12 Agosto, New York

di CHAOSevangeline
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Brevi note introduttive per dire che questa storia è stata una corsa dell'ultimo minuto, scritta tutta oggi in preda all'ispirazione. Ci tenevo a fare qualcosa per il compleanno di Ash e così ecco qui, un piccolo imprevisto sulla mia tabella di marcia.
Vorrei dire che è priva di aspettative, ma per il periodo che sto attraversando un po' ne ha.
Ci tengo a sottolineare che la storia non contiene spoiler. Fa riferimento ad informazioni già fornite entro l'episodio sei dell'anime e non dà informazioni sul manga.
Detto questo, spero che il racconto vi piaccia e vi vada di darmi un parere!
Buona lettura ~



 

12 Agosto, New York




Ash aveva festeggiato il suo ultimo compleanno a Cape Cod undici anni prima, prima che Griffin partisse per il Vietnam. Prima che il suo amato fratello, quello che scriveva lettere appassionate e cariche d’affetto solo per lui, che lo accompagnava di porta in porta la notte di Halloween e che lo avrebbe protetto con la sua stessa vita, si trasformasse in un involucro senz’anima, un guscio svuotato di pensieri e sentimenti. Inaridito dell’essere Griff, della sua essenza. Un corpo ancora in vita ma dagli occhi spenti, una persona che non era più suo fratello. Che si era dimenticato chi fosse Aslan.
La sua famiglia non era mai stata per i festeggiamenti in grande: Jennifer preparava una deliziosa torta di mele e suo padre non gli allungava nemmeno cinque dollari di mancia per delle caramelle.
Ad Aslan stava bene così.
Di quei festeggiamenti, il piccolo Aslan si sentiva in colpa a pensarlo, non gli importava molto.
Certo, era grato a Jennifer per la premura nell’assicurargli il suo dolce preferito ogni anno almeno in quell’occasione, ma era ciò che accadeva dopo, la notte che già inghiottiva il promontorio ventoso su cui viveva, ciò che Aslan attendeva di più al mondo. E si sa, i bambini non sanno nascondere ciò verso cui tende davvero il loro cuore, la loro innocenza non gli fa comprendere perché dovrebbe essere necessario sprecare preziose energie in questo.
Lui e Griffin si rintanavano nella loro casa, la luce spenta eccetto quella di una candela. E altre quattro, cinque, sei.
«Ho rubato una fetta di torta, speriamo che Jennifer non se ne accorga», aveva detto Griff la prima volta.
Il tono di chi aveva corso un rischio enorme, di chi avrebbe potuto provocare una collera non indifferente ma che, nonostante tutto, avrebbe corso quel rischio altre mille volte.
Glielo diceva con la sua intonazione da cantastorie, Griffin, quel tono capace di rendere solenne anche la più insignificante delle azioni; entrambi sapevano che Jennifer era troppo buona per arrabbiarsi, che dire di doversene preoccupare suonava come un’incredibile bugia. Ma Aslan lo guardava, gli occhi verdi spalancati. Lo ammirava promettendosi che anche lui, da grande, avrebbe rubato a sorpresa una fetta di torta per Griffin, per festeggiare il suo di compleanno.
Ogni anno Griffin, la notte del dodici agosto, si sedeva sulla sedia del loro soggiorno. Portava le dita robuste sotto le braccia di Aslan, le stringeva intorno al suo busto esile con una delicatezza che mai il bambino aveva provato se non grazie a lui e se lo portava sulle gambe. Sapeva che Aslan lo odiava, che non gli piaceva essere trattato da bambino: lui era l’unico a cui concedeva quel lusso.
«Adesso conto fino a tre», le parole di Griffin raggiungevano le orecchie di Aslan mentre il bambino pensava solo a quella fetta di torta da dividersi, alla luce delle candele che lo ipnotizzava, che lo rapiva e lo portava verso mondi lontani. «Tu pensa a un desiderio e poi soffia, d’accordo? Sai come funziona.»
E forse quel rituale era così di conforto proprio perché ogni anno era identico. Ogni anno Aslan sapeva che Griff lo avrebbe stretto in quel modo, che l’avrebbe preso in braccio una sola volta e che gli avrebbe rivolto quelle parole.
