This is indeed Life itself

di MovereCrus
(/viewuser.php?uid=1078735)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Esitai, immerso nelle dense coltri della morte. Il mio sguardo atterrito cercava di sfuggire al suo, tuttavia non sapeva separarsene a lungo: puntualmente vi ritornava, come in una danza terribile i miei occhi indugiavano sulle sue nere pupille, assaporando e temendo al tempo stesso l’ormai raggiunta consapevolezza dell’oblio.
Rimirai il suo volto cesellato, nella sua torbida vividezza, analizzai la perizia della tecnica, il gusto nell’apposizione delle ombre, il sognante sentimento che emanava, riflettendo sulle parole che, forse pronunciate con troppa foga, determinarono il suo epitaffio: “Questa è la Vita stessa!”
Contemplai ancora il ritratto ovale nelle sue tonalità, lo ammirai devotamente, religiosamente, nell’insieme dei suoi colori profondi e intensi, nell’espressione, disgraziatamente conforme alla vitalità della giovinezza, che mi scrutava con il mio stesso atteggiamento.Fu questa frase proferita giustamente? Quella non era affatto la vita. Davanti a me non vedevo altro che lo specchio di Thanatos, colta nelle sue sembianze più attraenti, dotata di una sensualità che non avrebbe dovuto avere, che mi spingeva a varcare l’ormai illusorio confine della tela.
“ Non è possibile” mi ripetevo, affidando la responsabilità del delirio alla mia precaria salute “ Questo è un sogno e nulla più. Quando il sole tornerà a illuminare queste stanze, quando riavrà il suo dominio su questo maniero, ciò che provo sarà stato uno smarrimento, una momentanea mancanza di senno e nulla più.”
Ma lo spettro non temeva di certo il mio monito. Quella giovane donna trovò nella mia infausta condizione un passatempo e una consolazione per i suoi immensi giorni di solitudine. Prese a guardarmi in un modo del tutto nuovo, che poco si addiceva alla persona che fu. O che era stata.
Un delicato sadismo fece incursione nel suo sguardo, un crudele compiacimento che si profuse nel mio essere sotto forma di un’attrazione irresistibile e indicibile.
Per l’ultima volta tentati di resisterle, mi coprii gli occhi con entrambi i palmi, rimasi sepolto nel mio letto,come un Cristo che aspetta di risorgere, ansimando per una tregua che non arrivò mai.

Fu allora che ella pronunciò il mio nome. Il grave suono della sua voce damascata penetrò direttamente la mia mente senza sfiorare i miei timpani. Non sono tutt’ora in grado di distinguere se ciò che udii fu reale o soltanto frutto del mio inconscio, ma lo udii distintamente: una voce di nepente, dolce e indemoniata, un macabro infuso di grazia, un invito a un banchetto dall’oltretomba.Il mio nome fu seguito da una serie di suoni riecheggianti che percepii nel silenzio più totale, come se si stessero progressivamente allontanando da me, simili ad archi distorti e gloriosi che si facevano via via meno intensi e disturbanti e si rendevano cupi canti d’organo, tra un crescendo e l’altro.
Quelle note esercitavano su di me una paralisi della psiche, una tortura lenta, indolore, dissipante, insopportabile. In seguito, con incredulo stupore, notai che quei suoni malefici si intensificavano non appena mi voltavo nella direzione opposta al ritratto.
Quando lo fissai, con rinnovato timore, ella mi sorrise.

Mi liberai dalle lenzuola, simili a un sudario, scattai in piedi e, mentre invocavo la servitù a gran voce, cercai di arrampicarmi inutilmente sula parete da cui ella mi fissava sogghignando.“ Dimmi, come devo chiamarti? Morrigan*, forse, o Hel**? Dimmi chi sei, parla!” gridavo battendovi i pugni compulsivamente, contundendomi le dita. Pedro accorse immediatamente, gli ordinai di consegnarmi il dipinto, cosa che fece senza proferir parola, forse terrorizzato dalle arcane febbri che assalivano il mio volto.
Se ne andò non appena lo ebbe adagiato nelle mie mani, dimenticandosi di riaccendere uno dei candelabri, spento dalla mia foga, che, sotto l’influsso di quell’umore misterico mi pareva il baluardo della mia dilagante follia.

