Quando
vivi attraversando i secoli, il cuore è la prima cosa che si
inaridisce: man mano che le lune si susseguono, che gli affetti
muoiono, raggrinzisce come una prugna secca al punto tale da renderti
insensibile. Non vi è più nulla a cui vale la
pena legarsi, perché anch'essa perirà trascinando
con sé l'ennesimo pezzo della tua anima immortale.
L'unico
essere che non è mai caduto nell'oblio è la
Fenice che ho creato: viveva per anni, raggiungendo infine il limite
ultimo della propria esistenza, perendo e bruciando per poi nascere
nuovamente dalle proprie ceneri. È così che mi ha
seguito ovunque io fossi diretto, fedele compagna nel mio lungo ed
interminabile viaggio. Non aveva un nome. Darglielo avrebbe significato
provare per lei un sentimento.
Non
provavo più nulla da tanto ormai.
Solo un'immensa, profonda solitudine.
Disprezzo per tutto ciò che era terreno, perché
destinato a svanire per poi essere dimenticato. Non ne sarebbe rimasto
che un vago ricordo, sbiadito col trascorrere del tempo.
Tempo.
Tanto
a mia disposizione. Troppo.
Se
solo avessi potuto ghermirlo.
Se avessi potuto riavvolgerlo.
Se avessi potuto fermarlo.
Nacque
nuovamente in me il desiderio di possedere qualcosa e fu
così che, grazie ai miei poteri, spalancai le porte
dell'infinito.
Dinanzi
a me una figura si erse, evanescente e dall'aspetto vagamente umano. I
suoi tratti erano indefiniti e l'unico particolare vivido erano i suoi
occhi, verdi come smeraldi. In quelle iridi si riflettevano i segreti
dell'esistenza, la profondità del cosmo.
Avevano
assistito alla nascita del mondo, e probabilmente avrebbero assistito
anche alla sua fine.
«Cosa
vuoi, Stregone?» La sua voce giunse nitida alle mie orecchie,
provenendo da ogni dove.
Strinsi
i pugni, urlando attraverso i venti che sferzavano il mio viso.
«Il
controllo sul tempo!»
«Sei
già immortale.»
«Lo
sono, è vero. Destinato a millenni di eterna solitudine.
Concedimi il dono di fermare il suo scorrere impietoso, te ne prego,
affinché qualcuno stia al mio fianco e possa alleviare il
mio tormento.»
Il
Tempo mi guardò e sentii la sua essenza attraversarmi,
scavando a fondo nella mia anima.
«E
sia. Ti concederò il controllo su di esso. Da qui a un anno
sarai in grado di poterlo manipolare a tuo piacimento, ad una
condizione ed una soltanto.»
Una
luce mi avvolse e tra le mie braccia apparve un piccolo fagotto, caldo
e morbido. Era un bambino dagli occhi di giada, attraverso i quali
potevo scorgere la complessità dell'universo stesso.
«Dovrai
prenderti cura di questa creatura. Essa crescerà e con lei
il tuo potere, che sarà completo ed assoluto su ogni essere
vivente, fino alla vostra separazione a un anno esatto a partire da
oggi.»
Un
mero istante e fui nuovamente scaraventato nella landa in cui avevo
aperto il portale. La Fenice si posò sulla mia spalla,
osservando ciò che avevo riportato con me.
Il
bambino mi guardava con i suoi grandi occhi color smeraldo,
sorridendomi e mostrandomi le sue gengive rosse.
Un
anno con lui ed avrei avuto il pieno controllo sullo scorrere del
tempo. Avrei dovuto dargli un nome...?
"Eren"
"Eren"
"Eren"
"Eren"
"Eren"
Milioni
di voci, eppure una sola, sussurrarono al mio cuore.
«Benvenuto
al mondo, Eren. Io sono Levi, e sarò il tuo
maestro.»
-
Eren
crebbe velocemente, con mio grande stupore. Pochi furono i giorni in
cui ebbe bisogno di essere cambiato ed accudito con costanza, imparando
ben presto a camminare ed essere più autonomo. Da una notte
all'altra spuntarono tutti i dentini da latte, consentendomi di
nutrirlo con cibi diversi dal solo latte vaccino.
Non
ero mai stato un tipo di molte parole e, trascorrendo le mie giornate
in solitudine con la sola compagnia della Fenice, all'inizio mi
è stato molto difficile trovare argomenti di conversazione.
Non che servissero ad instaurare un dialogo, ma per destare
la sua mente in via di sviluppo.
Stimolavo
la sua vista con piccoli giochi di colori, bolle luminose che il
pargolo si divertiva a far scoppiare con le sue dita paffute.
Intarsiavo piccoli oggetti di legno per il tatto perché,
nonostante potessi crearne di perfetti a mio piacimento, farlo
manualmente avrebbe dato alla miniatura quelle irregolarità
che i suoi sensi necessitavano per progredire. Per l'udito e
l'immaginazione gli raccontavo delle origini del mondo, di come le
entità che lo governavano avevano plasmato terre e cieli,
consentendo a uomini ed animali la vita.
Nonostante
l'unica occasione in cui l'avessi pronunciata fosse stata durante il
nostro primo incontro, la prima parola che le labbra di Eren scandirono
fu per me totalmente inaspettata.
«Li-vaaaai!»,
cantilenò, correndomi incontro con la sua andatura
barcollante per poi aggrapparsi alla mia gamba, guardandomi coi suoi
occhioni pieni di meraviglia. Sono certo di non averlo dato a vedere e
che la mia espressione stoica sia rimasta invariata, ma sentii un lieve
tepore all'altezza del petto che mi lasciò basito.
