Nothing 1
Ciao
a tutti. Vi rubo solo pochi secondi prima dell'inizio della storia.
Questa sarà una mini-long di due soli capitoli ed
è ambientata tra Civil War e Infinity War. Verranno quindi
riportati gli avvenimenti di Civil War per chiunque non abbia visto il
film questa storia è Allerta Spoiler e avverto anche che ci
saranno dei riferimenti ad Infinity War. La prima parte della storia
è in corsivo perchè è un flashback
ambientato subito dopo lo scontro tra le due fazioni ma nella mia
storia Visione non è riuscito ancora a scusarsi con Wanda
come nel film, questo incontro sarà il loro primo incontro
dopo la fuga di Scarlet Witch. Penso di aver detto tutto, le note
finali ci saranno solo alla fine del secondo capitolo. Spero tanto la
storia possa piacervi e che possiate amare Wanda come me,
perchè giuro che ho provato a renderla al meglio delle mie
possibilità.
Buona lettura!
It must be something that we call love
Wherever I go I'm coming back
And time cannot knock me off my track
This resolution is final
It must be something that we call love
It's when you're craving to say her name
And my reality seems to break apart with her arrival
Forever, Alekseev
"Non
ho ancora compreso per quale motivo tu sia qui.”
La
voce suonò roca alle sue
stesse orecchie e lo sforzo di articolare quelle poche parole le
graffiò la gola secca. Il palato asciutto e la lingua
pesante
non la aiutavano a parlare, a sillabare tutta la sua frustrazione e il
desiderio di essere lasciata sola per sempre.
Che
storia triste, non poteva neanche
marcire in pace e nella più completa solitudine. Non le
concedevano neppure di star male senza spettatori, di crogiolarsi e
arrotolarsi nella sua infelicità totale.
Niente,
non meritava niente.
Sai
cosa hai fatto, Wanda?
Le
mani strinsero il lenzuolo del
letto e il materasso, forte, forte, più forte che
poté,
fino a non sentire altro se non dolore alle nocche e ai palmi.
Quasi
potesse arginare, in quel modo, il disastro che di lì a poco
si sarebbe consumato.
Ma
era una patetica illusione, la
speranza di un condannato a morte, perché nulla avrebbe
potuto
salvarla da se stessa e dalla distruzione che lei portava insieme al
suo corpo, quel vuoto insidioso che si creava intorno ai suoi piedi e
inghiottiva ogni persona a cui voleva bene.
Hai
ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Gocce
di sudore freddo scivolarono
lungo le sue tempie e giù per il collo fino a tracciare la
schiena stretta in un camice bianco. Gli aghi e i tubi erano
attorcigliati come dei tentacoli molesti intorno alle braccia, la
infastidivano e nauseavano, le procuravano lividi violacei e altri
brutti segni da dover nascondere.
"Permettimi
di indovinare. Sei qui
per farmi notare, con la tua fastidiosa intelligenza, che avevi ragione
tu? Che sarei dovuta rimanere segregata in quella casa?
Perché
così, insomma, non sarei a questo punto. Su questo maledetto
letto.”
Aveva
sempre odiato gli ospedali.
Non
poteva accadere nulla di buono in
quei luoghi, non in quelle stanze con l'odore rivoltante di candeggina,
in quei corridoi di un bianco innaturale.
Erano
altre tombe, altre prigioni, altre bugie e false fedi a cui era inutile
aggrapparsi.
Avrebbe
voluto fuggire da
quell'inferno sceso in terra così simile ad una tortura
crudele,
ad un castigo divino scelto appositamente per farla soffrire ogni
maledetto secondo della sua esistenza, mai un’eccezione.
Non
voleva essere lì, ovunque ma non in quella stanza, non su
quel pezzo di mondo, sotto quel cielo coperto da mattoni.
"Sei
qui per portarmi tu stesso nella mia futura cella?"
Accompagnarla
in un ospedale prima di
buttarla in una stanza sporca e claustrofobica era la dimostrazione di
quanta cattiveria erano capaci di covare quei falsi potenti, quegli
stronzi patetici, che credevano di reggere il mondo con le loro ossute
spalle coperte da costose camice di seta.
Quanto
si saranno compiaciuti, quanto
si saranno congratulati con loro stessi perché, ma che
bravi,
erano stati in grado di mostrare un lato misericordioso e di compiere
un atto caritatevole persino nei confronti di una povera criminale.
Lei
era proprio una terribile ingrata, non comprendeva la loro
bontà, l'onore che gentilmente le avevano concesso.
Che
persona crudele era stata.
Non
li aveva ringraziati, non si era prostrata a terra per la gratitudine,
no.
Aveva
scalciato, insultato le guardie
e gli ufficiali, aveva augurato loro di morire tra le più
atroci
sofferenze e di bruciare all'Inferno.
E
glielo aveva detto, lo aveva
urlato, che se davvero volevano portarla in una clinica per curare i
suoi stupidi graffi allora avrebbero dovuto trascinarla,
perché
lei non avrebbe collaborato mai, neanche con una pistola premuta sulla
fronte.
Quindi
loro cosa facevano?
Gli
idioti le chiedevano di mantenere la calma e poi si stupivano di
ottenere come risposta un'intera vetrata distrutta.
Avrebbero
dovuto immaginarlo. Stronzi.
Lei
era rabbia e ogni pezzo della sua pelle era elettricità
pronta ad esplodere, anche a costo di distruggere se stessa.
"Sei
qui per rimproverarmi? Per dirmi quanto sei deluso da me? Vuoi anche
che ti chieda scusa per quello che ho fatto?"
Hai
ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Lo
so. Non c'era bisogno che me lo dicessi proprio tu, signor Stark.
Fottiti,
Stark.
"Sii
felice. Ora mi aspetta una nuova
prigione e chissà come sarà il cibo. Ti
farò
sapere se hanno la paprika tra le spezie.”
Doveva
essere nata con un difetto
orribile all'interno del cuore e del corpo, tanto da meritare il male,
il peggio, ogni crudeltà.
Lo
sapeva, aveva convissuto con i
mostri da quando aveva compiuto dieci anni e da allora perdere tutto
era diventata la norma e sabotare ogni possibile relazione affettiva
una semplice questione di sopravvivenza.
Perché
tanto muoiono, muoiono tutti.
"Volevo
sapere come stessi. Volevo parlarti di una cosa molto
importante.”
Sai
cosa hai fatto, Wanda?
Ho
fatto l'unica cosa che faccio sempre bene. Distruggere.
Ebbe
una improvvisa fitta alla testa
e fu costretta ad appoggiare il collo contratto sul cuscino, mordendosi
le labbra con i denti a causa dell'emicrania che le stringeva la fronte
in una morsa implacabile.