E lui si sentiva al sicuro.
Aslan annuì, la cascata bionda che si agitava intorno alla testolina tonda.
«Va bene. Allora uno…»
Alsan sapeva già quale desiderio esprimere.
«Due…»
Non aveva bisogno di altro.
«Tre!»
Aslan soffiò tutta l’aria che aveva nei polmoni contro le fiamme delle candeline, spegnendole e facendo tremolare anche la sorella maggiore, più lontana sul tavolo.
La mano con cui Griff non lo reggeva stava accarezzando la sua schiena.
«Bravissimo!» esclamò, prima di sporgersi e dargli un bacio sulla guancia.
Aslan rise, perché quelle attenzioni gli piacevano, ma lo mettevano anche in imbarazzo. Era un ometto, lui.
«Che cos’hai desiderato?» gli domandò Griffin.
Aslan serrò le labbra in una linea.
La prima volta, quando stava per rivelarglielo, Griffin gli aveva fatto cenno di rimanere in silenzio con il dito. «Un desiderio non va mica rivelato, Aslan!» aveva detto.
E se lo diceva Griff allora doveva trattarsi della verità. Non gli avrebbe mai mentito.
Il bambino scosse il capo.
«Non te lo dico!»
«Ah, non me lo dici?»
«No!»
Griffin rise e gli arruffò i capelli.
«Allora mangiamo la torta, ti va?»
E Aslan se ne era dimenticato, perché al regalo non ci pensava mai, ma quando ebbero finito la loro torta si ritrovò fra le mani una penna nera.
«Quella che uso per scrivere», aveva detto Griffin. «Così avrai sempre qualcosa del tuo fratellone.»
 
Dieci anni dopo Ash aveva smesso di festeggiare il compleanno.
Era passato tanto tempo dall’ultima fetta di torta rubata a Jennifer a Cape Cod, dall’ultima volta che Griffin lo aveva tenuto sulle gambe per fargli spegnere le candeline.
Ash si era scordato della propria data di nascita fingendo di riuscirci.
Se aveva fortuna si svegliava senza ricordare che giorno fosse, ma era una persona troppo attenta e puntuale per non ricordarlo mai, per darsi tregua e lasciarsi in pace. Era come se il suo cervello non aspettasse che poter tormentare il cuore, ferito e provato: all’inizio di agosto la sua testa faceva cominciare un logorante conto alla rovescia a partire da dodici. Gli saliva la nausea ogni notte, fra le coperte sgualcite, quando si rendeva conto che il numero era diminuito di un’unità e che in fretta era arrivato ad essere minore di dieci, di cinque, di tre.
Il suo cervello lo esasperava e la mattina di quella data, qualsiasi giorno della settimana fosse, richiamava i peggiori pensieri ad accarezzare la sua mente
E in fondo lui era un masochista, perché non riusciva a non pensarci. Ash non poteva fare a meno di ricordarsi ciò che aveva perso e per anni aveva tenuto un totem di quella perdita nella stanza accanto; per anni aveva avuto suo fratello, quello che sì, aveva perso in Vietnam, seduto su una sedia a rotelle nella stanza adiacente.
Ash aveva provato a festeggiare di nuovo con Griffin, una volta. Il bambino che ancora viveva in lui, l’Aslan che Ash celava a tutti e che aveva bisogno di conforto almeno una volta l’anno, aveva comprato una fetta di torta in un negozio.
Una spiacevole sensazione lo aveva seguito in ogni attimo. Unico compagno strisciante e indesiderato, quel formicolio alla bocca dello stomaco che ti dice che le cose non stanno andando come vorresti mentre tu ti sforzi di farle funzionare ugualmente.
Cambiare le tradizioni non fa male però, no?
Ash si era convinto di poter costruire dei ricordi piacevoli, di poter vivere nel presente e non nel passato per un solo giorno all’anno, senza rimpianti. E si era sforzato di convincersene per non sentirsi sciocco mentre dava i soldi alla cassiera che gli aveva restituito un elegante sacchettino di carta contenente la sua torta.