In
poche settimane, Eren acquisì l'aspetto e le caratteristiche
di un bambino di un paio d'anni. Il mio stile di vita isolato mal si
addiceva ad una creatura di quell'età.
Aveva
bisogno di interagire con i propri simili, giocare ed apprendere le
basi sociali, per cui abbandonammo la mia dimora per dirigerci al
centro abitato più vicino.
Creai,
poco al di fuori del villaggio, una struttura simile a quelle dei
paesani. Lontani abbastanza da non dare nell'occhio, vicini a
sufficienza per permettere al moccioso di creare dei legami con altre
persone.
Al
mattino, mano nella mano, ci recavamo in paese per acquistare beni di
prima necessità, un modo come un altro affinché
entrasse in contatto con il prossimo.
Camuffavo
il mio aspetto con un incantesimo di volta in volta perché,
con la crescita veloce e costante di Eren, sarebbe parso strano agli
occhi dei locali vedere lo stesso uomo con un bambino "diverso" ogni
giorno. Così assumevo le fattezze di un anziano signore, una
massaia o un giovane garzone a seconda delle commissioni da svolgere.
Eren
giocava con i coetanei man mano che cresceva, ed io provvedevo alla sua
istruzione tra le mura domestiche: la sua straordinaria voglia di
conoscenza e velocità di apprendimento erano fuori dal
comune, regalandomi immensa soddisfazione. Nonostante le sue origini
mistiche, eccezion fatta per il suo rapido sviluppo psico-fisico, non
possedeva alcuna dote magica o potere particolare.
Persino
le piccole ferite ed escoriazioni che si procurava guarivano nei tempi
di un comune mortale qual era.
Ci
concentravamo sulla lettura, scrittura, brevi nozioni storiche e
piccoli esperimenti alchemici nei quali, ahimè, non
eccelleva: non erano rare le occasioni in cui il composto esplodeva,
sporcandogli viso e indumenti, costringendomi a lavarlo da capo a piedi
sotto lo sguardo attento della Fenice che non lo perdeva d'occhio
neanche un attimo. L'animale si era legato al bambino, intrattenendolo
in riva al fiume o facendosi rincorrere lungo i campi di grano che
circondavano la nostra casa. Le risa di Eren riempivano i silenzi,
deliziando le sue orecchie ed anche le mie.
Un
giorno, mentre ne accarezzava le piume scarlatte, Eren mi pose una
domanda.
«Perché
non ha un nome, Signor Levi?»
Sollevai
lo sguardo dal libro che tenevo in grembo.
«Non
ho mai voluto dargliene uno.»
«Perché?»
«Si
da un nome alle cose a cui ci si affeziona, Eren.»
«Vuol
dire che, se dovesse volare via, non ne sentireste la
mancanza?»
Tacqui,
non sapendo cosa effettivamente rispondere. Per quanto mi considerassi
insensibile non ero comunque un bugiardo, ed avrei palesemente mentito
affermando che, al verificarsi di una simile eventualità,
non ne sarei rimasto dispiaciuto. La Fenice, quasi intuendo i miei
pensieri, si posò sul mio braccio, strofinando il capo
piumato sul mio viso.
«Io
le sono affezionato. Posso darle un nome, Signor Levi?»
Mi
concessi qualche istante per riflettere, prima di annuire. Eren
sorrise, luminoso come non mai, saltandomi in braccio e raggiungendoci.
«Da
oggi ti chiamerai Isabel!»
L'animale
fremette, entusiasta, emettendo un verso acuto per poi librarsi in
volo, lasciando scie infuocate al suo passaggio.
«Signor
Levi, voi avete scelto per me un nome. Vuol dire che mi siete
affezionato?», chiese Eren emozionato, dondolandosi avanti e
indietro incapace di star fermo.
Con
naturalezza, senza rendermene conto, le mie dita trovarono i suoi
capelli castani in eterno disordine, carezzandoli piano.
«Può
darsi», fu tutto ciò che riuscii a dire.
-
I
dentini da latte vennero sostituiti da quelli permanenti nell'arco di
una settimana. Accompagnato da Isabel, celata sotto l'aspetto di un
cane per il pascolo, Eren aveva iniziato a recarsi in paese senza di
me.
Avevo
acquisito il controllo del tempo per ciò che concerneva la
flora: facevo fruttificare gli alberi a mio piacimento, germogliare le
piante, sbocciare i fiori. Potevo tramutarli nuovamente in semi, oppure
farli appassire trasformandoli in concime, restituendoli alla terra da
cui erano nati.
Mi
stavo dedicando a padroneggiare quella nuova abilità quando
vidi Eren, sporco e con le vesti strappate in più punti,
correre in casa.
Ora
aveva l'aspetto di un bambino di circa otto anni. Si strofinava
rabbiosamente il viso, mentre mi superava sfuggendo al mio sguardo
indagatore. La Fenice, sciolto l'artificio, si appoggiò
sulla mia spalla, triste ed affranta. Seguii il moccioso all'interno
dell'abitazione, dirigendomi immediatamente verso la sua stanza chiusa
a chiave.
«Eren.
Apri la porta.»
«Non
voglio che mi vediate così...!»
«Così
come, sporco?»
«...
Sconfitto.»
Restai
perplesso nell'udire quell'affermazione.
«Hai
fatto a pugni?»
«I-io...!
Non volevo, ma loro non la smettevano di prendermi in giro!»
«Perché?»
«Mi
chiamavano 'stupido orfano' per via del fatto che non ho la mamma
né il papà. Dicevano che sono un povero
disgraziato, per questo mi hanno abbandonato alla nascita. Non mi
volevano.»
Cercai
le parole più adatte per rincuorarlo, incerto su cosa fare.