Si
aggrappò violentemente ai bordi del materasso e volse il
capo verso sinistra, proprio dove si trovava lui.
"Sto
benissimo, una favola. Non lo noti? Non mi guardi più,
Visione?"
Il
suo volto rosso risaltava prepotentemente tra il candore soffocante
delle pareti, dei muri lindi e del soffitto basso.
Era
il primo colore che finalmente vedeva dopo ore e ore di isolamento
forzato, dopo bianco bianco bianco.
Ed
era la prima volta che parlavano
da quando lei era fuggita, da quando il conflitto si era concluso e
tutti avevano perso: in parte loro stessi, in parte altro e in parte
qualcosa su cui era meglio tacere e che lei preferiva dimenticare.
Che
senso aveva ricordare?
Perché
mai parlare ancora?
Meglio
continuare quella farsa, come avevano fatto con la pagliacciata a cui
entrambi si erano aggrappati in quei mesi.
Meglio
rimanere l’uno dinanzi
all'altra, chiusi in una camera d’ospedale, a far finta di
ignorare ciò che lei aveva fatto senza esitazioni.
Preferiva
il niente, come sempre, a qualsiasi costo.
Hai
ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Visione
si avvicinò ai piedi
del letto e alzò una mano come per aiutarsi a parlare ma
aveva
uno sguardo confuso, incerto.
Abbassò
distrattamente il braccio e sfiorò la sua gamba fasciata,
solo per un momento, neanche un secondo.
Eppure
lei lo aveva sentito.
Ed
era quello il problema, un
problema stupido da estirpare sul nascere, da far scomparire con uno
schiocco di dita, senza sentimentalismi e dispiacere. Bastava solo
sputare su tutto quello che loro erano stati, rovinare i pochi ricordi,
buttare nella spazzatura qualche oggetto e pile e pile di fogli.
Qualcosa
di semplice, maledettamente semplice, perché tanto loro non
erano mai stati niente.
Niente
di niente.
"Io
ti guardo sempre, Wanda. Lo sai.”
Lo
so. Cazzo, lo so ed è colpa tua. Tutta colpa tua.
Lui
doveva aver fatto di tutto pur di
ottenere il permesso di poter parlare con lei, la ragazzina fuorilegge
rinchiusa in una stanza d'ospedale, emarginata come se si trovasse
già in prigione.
Era
una situazione naturale,
altamente prevedibile e quasi noiosa. Nessun effetto speciale o colpo
di scena improvviso per Wanda Maximoff.
Aveva
imparato bene la lezione, non era una piccola ingenua desiderosa di
affetti, una bambina lamentosa e piagnucolante.
Sapeva
fin dall'infanzia che ogni
luogo in cui lei avrebbe messo piede sarebbe sempre stato un carcere,
fosse esso una stanza, un edificio, una città, una nazione.
Non
esisteva la libertà per
una persona senza nulla, morta dentro, con i sentimenti di carta
stropicciata nell'acqua sporca.
Non
si dispiaceva per questo, non
gliene importava, era una cazzata come un’altra. Aveva smesso
di
dare valore a certe inezie da anni, aveva capito -cadavere dopo
cadavere- che il resto del mondo era una zavorra di cui sbarazzarsi
alla prima buona occasione, senza provare il minimo pentimento.
Niente
era? Niente fosse allora, per tutta la vita e anche oltre.
Andava
bene così, a lei piaceva quel niente.
Nulla
poteva toccarla, ferirla, piegarla. Non esisteva potere più
grande.
"Volevo
metterti al corrente di un
fatto importante e credo sia giusto che tu lo sappia. Non so in
realtà come definirlo ma... proverò ad aggiornare
il mio
vocabolario per potermi spiegare meglio.”
Lei
aprì il palmo della mano
destra e vide i segni di mezzelune storte che aveva lasciato con le sue
unghie. Le scappò una smorfia di scherno e allora anche
Visione
li notò, quei cerchietti profondi e netti, e
serrò le
palpebre come se lei avesse lasciato quegli sfregi sul suo volto.
Come
se provasse dolore e dispiacere.
Come
se soffrisse alla vista di quei miseri graffi.
Come
se gli importasse.
Devi...
smetterla subito. Non siamo niente. Niente di niente.
Lui
non poteva cambiare ogni cosa,
non doveva neanche permettersi di pensarlo, perché non aveva
alcun diritto di gettarla di nuovo tra le rogne dell'esistenza.
Ma
chi si credeva di essere? Eh?
Le
sue emozioni erano morte e sepolte dalla neve sporca di sangue.
Nessuno,
nessuno mai, doveva provare a cambiare nulla.
"Parlami
allora. Ma facciamo presto
perché, certamente saprai, ho talmente tante visite questo
pomeriggio. Ho tutta l'agenda occupata.”
Le
nocche dell'altra mano erano ormai
bianche e le dita le formicolavano fino a tremare. L'ago nel polso si
era mosso troppo, un po' più a fondo e poi fuori, di lato e
dentro, dall'altro lato e fuori.
Sicuramente
le sarebbe rimasta una chiazza rossastra scura per settimane.
Meglio,
meglio così, molto meglio così.
Il
dolore lo conosceva, lo conosceva
benissimo, e sapeva conviverci grazie alla vita che glielo aveva
riservato come ordinaria amministrazione insieme a un senso di
inadeguatezza misto a bile acida.
Era
un caro amico il dolore. Carissimo.
"Il
tempo scorre, Visione.”
Non
guardarmi in quel modo. Non... farlo.
"Oggi
è successa una cosa" le
disse, a voce bassa, e con il capo chino verso il basso. Scorse quello
che stava facendo con la sua mano sinistra, il modo in cui la stava
torturando, e gliela afferrò di scatto, costringendola ad
aprire
le dita chiuse a pugno, intente quasi a scavare nella loro stessa
pelle.
"Oggi
è successa una cosa", ripeté, e le tolse
delicatamente l'ago, accarezzandole il punto martoriato.
"Stai
perdendo colpi, lo sai? Sono capitate tantissime cose oggi. Non certo
una sola."
Sono
morti i Vendicatori. Perché tutti muoiono, tutti.
Visione
guardò il suo viso e a
lei sembrò che lui avesse imparato tanti tratti umani e li
avesse assimilati senza saperlo. Come il deglutire, impercettibilmente,
e l'avvicinarsi piano, quasi fosse vicino ad una bestia feroce e
pericolosa, con una spina tra le zanne.
"Sei
arrabbiata."
Fece
un altro passo e le aggiustò i capelli sudati dietro
l'orecchio, con un tocco impalpabile e delicato.
Lei
aveva imparato, lei sapeva, il
modo in cui lui la toccava: la sfiorava sempre in maniera dolce,
neanche fosse fatta di fragile vetro.
Doveva
fargli davvero pena.
