Before november 8th cap 1
16
settembre 1979
Dublino,
16 settembre 1979.
Will,
ancora a braccia conserte, alzò un sopracciglio, mentre abbracciava
con lo sguardo la platea di studenti di fonte a lui, cercando però
di incrociare tutti i loro occhi.
-Davvero
nessuno che sappia rispondere a questa semplicissima domanda?- li
incalzò, tamburellando la penna sul proprio braccio.
-Professore,
la scongiuriamo...- piagnucolò una vocina dalla terza fila. Doveva
essere quella di Aorghie, anche se non riusciva bene a distinguere il
gruppo di ragazze semi addormentate che si nascondevano dietro la
loro pila di libri. -È venerdì pomeriggio. Ci dia tregua!-
-E
poi,- intervenne una voce maschile dalle ultime file, e questo era
sicuramente Sean. -esiste davvero qualcuno che abbia letto Finnegans
Wake?-
Tutta
la classe scoppiò a ridere. Tranne Will. Will sciolse le
braccia e, con un gesto secco, puntò la penna contro i banchi.
-Ha!-
esclamò.
-Humphrey
Chimpden Earwicker. Male, molto male, ragazzi.- continuò, scuotendo
la testa con tono deluso. -Sarete ricordati come la vergogna del
Trinity College nei secoli dei secoli. Nemmeno il protagonista di
Finnegans Wake sapete.-
Ora
stava tentando di arricciare i baffi rossi in quel modo tanto
ridicolo che la sua classe adorava e, in effetti, poco dopo
ricominciarono le risa.
-Via,
via, vili marrani.- fece allora Will, facendo loro gesto di andarsene
col dorso della mano. -Ci vediamo lunedì mattina. Lo so, lo so che
domenica c'è la partita, ma sappiate che sono disposto ad andare a
setacciare tutti i pub di Dublino e a trascinarvi per le orecchie
fino in classe, se non vi presentate. E costringerò chiunque faccia
tardi a declamare una poesia a tema patriottico di Seamus Heaney,
scelta dalla classe, di fronte alle aule di Anglistica. Sean, è
inutile che fai il finto tonto, tanto lo sanno tutti che sarai il
primo della lista. Per te ho anche pronto un costume da leprecauno.-
Il
vociare e le risa si stavano facendo più intense, mentre i ragazzi
prendevano le loro borse e si alzavano dai banchi.
Will
adorava il proprio lavoro, e anche i suoi ragazzi gli piacevano. Ci
pensava ogni volta che concludeva in questo modo bizzarro le sue
sfortunate lezioni di Letteratura Irlandese del venerdì pomeriggio.
-Professor
Kenton...- lo riscosse dai propri pensieri la voce della piccola e
bionda Daisy, che si era avvicinata alla sua scrivania come faceva
ormai quasi ogni giorno.
-Volevo
dirle che anche oggi la sua lezione è stata così emozionante!-
cinguettò la ragazza, fissandolo coi suoi enormi occhi azzurri.
-Siamo davvero fortunati ad avere un professore in gamba come lei.-
-Grazie
per avermelo detto anche oggi.- sospirò l'uomo, sistemando i propri
libri nella valigetta nera di pelle. -Ma non era necessario. Sai, ho
una buona memoria, non serve che mi fai i complimenti tutti i
giorni.-
Ma
la ragazza continuava a guardarlo sognante, torturando tra le dita
bianche la cinghia della propria borsa. I suoi compagni e le sue
compagne le passavano di fianco e ridacchiavano, così Will cercò di
levarsi in fretta d'impiccio, per porre fine a quell'umiliante
teatrino che si ripresentava ogni giorno.
Non
era certo l'unico professore al Trinity College con una studentessa o
studente che lo spasimava, ma Daisy era la tipica ragazza sognatrice,
gentile e delicata che era in grado di chiudersi completamente nelle
proprie fantasticherie; questo, purtroppo, voleva dire che da
quell'orecchio non ci sentiva proprio. Inutile farle capire che il
suo interesse non era ricambiato, era illegale e la stava mettendo in
ridicolo di fronte ai propri compagni: ogni giorno lei tentava di
fermarsi a parlare con lui, e ogni giorno lui diventava più brusco
nel liquidarla.
Will
ogni tanto si stupiva del proprio successo con le donne: era un
irlandese ordinario, non molto alto, capelli rossi faticosamente
tenuti lisci e in ordine con una riga di lato, buffi baffi rossi,
lentiggini e grandi occhi azzurri.
Si
scosse un po' di polvere di gesso dal maglioncino verde scuro mentre
prendeva impermeabile ed ombrello e si apprestava ad uscire
dall'università.
Soprattutto,
lo stupiva il fatto che un donna attraente come Freda non solo avesse
accettato il suo timido invito ad uscire, ma se lo fosse addirittura
sposato. Freda era... stupenda. Una scultura. Di ghiaccio. Certo,
Will conosceva anche il suo lato tenero e affettuoso, la sua vena
ilare e la sua giocosità, oppure non ci avrebbe messo su famiglia;
nessuno dei suoi parenti aveva approvato la sua scelta, credevano che
l'avesse scelta solo perché... come dirla in modo gentile... Freda
era gnocca. Decisamente gnocca. Era anche mostruosamente
intelligente, o non avrebbe vinto borse di studio su borse di studio
e non sarebbe diventata il primo primario donna straniero della
Repubblica d'Irlanda. Ma nessuno nota quanto sei intelligente quando
sembri una modella nordica da prima pagina.