Per Eren era normale il fatto che io praticassi la magia, che il suo
corpo si sviluppasse così velocemente e che avessi una
Fenice come animale da compagnia, ma nulla di tutto ciò era
comune in realtà. Gli Stregoni erano temuti, odiati,
scacciati dalla società.
Se
gli avessi detto che era una creatura nata per soddisfare un mio
egoistico capriccio, avrebbe capito?
Restai
lì impalato, quando la porta si aprì ed un
fulmine coperto di polvere e terriccio si fiondò tra le mie
braccia, sorprendendomi.
«A
me non importa se sono stato abbandonato. Mi avete preso con voi, e
siete molto meglio di qualunque genitore potessi mai
desiderare», mormorò col viso nascosto sul mio
addome, stringendomi forte. «Vi voglio bene, Signor
Levi.»
Restammo
così, immobili, e mi sentii un vero e proprio fallimento:
alla fine con poche, semplici parole, era stato Eren a consolare me.
-
Nei
giorni seguenti, decisi di insegnargli le tecniche basilari di caccia.
Il cibo certo non ci mancava, considerando il fatto che potevo
manipolare il ciclo vitale di intere piantagioni, tantomeno il denaro,
grazie all'alchimia che mi permetteva di tramutare pietre in oro.
Sentivo
comunque la necessità di renderlo indipendente come un
qualunque essere umano, nonostante le sue origini. Magari, di
lì a un anno, avrebbe proseguito lungo il sentiero su cui lo
avevo indirizzato e volevo far sì che padroneggiasse tutto
ciò che poteva essergli utile.
Le
nostre strade si sarebbero divise, ma non lo avrei lasciato inerme di
fronte le crudeltà della vita.
Ci
dirigemmo nel bosco più vicino e gli insegnai a distinguere
le impronte degli animali, il cinguettìo degli uccelli,
quali fossero le bacche commestibili e quali invece fossero velenose.
Su
questo Eren mostrò grande talento e predisposizione,
assorbendo ogni nozione con avidità e sfruttandole in
maniera saggia e intelligente.
Pochi
giorni e catturava conigli con la stessa facilità con cui
correva. Una settimana dopo scoccava frecce con precisione disarmante,
centrando sempre il bersaglio designato.
Era
un cacciatore nato.
«Signor
Levi, voi lo avete un cognome?», mi chiese, seduto su di una
roccia mentre masticava un rametto di liquirizia. Mostrava all'incirca
dieci anni, il suo corpo si allungava e i suoi tratti perdevano
lentamente le caratteristiche della prima infanzia, assumendo quelli di
un giovane adolescente.
«Sì.
Ackerman.»
«Chi
ve lo ha dato?»
«Mio
padre.»
«Erediterò
il vostro, allora?»
Lo
guardai a lungo, riflettendo se quella fosse una scelta saggia.
«Non
sono tuo padre, Eren.»
«Allora
non avrò mai un cognome...», rispose mogio.
«Non
è detto. Posso dartene uno, anche se non è il
mio.»
«Davvero?»
Saltò giù dal masso in preda all'entusiasmo.
Ponderai
con cura la parola che avrebbe potuto tramandare ai propri figli, e
scelsi. Una lingua arcaica, ruvida, poco usata in quelle terre.
«Jäger.
Vuol dire 'cacciatore'.»
Eren
mi sorrise e, come spesso mi capitava nell'ultimo periodo, mi persi ad
osservare le sue magnifiche iridi che custodivano il cuore delle stelle.
«È
perfetto! Grazie!», disse, stringendo al petto il proprio
arco come fosse un tesoro.
-
Erano
trascorsi poco più di cinque mesi, dal giorno in cui avevo
varcato il portale delle Dimensioni. Dal giorno in cui Eren era stato
affidato alle mie cure.
Mai
una volta si era ribellato a me.
I
suoi occhi però, quel giorno, parlavano di rabbia. Di
tradimento.
Aveva
trovato, tra i tomi che custodivo nella mia libreria, un diario in cui
annotavo i suoi progressi: le sue abilità e la sua
sorprendente crescita, la quale era parallela all'aumento del mio
controllo sullo scorrere del tempo.
Più
Eren si avvicinava all'età adulta, più il potere
aumentava.
Non
ero ancora pienamente consapevole di cosa avrebbe significato, ma
quegli appunti furono più che sufficienti a svelargli le sue
vere origini.
«Mi
hai mentito!»
Eren
mostrava tredici anni e per la prima volta si rivolgeva a me con modi
sgarbati. La sua devozione nei miei confronti era svanita, sostituita
dal disprezzo.
«Non
l'ho fatto. Semplicemente, ti ho celato la verità.»
«Hai
detto che mi avevano abbandonato!», urlò, gettando
all'aria tutte le pergamene sulla mia scrivania.
«Sei
stato tu a trarre questa conclusione. Il mio compito è
quello di prendermi cura di te.»
«Come...?
Riempiendomi di menzogne? Cosa sono io, in realtà? Un
mostro...?»
Non
ebbi il tempo di rispondergli. Come un fulmine spalancò la
porta, correndo lontano da casa. Lontano da me.
Dopo
secoli, sentii una fitta di dolore squarciarmi il petto.
Isabel
pigolò, un verso straziante, sbattendo furiosamente le ali
mentre la figura del ragazzino spariva oltre la collina.
Eren
era fuggito via, scosso e ferito, e qualunque cosa gli avessi detto non
sarebbe bastata a giustificare la sua venuta al mondo.
Il
Sole era calato. Nubi scure si erano addensate lasciando presagire un
brutto temporale, e di Eren ancora nessuna traccia.
Camminavo
per la stanza, indeciso se avventurarmi fuori correndo il rischio che
tornasse e non fossi lì ad accoglierlo. A spiegargli il
perché fosse nato, e a quale scopo.