"No.
Sono molto più che arrabbiata."
Ma
se lei era vetro allora era una di
quelle lastre sporche con angoli taglienti. Un piccolo pezzo di
cristallo che non si doveva toccare se non si desiderava avere le mani
intrise di liquido nero.
Nessuno
poteva rimanerle accanto.
"Non
puoi immaginare la mia rabbia, Visione."
Si
scostò dalla sua carezza e
lui sbatté le ciglia, rendendosi conto di aver indugiato
troppo
con le dita nell'angolo tra l'orecchio e il collo.
Trattenne
solo la sua mano.
"È
naturale. Hai avuto paura."
Toccò
i tratti del suo nuovo
livido e lì appoggio la sua fronte, in uno scontro tra della
pelle rovinata e una gemma calda.
I
suoi gesti, dall’inizio,
avevano avuto il potere di far diventare il dolore qualcosa di
più sopportabile, granelli di zucchero in un bicchiere di
acqua
amara.
"Io
non ho mai paura", sussurrò, a denti stretti.
Era
un disastro di cicatrici aperte
da un soffio di vento, di cellule pazze che si ribellavano e
suicidavano. C'era il buio anche dentro le sue ossa.
Di
cosa mai doveva avere paura?
Lei
era più spaventosa.
"La
paura è una sensazione di forte preoccupazione. Provoca
angoscia e può avvertirsi in presenza-"
"Stai
leggendo una definizione da un dizionario davvero scadente, lasciatelo
dire."
Visione
non si scompose, rimase
immobile a stringerle le dita, a premere i palmi contro il dorso della
sua mano ferita, sulla fronte sempre più calda.
Espirò
lentamente e il suo respiro le solleticò la pelle del polso,
provocandole altro che serpeggiò lungo tutto il suo braccio,
in
una specie di scarica elettrica.
Fermati.
"È
una sensazione... che si
avverte in presenza di pericoli reali o immaginari. In questo caso era
reale, ci sono le prove tecniche. Avevi paura di una nuova catastrofe,
prevedibile da uno stato di divisione conflittuale all'interno di un
gruppo instabile. Le catastrofi spaventano perché sono
disastri
di particolare gravità, difficili da arginare e fuori dal
nostro
controllo."
Seguì
con i polpastrelli le
vene del suo avambraccio e si fermò al gomito,
accarezzandole la
pelle morbida e tenera.
Le
dita scivolarono via e deglutì ancora, piano, pianissimo.
Lei
si accorse del tremore dei suoi
pollici solo quando lui smise di toccarla e provò la
sensazione
di un pugno forte tra lo stomaco e la pancia nel momento esatto in cui
Visione cercò i suoi occhi e ricominciò a
parlare.
"Ed
è accaduto che io ho avuto paura e mi sono distratto. Io non
sono programmato per distrarmi, non potrei farlo."
Fermati.
"Wanda,
riuscivo solo a pensare a te."
Fermati,
cazzo. Ti ho detto di fermarti.
"Non
preoccuparti, faccio questo effetto a tutti. Passerà. Passa
sempre."
Non...
Mancava
aria ai suoi polmoni,
ossigeno nella stanza, un sostegno al suo corpo. Nascose entrambe le
mani sotto il lenzuolo, chiuse le palpebre, si abbracciò la
pancia come a difendersi da calci, schiaffi, altri calci. Aveva una
improvvisa voglia di urlare e strappare le garze, gridare e ferire
qualcuno, anche se stessa.
Bastava
non sentirlo più parlare.
Per
favore, per favore, non lo dire. Non farmi questo.
"Non
può passare", le mormorò, a disagio.
"Ti
ho scaraventato metri e metri sotto terra. È normale, avrai
avuto un desiderio di vendetta.”
"Io
mi sono innamorato di te."
No.
Ci
fu uno strappo.
Al
livello del petto sentì
uno strappo che rimbombò nella sua testa, le scosse le
spalle e
rovinò sulle sue labbra aperte.
No.
Una
lacerazione profonda sotto le sue
costole, qualcosa di reciso con delle cesoie imbrattate di terra. Con
le mani strinse forte lo stomaco, la pancia, il petto e aprendo gli
occhi vide il suo camice, macchiato dal sangue gocciolante delle ferite
non rimarginate, di quei graffi che aveva definito stupidi.
Visione
la bloccò, lui che ora si spaventava per qualche innocua
goccia di sangue.
Si
fottessero le garze che dovevano essere cambiate e il casino che aveva
combinato con i suoi palmi, andasse tutto a schifo.
“Wanda,
fermati.”
Lei
non poteva provare quel genere di dolore, non era possibile, non dopo
la morte di Pietro.
Vide
tante macchioline bianche
dinanzi a sé e così si rese conto che aveva di
nuovo
chiuso gli occhi e che stava serrando le palpebre con troppa forza.
Quello
non era dolore, doveva essere qualcosa altro.
Forse
aveva confuso il rumore dello
strappo con lo stridente suono di un oggetto rotto, caduto per terra e
sparso in mille irriconoscibili pezzi.
C’era
un errore, uno sbaglio, era tutto falso, doveva essere qualcosa nella
sua testa.
Non
era reale.
Se
avesse aperto gli occhi lui non
sarebbe stato lì e forse neanche lei, forse aprendo gli
occhi
non ci sarebbe stato nessuno.
Loro
erano niente, niente, niente e ancora niente.
Ma
andava bene così, a lei piaceva il niente, a lei piaceva
tanto.
È
tutta una bugia, vero? Mi sveglierò in questa stanza e
mi ritroverò di nuovo sola e senza nulla da affrontare,
nulla da
distruggere. Tutta una bugia, un’innocente bugia. Vero?
Sbatté
diverse volte le
palpebre e lui, prima sfocato e poi sempre più vivido, le
comparve dinanzi, con il volto preoccupato e le dita sulle sue braccia.
“Stai
meglio? Vuoi che chiami un dottore?”
Tutti
muoiono.
"E
quando ti saresti innamorato di me?", gli chiese, con un astio a stento
trattenuto.
Lui
era lì e lei si sentiva soffocare, in trappola e tradita.
Era
la realtà dei fatti, come vero era quella strana cosa che le
graffiava i polmoni e le scorticava il cuore.
Coriandoli
di ingranaggi e ferri vecchi, tutto ciò che le era rimasto.
Visione
sembrò perdersi ad
osservare un punto imprecisato della federa del suo cuscino, aveva
un’espressione corrucciata e tratteneva il respiro mentre le
sue
labbra erano tese in una linea sottile.
Rifletteva,
pensava, e intanto le aggiustava una manica della veste bianca, scesa a
scoprirle la spalla sinistra.