Però,
ecco... Freda era fredda. Il suo nome derivava dal norreno Fríða,
che significa “bellissimo,
amorevole”, ma Will la prendeva sempre in giro dicendo che in
realtà la radice era quella del latino frigĭdus, che
significa “freddo”, e, tra le lingue romanze, in italiano
l'aggettivo femminile suonava proprio come Freda. E ogni volta che lo
diceva, lei puntualmente arrotolava il giornale che stava leggendo e
cominciava ad agitarglielo contro, sbraitando qualcosa in svedese, in
olandese, o addirittura in afrikaans, che, dopo accurate ricerche
filologiche, Will aveva ricondotto alla seguente serie di frasi: “Te
le faccio vedere io le radici”, “Prenderò a calci il tuo celtico
culo da qui fino a Roma a pagare i tuoi tributi”, “Ora ti faccio
un'accurata rappresentazione della conquista norrena di Lindisfarne”.
Se, tuttavia, Will provava a correggere le sue inesattezze storiche o
la confusione tra i celti d'Irlanda e quelli di Britannia, partiva
una serie di insulti ai quali il pover'uomo non aveva ancora trovato
adeguata traduzione. Era in quei momenti che Will la adorava, perché
per un attimo lasciava da parte il suo essere tutto d'un pezzo e si
lasciava andare alla goliardia, agli insulti affettuosi, alle risa.
La
sua vita non era stata facile. Sua madre Kristina era svedese, e si
era trasferita in Olanda per studiare arte, dove aveva conosciuto
Jens Van der Ende, medico di origine ebrea; tuttavia, lo scoppio
della Seconda Guerra Mondiale aveva costretto Jens a fuggire con la
ragazza da poco sposata, per trasferirsi dal ramo boero della
famiglia che da generazioni risiedeva in Sudafrica. Dopo la morte di
una prima figlia a causa della malaria, nel 1950 era nata lei, Freda.
I Van der Ende erano finiti a vivere in un quartiere di neri assieme
ad altri olandesi sfollati che ormai non avevano più nulla. Freda
adorava ascoltare le mamme di colore cantare la sera mentre
preparavano la cena, o i ragazzi che improvvisavano una danza dalle
finestre dei loro piccoli appartamenti, ma nessuno dei bambini voleva
fare amicizia con lei: lei era bianca, e i piccoli avevano paura che
avrebbe cominciato a bastonarli, a sputagli contro o che avrebbe
chiamato la polizia se solo avessero alzato lo sguardo verso di lei.
Così era cresciuta da sola e senza amici; il suo unico passatempo
era farsi insegnare da suo padre le basi della medicina, perché già
da piccola aspirava a diventare un medico che avrebbe potuto salvare
bambine come la sorella che non aveva mai conosciuto, o i bambini che
vedeva dalla finestra, che camminavano male, tossivano o avevano
ferite infette perché nessun medico, a parte suo padre, li avrebbe
mai voluti toccare.
Freda
assisteva Jens ogni qualvolta riusciva a scuoterlo dal torpore in cui
la fuga dall'Olanda, la povertà e la morte della sua primogenita lo
avevano gettato, e lo convinceva ad assistere i bambini del
quartiere. Era destino che diventasse medico anche lei.
Purtroppo,
il ragazzo che frequentava di nascosto l'aveva messa incinta, e poi
era sparito. I suoi genitori l'avevano cacciata di casa non perché
lui fosse mulatto, bensì perché era un mezzo delinquente. Era
arrivata in Inghilterra con una borsa di studio, un muro invalicabile
costruito attorto al suo cuore pesante ed un bambino nel ventre.
Era
questo ciò che Freda gli aveva raccontato la mattina dopo aver fatto
l'amore. Lo aveva guardato negli occhi, seria, avvolgendosi tremante
nel lenzuolo del minuscolo appartamento dove Will viveva quando
studiava ad Oxford, e gli aveva detto: -Will, tu hai detto che la
vera sfida con me non era portarmi a letto, quanto farmi passare
un'intera giornata sorridendo felice e serena.-
Poi
aveva distrattamente accarezzato il pancione di sei mesi, e aveva
ripreso: -Mi stai simpatico, Will. Si vede che hai un cuore grande.
Ora ti spiegherò perché secondo me la tua sfida è impossibile.-
-Ti
ascolterò solo dopo che avrai mangiato un'abbondante colazione.-
aveva detto Will, rivestendosi. -Vado in cucina. Tu non scappare.-
E,
non appena fu uscito dalla camera da letto, domandò, ad alta voce.
-Se però dovessi riuscire a sciogliere il tuo cuore di ghiaccio...
Mi sposeresti, Freda?-
Lei
aveva riso. Ma era una risata di scherno, quindi, non sarebbe valsa.
-Sono
a casa!- urlò Will, scuotendosi la pioggia dall'impermeabile e
strusciando le scarpe sullo zerbino.
Ed
ecco che, dal fondo del corridoio, gli strilli della creatura più
meravigliosa che l'intero universo avesse mai avuto l'onore di vedere
lo raggiunsero come un raggio di sole che spunta tra le nuvole in una
giornata luminosa, e ti scalda le ossa. La triste ironia del suo
pensiero smorzò un poco il suo sorriso sotto i baffi rossi, mentre
la creatura più meravigliosa del creato gli correva incontro con le
sue piccole gambette grassocce sotto un logoro vestito marrone su cui
erano attaccate finte foglie d'edera.