Lo aveva guardato come se un ragazzino vestito di denim non fosse adatto a una pasticceria chic nel centro di New York e forse aveva ragione, ma se ne era dimenticata nell’istante in cui aveva dimostrato di poterla pagare.
Nella sua stanza, quella nel quartiere della sua banda, Ash aveva acceso una candelina e l’aveva puntata nella fetta di torta. Una sola, unica superstite come quell’usanza sospesa per anni. Non lo stava nemmeno festeggiando di sera quel compleanno, fuori non solo la luce delle stelle nel buio della notte. Era tutto sbagliato e si sentiva uno stupido.
Gli ricordava l’anno in cui, Griffin di servizio in Vietnam e lui ancora a Cape Cod, aveva acceso una sola candela senza nemmeno la fetta di torta.
Gli serviva pace nell’inferno che stava vivendo, pace dalle mani viscide e indesiderate su di sé, dalle parole di suo padre. Aveva bisogno di Griffin e di credere di poter essere felice.
Aveva tenuto lo stelo di cera fra le ditina paffute e aveva soffiato, le lettere inviategli dal fratello sparse sul tavolo accanto a sé.
Nemmeno aveva espresso un desiderio, perché non aveva fiducia più in niente.
Aveva sette anni.
Credeva dovesse essere illegale perdere la speranza nel mondo a quell’età.
In quella stanza però, quella nell’edificio della sua banda, Griffin c’era. C’era abbastanza, almeno concretamente, da far credere ad Ash di non potersi lamentare. Aveva passato di peggio senza aprire bocca.
Poi però il fratello si era agitato, aveva gettato a terra la torta e Ash si era rassegnato. Si era rassegnato all’idea che il desiderio espresso l’ultima volta che aveva festeggiato per davvero a Cape Cod, prima che la sua vita andasse a rotoli, quello che non aveva voluto rivelare a Griffin, non si era avverato e mai sarebbe accaduto.
Ash si incolpava: si incolpava perché forse se non lo avesse espresso le cose non sarebbero cambiate.
Che peccato è per un bambino desiderare che tutto continui e vada sempre nello stesso modo? Che peccato è provare a dare per scontato ciò che chiunque dovrebbe avere? Che peccato è chiedere di essere felice in un mondo che ad appena sette anni già lo aveva ferito tanto? È così sbagliato?
Di suo fratello gli era rimasta solamente quella penna.
Spiegare a Skipper perché fosse tanto sconvolto, Griffin più calmo sulla sedia a rotelle e una fetta di torta a imbrattare il pavimento, non sarebbe stato facile. Così Ash aveva mentito aggrappandosi alla speranza che quell’acuto ragazzino non gli chiedesse altro, che capisse di non dover infierire oltre sul suo cuore sanguinante. Che almeno quella fortuna gli accordasse il fato.
Quella fetta di torta non era solo un dolce: erano le sue speranze, il suo stesso cuore. Ed era in frantumi sul pavimento.
Adesso Skipper non c’era più e nemmeno Griffin.
Però era di nuovo il dodici agosto.
Lì, a New York, nell’appartamento dove Eiji lo stava aspettando e in cui Ash aveva appena messo piede, all’ora di cena.
«Sono tornato.»
Ash era sempre tormentato da qualche pungolo, da qualche mostro dalle braccia scheletriche avvinghiato alla sua schiena. Da fuori sembrava che quella matassa scura e informe di paure e preoccupazioni non incidesse sulla sua postura, sempre fiera, o ancora sull’espressione, illeggibile e sicura di sé. Nessuno sapeva che quei trascorsi e quelle ansie esistevano.
Nessuno, tranne Eiji. L’unica persona a cui Ash sapeva di non poter nascondere nulla.
Perché adesso c’era lui, al suo fianco. Non poteva sostituire chi se n’era andato, chi Ash aveva perso, ma colmava i suoi vuoti, le sue mancanze. Sapeva come fare e Ash glielo lasciava fare. L’unica cosa che poteva dargli in cambio: proteggerlo con la propria stessa vita.
