[Fatti e personaggi
potrebbero non essere conformi a
realtà o volutamente modificati per esigenze di trama.]
Composizione
VIII.
«Dictus
est autem
Lucifer,
quia
prae ceteros
luxit suaeque
pulchritudinis
consideratio
eum
excaecavit.»
Si
stava chiedendo per la centesima volta che cosa stesse facendo in quel
luogo,
se lo era chiesto ad ogni passo che aveva fatto, se lo era chiesto
quando era
salita in macchina senza neanche passare a casa per cambiarsi, senza
salutare
neanche una fra le persone che l’avevano accompagnata a
quell’evento per cui
aveva tanto lavorato. Lei era più che consapevole di che
giorno fosse quello,
era più che consapevole che non sarebbe stato un giorno come
gli altri.
Eppure,
aveva ignorato quella sensazione di disagio che le si era piazzata a
livello
dello stomaco, come se questo potesse sapere che le cose che sarebbero
successe
non l’avrebbero resa felice.
Quella
sensazione di instabilità l’aveva accompagnata per
almeno qualche mese, l’aveva
accompagnata alternata soltanto dall’incoscienza del sonno,
l’unico reale
momento delle sue giornate in cui non aveva dovuto confrontarsi con la
paura di
sentirsi impreparata ad una sua eventuale ricomparsa.
Quando
pensava di essere andata ormai avanti, quando aveva quasi chiuso tutti
i
ricordi che lo riguardavano in un cassetto della sua mente che non
aveva più
intenzione di aprire, quando aveva quasi buttato la chiave arrendendosi
alla
consapevolezza che, probabilmente, la fine di quella relazione che
avevano
vissuto per così poco tempo e che aveva cambiato entrambi
così profondamente
era davvero l’unico modo in cui avrebbero potuto essere
veramente felici;
quando si era ormai arresa all’idea che fossero stati solo
degli sciocchi a
credere che avrebbe potuto durare, che sarebbero stati in grado di
mettere da
parte tutti i loro difetti per riuscire a costruire qualcosa che non
puzzasse
di fumo e non sapesse di cenere, quando si era ormai arresa
all’evidenza della
sua assenza, lui aveva deciso di ricomparire, con un singolo messaggio.
Non
riusciva neanche a capire quanto ne fosse stata sorpresa e non riusciva
a
capire se quello che provava fosse un sentimento negativo o positivo.
Non
sapeva davvero che cosa avrebbe potuto volere da lei dopo il modo in
cui si
erano lasciati, dopo che si erano lasciati senza neanche essere mai
stati
realmente insieme. Per qualche tempo, aveva pensato fosse stato solo un
sogno:
in fondo, era stato così breve ed effimero da lasciarle in
bocca l’amaro, come
succede con i bei sogni, ed era stato così intenso ed intimo
da lasciarle sul
corpo il marchio, come succede con gli incubi.
Mentre
aspettava l’ascensore che l’avrebbe portata
all’interno dal parcheggio
sotterraneo, si domandò se davvero avesse fatto la cosa
giusta, se non avrebbe
fatto meglio, per sé stessa, ad ignorare completamente la
sua presenza, a
continuare su quella che era stata una strada difficile da trovare ma
almeno
facile da mantenere. Tutti i suoi pensieri furono interrotti
dall’arrivo
dell’ascensore, fece un passo avanti, sentendo per la prima
volta la difficoltà
di doverlo vedere di nuovo quando le porte le si chiusero alle spalle;
si
poggiò con una mano sul metallo freddo che la circondava e
si sentì instabile
su quei tacchi che non aveva neanche pensato di cambiare.
Sarebbe
stata più alta di lui, in quel modo.
Sorrise,
pensando alla volta in cui ne avevano parlato e sentendosi ancora
più instabile
su quelle scarpe e fragile nei suoi vestiti.
Forse,
non era stata una buona idea per davvero.