-Mio
signore, mio signore Oberon!- strillò la piccola Stephanie, reggendo
in mano un fiore di plastica viola.
-Ah,
Puck!- rispose Will, protendendosi in avanti con ancora
l'impermeabile addosso. Poi si schiarì la voce.
-Ben
arrivato, vagabondo! Hai il fiore con te?- recitò, porgendo la mano
alla propria pargola.
Stephanie
adorava giocare ad interpretare Sogno di una notte di
mezz'estate. Si era fatta cucire
l'abito di Puck apposta, e conosceva molte parti dell'opera a
memoria. Nonostante avesse appena tre anni, era già un'allieva
migliore rispetto ai suoi studenti universitari.
-A
me il vagabondo sembra tuo padre, Stephanie.- disse Freda,
materializzandosi sullo stipite della porta del salotto con le
braccia incrociate. -Su, vieni qui, folletto dispettoso, lascialo
entrare.-
Si
sedettero poi tutti insieme davanti ad una tazza di tè e a biscotti
appena sfornati.
-Non
mi dirai che hai cucinato tu, Freda.- la prese in giro Will.
La
donna lo fulminò con lo sguardo mentre sorseggiava elegantemente il
proprio tè, reggendo il piattino sotto la tazza. Aveva grandi occhi
azzurri da cerbiatta, zigomi alti, naso all'insù e finissimi capelli
biondo platino, praticamente bianchi come quelli della loro bambina
albina.
-Non
posso sempre lasciare che sia tu la donna di casa.- lo canzonò,
nascondendosi dietro la tazza. -Sennò va a finire che ti sentirai
trascurato e finirai per cedere alle attenzioni di qualche aitante
giovane, come quell'adorabile Daisy dell'università.-
Will
scoppiò a ridere di cuore, e Stephanie, che era in braccio a lui,
rimase ipnotizzata a guardare i suoi baffi rossi andare su e giù,
mentre ancora stringeva tra le mani grassocce il fiore di plastica.
-Questa
Daisy è innamorata di papà?- domandò candidamente, accoccolandosi
sul suo petto.
-Vedi,
piccola mia.- le disse dolcemente Will, appoggiando la tazzina sul
tavolo mentre la reggeva col braccio libero. -A volte succede che
certe persone, in periodi molto delicati della loro crescita, si
innamorino di una persona più grande perché, in realtà, sentono la
mancanza di una figura di riferimento come una mamma o un papà, e
quindi identificano inconsciamente quella persona come, appunto, la
loro mamma o il loro papà.-
-Dio
mio, Will, ha tre anni la bambina.- protestò Freda. -Non usare
parole difficili come “inconsciamente”. Spiegale le cose in modo
semplice.-
Stephanie
gonfiò le guance in un plateale gesto di dissenso che fece sorridere
Will.
-Freda,
dai... la piccola sa leggere, scrivere e fare calcoli. Mentre gli
altri bambini alla sua età stentano a colorare i libri illustrati
senza uscire dai margini, lei si sforza di leggere Shakespeare, e non
quello semplificato, ma proprio quello scritto in inglese dell'età
elisabettiana. E parla gaelico, inglese e afrikaans. Non penso che
“inconsciamente” sia un termine difficile per lei.-
Che
fosse una bambina prodigio, era fuori discussione. Stephanie era
stata precoce già ad imparare a gattonare, a camminare, a parlare e
tutto il resto. Sua madre aveva provato a farla crescere bilingue,
insegnandole l'afrikaans, la più utile, a suo parere, tra le proprie
lingue madri oltre all'inglese, ma la piccola Stephanie aveva stupito
tutti quando, di ritorno da uno degli spettacoli folklorici irlandesi
che si tenevano ogni settimana in un paesello vicino Dublino,
spettacoli che lei tanto adorava, si era messa improvvisamente a
parlare gaelico.
Quegli
spettacoli teatrali erano l'unica occasione per lei di uscire e
vedere il mondo. Era nata albina, perciò non poteva giocare con gli
altri bambini all'aria aperta, nei giorni in cui spuntava il sole.
Perciò, la piccola Stephanie attendeva con ansia che giungesse il
sabato per vedere un nuovo spettacolo, e nel frattempo si faceva
raccontare opere teatrali e fiabe folkloriche da Will.
Da
grande avrebbe fatto l'attrice di teatro, diceva.
-Potresti
farla passare da Shakespeare al teatro greco, allora.- disse allora
Freda in tono canzonatorio. -Falle leggere l'Edipo Re,
l'Elettra di
Sofocle, quelle cose lì. Così magari capisce meglio cos'è il
complesso edipico e non rischia di svilupparlo nei tuoi confronti,
visto che ti è sempre appiccicata.-
-Lo
so cos'è il complesso edipico, mamma.- borbottò Stephanie, con la
sua adorabile vocina da bambina. -Ma non voglio sposare papà. È
vecchio e ha i baffi.-
Will
e Freda scoppiarono a ridere di cuore.
San
Francisco, 16 settembre 1979.