Quando
i primi fulmini squarciarono il cielo, afferrai il mantello e mi
precipitai nella stalla. Sellai il mio cavallo - Farlan, lo aveva
chiamato - e con Isabel a illuminarmi la strada mi lanciai al galoppo
verso il bosco.
La
pioggia non si fece attendere, e con essa la nebbia. Non fosse stato
per la Fenice, che sfruttava al massimo la propria magia, non avrei
visto a un palmo dal naso.
«Eren!
Eren!»
Gridavo
tentando di farmi udire attraverso la tempesta, ma non ottenni
risposta. Più mi addentravo tra gli alberi, più
le mie speranze di trovarlo si affievolivano.
«Eren!
Er-»
Con
un nitrito Farlan cadde rovinosamente in un burrone, il terreno che
cedeva sotto i suoi zoccoli.
Quando
riaprii gli occhi la povera bestia era sofferente al mio fianco,
infreddolita. Respirava a fatica, la zampa spezzata.
Non
sprecai tempo nel controllare in che condizioni io fossi: ero
immortale, non sarei morto in ogni caso, e qualunque ferita avessi
riportato poteva aspettare. Concentrai le mie energie sull'arto
dell'animale, tentando di riavvolgere il flusso del tempo e riportarlo
al momento in cui era in perfetta salute.
Un
tenue bagliore, il suono dell'osso che tornava al proprio posto, ed il
cavallo si rimise velocemente in posizione eretta passandomi il muso
tra i capelli bagnati.
Di
Isabel nessuna traccia. Camminai alla cieca tenendo Farlan per le
briglie, scorgendo finalmente la fiamma della creatura in lontananza.
Non volava, sembrava poggiata su qualcosa.
Qualcuno.
Corsi,
il terrore che si impossessava prepotentemente del mio essere, e mi
lasciai cadere al suo fianco con le ginocchia nel fango.
Distesa,
con le ali spiegate e la lunga coda a proteggerlo, tentava di scaldare
Eren col proprio calore.
Il
ragazzo era pallido e col viso graffiato, gli abiti pregni d'acqua e
strappati in più punti. Tremante, presi la sua mano tra le
mie: era gelata, ma respirava ancora.
«Eren!
Rispondimi Eren!»
Provai
a manipolare il tempo ancora una volta, senza successo: probabilmente
non ero potente abbastanza, non quanto bastava da influenzare quello
concesso agli uomini.
Mi
sfilai il mantello, avvolgendovi il ragazzo e sollevandolo tra le mie
braccia. La pioggia mi sferzava il viso, ma non aveva importanza: la
vita di Eren era in pericolo e non potevo perdere un solo istante. Lo
caricai sul dorso della mia cavalcatura cercando di essere il
più delicato possibile, montando poi in sella.
Corremmo
veloci più del vento, risalendo la scarpata, tentando di
ritrovare il sentiero iniziale con Isabel che ci guidava.
Coi
talloni spronavo Farlan urlandogli di aumentare l'andatura, e lo
stallone esaudì la mia richiesta. Giungemmo a casa che
ancora diluviava e mi precipitai all'interno con Eren esanime.
Lo
privai dei vestiti fradici a causa del maltempo, controllando che non
avesse nulla di rotto. Era pieno di tagli, vari ematomi probabilmente
provocati da una caduta simile alla nostra, ma a parte quello sembrava
fosse intero.
Lo
ripulii dallo sporco, evitando che qualche ferita si infettasse
applicando un medicamento curativo.
Le
sue membra erano ghiacciate tanto quanto bollente era il suo corpo. La
febbre era altissima, rischiando di consumarlo dall'interno ed
ucciderlo.
Non
potevo permetterlo.
Applicai
delle garze imbevute di un composto fresco e idratante sui punti
vitali, tentando di far calare la temperatura. Veniva ripetutamente
scosso dai brividi, il volto rosso e imperlato di sudore, mentre gli
tenevo la mano attendendo che la natura facesse il suo corso. Che il
Tempo, che tanto avevo maledetto per avermi lasciato in quel limbo,
accogliesse le mie preghiere.
Isabel,
sul suo trespolo, non emetteva un singolo suono restando in religioso
silenzio. Anche lei attendeva che il ragazzo aprisse gli occhi,
chiamandola a sé per carezzarle il folto piumaggio.
Quando
la febbre raggiunse il suo picco massimo, Eren iniziò a
delirare. Farfugliava parole senza senso, quasi stesse dialogando con
qualcuno. Già quello di per sé era straziante, ma
fu quando invocò il mio nome che mi sentii morire.
«L-Le...
-vi! Levi...! Dove...? N-non... -narmi...! Non -»
«Sono
qui Eren, accanto a te! Resisti, ti prego...! Non
lasciarmi...», lo supplicai, sperando che superasse quella
notte perché, se lui fosse morto, non so quanto di me invece
sarebbe sopravvissuto.
Il
mattino dopo, il ragazzino aprì gli occhi. Si
guardò intorno, spaesato, per poi fissarmi con le sue iridi
smeraldine, brillanti e luminose.
«Signor
Levi... Cosa è successo?»
«Non
ricordi?», gli domandai stupito.
«N-no,
io... Mi fa male dappertutto... Farlan mi ha disarcionato?»
«Quel
cavallo ti adora, piuttosto che farti cadere mi calpesterebbe senza
troppi problemi.»
Eren
rise, debole e gracchiante, ma non riuscii ad esserne sollevato. Avevo
rischiato di perderlo, e non avevo alcuna intenzione di correre
nuovamente un simile rischio.
«Devo
dirti una cosa», esordii. «Voglio raccontarti di
come sei venuto al mondo.»