Lui
le aveva detto chiaramente che non gli interessava niente
dell’altezza e che,
visti da una certa angolazione, erano tutti alti uguale. Lo aveva detto
con
quel sorriso furbo che aveva imparato a riconoscere quasi subito,
guardandola
di sbieco e facendola sentire in soggezione come riusciva a fare solo
lui, come
se fosse una bambina piccola che si sentiva in colpa per aver fatto
qualcosa di
male. Ma lei non era una bambina piccola e lui non era nessuno
per incolparla di qualcosa.
Aveva
lasciato l’evento a cui era andata non appena aveva ricevuto
il messaggio,
presa da una voglia di rivederlo che riusciva a spiegarsi solo se
pensava che,
più che condividere un letto, avevano condiviso due menti.
Quella
era l’ultima data del suo tour europeo, ma oltre a questo non
sapeva niente,
perché aveva volutamente evitato di saperne di
più.
Non
aveva impiegato molto per arrivare da dove si trovava al luogo in cui
Jiyong
stava tenendo il concerto, non aveva impiegato molto perché
aveva corso con la
macchina e perché non c’era traffico quella sera,
che era pur sempre un martedì
sera qualunque, che di qualunque
aveva ben poco per lei. Aveva corso, con il rischio di essere fermata
da
qualche pattuglia, per di più con indosso ancora le scarpe
alte che non aveva
proprio pensato a togliere prima di afferrare le chiavi dal suo manager
e
mettersi alla guida, senza neanche sprecarsi in spiegazioni su dove si
stesse
dileguando.
Controllò
l’orologio da polso da cui si separava solo se strettamente
necessario e notò
che ora fosse proprio mentre le porte si aprivano, lasciandola di
fronte ad un
corridoio vuoto e nella più completa ignoranza di dove
sarebbe dovuta andare. Si
incamminò a passo veloce, dirigendosi a destra nel tentativo
di capire quale
fosse la direzione da cui la musica provenisse con più
intensità.
Se
doveva essere sincera, mentre camminava col sottofondo della musica
interrotta
soltanto dal rumore dei suoi tacchi sul pavimento liscio, stava
trovando molto
strana la totale assenza di poliziotti che tenessero sotto controllo la
zona – che
poteva significare solo una cosa, ovvero che aveva completamente
sbagliato
l’entrata.
Dopo
aver meditato per qualche secondo sul da farsi e aver deciso di fare
marcia
indietro, consapevole che questo fosse probabilmente un segno del
destino su
quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio –
ignorare il suo messaggio –,
ripercorse la poca strada che aveva fatto, ritornando
all’ascensore e scendendo
di nuovo al piano meno uno per riprendere la macchina e dimenticarsi
anche solo
di quello che stava per fare.
Si
passò più volte le mani fra i capelli, finendo
col poggiarsi con la schiena
contro l’ascensore, mentre quello scendeva, e riflettendo su
quanto sarebbe
stato dannoso anche solamente rivederlo. Ringraziando, in qualche modo,
la sua
incapacità di orientarsi, che le aveva impedito di fare
qualcosa di cui poi
sarebbe stato davvero troppo facile pentirsi.
Raggiunta
la fine della corsa, scese dall’ascensore, borbottando
qualcosa su quanto fosse
sciocca ed ingenua, e non prestando attenzione ai suoi passi, fino a
quando non
andò a sbattere contro qualcuno. Si scusò,
alzando lo sguardo per capire chi
fosse finito là sotto, a quell’ora, oltre lei, e
incontrò un paio di occhi
scuri che l’avevano sempre rassicurata quando gli altri occhi
scuri che le
piacevano tanto non erano presenti.
«Tae…»
borbottò, sorpresa, sorridendo come se stesse rivedendo un
vecchio amico.