Alla
radio la voce acuta di Kate Bush cantava a squarciagola “Bad
dreams in the night/ They told me I was going to lose the fight/
Leave behind my wuthering, wuthering/ Wuthering Heights”,
accompagnata dalla voce un po' roca di Anne Hartford, che, nonostante
la minore estensione vocale, cercava di dare il meglio di sé in quel
piccolo concerto privato che si ripeteva in macchina ogni mattina.
Forse non ci stava esattamente mettendo tutto l'abituale impegno, ma
era la prima volta che percorreva le strade di San Francisco come
conducente, per cui stava prestando particolarmente attenzione alla
strada di fronte a sé. Finalmente lei e Bjarne avevano potuto
raggiungere il padre, nuovamente trasferitosi per lavoro. Quella
volta, per lo meno erano riusciti a far finire l'anno a Bjarne e a
fargli trascorrere l'estate in compagnia dei pochi amici che era
riuscito a farsi nei precedenti due anni, periodo in cui avevano
vissuto a Santa Monica.
A
Bjarne non dispiaceva troppo dover cambiare casa e città così di
frequente: ogni occasione era buona per conoscere nuove persone e
fare esperienze diverse. Era anche un po' come quando andava alla
sala giochi a giocare a Flipper, Pac-Man o Donkey Kong: se commetteva
qualche errore in un posto, non era la fine, perché poteva
ricominciare la partita da un'altra parte ed evitare di commettere
gli stessi sbagli. Così aveva imparato che: non ci si dichiara alla
bambina più carina della classe se hai i denti sporchi dei broccoli
del tuo cestino del pranzo; che se hai i broccoli nel cestino del
pranzo è improbabile che qualcuno voglia sedersi vicino a te a
mensa; che però è meglio evitare di mangiare solo merendine e
schifezze per farsi accettare dagli altri, perché poi diventi
cicciottello e nessuno vuole stare con te in nessun caso; che, per
quanto possa sembrarti ingiusto, piangere per la sorte delle rane
dissezionate durante l'ora di scienze ti fa guadagnare solo un sacco
di prese in giro.
Ma,
soprattutto, Bjarne aveva imparato che la questione delle adozioni
veniva sempre affrontata da tutti con estremo imbarazzo, quasi come
fosse qualcosa di indicibile e scandaloso.
“Too
long I roam in the night/ I'm coming back to his side, to put it
right/ I'm coming home to wuthering, wuthering/ Wuthering Heights”
Bjarne
non avrebbe voluto interrompere il mattutino concerto privato in cui
sua madre si esibiva sempre quand'era in macchina e di buon umore, e
alla radio passava una canzone che adorava. Però aveva immaginato
non mancasse molto alla scuola dov'erano diretti, per cui tentò di
farle la stessa domanda che gli usciva spontanea ogni volta che si
trasferivano in una casa più grande, in una città più grande.
-Se
papà avrà una promozione e potremo fermarci a vivere qui, possiamo
adottare un fratellino o una sorellina?-
In
passato, a quella domanda i suoi avevano sempre risposto con un
sorriso entusiasta, convinti del fatto che un futuro più stabile in
cui costruire una famiglia più numerosa non fosse poi così lontano.
Eppure, quel giorno Anne interruppe la canzone a metà, e a Bjarne
apparve tutto d'un tratto strana, più stanca del solito, e senza la
solite luce che le illuminava lo sguardo.
-Non
lo so, tesoro.- rispose infine, semplicemente. -Non vorrei darti
false speranze. E non vorrei illudermi nemmeno io che questo possa
accadere. Vedi, io e tuo padre ci stiamo sperando da così tanto...-
Bjarne
rimase in silenzio, osservando sua madre che ora aveva preso a
guidare ancora più cauta per le larghe strade di San Francisco.
“Ooh,
let me have it/ Let me grab your soul away/ Ooh, let me have it/ Let
me grab your soul away/ You know it's me, Cathy” cantava
la radio, nel silenzio dell'abitacolo.
Il
bambino non voleva che sua madre fosse triste, per cui disse: -Non
importa, mamma. Non dovete farlo per forza. Meglio pochi ma buoni,
no?-
La
mamma si era voltata verso di lui appena un istante, per non perdere
d'occhio la strada, e aveva sorriso in quel modo così caldo e
rassicurante che sembrava lo stesse abbracciando.
Il
bambino si girò, soddisfatto, e prese a sfogliare il quadernetto
sulla cui copertina era scritto “Cose da non fare quando ti sei
appena trasferito”.
-Potresti
lasciarmi a poca distanza dall'entrata della scuola?- domandò,
quindi. -Così mi puoi dare un bacio prima che scenda, ma nessuno ci
vedrà e mi prenderà in giro.-
La
donna rise.
-Posso
anche non darti il bacio della buona giornata, se preferisci.-
-Perché
no?- domandò il piccolo, dondolando i piedi. -A te fa piacere. I
bambini sono stupidi, prendono in giro gli altri per cose stupide.
Non voglio farti un dispiacere solo perché ci sono dei bambini
stupidi.-
Bjarne
era un esperto di bambini stupidi, ormai. Aveva capito che il mondo
va avanti se c'è qualcuno di più debole da calpestare, qualcuno che
rimane fuori dal branco. Lui era sempre l'ultimo arrivato in ogni
posto, perciò era sempre isolato e facile da colpire. E poi aveva un
nome straniero.