Perché Eiji doveva stare al sicuro, perché aveva visto troppe persone morire e troppe altre ne aveva perse. Così Ash aveva scelto che a costo di salvare lui, di proteggere Eiji, avrebbe dato la propria stessa vita.
Pensieri di una macabra risolutezza che però faceva andare avanti Ash in un simile giorno che, da qualche anno a quella parte, non lo rendeva uno straccio solo perché nella malavita un solo istante di disattenzione può essere fatale. E lui doveva essere perfetto, impeccabile. Doveva essere così perché ormai gli altri si aspettavano lo fosse e non era abbastanza coraggioso per dire che non aveva mai osato chiedere tante aspettative dagli altri.
Che aveva chiesto solo la felicità e una volta sola.
Forse quel dodici agosto non era di buon umore, non saltava di gioia, ma non aveva davvero nulla da nascondere perché in cucina c’era Eiji; le spalle coperte dalla maglietta bianca che si muovevano, il collo pallido incorniciato da fili d’ebano.
Eiji era lì e stava bene, e ad Ash bastava questo. Era il regalo più grande.
«Stai preparando la cena?»
«Sì, adesso siediti e aspetta!»
Una risposta grintosa. Sembrava dire «siediti e non provare a replicare, ho le mie ragioni.»
Così Ash si sedette.
«Siamo nervosi?»
Ma non senza ribattere.
Non lo voleva solo provocare, voleva davvero sapere, capire.
«Ti sembro nervoso?»
«Sì, mogliettina
Eiji pensò di doversi mordere la lingua, perché quel soprannome era colpa sua, solo sua. Si era lamentato di sentirsi una moglie segregata in cucina? Ash non era nessuno per risparmiarglielo. E poi doveva essergli piaciuto, quel nomignolo.
«Stai rischiando di non mangiare.»
Ash si zittì, perché era orgoglioso e gli piaceva avere l’ultima parola, ma non con Eiji. E anche perché era un essere umano: aveva fame.
Niente domande su come fosse andata la giornata, niente di niente. Eiji trafficava con qualsiasi cosa stesse preparando, nascosta agli occhi di Ash dal busto allenato del giapponese.
C’era qualcosa di strano e lo sapeva, lo fiutava, ma decise di aspettare.
«Fatto!»
Qualche attimo ed Eiji si avvicinò, due piatti stretti fra le dita. Appoggiò prima il proprio, dall’altro lato della tavola apparecchiata. Strano anche questo: Eiji lo serviva sempre per primo. Era tanto altruista, lui.
«Oh, omelette?» domandò Ash.
«Già, omelette.»
Eiji sistemò il piatto di Ash di fronte a lui e si allontanò. Per recuperare l’acqua, forse, o qualche condimento che aveva scordato di mettere in tavola.
Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, perché quando gli occhi di Ash caddero sull’omelette il suo cervello si svuotò. Le sinapsi smisero di funzionare, ogni pensiero di senso compiuto si smaterializzò. Gli occhi verdi spalancati, proprio come quando era un bambino e ascoltava le parole fiabesche di Griffin.
C’era meno riso di contorno e tutto quello che mancava era sull’omelette. Componeva delle lettere, un po’ maldestre e passibili di libera interpretazione.
«Buon compleanno.»
Non lo aveva solo letto. Lo aveva detto Eiji, in piedi al suo fianco, dopo essersi accorto che Ash aveva notato quella sorpresa.
«Me lo hanno detto i ragazzi», ruppe il silenzio, intimorito dall’assenza di parole di Ash. «E a loro lo aveva detto Skipper, che immaginava di aver capito che il tuo compleanno fosse oggi. Quindi ho pensato fosse un pensiero carino anche se nessuno ha mai detto nulla…»
Eiji sapeva che quella sul volto di Ash era genuina sorpresa. O forse sarebbe stato meglio chiamarlo sconvolgimento emotivo, chi lo sa.
Non sapeva se fosse felice, se si sarebbe arrabbiato né che significato avesse per lui il compleanno, ma Eiji aveva pensato che in quel periodo di fughe, tensioni e paure, potesse essere un toccasana. Perché conosceva la verità dietro gli sguardi cupi di Ash e anche quella celata dai suoi sorrisi. Aveva bisogno di essere, anche solo per una sera, un ragazzo della sua età.