Fu
così che, ottenuta un'inaspettata seconda
possibilità, gli rivelai che era nato in risposta al mio
egoismo. Che desideravo poter controllare il tempo in modo da non dover
attraversare secoli di solitudine, ma avendo qualcuno al mio fianco.
Che ci saremmo separati, ma che lo avrei sempre custodito tra i miei
ricordi più preziosi.
Eren
ascoltò, serio in viso, tutto quello che avevo da
confessargli. Tacque, assimilando le nuove verità, ed io
attesi: una sua risposta, un gesto, qualsiasi cosa.
«Esisto
per merito vostro,» disse infine. «Vi devo la vita
due volte, dopo stanotte. Grazie.»
Mi
sorrise così dolcemente che mi odiai nel ricevere tanta
gratitudine immeritata. Gli strinsi forte la mano, senza distogliere lo
sguardo neanche un attimo.
«Tu
non mi devi niente, al contrario. Sono io a doverti tutto.»
«Ma
Signor -»
«Levi.
Solo Levi.»
Quella
notte avevo perso quello che credevo di considerare solo un allievo,
scoprendo di aver invece ottenuto una famiglia.
-
Quel
giorno sellammo il cavallo e, con Isabel che ci osservava dall'alto,
seguimmo il fiume diretti verso l'oceano. Mi occorrevano delle erbe
medicamentose che crescevano solo in prossimità delle rocce
calcaree presenti sulla costa, e di alcuni minerali che si
cristallizzavano nel sedimento sabbioso da utilizzare nei processi
alchemici.
Eren,
alle mie spalle, studiava il paesaggio circostante con
curiosità, domandandomi di tanto in tanto il nome delle
nuove specie animali che incontravamo sul nostro cammino.
Non
aveva mai visto il mare e, data la sua indole indomita ed avventurosa,
ero certo che ne sarebbe rimasto piacevolmente colpito.
Superati
gli ultimi scampoli di vegetazione, un lieve vento dall'odore fresco e
salino ci investì. Il suono delle onde che s'infrangevano
sul bagnasciuga era rilassante.
Non
feci nemmeno in tempo ad arrestare l'avanzata di Farlan che il ragazzo
alle mie spalle balzò giù, affondando con gli
stivali nella sabbia e rischiando di perdere l'equilibrio.
«Woah!»
Smontai
a mia volta, assicurando le briglie ad un vecchio mezzo tronco,
privandomi di calzature e mantello e incamminandomi con una sacca sulla
spalla. Eren mi imitò subito dopo.
«È
molto calda! E sottile, e bianca... Sembra brillare!»,
esclamò estasiato, arrotolando l'orlo dei pantaloni per
evitare di bagnarli una volta in acqua. Vi si immerse fino alle
caviglie, ammirandone la trasparenza, raccogliendo una conchiglia tra
le mani.
Io
restai in disparte, attendendo che terminasse la sua esplorazione e
iniziassimo a cercare ciò per cui eravamo venuti.
Più
lo guardavo, più mi tornavano alla mente le sue parole di
appena qualche settimana prima.
«Cosa
sono, in realtà? Un mostro...?»
La
sua nascita di certo non era un evento comune così come lo
scopo, a me ignoto, per cui era stato concepito. Bastava questo per
definirlo un essere spaventoso?
«-
oltre?»
«Eh?»
La voce di Eren mi riscosse dai miei pensieri.
«Cosa
c'è oltre?»
Il
giovane puntava l'orizzonte, oltre il quale la distesa salata si
perdeva. Le sue iridi brillavano, curiose ed attente, la sua domanda
che permeava l'aria. Chiunque altro sarebbe rimasto semplicemente
folgorato dall'oceano in sé ma non lui, che già
immaginava luoghi inesplorati, montagne ghiacciate e laghi infuocati
come nei libri che gli avevo mostrato.
Ne
ero irrimediabilmente affascinato. Poteva davvero una creatura tanto
preziosa e rara essere paragonata ad un abominio?
Restammo
così, a scrutare la linea oltre la quale acqua e cielo si
univano, e guardando il suo profilo ebbi l'assoluta certezza che Eren
fosse un mostro dalla terrificante bellezza.
-
Ero
seduto sul prato, al riparo dal Sole grazie alla folta chioma di un
albero nei pressi della nostra nuova dimora, ed osservavo Eren.
Ci
eravamo trasferiti nelle vicinanze dell'ennesimo villaggio per non
destare troppa curiosità nei paesani.
Mostrava
circa 16 anni. Era divenuto più alto, i capelli erano
cresciuti dandogli un aspetto ribelle, il fisico era allenato grazie ai
combattimenti corpo a corpo a cui lo sottoponevo ogni giorno. Le
ragazze del luogo, ogni qualvolta attraversavamo la piazza principale,
sospiravano sognanti.
Era
bello, Eren, come pochi altri: affascinante, intelligente, generoso col
prossimo, dai modi gentili eppure forte e deciso.
«Levi!»
Sul
dorso di Farlan, mi salutò sollevando una mano, le ciocche
castane mosse dalla leggera brezza e gli occhi che brillavano come
pietre preziose.
Seppur
ancora sorprendente, la sua crescita era sensibilmente rallentata.
Mancavano pochi mesi alla nostra separazione, ed io controllavo con
maestria lo scorrere del tempo di fauna e flora. Per ciò che
concerneva l'essere umano, ero ormai certo che lo avrei padroneggiato
molto presto.
Gli
sorrisi. Erano anni che il mio viso non assumeva una simile
espressione, ma con lui era facile come respirare. Inizialmente mi ero
chiesto il perchè, quando per decenni nulla suscitava in me
altro che indifferenza. La conclusione a cui ero giunto era forse
scontata, eppure la più logica.