I
suoi genitori lo avevano chiamato David di secondo nome, e lo avevano
invitato ad usare quello per evitare domande imbarazzanti o prese in
giro. Ma Bjarne non aveva voluto. Era pieno di David, là fuori, così
come era pieno di James, di John, di Mattew, di Andrew, di Edward
eccetera. Eppure, non c'era nessun Bjarne. Nessun bambino coi capelli
quasi bianchi e la pelle che si scuriva subito al sole. Lui era
unico, e pensava che doveva esserci un motivo; forse era destinato
a fare qualcosa di grande. Pensava che gli sarebbe piaciuto fare
sì che i bulli smettessero di prendersela coi più deboli, difatti
era sempre il primo a mettersi in mezzo quando i bambini se la
prendevano con qualcuno che non era lui.
-Mossa
poco intelligente.- lo aveva scherzosamente rimproverato suo padre.
-Se lasci che si trovino un nuovo capro espiatorio, ti lasceranno in
pace. D'altro canto... questo non ti renderebbe migliore di loro.
Perciò vorrei dirti che sono fiero di te, ma sono anche stanco di
vederti arrivare a casa con la divisa sgualcita e pieno di lividi e
graffi.-
Bjarne
aveva promesso che avrebbe evitato di farsi pestare. Voleva prendere
lezioni di autodifesa, e, tra le varie discipline, aveva scelto il
Jeet Kune Do; adorava i film di Bruce Lee, e poi ora si era
trasferito a San Francisco, la città natale di Lee. Era il momento
giusto. Bjarne era certo che le cose quella volta sarebbero andate
diversamente.
-Questo
è il vostro nuovo compagno.- disse l'insegnante, tenendo Bjarne per
le spalle. -Si chiama David Hartford. Spero che sarete gentili con
lui.-
-Il
mio nome è Bjarne.- puntualizzò il bambino, guardando i suoi nuovi
compagni di classe coi grandi occhi castani.
Tutti
parvero confusi. Succedeva sempre così.
-È
un nome scandinavo. Sono stato adottato.- disse candidamente. Nel suo
quadernetto aveva anche appuntato che cercare di nascondere la cosa
avrebbe fatto pensare agli altri che se ne vergognasse, e a quel
punto lo avrebbero utilizzato come argomento principe per prenderlo
in giro.
-Quindi
vuol dire che i tuoi genitori non ti volevano?- ridacchiò
immediatamente un ragazzino con diversi buchi tra i denti in
crescita, seduto al fondo della classe.
Bjarne
attese di vedere quali tra i suoi compagni di classe si sarebbero
platealmente uniti alla risata, chi avrebbe tentato di nasconderla e
chi si sarebbe voltato con uno sguardo di disapprovazione. Sul suo
quadernetto aveva appuntato: “Mostra subito le tue carte e scopri
chi possono essere i tuoi amici e chi potrebbero essere i tuoi
bulli”.
Si
impresse velocemente i volti delle tre categorie sopra citate e poi
riprese a parlare, mentre l'insegnante alle sue spalle osservava la
scena basita, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso.
-No,
vuol dire che i miei genitori mi volevano così tanto che si sono
fatti migliaia di chilometri per trovarmi.- rispose allora, esibendo
il miglior sorriso che la sua dentatura perfetta gli consentiva.
Valutò
se fosse anche il caso di passarsi una mano tra i fini capelli biondo
platino, ma decise di non esagerare: c'era tempo per sondare il
terreno con le bambine della prima fila che non avevano riso assieme
al tizio al fondo dell'aula, e, soprattutto, ora sapeva quando doveva
evitare di farsi preparare i broccoli per pranzo.
Boston,
16 settembre 1979.
“Twinkle,
twinkle, little star,
How
I wonder what you are!
Up
above the world so high,
Like
a diamond in the sky.
When
the blazing sun is gone,
When
he nothing shines upon,
Then
you show your little light,
Twinkle,
twinkle, all the night.”
Martha
recitava la poesia al proprio pancione, passandosi una mano tra gli
spessi e folti capelli castani, mentre guardava l'ultima ecografia
fatta. “Miss. Marta Venturi, w. 28” era scritto in piccolo sotto
l'immagine in bianco e nero del suo bambino o della sua bambina.
Martha sospirò; odiava il suo nome italiano, così come odiava le
sue origini straniere: poco importava che Boston fosse sempre stata
una città di immigrati, e che fosse sempre cresciuta insieme a
bambini provenienti da ogni dove; non sopportava le risatine o gli
sguardi d'allarme che le venivano lanciati ogni volta che veniva
fuori il fatto che fosse italo-russa. Aveva dovuto vivere un'infanzia
in piena Guerra Fredda con una madre dall'aspetto così sovietico che
l'appellativo più gentile che si era guadagnata dai suoi compagni di
classe era stato “spia rossa”.
Per
questo non vedeva l'ora che nascesse il bambino o la bambina, così
avrebbe potuto raggiungere Thomas in Inghilterra, si sarebbero
sposati e lei avrebbe cominciato una nuova vita. Martha Lawliet. Non
sarebbe stato difficile aggiungere una “h” al suo nome di
battesimo.