Se Ash gli avesse dedicato un regalo simile, a lui avrebbe fatto piacere anche solo perché lo aveva pensato.
Ma chissà, magari nominare Skipper era stata una cattiva scelta. Magari il compleanno aveva per lui un significato speciale ed Eiji era riuscito a fare troppo poco.
Ash ancora non parlava, immobile. Pareva congelato.
Se prima era solo sorpreso, adesso sembrava sull’orlo del pianto. Troppa emozione nel realizzare la propria fortuna, troppa emozione nel realizzare che il suo desiderio di dodici anni prima si era realizzato.
«Ash?» lo chiamò Eiji, portando una mano sulla sua spalla. «Ho fatto male?»
Quasi lo avesse risvegliato da un incantesimo, Ash si alzò. Puntò gli occhi in quelli di Eiji. Quelle due perle di giada erano lucide e due lacrime, sincere e spontanee, stavano già cadendo dall’angolo dei suoi occhi, bagnando le ciglia.
«No, non hai fatto male.»
E Ash lo strinse, perché in quel momento non c’era logica ma solo istinto. Perché le braccia si erano avvinghiate a lui di loro volontà e il volto era affondato sulla spalla di Eiji. Perché era l’unica cosa che avrebbe voluto come regalo, oltre a quegli auguri.
Perché si rendeva conto che dopo anni di sofferenza, di persone desiderose di ucciderlo, c’era ancora qualcuno capace di amarlo, di renderlo felice. Sì, lui poteva essere felice.
Era giusto così.
Singhiozzava, Ash, fra le braccia di Eiji ed Eiji non ne conosceva la ragione: non sapeva di Griffin, delle torte di Jennifer, dei desideri segreti.
Ma sentiva, lo sapeva da quel «grazie», gemito delle labbra di Ash premute contro il suo collo senza malizia, con il fiato caldo a far rabbrividire la pelle, che quelle lacrime erano anche di gioia. Che si sentiva protetto fra le sue braccia e che Eiji voleva proteggerlo. Nessuno dei due avrebbe lasciato l’altro, non in quel momento, nemmeno con la cena che si freddava accanto a loro.
Con le lacrime calde di Ash che inondavano la sua pelle come il letto di un fiume, il cuore di Eiji tremava e si chiedeva cosa mai avesse fatto per meritare tanta fiducia da un ragazzo sofferente come Ash, perché era l’unica cosa a cui agognava da un anno a quella parte.
Eiji scelse di essere spontaneo, di non pensare, come Ash quando non aveva scelto di stringerlo. Perché doveva sapere la verità, nel modo più genuino possibile. Senza filtri, senza paure: non i suoi pensieri, ma i sentimenti nutriti dal suo cuore.
«Sono io a ringraziare te, Ash. Per essere nato», mormorò Eiji, le dita fra i suoi capelli e le labbra a un passo dal suo orecchio. «La mia vita non sarebbe stata la stessa, senza di te. Sono davvero, davvero fortunato.»
Ash quasi crollò fra le sue braccia mentre metabolizzava la realtà: lui faceva sentire qualcuno fortunato. Eiji accettava tutto di lui e lo reputava un miracolo. E Ash pensava lo stesso, di Eiji. Si sentiva ricambiato e lo riempiva di gioia.
E dopo un altro singhiozzo, tante lacrime e i piatti sporchi nel lavandino, Eiji pronto sul divano per vedere un film insieme, Ash si attardò davanti alla finestra della camera da letto per guardare le stelle.
Si rigirò fra le dita la penna che Griffin gli aveva regalato anni prima.
«Vuoi sapere che cos’avevo desiderato quella volta, Griff? Di festeggiare ancora uno dei nostri compleanni.
L’ho fatto con la persona che amo, quest’anno. Sei felice per me? Io credevo di non poterlo più essere.»
Appoggiò la penna sul tavolo e raggiunse il soggiorno.
Eiji lo aspettava.




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