Il
suo stomaco si attorcigliò
su se stesso e lei provò una rabbia tale da sentire a
distanza
il suo potere crepitare pericolosamente. Rabbia, le serviva solo quella
e ne aveva tanta, per una vita intera.
Cercò
il suo sguardo e lo
sfidò senza tremare, imponendosi di fermare qualsiasi cosa
fosse
quella sensazione che premeva sul suo sterno.
"Ti
ho vista e mi sono innamorato", le rispose, con una voce meno ferma.
Sospirò
e provò a prenderle una mano che lei allontanò,
veloce.
"Vorresti
dire che ti sei innamorato
di me, così? Amore a prima vista? Nel bel mezzo di una
guerra?
No. Questo non è amore."
Non
doveva essere amore.
"Non...
non mi sono spiegato bene. Ti
ho amato appena ti ho vista davvero. Non so quando è
successo,
non so dirtelo, perché nessun mio programma riesce a
rispondere.
Mi prospetta solo fotogrammi."
Sorrise
lentamente e per lei fu la fine.
Aveva
la tentazione di premere forte
le mani sulle orecchie, di spegnersi, di annullarsi, di fare ogni cosa
folle pur di non ascoltarlo più.
Mi
stai facendo male.
"Tutti
i momenti, come pezzi di puzzle di te. Ogni tuo più piccolo
sorriso, ogni tua lacrima. Io... ti sento.”
Visione
abbassò il tono della
voce e senza accorgersene iniziò a tormentare il lenzuolo,
stringendo un lembo e poi lasciandolo come se scottasse.
Guardò
le pieghe e le aggiustò in maniera distratta, con un groppo
in
gola che lei sentiva scorrere nelle sue gambe.
“Io
quando sono con te... mi sento", le disse piano, sottile.
Le
parlava nello stesso modo in cui la sfiorava. Con una
sensibilità che, ora come non mai, odiava.
Che
senso aveva dirle
ciò? Esisteva un motivo per cui riversarle tutte quelle belle parole e
grandi frasi, gettarsi a fare poetiche considerazioni?
Perché
aveva voluto rovinare ogni cosa?
Lo
aveva fatto lui, era sua la colpa.
Andava
bene prima, andava bene il niente, andavano bene il silenzio e le
omissioni di ogni secondo.
Era
stato perfetto ignorare la verità e credere fermamente che
nulla di tutto quello esistesse.
Era
stato il suo ultimo desiderio dopo una vita di schiaffi tra i denti.
Violenza
dopo violenza, morte dopo morte.
Aveva
solo sperato di vivere in quel
loro strano limbo per l’eternità,
perché le cose
non potevano essere dette ad alta voce, non dovevano esserci etichette.
Se
dici ad alta voce che ami qualcosa quella cosa allora ti
verrà strappata via.
Non
avrebbe potuto mai rendere reale
lo strano sentimento di male e piacere che provava solo quando erano
insieme, solo quando erano loro due.
Non
aveva senso, non ci si doveva mai affezionare, si rimaneva solo
fottuti.
Lui
aveva rovinato tutto.
E
allora? E allora che si
distruggesse ciò che era rimasto, morisse anche il niente,
si
sporcasse ogni cosa bella e ridiventasse il mondo nero, la stanza
vuota, lei sola.
Sola,
sola, senza più alcun modo di essere ferita.
Tanto...
tanto muoiono tutti. Uno dopo l’altro.
“Non
è amore. Non lo è.”
Sentì
un dolore al petto e lo ignorò, provando una fitta alla
bocca dello stomaco che gli strinse la mandibola.
Percepì
chiaramente un nodo in
gola e respirò con le labbra schiuse, per grattare via la
sensazione di star soffocando.
Gli
indicò la porta e lui non si mosse di un passo.
Muoiono
tutti e tutti prima di lei.
La
lasciavano sempre sola.
"Non
sono abile a spiegarmi. Se mi concedessi del tempo potrei migliorare."
Sarebbe
già dovuto andarsene,
prendere la via di uscita e dimenticare i mesi passati, ascoltarla e
fuggire, fuggire via prima del disastro, prima che la situazione
degenerasse.
Lei
si schiarì la voce e di
nuovo un eco di rabbia rimbombò nella sua testa, un senso di
insoddisfazione tanto grande da offuscarle la vista, gonfiarle i
polmoni, scombinarle la pancia.
Se
ne andasse, corresse via. Perché odiarla così?
Perché non lasciarla sola, in pace, libera?
Lui
morirà, come tutti, lui si
spegnerà e lei dovrà di nuovo soffrire, con il
cuore
strappato dal petto, a mani nude.
Non
esisteva alcun amore e, Dio, lui doveva uscire via da quella stanza e
dalla sua vita.
Non
lo sapeva, non lo capiva?
I
sentimenti troppo forti sono da spezzare e da schiacciare prima di
ritrovarsi bocconi a terra con il desiderio di morire.
Lei
ci era già passata e mai,
dovevano rompere ogni suo osso, avrebbe permesso a qualcuno di ridurla
di nuovo in quello stato.
Era
una questione di sopravvivenza, la cosa giusta da fare.
"E
come faresti? Scaricheresti nella
tua testa più manuali del linguaggio, qualche saggio
scientifico
o romanzetto rosa? In questo modo hai capito che ti eri innamorato di
me? Lasciami immaginare. Avrai diagnosticato qualche sintomo e avrai
consultato subito una guida medica ma, mi duole informarti, devi aver
navigato sul sito sbagliato, forse uno di quelli per ragazzine,
perché hai sbagliato tutto. Hai sbagliato ogni cosa, tu non
sei
innamorato di niente e nessuno."
Ma
se era la cosa giusta da fare perché allora si sentiva tanto
male?
"Sei
una macchina, un insieme di oggetti sbagliati, un errore.”
Perché
soffriva?
“Non
sei neanche un essere umano!"
No.
Sì.
Sì,
questo era uno strappo.
Mise
una mano davanti alle sue labbra e le sentì tremare contro
il suo palmo sporco.
Non...
non volevo.
Visione
fece due passi indietro e
ingoiò aria, con un’espressione afflitta capace di
dissipare l’odio provato prima.
M-mi...
mi dispiace.
"Confermo.
È tutto esatto e perfettamente esaminato",
sussurrò, atono.
“Sono
un androide fatto di
materiale sintetico e vibranio. Sono nato perché il signor
Tony
Stark ha compiuto un errore di valutazione e questo errore ha portato a
me. Per proprietà transitiva sono un errore.”
Guardò
il suo corpo rosso
coperto da vestiti umani e lei si coprì gli occhi,
soffocando
con i polsi i singhiozzi leggeri che abbandonavano la sua bocca.
“E
no. Non sono umano", lo mormorò come se lo stesse ricordando
a se stesso.