Martha
pensava a Thomas, mentre guardava le luci del porto di Boston dalla
finestra della minuscola e ammuffita soffitta dove sua zia Angelica
l'aveva sistemata dopo che se n'era andata di casa a diciassette
anni. Anche il suo uomo aveva in un certo senso ripudiato la propria
famiglia: lei lo aveva fatto non perché non volesse bene ai propri
genitori, ma perché non riusciva a sopportare il peso della
discriminazione e del sospetto; non voleva che i vicini sentissero
l'odore del ragù che sua zia e sua madre preparavano la domenica, e
si vergognava quando suo padre alzava il volume della radio perché
stava passando una canzone italiana. Thomas, invece, odiava suo
padre, senza se e senza ma. Si era ribellato alla sua rigida
disciplina, intransigente ai limiti della crudeltà, e aveva deciso
di vivere libero dal peso del suo cognome paterno e da tutto ciò che
questo significava. Per questo ora era in Inghilterra, la sua patria,
che cercava di costruirsi il proprio futuro con le sue sole forze, un
futuro da condividere con lei e con la loro creatura.
Il
padre di Thomas era un distinto Lord inglese di nome Charles Lewis,
arricchitosi durante il secondo dopoguerra grazie ad alcune sue
geniali intuizioni che lo avevano portato ad acquistare una piccola
industria automobilistica e ad espanderne il mercato in India e in
Giappone. Fin da piccolo, Thomas era stato cresciuto per succedergli,
ma il padre non gli aveva mai mostrato un minimo segno d'affetto; gli
impediva di avere amici, gli impediva un qualunque tipo di svago o
passatempo, lo obbligava a lavorare per lui, lucidando ogni macchina
prodotta dalla sezione inglese di York prima che venisse venduta: un
lavoro assolutamente superfluo, ovviamente, ma il padre di Charles
aveva deciso di punirlo per la sua sola esistenza. Già, perché
Thomas non era suo figlio. Sua madre era rimasta incinta durante uno
dei viaggi d'affari in Giappone a cui entrambi i coniugi avevano
dovuto presenziare. Il suo sangue giapponese era evidente, dal taglio
a mandorla dei suoi occhi al nero corvino dei suoi capelli, che
formavano un contrasto stridente con quelli di entrambi i genitori
legali. Eppure, Charles non aveva avuto altri figli, per cui il suo
impero sarebbe dovuto andare senza dubbio a Thomas. Ma era stato
proprio lui, una volta laureatosi, a rifiutare quell'onere: diceva di
avere il voltastomaco solo all'idea di vedere quelle macchine e a
sentire l'odore di quella fabbrica. Così aveva cominciato a lavorare
come contabile in un'azienda del sud dell'Inghilterra, rinunciando,
oltre all'eredità, anche al proprio cognome; aveva, infatti, deciso
di prendere il cognome da nubile della madre, Lawliet, e aveva
ridotto l'esistenza del proprio padre ad una misera L puntata tra
nome e cognome: Thomas L. Lawliet e Martha Lawliet, una coppia di
giovani senza nome e senza origini.
Martha guardava le luci del porto e ora
pensava a suo padre Eraldo, che probabilmente non aveva ancora finito
di lavorare; sebbene non si parlassero da quando, a diciassette anni,
aveva giurato che non avrebbe mai più messo piede in casa sua, lui
non aveva smesso coi doppi turni, e ogni mese lei si era ritrovata
qualche centinaio di dollari sul conto che i suoi genitori le avevano
aperto quando lei era ancora piccola. Probabilmente, ora cercava di
lavorare ancora di più, per mettere da parte qualcos'altro per il
nipotino o la nipotina. Non voleva che Thomas facesse tutto da solo.
Loro
due si erano conosciuti un anno e mezzo prima, quando Thomas era
venuto a Boston con un carico di merce destinata agli Stati Uniti ed
era entrato nel diner dove lei lavorava come cameriera per
ripararsi dalla pioggia battente.
-Uno
se ne va dall'Inghilterra sperando di trovare il sole, e invece
sembra le nuvole mi abbiano seguito.- le aveva detto sorridendo,
quando lei gli si era fatta incontro per condurlo ad un tavolo
libero. Martha era rimasta incantata da quegli occhi grigi e dal
gesto sbarazzino col quale si era tirato indietro gli spessi capelli
neri e bagnati. Il tipico colpo di fulmine, per entrambi. Tanto che
lui aveva più volte rimandato la sua partenza dagli Stati Uniti e,
una volta giunto in Inghilterra, aveva fatto di tutto per tornarci;
questa volta, assieme ad un anello di fidanzamento e l'inamovibile
decisione di parlare con suo padre per chiedergli la sua mano.
Martha
aveva insistito perché non lo facesse: aveva voluto bene ai suoi
genitori, ma sentiva di non avere più nulla a che vedere con loro da
tanto, troppo tempo. I loro cuori parlavano lingue diverse.
Ma
Thomas aveva fatto di testa sua, ed il vecchio Eraldo l'aveva accolto
a braccia aperte. -Mi auguro che tu riesca a far sentire a casa
Marta.-, questo gli aveva detto.
Già.
Casa. In Inghilterra la aspettava una casa in un quartiere
piccolo-borghese dove per tutti lei sarebbe stata un'americana che ha
sposato un inglese, e non la “figlia di immigrati venuti a rubare
il lavoro agli onesti cittadini del Massachussets”.