Ero
innamorato.
Amavo
Eren in un modo che non credevo possibile, nemmeno lontanamente
concepibile.
Lo
avevo nutrito, cresciuto, educato al meglio delle mie
possibilità per ottemperare all'obbligo che mi era
inizialmente stato imposto. Per quanto gli fossi legato, comunque, non
lo avevo mai considerato un figlio e - nonostante io non sappia dire
esattamente quando - gradualmente non ho più visto un
adolescente a cui badare, bensì il giovane uomo in cui si
stava trasformando.
Osservavo
ogni particolare, ascoltavo attentamente ogni sua parola, e quella
sensazione che scaldava il mio petto non faceva altro che espandersi ed
acuirsi.
Il
modo in cui rideva, l'espressione concentrata nel tendere l'arco mentre
puntava la sua preda, il colorito caramellato della sua pelle, la sua
voce che diventava più profonda. Persino le minuzie, come il
piccolo neo che aveva sul collo, mi erano estremamente care.
Nascondevo
gelosamente quei sentimenti dentro di me. Allo scadere del nostro anno
insieme avrebbe potuto scegliere la sua strada, cosa fare della propria
vita, persino una compagna con cui condividerla. Il pensiero che si
sentisse in dovere di restare al mio fianco, prigioniero del mio
ennesimo capriccio, era per me aberrante.
Avevo
sempre vissuto seguendo le mie regole e desideravo che lui facesse
altrettanto.
Osservai
la sua figura rientrare in casa dopo aver legato la cavalcatura nella
stalla, e ripresi a leggere il libro che tenevo in grembo.
«Levi!!»
Stavolta
il suo tono non era allegro, ma spaventato.
Corsi
dentro, trovandolo nella sua stanza accucciato accanto ad Isabel,
distesa sulle assi in legno del pavimento. Respirava a fatica, le piume
scolorite, lo sguardo assente. Sapevo esattamente cosa sarebbe accaduto
di lì a poco.
«Aiutala,
ti prego!»
«Non
posso, Eren.»
«Sta
morendo! Riavvolgi il tempo!», mi supplicò, gli
occhi resi lucidi dalle lacrime a stento trattenute.
«Il
suo ciclo è diverso da quello degli altri animali.
È giunto il suo momento.»
In
quell'istante, Isabel esalò il suo ultimo respiro.
Restò ferma, immobile, ed il suo corpo prese fuoco sotto lo
sguardo attonito di Eren, lasciando solo un mucchietto di cenere.
«No...
No!» Gridò, battendo i pugni al suolo e
digrignando i denti. Mi chinai accanto a lui, poggiandogli una mano
sulla spalla.
«Osserva,
Eren.»
Dal
cumulo grigio, una piccola piuma scarlatta fece capolino, seguita
immediatamente da una testolina arruffata.
Con
le piccole ali si liberò della fuliggine, sbattendole
ripetutamente e pigolando. Ancora una volta, Isabel era rinata dalle
proprie ceneri, pronta ad affrontare una nuova esistenza e
così all'infinito, al mio fianco.
Eren,
stupito e col volto rigato dalle lacrime, la fece zampettare sui suoi
palmi aperti, osservandola da vicino.
«Lei
è...»
«È
una Fenice. È ciò che di più vicino
all'immortalità io sia riuscito a creare», dissi
malinconico.
«Vorrei
essere come lei e poter rinascere un domani, per restarti
accanto.»
A
quelle parole, il cuore che credevo avvizzito prese a pompare
velocemente.
«Hai
la tua vita, Eren. Io sono uno spirito dannato, e tu un ragazzo pieno
di energie. Usale come meglio credi, non badare a me. Sono solo un
povero vecchio, anche se il mio aspetto sembra quello di un
uomo.»
Non
attesi una risposta, né lo guardai in volto. Uscii dalla
stanza, lasciandolo lì con la giovane Fenice, incamminandomi
lungo il sentiero.
Mi
sentivo stanco.
Continuavo
a ripetermi che, da lì a poco, avrei avuto il potere che mi
avrebbe permesso di ottenere la compagnia che per secoli avevo
desiderato. Un'anima folle quanto bastava da anelare l'eterna
giovinezza e trascorrerla con me.
Eppure,
l'unica persona che volevo accanto era quella che sapevo per certo di
non poter avere. Ancora una volta, il Destino mi aveva giocato un tiro
mancino.
Sapevo
con innegabile sicurezza che non avrei mai desiderato nessun altro che
non fosse Eren, non ora che avevo scoperto di poter provare un
sentimento tanto intenso.
-
Mancava
poco. Contavo i minuti con morbosità, non sapendo cosa
realmente aspettarmi.
Un
anno.
Avevo
sempre reputato ogni singolo giorno, prima di conoscere Eren, fin
troppo lungo. Ne erano trascorsi ben trecentosessantacinque, ed erano
letteralmente volati.
Il
portale si sarebbe riaperto da solo? Eren sarebbe svanito, condotto
altrove? Avrei avuto il tempo di salutarlo, di dirgli addio...? Di
accarezzarlo un'ultima, straziante volta?
Con
questi pensieri che affollavano la mia mente passeggiavo lungo il
fiume. Il mio protetto cacciava poco distante dilettandosi con l'arco,
consapevole che non avevo più nulla da insegnargli.
Poi
in lontananza scorsi una figura distesa a riva. Se la posizione non
fosse stata oltremodo innaturale, chiunque avrebbe detto che stesse
dormendo. Una giovane fanciulla, dai lunghi capelli biondi, giaceva
lì.
Morta.
Il
viso cinereo, le labbra viola, le vesti sporche e strappate.