Si
diresse verso l’altro lato
della stanza ma ad un passo dall’uscita si fermò e
la
osservò un’ultima volta, parlando lentamente.
"Io
ti amo davvero."
Impossibile.
"L'amore
è una cazzata. Meglio la libertà", gli disse, con
l'ultimo filo di voce rimanente.
Visione
annuì e aprì la
porta, non guardandola più negli occhi ma concentrandosi
sulla
maniglia a cui sembrò appoggiarsi, a fatica.
"Non
ti preoccupare. Sono sicuro che presto sarai libera di nuovo.
Andrà tutto bene, Wanda."
No.
Non
poteva andare bene, nulla più poteva andare bene.
Aveva
appena distrutto l'unica cosa bella a cui teneva.
Quindi
ora sì.
Ora
sì che conosceva il niente.
*******
Maledetti
ricordi.
Click.
Maledette
gocce di tubature arrugginite.
Click
click.
Odiava
quel suono, odiava quell’astronave rubata.
Click
click click.
Maledetti
rumori che non la facevano dormire la notte, maledetto viaggio e
maledetta missione.
Fanculo
tutti.
Wanda
fece scontrare la matita contro il tavolo e il ticchettio la
innervosì ancora di più, esasperandola. Si prese
la testa
fra le mani, digrignò i denti e scalciò sotto il
tavolo,
e così facendo riuscì solamente a colpire
un’altra
sedia e a farla cadere rovinosamente a terra.
Andasse
a quel paese anche la stanza e ogni oggetto lì dentro.
Borbottò
e aprì le dita a ventaglio, massaggiandosi lenta la cute e
poi più giù fino alle tempie.
Un’altra
terribile emicrania le schiacciava il cranio, pressando come mattoni di
cemento proprio al centro del suo capo.
Abbassò
lo sguardo e ammirò la sua opera interrotta.
Click.
Il
disegno posato sul tavolo mostrava il profilo appena accennato di un
giovane uomo, un ragazzo, il quale aveva da poco perduto i tratti
tipici della prima giovinezza per acquisire invece dei lineamenti duri,
degli zigomi alti ed una leggerissima barba bionda sulle guance.
Gli
occhi parevano luccicare, quasi vivi, anche se la matita aveva solo
iniziato, a poco a poco, a tracciarne il taglio.
Click
click.
Passò
un polpastrello sopra la carta e fu come accarezzargli il
mento, la linea del naso, i dettagli di un viso che aveva sempre
ritratto.
Il
suo amato fratello, il suo gemello.
Pietro.
Click
click click.
E
ora poteva farlo soltanto quando richiamava alla memoria, alla
stregua di fotogrammi in bianco e nero, i momenti passati insieme:
spezzoni della loro infanzia, ogni secondo delle loro mani intrecciate
sotto il cielo plumbeo di Sokovia, i passi lungo le strade polverose
dei vicoli poveri e malfamati, le sue braccia sempre pronte a
proteggerla, -soprattutto da se stessa.
Cercò
di afferrare il suo volto e tra le dita non gli rimase
nulla, perché il destino dei sopravvissuti era la solitudine
e
il rimpianto perenne di non essere sotto terra insieme a tutti gli
altri morti.
E
lei, purtroppo, era una stupida sopravvissuta.
“Rogers
mi ha pregato di parlare con te. Noi due, secondo la sua
assurda mentalità e visione della vita, dovremmo confidarci
perché entrambe appartenenti al genere femminile.
È
così antico.”
Natasha
prese posto dinanzi a lei e incrociò le braccia sotto il
seno, spostando lo sguardo, con una espressione insofferente, da una
parte all’altra della stanza e squadrando i diversi fogli
appallottolati e gettati sul pavimento, a dimostrazione che avrebbe
voluto essere ovunque ma non lì, non a consolare
l’altra
piccola fuggitiva del loro gruppo di ribelli, ovunque ma proprio non
lì, non a interrogare lei.
“Steve
ha delle idee tutte sue, un retaggio della sua epoca. Non
preoccuparti, gli dirò che mi hai parlato. Anche se, ancora,
non
capisco il perché di tutta questa premura. Sto bene, faccio
solo
fatica ad addormentarmi.”
Wanda
riprese la matita e ci giocherellò, acciuffandola tra
l’indice e il medio, mentre si sistemava dietro
l’orecchio
alcune ciocche rossicce dei suoi lunghi capelli fuggiti
dall’alto
chignon.
Un
costante fastidio.
Avrebbe
dovuto tagliarli, un netto colpo di forbici e nessun fastidio.
Avrebbe dovuto farlo e smetterla di tergiversare, scegliere un tipico
taglio maschile e agire.
Sì,
lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto presto.
Nessuno
poteva fermarla, no?
Mi
piacciono i tuoi capelli. Mi ricordano il fuoco, la luce di qualcosa di
bello. Stregano le persone.
“Ti
prego di non dire certe cazzate davanti a me, potrei perdere
la pazienza una volta per tutte. Ed è meglio, per entrambe,
rimanere calme.”
Osservò
Natasha all’altro capo del tavolo e posò la
matita vicino al foglio, fingendo di star cercando di allineare
perfettamente i due oggetti.
Una
rossa scarica elettrica le avvolse la mano, come se fosse un
guanto, e crepitò sulle nocche e sul polso, stringendole le
vene
fino ad annacquarle la vista.
“Io
sono calma. Non ho bisogno di nessuno.”
Come
risposta ottenne una risata squillante, non una tipica reazione di
Nat a dire il vero, almeno non con gli altri. Ma a quanto pareva le
piaceva riservarla a lei sola, anche più volte al giorno, e
poteva dirlo a causa della frequenza di tutte le risate in faccia che
le aveva regalato in quegli ultimi mesi.
Che
ennesimo adorabile privilegio, che detestabile personale tortura.
Si
distrasse e Natasha le afferrò velocemente il foglio
cominciando a osservarlo da ogni angolatura e sorridendo non appena
comprese.
“Continua
a ripetertelo e forse, non ne sono sicura, tra molti
anni potresti anche iniziare a crederci. Ma se pensi di prendere in
giro me...”
“Ti
ho già detto che puoi andartene”, le
ricordò, alzando il tono della voce che rimbombò
in
quella piccola stanza sgangherata.
Ma
l’altra non si scompose e continuò a guardare il
disegno interrotto, la linea delle dita talmente chiara da poter
apparire una sbavatura della matita.
Maneggiava
con poca cura quel foglio, non era attenta alle possibili
pieghe e toccava i tratti grigi con tutti i polpastrelli senza
immaginare così di star rovinando e sbiadendo i contorni del
viso di Pietro.
Odiava
quando qualcuno le sfilava via i suoi disegni e li rovinava con
una tale noncuranza da farle provare biasimo verso se stessa,
perché non era capace di difendere neppure degli oggetti
tanto
stupidi.
