le tue patetiche premure e la tua tardiva
preoccupazione. Io sono qui per un tuo scopo. Dimmi quale
è.”
Ma in un quel dolore c’era una differenza sottile.
“Loki.”
L’avambraccio bruciava, il polso tremava e il freddo lo
colpì come una scarica elettrica lungo i vasi capillari
aperti.
Abbassò il capo e vide il sangue gocciolare, imbrattare il
suo braccio, la mano, il palmo, tutte le dita, e colare a terra
formando una pozza rossa.
“Loki, che cosa hai fatto?”
Lui rialzò la testa e osservò gli altri cocci di
ceramica e le poche bacche rimaste.
Non si deve vivere troppo di illusioni.
“Pensavo fosse una bacca.”
Si ritrovò in ginocchio, ma non toccò il
pavimento perché delle mani sollevarono il suo capo e
trattennero il suo petto.
Una voce chiese aiuto, urlò, disturbò il suo
sonno.
E la neve cominciò a cadere.
*******
La morte è assenza, negazione, pace. Un freddo ristoro in
cui spegnersi.
Ed è semplice rispetto al caos delle probabilità,
del vivere, del sentire.
È una sinfonia spezzata che incide note e chiavi su righi
sbiaditi di pergamene logore.
Vorace e insaziabile amante.
Poteva essere tutto, poteva essere niente.
Ma se avessero chiesto a lui, che la morte l’aveva vissuta in
ogni modo possibile, avrebbe risposto che in realtà, la
morte, era noiosa e basta.
I pensieri scompaiono, l’anima si dissolve e il corpo cade,
cade, cade ancora.
È tutto nero, è tutto finito.
E lui no, non lo accettava.
La morte non era fatta per una mente come la sua.
*******
“Svegliati. Svegliati perché voglio ucciderti e tu
devi essere cosciente mentre lo faccio.”
Le dita calde di suo fratello divorarono la sua guancia fredda, simili
a belve assassine ed egoiste. Percepiva i suoi calli contro lo zigomo,
contro la pelle ruvida.
Lottare, in quel momento, avrebbe significato strisciare su crateri di
cenere affamati e ributtarsi nel vuoto lasciato da una stella implosa.
Scappare non era possibile, né poteva pulire la propria
coscienza correndo a nascondersi nel groviglio dei propri pensieri
scheggiati. Voragini lo attorniavano e su ponti rotti lui ricercava
l’equilibrio.
E avrebbe voluto fare un passo avanti, cadere e gridare di essere
stanco, infinitamente stanco.
“Non stringere le palpebre. So bene che mi stai
ascoltando.”
Quando Thor gli sfiorò il mento e l’angolo delle
labbra, un nuovo canto dell’alba cominciò ad
arrampicarsi lungo le colonne e le volte di ogni stanza.
Aveva perso un giorno, aveva perso un altro giorno.
Alcune immagini, sogni, gli invasero la mente cancellando la
realtà e tormentandolo con smania e angoscia.
Il fotogramma sbiadito di suo fratello, di suo fratello in lacrime,
-lui che striscia, si dispera, grida-, perché non accetta la
sua morte e si aggrappa, pianti e urla dolorose, al suo corpo freddo
steso a terra, immobile in un modo innaturale, gettato sul pavimento
con il volto bianco privo di vita.
Avrebbe voluto altro.
Sentire la sua pelle sotto le dita, avere il potere inebriante di poter
portare via le sue lacrime e sostituire quel sapore salato con le sue
labbra umide in un eccitante sogno proibito di cui si era nutrito, in
solitudine e in ginocchio, sui gradini della follia della sua mente
malata.
Far scorrere i propri polpastrelli sulle labbra di lui e poi mordersi
le dita con i denti per provare ad essere in grado di rubare un
po’ del suo calore e tenerlo per sé, anche solo
toccandolo, sfiorandolo.
Mai, non
aveva potuto farlo mai.
Aveva seppellito tutto in un luogo così distante da averlo
dimenticato, da averlo perso sotto la neve.
Il gelo aveva bruciato brandelli della sua carne, uno alla volta, e
aveva intorpidito i suoi muscoli scorrendo nelle vene al posto del
sangue. E lui sapeva, lo aveva sempre saputo, che il ghiaccio non
avrebbe più potuto strapparlo via dal proprio corpo, neppure
volendo.
Cenere alla cenere, polvere alla polvere.
Neve alla neve.
“Apri gli occhi, Loki. Adesso!”
Ferirsi i palmi, graffiarseli, per quanto forte avrebbe osato stringere
la sua barba bionda e i suoi capelli, morire bruciato per i suoi occhi
azzurri pieni di lacrime.
Passare le unghie sulla sua mandibola e poi sul collo e le spalle, fino
a logorare i tendini, scorticare i nervi.
Sarebbe stata una guerra atroce e sofferente, sarebbe stata una
vittoria conquistata con la corruzione, pagando un debito infinito.
Neve alla neve.