Probabilmente era annegata e le acque erano state clementi abbastanza
da riportare almeno il suo corpo a galla, offrendo alla sua famiglia la
possibilità di darle una degna sepoltura.
Le
spostai i capelli dal volto. Era davvero bella. Forse...
Mi
concentrai, tentando di agguantare il flusso del suo tempo ormai giunto
al termine. Di riavvolgerlo, affinché la sua pelle si
tingesse nuovamente di rosa e il suo cuore tornasse a battere.
Un
bagliore la avvolse e riprese colore, gli abiti tornarono immacolati,
il suo petto che si alzava ed abbassava. Lentamente aprì gli
occhi rivelando due magnifiche iridi, azzurre come il mare.
La
sua bellezza era disarmante e, per un istante, pensai che forse sarebbe
stata la compagna perfetta in quel mio viaggio senza fine. Il volto di
Eren era però indelebilmente marchiato a fuoco nella mia
anima, e sapevo che non vi era alcuno spazio per nessuno all'infuori di
lui.
Uno
stridìo straziante squarciò l'etere. Isabel
gridava, chiamandomi a gran voce, e sapevo bene che l'unica cosa che
potesse farla agire in tale maniera aveva un nome.
Eren.
Lasciai
lì la ragazza, ancora stordita e incredula, correndo a
perdifiato nella direzione da cui proveniva il suono. Quando li trovai
mi sentii gelare.
Farlan
tentava di svegliare il ragazzo riverso a terra col suo muso umido,
mentre Isabel sbatteva freneticamente le ali come a sollecitarmi.
«Eren!
Cos'hai?! Eren!»
Il
giovane rimase incosciente e, caricato sul cavallo, galoppammo verso
casa. Lo portai dentro, adagiandolo sul letto, e mi sembrò
di rivivere quella notte infausta di mesi prima. Allora avevo pensato
che non potevo perderlo. La realtà, ora, era che non volevo.
Perché
stava male? Cos'era accaduto? Non era ferito e, apparentemente,
sembrava in salute. Poche ore prima mi aveva salutato, dicendomi che
quella sera avremmo mangiato stufato di cervo.
Un
pensiero attraversò la mia mente ed il terrore, come un
fulmine, mi sconquassò da capo a piedi.
Avevo
inconsapevolmente attinto al flusso temporale di Eren ogni singola
volta che avevo usato il mio potere.
Il
ragazzo era un semplice contenitore, creato dal Tempo stesso
affinché imparassi a padroneggiare gradualmente
quell'abilità. La sua crescita che rallentava mentre il mio
potere andava invece rafforzandosi... Sgranai gli occhi, dilaniato
dallo sgomento.
Avevo
usato il mio talento sulla giovane per riportarla in vita e
così facendo avevo fatalmente privato Eren delle ultime
scintille mistiche a sostenerlo. Poco a poco, giorno dopo giorno, lo
avevo ucciso.
Provai
a riavvolgere il tempo, restituirgli la linfa che gli avevo
inconsciamente sottratto. Fallii miseramente.
«No...
NO!!»
Lasciai
il suo capezzale, deciso a tentare l'impossibile per far sì
che vivesse. Uscii fuori e, incurante del fatto che qualcuno
avrebbe potuto vedermi, diedi fondo a tutte le mie energie. Coi palmi
al suolo che si frantumava sotto i miei piedi, aprii il portale delle
Dimensioni.
Ancora
una volta, circondato da venti impetuosi, mi trovai dinanzi al Tempo
stesso.
I
suoi occhi verdi, custodi di mille segreti, mi scrutavano curiosi.
«Cosa
vuoi, Stregone?», mi chiese ancora una volta.
«Eren
sta morendo!»
«Lo
so», mi disse. «Tornerà a far parte del
grande flusso da cui è nato. Tornerà a
casa.»
«La
sua casa è sulla Terra!»
«La
sua casa è con suo padre, con me.»
Il
respiro mi si mozzò in gola.
Eren
era il figlio del Tempo.
«Perché
dargli la vita, per poi lasciarlo morire...?»
«È
il destino di ogni essere vivente, Stregone. Tornerà qui,
arricchito delle esperienze terrene e dei propri ricordi, dando un
contributo all'universo stesso.»
«Ha
avuto poco tempo!»
«O
forse sei tu ad averne troppo...?»
Era
da lì che tutto era partito, il mio stupido egoismo.
«Non
desidero più il tuo potere! Riprendilo e
restituisciglielo!»
Il
Tempo sembrò rifletterci un istante.
«Non
posso», disse infine. «Quel flusso non è
più puro, perché è stato
manipolato.»
Le
mie gambe cedettero. Avevo ucciso l'unica persona che avevo amato e la
consapevolezza che gli sarei sopravvissuto, annientato dal suo perenne
ricordo, era troppo da sopportare.
«Prendila,
ti prego...»
«Cosa?»
«La
mia immortalità. Prendila. Liberami da questo
fardello.»
«Perché
mai dovrei farlo?»
«Perché
non ha senso vivere una vita senza colui che amo. Prendila,
affinché possa morire per seguirlo.»
Fissai
il Tempo e la sua figura evanescente, pregando che accogliesse la mia
supplica. Se non potevo vivere in un mondo in cui c'era Eren, almeno
sarei morto con lui.
«La
tua immortalità è un flusso immacolato. Posso
infonderla in lui, ma verrà tramutata in un arco temporale
terreno, esattamente come sarà da ora in poi il
tuo.»
La
speranza gonfiò il mio cuore.
«Fallo,
ti scongiuro!», lo implorai e sentii una parte di me svanire,
dissolversi, lasciandomi con una sensazione di profondo vuoto.