Odiava
dover rimanere seduta su una sedia, reprimendo l’istinto
di strappare il foglio a Nat per poi nasconderlo e metterlo in salvo,
insieme a tanti e tanti altri ritratti, sotto il materasso del suo
letto rattoppato.
Detestava
dover fingere di non provare nulla alla vista della
superficialità con cui gli altri si appropriavano di
qualcosa di
suo, di così intimo e chiuso, segreto.
Rimpiangeva
il modo in cui si vergognava costantemente di se stessa.
Wanda,
tu... puoi fare tutto. Tutto.
Sbatté
le palpebre e la pelle della mano cominciò a
essere tesa, tesa fino a darle degli spasimi e tremori lungo il braccio
e lungo la vena blu che raggiungeva il suo gomito.
Sbatté
di nuovo le palpebre e il dolore rimase comunque lì, dove
era sempre stato.
“Cosa
stavi facendo qui? Da sola, di nuovo. Oltre che disegnare.”
Gli
occhi le caddero sull’altro foglio nascosto sotto il primo,
sull’altro volto che lei disegnava ogni giorno insieme a
quello
di suo fratello.
L’unico
altro viso che amava.
“È
ancora più grave di quanto pensassi. Davvero. Molto
più grave.”
Il
tono strascicato della voce, la supponenza con la quale la scherniva
e il sorriso di biasimo e finta comprensione la irritarono talmente
tanto da farle bruciare il palmo dell’altra mano, anche essa
ora
avvolta da scariche rosse poco controllabili.
Come
si permetteva di giudicare, proprio lei, come osava?
"Stavo
solo pensando."
"E
lo sai, vero? Sai che il tuo pensiero sta diventando un'ossessione.
Devi saperlo."
Wanda
prese l’altro foglio tra le dita, lo sollevò
piegando leggermente gli angoli e squadrò, grazie alla fioca
luce presente nella stanza, i lineamenti perfetti che aveva riprodotto
e lo sguardo spento che la tormentava ogni notte, -no, ogni secondo di
ogni giorno-, da ormai più di sei mesi.
Sei
mesi da quel giorno maledetto, sei mesi dall’ultima volta che
aveva incrociato i suoi occhi, sei terribili e interminabili mesi
trascorsi lenti e vuoti, perché aveva scelto il niente al
posto
della certa e assoluta sofferenza.
Sei
mesi di Inferno in cui lei era diventata la carceriera di se stessa
e in cui, pur di sopravvivere, riviveva tutti i loro momenti passati
insieme.
Sentiva
ancora il suo tocco, forse perché stava impazzendo, e a
volte le sembrava che la pelle ricordasse le leggere carezze delle sue
mani nei momenti in cui l’aveva sfiorata, per caso o per
sbaglio,
durante le passeggiate tra i viali alberati della residenza dei
Vendicatori.
Si
era sempre mantenuto ad una rispettosa distanza, sempre, tranne le
rare volte in cui le aveva spostato i capelli dietro le orecchie
dicendole di essere stregato da quel colore strano che non era
né rosso né castano.
Guardo
le tue ciocche, a volte chiare
e a volte scure, e mi sembra di rivedere la tua magia in ogni parte di
te. Ti vedo sempre, ti vedo ovunque. Vorrei che ogni persona al mondo
vedesse quello che vedo io.
La
riverenza delle sue dita,
la
sensazione stupenda della sua pelle contro la sua, per quei momenti
brevi ma eterni.
Le
pochissime volte in cui le aveva accarezzato una guancia.
Wanda,
io ti vedo.
"So
gestirlo."
Si
aggrappava a qualsiasi qualcosa, si aggrappava alla sensazione della
sua voce limpida che le cullava i pensieri e le graffiava il cuore fino
a farlo uscire dal petto.
"Racconta
frottole a lui ma non a me."
Si
accorse di star stringendo troppo forte il disegno e che lo stava
rovinando.
“Cosa
sai?”
Che
ipocrita.
Si
adirava tanto con gli altri, si arrabbiava perché tutti le
rovinavano i suoi pochi averi e poi, come da tutta una vita, era lei la
prima a distruggere ciò a cui teneva tanto.
“Quello
che sanno tutti”, le venne risposto, con un finto
sorriso e le braccia di nuovo contro il petto a coronare il momento. La
sua lenta mossa prima di attaccare, la sua finta dolcezza per ingannare
l’ignara vittima. Romanoff nel corso della sua carriera aveva
usato la sua abilità innumerevoli volte eppure la sua
tecnica
non poteva funzionare con ogni bersaglio, no, perché il
passato
di ognuno è diverso e il futuro designato non può
essere
lo stesso per chiunque e le vittime lo sanno, lo sanno bene, infatti
alcune neppure sperano di averlo quell’altro giorno in
più
da vivere e decidono quindi di consumarsi in un breve presente di
vittoria e risentimento.
Nat
non poteva vincere sempre, semplicemente perché esistevano
pedine disperate, sconfitte già in partenza, sopravvissute a
mali inimmaginabili. Quello che era lei.
Lei
era una sopravvissuta.
“Ovvero?”
Ed
era sopravvissuta alla carneficina di Sokovia ma non a quella
perpetuata da se stessa.
“Che
sei una patetica codarda.”
L’astio
nella sua voce le fece sollevare le ciglia e i suoi occhi
si scontrarono contro il suo viso adirato, stretto in una smorfia di
disappunto e rassegnazione.
Continuava
a osservarla con disprezzo, dall’altro lato del
tavolo, il foglio ora posato, e rimaneva immobile ad aspettare una sua
mossa come il suo antico addestramento le aveva insegnato e come i suoi
più vecchi maestri le avevano inculcato.
Loro
due potevano anche rimanere ferme lì, così, per
anni
e anni. Tanto lei non avrebbe reagito alle sue mirate e attente
provocazioni.
Perché
sprecare tante energie?
Nel
silenzio assoluto di quella stanza piccola e spoglia, con gli
interni freddi e asettici, entrambe si stavano scontrando senza alcun
motivo apparente in una gara di sguardi, di sopportazione della
tensione, di frasi taglienti.
Perché?
Perché prendersi tanto disturbo?
“Nulla
di nuovo, quindi”, le rispose, e tornò ad
osservare il ritratto che ancora aveva tra le mani: le palpebre
socchiuse e la bocca imbronciata gli facevano assumere
un’aria
più triste, desolata, quasi fosse sul punto di piangere e
non
sapesse come fare a fermarsi.
Il
mondo era davvero brutto, cattivo e avido, perché le aveva
portato via tutto senza lasciarle niente.
Niente
di niente.
Wanda,
te lo giuro. Tu non sei sola.