Si
allontanò dalla finestra, scossa da un brivido di freddo. Era ora di
prepararsi qualcosa da mangiare, prima che la stanchezza dovuta alla
gravidanza prendesse il sopravvento e la facesse di nuovo abbandonare
sul divano, ad aspettare che passassero le ore. Così andò verso il
piccolo frigo, lo aprì e guardò con un po' di disappunto il suo
poco contenuto. Decise che si sarebbe preparata la versione povera e
veloce di un Hamburger helper, dal momento che aveva solo
macaroni e carne macinata. Suo padre sarebbe probabilmente
inorridito al solo pensiero, e questo era uno dei motivi per cui se
n'era voluta andare di casa. Eraldo era un uomo gentile e soprattutto
un gran lavoratore, coi suoi colleghi del porto parlava inglese,
partecipava alle riunioni di condominio e di quartiere, aiutava i
vicini coi traslochi e cercava di farsi ben volere da tutti, ma se si
parlava di cucina o di vino era in grado di far scoppiare una guerra:
nessuno doveva mettere in dubbio la superiorità italiana in questi
due campi, a suo parere. Però, gli ripeteva Martha di continuo, non
è che essere italiani in quel periodo e in quella zona fosse
esattamente un vanto.
Invece
sua zia Angelica le piaceva molto di più. Prima dello scoppio della
guerra, prima che suo fratello Eraldo venisse mandato in Russia,
Angelica faceva la maestra, e i suoi alunni la adoravano; era
sveglia, coinvolgente, e soprattutto era decisa ad imparare sempre di
più. Poi era arrivata la strage di Marzabotto. E nessuno, pensava
Martha, va in giro a provocare apertamente gente di un'altra
nazionalità, dopo essere per miracolo sopravvissuta alla “marcia
della morte” nazista.
Non
aveva mai visto sua zia Angelica sorridere in ventuno anni di vita.
Se suo padre nominava qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Italia,
o peggio ancora con la zona dell'Emilia-Romagna da cui provenivano, a
lei prendeva un attacco di panico. Aveva vissuto insieme al fratello
minore e alla cognata (la spericolata donna che aveva fatto fuggire
Eraldo dalla Russia) per circa sette anni, dopo che furono emigrati
negli Stati Uniti, ma poi non ce l'aveva più fatta, e aveva trovato
lavoro come donna delle pulizie in un vecchio palazzo abitato solo da
americani di nascita. Un giorno aveva detto a Martha che lo aveva
fatto perché non poteva più sopportare di vedere negli occhi degli
altri esuli dalla guerra, loro vicini, lo stesso orrore che lei stava
tentando di dimenticare.
Così
era riuscita a trasferirsi in quella soffitta ammuffita, l'aveva
arredata coi mobili rotti che gli inquilini del palazzo lasciavano in
strada e, quattro anni prima, l'aveva accolta senza dire una parola.
L'acqua
per i macaroni stava bollendo, così Martha buttò la pasta,
mentre si accarezzava distrattamente il pancione. Si rimise a
recitare “Twinkle Twinkle little star”, mentre col dito
disegnava ripetutamente una stella con al centro il proprio ombelico.
Pochi
minuti dopo sentì il passo affrettato della zia salire le scale,
perciò la ragazza le andò incontro, mentre questa tentava di aprire
la porta di casa. Martha si rese subito conto del fatto che qualcosa
non andava: sentiva il tintinnio del mazzo di chiavi da dietro la
porta di legno sottile, e il respiro della zia farsi sempre più
affannoso, angosciato.
-Zia!-
esclamò, aprendo lei la porta al suo posto. -Non ti senti bene? Sto
preparando la cena, vieni a sederti.-
Ma
la vista dei suoi occhi azzurri, spalancati per il terrore, come in
quelle occasioni in cui rivedeva davanti a sé le immagini dei
rastrellamenti da parte dei nazisti, e delle sue esili e vecchie
spalle che tremavano per lo sforzo, la gettò nel panico.
-Cos'è
successo?! Cosa c'è che non va?!-
La
zia distolse lo sguardo, e le appoggiò sulla spalla una mano rugosa
e rovinata dal duro lavoro.
-Mi
dispiace, ma non posso girarci intorno: ho brutte notizie. Vai a
sederti, respira profondamente; ti porto subito un bicchiere
d'acqua.-
-Che
è successo?!- ripeté spaventata lei, portandosi le mani davanti
alla bocca. -Papà si è fatto male a lavoro? Hanno di nuovo
aggredito la mamma?-
-Qui
stiamo tutti bene.- tagliò corto la donna, accompagnandola, decisa,
verso il divano senza uno dei piedi, tenuto su da una pila di vecchi
giornali.
Con
una velocità inaudita per una donna della sua età e con la sua
usuale apatia, la zia Angelica riempì un bicchiere d'acqua, per poi
sedersi di fianco alla nipote, stringendole forte la mano.
-Respira
ora. Profondamente. E stringimi forte la mano. Devi pensare che la
creatura nella tua pancia non deve patire.-
-È
successo qualcosa a Thomas.- disse allora Martha, spalancando gli
occhi. Poi si alzò in piedi di scatto, rischiando di cadere sotto il
proprio stesso peso.-
-È
successo qualcosa a Thomas!- urlò con tutto il fiato dei suoi
polmoni, cominciando a tremare anche nel profondo della propria
anima.
La
zia si alzò di scatto e la bloccò per i polsi.