La
mia immortalità e il potere di governare lo scorrere del
tempo mi erano stati sottratti ed aleggiavano dinanzi i miei occhi,
bolle colorate e informi.
«Incontrerò
presto mio figlio. In fondo, qui una vita mortale non è
altro che un battito di ciglia. Saprò attendere. Nel
frattempo, abbi cura di lui.»
Mi
ritrovai nel cratere che si era formato, nell'aprire il portale, fuori
la mia dimora. Incespicando, corsi in casa sperando che il Tempo avesse
tenuto fede alla parola data.
Il
letto era vuoto.
Mi
lasciai cadere mentre la disperazione si faceva largo nel mio cuore,
pronta ad ingoiarlo in un sol boccone cibandosene con cupidigia.
«Levi...?
Che ti prende?»
Mi
voltai ed Eren era lì, dietro di me, che reggeva un
bicchiere d'acqua guardandomi perplesso.
Mi
gettai su di lui facendo cadere entrambi, il liquido trasparente che
bagnava il legno del pavimento irregolare e scheggiato.
«Sei
vivo...!» Le mie dita artigliarono i suoi abiti mentre il suo
profumo mi riempiva le narici. «Credevo di averti
perso...»
Le
sue braccia mi avvolsero, stringendomi, il volto sul mio capo.
«Ero
qui. Ti stavo aspettando.»
Con
un nodo alla gola, presi un respiro profondo. Il momento
inesorabilmente era giunto, quello in cui avrei dovuto lasciarlo libero
come era giusto che fosse.
«L'anno
a nostra disposizione è finito, Eren: puoi scegliere la tua
strada, andare ovunque vorrai, trovare il tuo posto nel mondo. Puoi
essere felic-»
Impiegai
qualche istante per capire cosa stesse accadendo.
Le
labbra di Eren, morbide e carnose, premevano sulle mie, sottili e
screpolate. Teneva gli occhi ostinatamente chiusi, le palpebre serrate,
mentre le sue mani scorrevano tra i miei capelli scuri.
Quando
le sue iridi incontrarono finalmente le mie, la scintilla di universo
che riluceva attraverso di esse era svanita. Era divenuto un mortale a
tutti gli effetti e mi guardava incerto, titubante.
«L'unico
posto in cui posso essere veramente felice è quello accanto
a te, l'uomo che amo. Se lo vorrai, vivrò la mia breve
esistenza al tuo fianco. Resterai giovane ed io diventerò
vecchio, ma prometto che ti amerò fino alla fine dei miei
giorni.»
Sorprendendo
lui e me stesso lo baciai, impossessandomi della sua bocca come se ne
valesse della mia vita, ed era esattamente così. Nulla mi
avrebbe più separato da Eren.
«Sono
un mortale ora, proprio come te. La mia pelle raggrinzirà e
le mie gambe cederanno sotto il peso degli anni a venire, e non
desidero altro che trascorrerli con l'unica persona che abbia mai amato
negli ultimi cinque secoli.»
Eren
mi sorrise, abbagliandomi come l'astro solare, ed io piansi. Una
singola, unica lacrima, versata dopo un'eternità arida e
solitaria. Con uno scintillìo cadde sulle nostre mani
giunte, luminosa e brillante. L'ultima goccia di immortalità
ivi contenuta abbandonava il mio corpo, intaccando i flussi del nostro
tempo terreno e allungandoli di qualche decade.
Forse
non saremmo invecchiati così presto...
-
Vivevo
un'esistenza pacifica.
Nonostante
i miei poteri di Stregone fossero rimasti intaccati, io ed Eren
costruimmo - asse dopo asse e tegola dopo tegola - la nostra dimora.
Era calda, accogliente, dall'aspetto grezzo ed imperfetta. Esattamente
come la volevamo.
Non
ci mancava nulla e, anche se così fosse stato, il sentimento che ci univa
bastava a compensare qualunque penuria materiale.
I
primi acciacchi, dopo secoli di salute invidiabile, iniziarono a farsi
sentire ma non quanto bastava da farmi mettere al tappeto dal mio
compagno durante i nostri allenamenti quotidiani. Le giornate
trascorrevano così tra battute di caccia e pesca, lunghe
passeggiate e vita di paese.
Avevamo
sperimentato, entrambi per la prima volta, l'amore carnale e quell'atto
aveva solo contribuito a legare le nostre anime in modo indissolubile.
Eren era un amante attento, premuroso, intraprendente ma allo stesso
tempo bisognoso di coccole ed avido di piacere.
Ci
completavamo a vicenda, in un mondo dove ogni istante era prezioso ed
ogni parola, tocco e respiro era qualcosa da custodire gelosamente.
Osservavamo
il tramonto sulla collina, all'ombra di un albero secolare, con Farlan
che pascolava poco distante ed Isabel appollaiata su di un ramo.
«Levi...»
«Mh?»
«Avresti
preferito rimanere immortale?», mi chiese, il suo tono serio.
«Se non mi avessi salvato, avresti potuto vivere per
sempre...»
Allungai
una mano sul manto erboso, trovando la sua e stringendola con tenera
decisione.
«Non
rimpiango un singolo giorno di aver rinunciato all'eternità.
Avrei barattato mille anni in cambio di un tuo sorriso. La mia vita non
avrebbe senso senza di te, Eren. Ti amo più di quanto
potrò mai esprimere a parole.»
Eren
mi guardò coi suoi magnifici occhi verdi che ora custodivano
la grandezza del nostro amore. Mi baciò e, attraverso di
lui, vidi come saremmo cresciuti, invecchiati. Come saremmo morti ma,
soprattutto, come saremmo vissuti.
Amandoci
fino al nostro ultimo respiro e anche dopo, attraverso lo scorrere del
tempo.
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