“Se
qui fosse presente anche Clint avresti già preso diversi
calci in culo da parte sua.”
Le
scariche rosse sui dorsi e i palmi erano talmente scure da poter
apparire sangue marcio, strisciavano sul volto catturato e schiacciato
sulla carta e giù sul tavolo, per poi risalire tra i suoi
anelli
e i suoi bracciali.
Era
una magia che le prendeva la pancia e arrotolava lo stomaco,
calpestando polmoni e costole pur di raggiungerle il cervello e
martoriarle la testa con un controllo alla nuca.
Pretendeva
tutto, il suo potere, pretendeva ogni lembo di carne del suo
corpo e le dava altrettanto, secondo la millenaria legge del taglione.
Tutto
per tutto.
Niente
per niente.
Le
strappava ogni resistenza per donarle la possibilità di
poter fare la stessa cosa ai suoi nemici.
E
poi di lei cosa rimaneva?
La
più sorda solitudine, la più cieca rabbia, il
più muto dolore.
Un
fagotto di ragazza di venticinque anni con uno straccio di
esistenza, uno sputo di coscienza e uno straordinario potere che non
era in grado di controllare.
Ecco,
ecco cosa rimaneva di lei, ed era così perché
nessuno scambio è mai equo e perché da quando era
nata le
erano toccate le ossa senza carne, i nervi senza grasso.
Niente
per niente.
“Non
hai una vita, Natasha?”
Strisciò
indietro la sedia e si alzò per raggiungere la
sua borsa buttata in un angolo della stanza, la aprì con uno
scatto rabbioso e lì gettò il foglio, il viso
rovesciato
all’in giù che le rivolgeva un’accusa
negli angoli
delle labbra abbassate in una smorfia di tristezza infinita.
Richiuse
veloce la cerniera e si riprese la testa tra le mani,
pressando forte contro la fronte. Il dolore aumentava e la magia si
rivoltava contro di lei, strapazzandola come un calzino sporco e
spaiato in una lavatrice troppo grande.
Esasperata,
ancora di più e sempre di più, diede un
calcio contro il muro e avvertì la sua energia sfrigolare
contro
il pavimento e gli oggetti vicini. Tentò di massaggiarsi le
tempie ma dovette stringersi il cranio perché le sembrava di
avere milioni di milioni di spilli negli occhi e alla nuca, tra le
sopracciglia e il mento.
Wanda.
Quasi
non respirava.
Wanda,
tu sei più forte. Non devi avere paura.
Inspirare.
Non
te lo ricordi?
Espirare.
Sei
sempre tu.
Inspirare.
Sei
tu.
Espirare.
E
non devi temere te stessa.
L’aria
tornò da lei e la stretta alla testa sembrò
diminuire, alleggerirla di un peso e consentirle di prendere un altro
respiro e un altro più profondo.
Non
avere paura.
“Non
meriti la presenza delle altre persone. All’inizio
tutta questa tua paura fa tenerezza ma poi risulta solo
disturbante.”
Natasha
era ancora seduta e le labbra erano tirate mentre scuoteva il
volto da destra a sinistra da sinistra a destra e sospirava
spazientita, per lo più annoiata.
Lei
raggiunse il tavolo e provò a risponderle decisa ma fu
fermata nuovamente da un’altra fitta al collo che le
raggiunse
subito la testa e le contrasse i muscoli del viso.
Respirò,
lentamente, e raccolse con meticolosità gli
ultimi fogli, formando un magro plico, non molto consistente.
I
pezzi perduti durante la sua vita, il buono che le era stato rubato
senza la possibilità di una vendetta, il bello che lei aveva
calpestato in completa autonomia.
Mamma,
papà, Pietro.
Tutto
l’amore che lei aveva disprezzato nel peggiore dei modi.
Visione.
“È
Steve che ti ha chiesto di insistere così tanto?
Oppure è una tua nuova forma di tortura e io sono la tua
cavia
personale? Cosa vuoi da me, perché sei qui?”
Riaprì
la borsa e gettò anche quei disegni, confondendoli
tra loro, e si voltò verso di lei, consumando il pavimento
con i
suoi passi pesanti mentre stringeva i denti e sopportava quella
violenta emicrania.
“Partecipo
ad ogni missione, completo ogni comando, non compio
errori e nessuna distrazione mi ha mai impedito di portare a termini
gli impegni presi. Sono qui con voi e sono perfetta, ogni lavoro
è pulito e ogni combattimento è compiuto secondo
le
regole. Quindi cosa c’è? Perché tutto
questo,
perché adesso?”
Lui
mi manca tantissimo, mi manca
troppo, mi manca oltre i limiti del possibile, mi manca nello stesso
modo in cui mi manca Pietro.
Ma
sono qui, sono ancora qui, a combattere. Perché farmi anche
questo? Perché?
“Hai
così tanta paura da essere pietrificata nelle tue sciocche
convinzioni. Ci credi davvero.”
Passò
uno stupore genuino nel suo sguardo e per un momento la
sua espressione cambiò, per un solo momento
sembrò
compatirla sul serio, senza alcuna finzione. Fu forse un secondo, un
millesimo di secondo, ma fu in grado di spezzarle qualcosa dentro, di
trovare il punto esatto di pressione, fu abbastanza perché
il
labbro inferiore cominciò a tremare e lei dovette fermarlo
con i
denti, fu troppo perché sentiva gli occhi bruciare e la
tensione
al petto scalciare per uscire.
“In
che cosa? Di non avere un futuro? Ma è vero. Ogni cosa
che tocco muore e tutti... sono morti tutti. Ho pagato e continuo a
pagare ogni singolo secondo bello che ho vissuto o che potrei vivere e
lo faccio con gli interessi. Sono stanca. Io non sono
un’eroina,
sono solo una povera e patetica sopravvissuta che cerca di andare
avanti limitando i danni, eliminando i possibili mali, i sicuri dolori,
gli ennesimi lutti. Perché sono stanca, sono tanto stanca.
Sono
esausta della rabbia del mondo contro di me.”
Tutti
muoiono.
“Io
sono nata per essere sola.”
Muoiono
tutti.
Calò
un nuovo silenzio nella stanza, un silenzio tombale, e
allora lei credette che Natasha si sarebbe semplicemente alzata e si
sarebbe allontanata, chiudendosi la porta alle spalle senza rimpianti e
lasciandola lì da sola, per poi dimenticarsi di quella
assurda
conversazione.
Forse
lo sperò, forse lo temette.
Non
lo sapeva neppure lei.
"Non
gira tutto intorno a te, Wanda. Il mondo se ne frega e
l’universo non sa neanche che esisti."