Rimasi così solo con l’oggetto del mio desiderio, in una penombra siderale che inspirava in me strani e quiescenti terrori. Continuai a contemplare il suo viso immacolato, chinato su di lei, la pelle bagnata da sudori freddi, le labbra quasi tumefatte dalle mie precedenti smorfie.
“ Ti sembrerò orribile adesso, ora che mi vedi da vicino, forse ancor più di prima.” le dissi sibilando “Tu invece appari più radiosa di quanto possa ricordare, talmente abbagliante da spingermi a contestare la materia di questa tela...”
La superficie riflesse solo per un attimo le mie fattezze disumane in uno sfondo di torbida finezza, prima insignificante, in quel attimo scrigno di percezioni mai espresse prima. Quando quell’impressione scomparve, ella si ripresentò con un dolce sorriso, dai denti perlacei, da cui i miei sensi furono posseduti, e il quadro risuonò, come percosso, si mosse e produsse, come una pozza d’acqua appena sfiorata, una sere di cerchi concentrici che si esaurì in pochi istanti.
Ciò che vedevo era lugubre e bellissimo. La bellezza si era alleata con l’orrore e la ripugnanza più immediata. La vittima aveva imparato a domare l’arte a suo piacimento, per uccidermi.
Sapevo che avrei fatto la fine di Narciso, un Narciso che detestava se stesso, il suo pesante corpo, le sue ipocondrie, innamorandosi non di se stesso ma della sua carnefice, la carnefice di molti, ministra dispensatrice di grazia, gloria e terrore: l’Arte.
Ella conosceva il mio amore per lei e desiderava eliminarmi ad ogni costo, per vendetta, rimorso o gelosia, non so dirlo, in memoria del misfatto da cui fu offesa nella sua precedente vita.
Quella era la verità, quella era la sua vera intenzione, che conoscevo, non so in che modo, minuziosamente, ma da cui, beffa atroce, volevo inspiegabilmente farmi annientare per sempre.
Il mio sguardo turpe fu illuminato dalla luce siderea. La luna era gigante e bella, la stessa che guida le mani degli assassini nel cuore della notte, l’aria afosa, la stanza limpida e nera, ma io ero inerme a tutto questo.
“ Puoi percepire i tremori che mi straziano, le febbri che mi mordono? Puoi percepire il mio male? Tu sei come le Morrigan che seducono vincitori e vinti per poi accorrere ai loro cadaveri. Quanto vorrei essere colui al quale il Fato serba i tuoi segreti!”
Ella mi guardò ancora, questa volta i suoi occhi emanavano possesso e ipocrisia, ma io li vidi soltanto come l’angoscia mal espressa di un angelo. Sto per raccontarti una menzogna” sembrava che dicesse spudorata, tuttavia, nonostante questo la mia vacua volontà si affidava a lei, a qualunque cosa ella avesse deciso per me, persino alla distruzione più sanguinosa che, stentavo ad ammettere, era il mio maggiore e più remoto volere.

Ad un tratto la tela si mosse ancora, come tremando dopo essere stata investita dalla pioggia, e la mia mano ne fu inesorabilmente attratta. Per la prima volta ne accarezzai la livida superficie; la mia pelle tremò d’impulso ma non seppe smettere di indugiarvi, di sostare su quella materia liscia, fresca, carnosa,... come il volto di una donna, come il suo volto.
“ Tu sei viva. Che crudeltà reciderti nel fiore degli anni! Vorrei che in molti conoscessero la tua vicenda per renderti onore, e giustizia, ma il mio più grande desiderio, il mio più grande turbamento e restituirti alla vita”
Emanò un languido sguardo in risposta, le iridi oscurate a metà dall’ombra delle folte ciglia. La toccai ancora, più vicino alla sua gota; mi vergognavo delle mie orribili fattezze, del torpore della mia età, di me stesso. Sapevo che ella stava per ingannarmi fatalmente, ma non potevo resisterle. Suscitava in me pietà, e ribrezzo al tempo stesso, mi lusingava con la sua precoce bellezza, mi ispirava ad affidarle ogni mia più remota confessione. E così feci.
“ Devi sapere che un morbo sconosciuto mi consuma da tempo immemorabile. Le ferite inflittemi questa sera saranno sufficienti a impartirmi il colpo di grazia, presto riporteranno alla luce il mio scheletro, già dilaniato da giorni. La malattia mi devasterà e invecchierò ancora, mentre tu giacerai esanime, custodita soltanto dalla polvere. E quando la terra dolce e nera mi inghiottirà per sempre, tu persisterai o sarai inghiottita a tua volta, dalle macerie o dall’oblio. Saremo entrambi esuli da una vita che ci rifiutò, vittime di una violenza perpetuata a distanza”
Questo era il tono che la mia voce assumeva nei rari attimi di coscienza, intervallati dai più allucinati raziocini, dalla più violenta e legittima consapevolezza, che, ahimè, non seppe proteggermi a sufficienza:
“ La Morte è prossima e tu ne sei il segno più evidente! Non avrai in pasto la mia anima, non mi soggiogherai con il tuo aspetto, con la tua tentazione, con la tua vita! Perché ti sto rivolgendo la parola, perché?! Miserabile, non mi è rimasto più nulla, tu mi hai privato di tutto! E io, vecchio pazzo, non oso resistere alla tua chiamata!”
Avrei potuto portare via l’opera una volta trascorsa la mia convalescenza, avrei potuto disfarmene in qualsiasi maniera, ma quei pensieri non mi sfiorarono minimamente. Rimasi ancora a contemplarla, alternando follia e pianto, simile a una campana deviata dalle corde di un campanaro impazzito. Isteria era quella, o forse brama incompensabile, desiderio per il nulla, non so dirlo tutt’ora
Così, prima dello scoccare delle cinque, forse intorpidito dalle mie stesse incessanti urla, che i servi fingevano ipocritamente di non udire, ricordo perfettamente che mi stesi supino con il ritratto tra le braccia, fissando plumbeo la bianca luna evanescente, un’ostia di morte.
“ Mi pare di averti tradito stanotte, non so dire quante volte, come San Pietro, ma all’alba la tua premonizione si avvererà.”
L’abbondante polvere che avvolgeva gli antichi arredi e le pareti usurate mi parve un velo che stringeva a sè il mio corpo devastato dai dolori e tutto ciò che per breve tempo mi appartenne, un velo di inaspettata dolcezza e misericordia. Era un sepolcro quello, o forse già l’oltretomba, eppure mi era caro e ospitale come nessun altro luogo fu per me nel corso della mia intera esistenza.
Quando ogni candela, ogni candela accesa delle molte che ci circondavano esaurì la propria fiamma mi abbandonai in un lungo rantolio sommesso. Avvicinai il ritratto ai miei occhi al punto da far urtare le mie ciglia con le sue e rimasi in quella posa per parecchio tempo. Lentamente mi resi conto di aver perso ogni parvenza di desiderio, sia fisico che spirituale, tranne quello per lei.
Percepivo un’immobilità diffusa, un fragore in sottofondo, l’avanzare minaccioso di un sonno disumano, ogni torpore mal celato schiudersi e diffondersi, il plasma arrestarsi, il flusso vitale estinguersi e il battito del mio cuore decrescere, affievolirsi, annaspare, sempre di più… sempre di più…
Fu allora che le mie labbra si contrassero febbrilmente nelle parole che spensero il giorno:

Accoglimi tra le tue spire”

 

L’indomani, alcune ore dopo il sorgere del sole, Pedro piombò nella stanza chiamandomi a gran voce. Non senza dispiacere, purtroppo, non potei avvertirlo di ciò che lo attendeva. Il suo grido scosse le fragili pareti di quel decadente locale e vi fece oscillare altri quadri di trascurabile importanza. Pochi minuti più tardi accorse un altro mio servo, allarmato da quell’urlo; questi non si scompose più del dovuto alla vista del mio cadavere, forse già preparato a una simile evenienza.
Sì, il mio cadavere. Perdo mi sorprese nella stessa identica posa che avevo assunto nella notte: supino, con il quadro avvinghiato tra le braccia, ma con il viso stranamente tumefatto dall’interno, violaceo, dall’odore acre, gonfio di sangue rappreso, di umore nero.
Un’insolita deviazione di un’emorragia, pensarono, il cui flusso era stato impedito. Un morbo di sconosciuta origine, dedussero, o l’estrema conseguenza del male che mi affliggeva da tempo.
Eppure un elemento dell’orrida composizione li spinse a mettere in dubbio quest’ipotesi. Quando Pedro a stento sfilò il dipinto dalla mia presa emise un grido se possibile ancora più assordante del primo e lo lasciò cadere a terra, inorridito da tale nefandezza.
“ Non toccare quella cosa!” furono le sole, uniche parole che gli si affiorarono dalle labbra, lasciate sfuggire a mezza voce, roche, deliranti.
Il mio secondo servo gli affibiò uno sguardo incredulo e derisorio, si chinò e prese tra le mani l’oggetto capovolto, raddrizzandolo.
Incrociando il mio sguardo, il so respiro si fece labile, le iridi gli si dilatarono mentre le pupille rimpicciolirono inesorabilmente. Una calda lacrima di terrore colò dalle ciglia alla lingua, che tremava tra i denti impazziti, terrorizzandolo e facendolo fuggire a sua volta.

Ebbene, ora mi rivolgo a voi, voi, che mi guardate dal basso, come uno straniero, come un individuo meritevole di infamia. Cosa vi spaventa nel vedere un gracile vecchio nel cingere le spalle ad una donna di incantevole bellezza? Quale orrore, quale misfatto? Costantemente scorgo i brividi che vi percorrono il cranio, in rilievo sulla vostra pelle morta, i sussulti, i singhiozzi ingoiati a fatica, le vostre guance incavate, i vostri cupi barbagli di terrore affiorare dalla carne.

Lasciatemi comprendere la ragione del vostro tormento. Elizabeth, li hai resi forse tu partecipi del nostro incontro?

NOTE

*Morrigan: divinità celtica della morte, della guerra e del fato

** Hel: divinità norrena del regno dei morti





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3782577