The Aviator

di Nescio17
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La pioggia batteva incessante e la mia giacca era ormai zuppa di acqua: mi sentivo il freddo fin dentro le ossa, la pelle d’oca mi faceva tremare come un pulcino. Feci gli ultimi passi di corsa per evitare di peggiorare ulteriormente quel raffreddore che mi assillava da un mese. Appena raggiunsi la vetrina mi fermai a osservare al suo interno: il legno alle pareti dava un senso di calore, i maglioni e gli abiti erano perfettamente sistemati sui manichini che se la passavano sicuramente meglio di me. Tutte le volte che dovevo entrare in quel luogo mi soffermavo davanti ai vetri, osservando ciò che succedeva all’interno e cercando di capire se entrando avrei recato disturbo. Mi risvegliai dai miei pensieri quando un uomo mi passò accanto urtandomi con la sua valigetta: non chiese nemmeno scusa. Afferrai la maniglia e spinsi la porta verso l’interno sentendo una ventata di aria calda investirmi il volto: l’aria sapeva di menta fresca e il calore mi riportava alle estati passate a giocare al porto, dove io e Bucky ci rinfrescavamo con l’acqua. La vidi subito indaffarata dietro al bancone mentre cercava di sistemare rotoli di stoffe appena arrivati in negozio: le mani affusolate spingevano senza fatica i grossi carichi, il corpo avvolto in un vestito color malva e il maglione troppo grande per la sua corporatura che le arrivava fin sotto i fianchi. Si girò non appena la campanella smise di tintinnare, rompendo il suono di una canzone che aleggiava nell’aria:”Singing in the rain”. Gli occhi marroni come il legno di quelle pareti mi scrutarono da dietro le lenti dei suoi occhiali rossi fiammanti, i capelli, che le cadevano scompostamente sulle spalle dopo lo sforzo, le coprivano la visuale: li spostò con un soffio e la bocca si allargò in un sorriso felice. 
“Guarda chi ha deciso di farmi visita in questa giornata piovosa!” Saltò oltre il bancone con un salto atletico: era l’unica donna che lo faceva in tutta New York e forse per questo si era attirata qualche male lingua da parte delle signore per bene che andavano da lei a farsi cucire gli abiti più richiesti. Pur essendo così estrosa, sapeva essere molto riservata: sapevo molto poco della sua vita, mentre io per lei ero sempre stato un libro aperto.
“Con questo bel tempo, questo mi sembrava il luogo più adatto dove trovare buona compagnia, buona musica e qualche bella persona.” Strinsi il cappello nelle mani forse un po’ troppo forte, tant’è che lei lo notò subito.
“Devi dirmi qualcosa soldato?” I suoi occhi si fecero seri e impenetrabili: quando faceva così peggiorava solo le situazioni perché mi metteva ancora più ansia. Quel nomignolo risuonava nelle mie orecchie: aveva iniziato ad usarlo dopo la prima visita medica non passata. Nella mia testa si susseguirono numerose frasi, parole, tutte volte a creare un pensiero concreto, ma nulla che potesse andare bene. Il suo sguardo si fece sempre più preoccupato, forse aveva capito, come solo lei riusciva. 
“Ti prego, non dirmi quello che stai pensando…” La sua voce era diventata tutt’un tratto più fredda, più distante: il sorriso e la gioia di prima erano scomparse come una goccia che si schianta al suolo. Alzai lo sguardo per incontrare il suo sguardo che ormai non riusciva più a nascondere la paura e l’ansia: aveva capito. La campanella tintinnò nell’attimo esatto in cui il mio cervello aveva deciso di far uscire le parole. Luisa si distrasse osservando il cliente senza la sua solita giovialità, dettata solitamente dal mal tempo, che quel giorno però non poteva portarle felicità. Il signore fece come se non ci fossi e si diresse verso Luisa chiedendo di un cappotto che aveva portato a sistemare. Mi girai, ma prima di andarmene le lasciai la notizia.
“Parto domani per il New Jersey. Ti scriverò ogni giorno.” Il campanello della porta fu l’unico suono che le mie orecchie percepirono, non mi voltai per vederla un’ultima volta, volevo avere di lei solo il ricordo dei momenti felici. Mi avviai silenzioso verso caso con la pioggia che batteva ancora incessante.




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