L’unico modo
per divenire immortale nel tuo cuore era morire per te, proprio dinanzi
ai tuoi occhi.
Pensi che sia amore? No,
non lo è.
È ossessione.
Alzò il braccio fasciato, dove spille di fuoco cucivano i
fili delle sue vene, e afferrò alla cieca la divisa di Thor,
aggrappandosi forte a lui, all’altezza del petto.
Possedere il suo cuore e averlo tra le dita, anche solo per un secondo,
schiacciarlo con una tale forza da avere le mani per sempre macchiate
di rosso.
Ma il suo calore no, quello non sarebbe riuscito a prenderlo.
In un delirio estenuante gli avrebbe persino promesso che non si
sarebbe fermato mai, che avrebbe continuato fino alla propria
devastazione.
“Ti dispiacerebbe lasciarmi dormire, lasciarmi
riposare?”, tossì e perse la presa facendo
ricadere il polso tra le lenzuola.
Affaticato, non riuscì a continuare perché un
senso di vertigini lo colpì allo stomaco, spingendolo a
rigettare bile.
Sbatté più volte le ciglia e notò che
il buio della notte era appena rischiarato dalle poche candele accese,
tanto da lasciare intravedere solo delle forme tremolanti.
La luce fioca ammorbidiva i tratti degli oggetti e li rendeva irreali,
cosicché anche i mobili avevano una consistenza opaca e
inconsistente.
Cercò di sforzarsi ma il sudore gli imperlava la fronte e
bagnava la base dei suoi capelli e della nuca. Infastidito, volse il
capo verso sinistra, verso la voce che lo aveva svegliato.
Scorse il volto adirato di suo fratello e il suo strano sguardo
accusatore, la mandibola dura e i denti stretti, il sottile passaggio
della cicatrice dall’occhio destro fino al sopracciglio
spezzato.
Quel momento era una
mancata illusione.
“La tua follia ti ucciderà, Loki.”
Doveva essere seduto vicino a lui, nell’oscurità
più maledetta della notte, tanto vicino da inglobarlo con la
sua ombra e da togliergli il calore delle fiammelle sulla cera.
Avrebbe dovuto sporgersi per capirlo, avrebbe dovuto poggiarsi sui
gomiti e poi allungare le braccia dinanzi a sé, fino a
trovare il suo fianco e colpirlo con la lama di un pugnale.
Stava sognando?
“E la tua follia invece? La tua follia ci porterà
alla distruzione. Figlio di Odino.”
Stanco, si inumidì le labbra e osservò i pochi
colori che riusciva a intuire con le tende chiuse e l’aria
immobile, tesa.
Le tenebre stavano martoriando con denti e zanne aguzze le macchie
dorate, impedendo a lui di vedere, e un assurdo odore di pioggia lo
stordì.
Un’attesa spasmodica rendeva inquiete le loro parole,
inebriandoli.
Thor era agitato, il suo sguardo seguiva i movimenti delle lingue delle
candele e vagava distratto, forse alla ricerca delle frasi giuste da
rivolgergli senza turbare il silenzio che li avvolgeva.
“Non sono migliore di te, Loki. Sono stato tremendamente
egoista e ho fatto delle scelte di cui non vado fiero.”
Lo ascoltò mormorare quella confessione e subito dopo decise
di non credergli, di riflettere su altro. Di dimenticare e di ridere
dentro di sé, di tacere e poi di schernirlo, a voce bassa e
con attenzione.
Avrebbe voluto chiedergli se anche lui sentiva
quell’impossibile profumo di pioggia, se anche lui notava
l’assenza di colori intorno a loro, le immagini svanire e le
pareti crollare.
Non c’era niente, ad eccezione di alcuni spessi strati di
cera colata a terra e lungo i comodini, non c’era altro.
Fremendo, a tentoni, cercò con il braccio sano di
raggiungere il collo di suo fratello e di trascinarlo con lui a fondo,
di farlo affogare con gentilezza.
È un sogno?
“Ti piaceva, un tempo. Ti piaceva toccarmi il
collo”, gli disse, facendo sembrare un urlo quelle che erano
state delle parole sussurrate.
Inspirò e altre scariche di oscure immagini vinsero la sua
ragione, mandando in frantumi ogni suo piano.
A nessuno dei due interessava porre un argine a quella situazione e
ciò lo ubriacò, gli fece provare
un’euforia incontrollabile.
Arrivò a toccargli i tratti del profilo e distinse un
assordante strappo squarciare la sua mente e lacerare il suo sorriso
compiaciuto.
Piangi ancora?
Suo fratello si lasciò sfiorare e poi gli
allontanò la mano, provocandogli un fastidioso pungolo
all’orgoglio.
Stavano superando un limite da cui non sarebbero mai tornati indietro,
almeno non in quella vita.
Ricordava i milioni di passi che aveva compiuto pur di ritrovarsi ad
una distanza incalcolabile dai suoi occhi e dai suoi gesti, la profonda
discesa che aveva imboccato pur di non biasimare se stesso notte e
giorno.