Una
sedia cadde e una mano si abbatté forte contro il tavolo e
Wanda fu sorpresa di quello scatto veloce e del suo atteggiamento
diverso, della rabbia che le veniva riversata all’improvviso
con
tanta veemenza. Sembrava disgustata, non triste né
compassionevole né derisoria, solo autenticamente schifata.
“Sei...
non so come definirti perché una persona tanto
stupida e ingrata non l’avevo mai incontrata in tutta la mia
vita. Il tuo compiangerti è rivoltante quanto la tua
strascicante apatia. Hai fatto del male a lui, hai fatto del male a
te,
perché credi di essere maledetta? Ti credi così
importante, ti immagini così potente, che il mondo, no,
perdonami, l’intero universo complotta contro di te per
portarti
via tutto ciò che ami? Io non credevo potesse esistere un
ego
tanto smisurato quanto quello di Tony Stark e tu sei riuscita
addirittura a superarlo.”
Essere
paragonata all’uomo che più odiava al mondo le
arrossò le guance di rabbia e arrotolò la lingua
in scuse
affrettate e bugiarde.
“È
lui che ha rovinato tutto. Andava meglio prima, andava tutto bene.
Perché...”
Era
inutile continuare, tanto Nat lo sapeva, lo sapevano tutti cosa fosse
successo e che cosa loro due si erano detti.
Lei
lo sognava ogni notte e spesso lo urlava nel sonno, sperando al
risveglio di aver avuto un vivido incubo e che nulla fosse reale.
Invece
poi apriva gli occhi, sbatteva le palpebre al buio e il suo
dolore era lì, sempre lì, perché lei
si era
costruita il suo personale Inferno e ora non sapeva più come
uscirne.
“Lascia
solo che ti dica questo. Per certe cose ci vuole
maturità e dire certe cose vuol dire fidarsi. Almeno
potresti
avere più rispetto, soprattutto perché tu non hai
mostrato lo stesso coraggio. Sei una codarda spaventata. Risulti
addirittura patetica nella tua ostinata volontà di negare
anche
l’evidenza. Quindi...”
Sembrò
fermarsi, ricordare altro e allontanarlo via chiudendo gli occhi.
“Alza
il culo e cerca di fare qualcosa. Smettila di
autocommiserarti e, prima che sia troppo tardi, dimostra di non essere
una bambina. Sii una donna.”
È
già tardi. Lui non mi perdonerà mai.
E
come potrebbe? Io non mi perdono
per quello che gli ho detto, per quello che gli ho fatto. Mi odio, mi
dispero, piango di nascosto e mi pizzico le braccia per intimarmi di
smetterla, di finirla e di non pensare a quello che ho perso e
distrutto con le mie mani.
Perché
io ho sempre avuto
paura della felicità. Come se fosse qualcosa di troppo
grande e
impossibile da vivere, qualcosa capace di aprirmi il petto per
ricrearsi più spazio, qualcosa di incontenibile in un corpo
umano, troppo piccolo e ricco di ostacoli e sbarre.
Ho
il terrore della felicità, la temo talmente tanto da far del
male agli altri, da aver fatto del male a lui.
Lui
che era tutto, lui che è
tutto, lui che è il mio unico pensiero che mi porta sul
ciglio
della follia e poi mi riprende e mi salva, trovando per me un
nascondiglio da ogni male marcio che infetta il mondo.
Lui
che mi ha salvata, sempre, e che
mi ha amata quando io non potevo neppure avere rispetto per me stessa e
per il mio dolore. Lui, con i suoi sorrisi storti e le frasi
bellissime, lui che mi ha conquistato giorno dopo giorno.
Come
si può non innamorarsi di qualcuno che si prende tra i palmi
tutte le tue ferite e le protegge con la propria vita?
Lui
ha fatto questo, dal primo momento, lui mi ha amata a costo di farsi
male e di sanguinare per me.
Lui
è tutto il mio mondo.
Ed
io non potrò più viverlo, non più, non
ora che non c’è più tempo.
Il
nostro tempo è finito.
“Torna
da lui.”
Durante
qualche notte, qualche notte più buia e spaventosa delle
altre, aveva formulato quel pensiero in silenzio e lo aveva
contemplato, pentendosene tutti i giorni seguenti.
Non
poteva presentarsi da lui, no.
Non
poteva e basta.
“Non
posso.”
Di
nuovo la mano di Nat si abbatté contro il tavolo e lei
sentì le dita pizzicarle e la magia correre a riscaldarle le
vene.
“Muovi
il culo e dà una svolta alla tua vita.”
Risalire
dal dirupo in cui si era buttata e cambiare il suo futuro,
un’idea così lontana da poter essere formulata
soltanto
durante i deliri della febbre e mai da coscienti.
Si
portò le braccia intorno al petto e ignorò il
fastidio
delle scariche rossicce, inclinò il capo di lato e si morse
il
labbro inferiore, mortalmente stanca.
“E
come potrei?”
Combattere
contro se stessa, contro la propria squadra e contro il
mondo intero era qualcosa che avrebbe stancato e sconfitto chiunque.
La
sua pace era lontana, lui era a una distanza incalcolabile di
chilometri e ferite.
Come
l’avrebbe guardata ora? Con risentimento?
Lui
che non era mai stato capace di provare odio, forse adesso lo
avrà imparato a causa sua?
Forse
sarebbe stato indifferente o forse in realtà
l’aveva
già dimenticata, forse aveva superato quel qualcosa che non
era
mai del tutto esistito.
E
lei? Che cosa aveva lei tra i propri palmi? Come poteva pensare di
riaggiustare qualcosa di così rotto e disintegrato in
miliardi
di pezzi?
Lui
cosa avrebbe provato a rivederla?
Tutto
o niente?
"Devi
lasciarti andare. Ma se lui... allora devi lasciarlo andare."
Lasciarsi
andare era come cadere nel vuoto e sapere di non poter essere
mai salvati. Era un suicidio crudele, un volontario farsi del male, una
morte triste e consapevole.
Lasciarsi
andare era contro l’animo umano.
Tutto
o niente?
"Come
Bruce ha fatto con te?”
"Come
Vis ha fatto con te."
Nat
girò su se stessa e si diresse verso la porta,
camminò lenta e strinse un pugno contro la gamba per una
frazione di secondo poi riaprì subito la mano e fu come non
fosse mai accaduto.
Wanda
la fermò non appena la vide abbassare la maniglia.
“Non
vorrà neanche parlarmi né vedermi. Mi
odierà, gli farò schifo.”
Natasha
le rispose rivolgendole le spalle e non si curò neppure
di assistere alla sua espressione dopo l’ultima stoccata che
le
rivolse precisa, come una freccia piantata al centro del suo petto,
dentro il suo cuore, a mani nude.
“In
fondo che cosa hai da perdere?”
La
porta si chiuse e lei si ritrovò di nuovo da sola.
Niente.
Lei non aveva niente.
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