-Per
l'amor di Dio, Marta!- le disse, strattonandola. -Devi calmarti!
Calmati per il tuo bambino!-
La
costrinse a sedersi e, continuando a stringerle le mani, avvicinò il
proprio viso al suo, come se stesse cercando negli occhi spaventati
della nipote una scintilla di ragione, una parte che l'avrebbe
ascoltata e avrebbe deciso di fare ciò che era meglio per chi
portava in grembo.
-È
arrivato un telegramma. Thomas ha avuto un incidente stradale, un
tizio ubriaco l'ha buttato fuori strada.-
Le
affondò le unghie nella carne.
-È
morto sul colpo. Mi dispiace, Marta.-
Note
Avevo
decisamente bisogno di cominciare a scrivere questa storia, e credo
che la fine della seconda parte di November 8th
1997 sia il momento migliore per
cominciare a leggerla. In particolare, credo che il Prologo alla
Terza Parte di November
sia anche un ottimo prologo per Before,
in parte perché viene introdotto il tema della musica, delle stelle
e dei fiori, e in parte perché si accenna allo strano rapporto
simbiotico che K sviluppa con L, ma che poi sviluppa anche con
Bjarne, e che è alla causa della gelosia di L (e che in Before
verrà trattato esaustivamente).
Spero che vi possa piacere questo percorso a ritroso, alle radici dei
miei personaggi originali e alla radice dell'L che è venuto fuori in
November. Ho elaborato
moltissimi di questi episodi prima ancora della stesura di November,
perché li ritenevo essenziali per la formazione del carattere dei
miei personaggi; tuttavia, i genitori di K, L e Bjarne sono “nati”
solo in seguito, e, soprattutto, tutto ciò che ho scritto in questo
capitolo mi è venuto così, di getto, appena qualche giorno fa.
Avevo ovviamente fatto i miei schemi sui genitori di K, quelli di
Bjarne erano già addirittura apparsi in November,
e per quelli di L avevo fatto diverse ricerche già mesi fa, ma non
li avevo mai visti “all'opera”.
Volevo
condividere con voi un dettaglio che mi ha fatto molto ridere e che
non riesco a togliermi dalla testa: mentre scrivevo, ho immaginato
William Kenton come Escanor di Seven Deadly Sins,
senza poteri e vestito come Ned Flanders. Non chiedetemi perché, ma
ormai sono assolutamente convinta che questo sia esattamente
l'aspetto del padre di K. Cioè, beninteso, Will per me è un figo:
potrebbe essere effettivamente un professore per il quale mi sarei
presa una cotta. Vive di letteratura, ama la natura, traduce tutto in
poesia e adora ridere e far ridere.
E
a proposito di letteratura: questa one-shot si apre con molta
letteratura, in particolare con molta Irishness
e molto Joyce. Vi avverto in partenza che Joyce ritornerà altre
volte nel corso di questa storia, ma, a parte il palese riferimento a
Finnegans Wake, questo
capitolo è stato inconsciamente concepito come una sorta di
mock-Ulysses: ho
cominciato volendo descrivere una giornata nella vita del padre di K
per introdurre il tema, ricorrente in Before come
anche in November, del
complesso edipico, e ho scelto, completamente a caso, il giorno 16
come data. Poi ho pensato che sarebbe stato meglio dare spazio anche
alle famiglie degli altri due protagonisti, Bjarne e L, e ho pensato
fosse una buona idea descrivere lo stesso identico giorno nelle loro
tre diverse vite. Ebbene, a quel punto ho riguardato la data che
avevo scelto a caso, e il giorno 16 è lo stesso in cui si svolge
Ulysses (16 giugno
1904). Perciò, ecco, non era mia intenzione parodiare Joyce, ma una
volta resami conto della cosa non ho voluto cambiare nulla.
Ultimo
appunto: nella mia fanfiction ho dato un passato e delle origini a L;
ovviamente è tutto frutto della mia immaginazione. Ho cercato di
costruire una storia partendo dagli unici dati disponibili, ossia
quelli sulla sua etnia. Ho scelto il “quarto” italiano rispetto a
quello francese non solo perché sono italiana e porto acqua al mio
mulino (?), ma soprattutto per il suo rapporto col caffè e perché
per me si è rivelato così più semplice costruire la storia della
sua famiglia: pensavo potesse avere senso che suo nonno materno fosse
italiano, fosse andato in Russia, fosse fuggito grazie all'aiuto di
una contadina russa, fosse emigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra
eccetera. Con un nonno o una nonna francese mi sarebbe sembrato più
“innaturale” il percorso che avrebbe portato la famiglia a
Boston. Inoltre, considerando tutti i francesi che ho conosciuto, non
riesco ad immaginare una francese che ripudia le proprie origini,
mentre questo era un elemento che giudicavo importante nella
caratterizzazione di Marta/Martha e il passato di L. Immagino abbiate
notato che i nomi dei genitori di L non sono casuali: Martha e Thomas
sono i genitori di Bruce Wayne, e L è un piccolo orfano miliardario
che si nasconde nell'ombra e usa metodi violenti per portare
giustizia, e Watari è palesemente Alfred il maggiordomo (l'abbiamo
pensato almeno una volta tutti nella vita). Non ho scelto
consciamente questi nomi, è il mio cervello che mi gioca brutti
scherzi, però ho pensato che ci stessero bene.
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