Aveva camminato tanto e, alla fine, il valore della sua fuga era
risultato identico a quello di alcune poche bolle di inchiostro
gocciolate su una pergamena: uno spreco.
Accettarlo non gli fece provare nulla.
Quando il Re parlò, con le sue parole inghiottì
tutto il resto.
“Ti ricordi cosa è successo dopo la fuga da
Asgard?”, chiese Thor, e lui non vide più bene il
suo volto.
È un incubo?
“Ti ricordi l’ultima notte sulla nave?”,
continuò, e usò un tono di voce che Loki non
conosceva o che non aveva mai ascoltato, non da suo fratello.
Le spalle di Thor erano il confine di quella stanza,
l’orizzonte oltre il quale non avrebbe trovato nulla,
l’ostacolo impossibile da superare senza prima perdere un
braccio, come dazio, staccandoselo a morsi se necessario o se richiesto.
“Ti avevo detto che ti avrei abbracciato. Ricordi cosa hai
detto?“
Ci diamo un bacio?
“Ricordo cosa ti ho chiesto.”
La sua ultima notte.
L’ultimo desiderio di un condannato a morte.
Era stato il loro, -il suo-, primo bacio.
Un solo bacio, solo quello.
Prima di lui non c’era stato nessuno.
Prima di lui c’era stato sempre, -solo-, lui.
“Oh. Oh, adesso capisco. È per questo allora?
È stato così bello che hai dovuto farmi tornare
in vita? Bacio così bene?”
Sapeva, con una lucidità che aveva la forma di una condanna,
di star facendo del male a entrambi e di non riuscire a fermarsi.
Non è amore.
“Ti è piaciuto così tanto? Tanto da
mettere sottosopra l’intero universo per averne un
altro?”
Trattene a stento una risata di gola, sollevò il braccio
ferito e spalancò gli occhi avvicinandosi lento a sfiorargli
uno zigomo.
Non è amore.
“Davvero bacio così bene, Thor?
Sì?”
Suo fratello gli afferrò il braccio e strinse, strinse, gli
torturò la pelle con le unghie e mostrò i denti
trattenendosi dal rispondergli o dal compiere qualsiasi altra follia,
perché troppo impegnato a combattere una guerra contro se
stesso che era in procinto di perdere.
Lo vide, sconfitto, inginocchiarsi nel fango.
Loki osservò il modo in cui gli stringeva
l’avambraccio e lo sfidò, girando appena la mano e
allargando le dita, mentre un’altra risata aperta gli
sfuggì e una fitta alla nuca gli avvolse il collo.
Ma se fosse amore, tu lo
sai vero?
“Vuoi riaprirmi la ferita?”
Thor gli lasciò il polso con noncuranza, con uno sguardo
mostruoso che non gli fece accorgere del sangue versato e delle bende
sporche.
C’era una rassegnazione che li incastrò entrambi a
metà strada.
Sì, lo sai.
Tu lo sai che nessuno ti amerebbe più di me.
“No. Te ne creo di nuove.”
Suo fratello salì a cavalcioni sui suoi fianchi e lui vide
stelle disgregarsi dinanzi ai suoi occhi, distruggersi in miliardi di
pezzi e svanire, lasciando una fredda, vuota, cicatrice ambrata.
Tentò di allontanarlo, cercò di scostarsi
colpendogli il petto e sollevò il volto nonostante le
vertigini e il tremore delle spalle. Gli graffiò il collo e
sentì la sua carne sotto le unghie, il sangue sui
polpastrelli.
Nessuno mai.
“Stupido, cosa stai facendo?”
Thor gli bloccò il viso con entrambe le mani e si
avvicinò al suo mento, tremando.
Nessuno mai ti amerebbe
più di me.
“Mi faccio male.”
Sentire quella pelle calda sulla sua, tanto fredda, gli
provocò uno spasmo in gola che venne ovattato da quelle
labbra crudeli premute frettolosamente sulle sue.
La pelle morbida, il guizzo nervoso dei muscoli, il calore del suo
respiro.
Troppo.
I pezzi scomposti della sua lucidità si persero non appena
Thor gli strattonò il colletto della divisa e
sospirò appagato contro la sua bocca.
Quel suono gli fece muovere freneticamente le mani e fece nascere in
lui una maledetta esigenza di afferrare tutto, di frugare tra le pieghe
dei suoi vestiti, di contenere i suoi battiti tra i palmi e di fare
male, di lasciargli lividi e ustioni.
Pioggia sul suo viso e sulle sue palpebre chiuse, sale sulle sue
ciglia, denti a mordere la sua lingua.
La loro pelle nuda a contatto.
Nessuno ti amerebbe
più di me.
E tu non puoi farci
nulla.
Ebbe freddo e uno dei suoi ultimi pensieri coerenti fu che le stelle
quella notte dovevano essere scappate via, lontane da loro.
Non esiste
più nulla ed è meglio così.
Perché lui respirava.
Lui stava... respirando.
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