L’altro
si inchinò, interrotto a metà del gesto da una
mano della ragazza. «Lo sai che
non c’è bisogno, io non sono coreana, non mi
aspetto tutte queste cose e non mi
sento a mio agio quando le fai.» Lo bloccò,
riportandolo in posizione eretta e
sorridendogli. Il manager di Jiyong parlava un inglese un po’
stentato ma
riusciva a capirlo con una certa dimestichezza, dimestichezza che,
spesso,
mancava all’altro, quasi sempre troppo concentrato a capire
quello che voleva
capire e non quello che lei stava realmente cercando di dire. Non che
l’inglese
fosse la sua prima lingua, e così quando finivano a litigare
era sempre la
stessa storia: lei provava a spiegarsi, lui spesso fingeva di non
capire alla
ricerca di scuse che lei non gli doveva, e finivano col lanciarsi
parolacce
nelle rispettive lingue, nel tentativo di sfogare una rabbia dovuta
all’incomprensione che aveva finito col lacerarli.
«GD
sperava che tu venissi…» Furono le prime parole
che le rivolse, facendole
sparire il sorriso dal volto. «Sapeva che avresti avuto
problemi ad entrare e
mi ha chiesto di controllare e, nel caso fossi venuta davvero, di
portarti da
lui.»
«Io…»
Lo disse con la voce spezzata, come se anche lei fosse combattuta su
ciò che
sarebbe stato giusto fare. Vedendo la sua indecisione, Taehee aggiunse:
«Il
concerto è appena finito…»
«Io
non so se…» …se
fosse davvero giusto
farsi una cosa del genere, dopo quanto aveva già sofferto. Niente
di quello
che aveva pensato uscì, però, dalle sue labbra.
Annuì soltanto, aspettando che
Taehee le facesse strada e seguendolo in silenzio, con
l’impellente voglia di
scappare man a mano che si avvicinavano al suo camerino.
Taehee
bussò alla porta, infilando la testa e borbottando qualcosa
in coreano che lei
non capì, ferma a quelle poche basi che aveva imparato e
che, poi, non aveva
più dovuto utilizzare. Sentì qualcuno rispondere
con un tono di voce troppo
alto e non si sorprese che fosse agitato, le aveva sempre detto che i
concerti
lo lasciano svuotato e che tutti sapevano di doverlo lasciare da solo
per almeno
la mezz’ora successiva. Picchiettò la spalla di
Taehee per evitare che si
beccasse anche qualche sfuriata e gli fece capire di farsi da parte,
ringraziandolo mentre lo oltrepassava e si chiudeva la porta alle
spalle.
Ci
mise un po’ per decidere di abbandonare la sicurezza della
presa della maniglia
e girarsi, smettendola di dargli le spalle. Non si aspettava di certo
di
trovarlo poggiato sul piccolo divano che c’era nella stanza,
con un asciugamano
intorno al collo e i capelli rossi.
In
quei mesi, aveva fatto del suo meglio per impedirsi di cercare
informazioni che
lo riguardassero, però, non le era sfuggito né la
pubblicazione del suo album
né il fatto che il colore predominante fosse il rosso, e un
po’ si era chiesta
se quello che si erano detti avesse avuto una qualche influenza sui
brani di
cui si era categoricamente imposta di non sapere niente, nonostante
sapesse comunque.
«Sei
venuta…» si limitò a constatare, quasi
sorpreso dalle sue spesse parole.
«Tu
chiami, io arrivo, Ji. È sempre stato
così…» Lo disse con una certa amarezza
nella voce, andando ad accomodarsi sull’unica sedia della
stanza. La spostò in
maniera tale da posizionarla di fronte a lui, che se ne stava ancora
con la
schiena contro il divanetto e le gambe aperte, vestito come solo lui
poteva
vestirsi senza risultare ridicolo, e si sedette, accavallando le gambe
in
attesa di ascoltare quale fosse la ragione che l’aveva spinto
a volerla vedere.
Ci
fu un lungo momento di silenzio, mentre si osservavano come se si
stessero
studiando per capire quando attaccare e dove colpire per essere
mortali. Jiyong
cambiò improvvisamente posizione, asciugandosi la fronte con
l’asciugamano che
aveva intorno al collo per l’ultima volta, prima di lanciarlo
sul tavolo su cui
si trovavano tutti i trucchi e mettere i gomiti sulle cosce,
riprendendo ad
osservarla come se fosse la prima volta che la vedeva.
Lei
non era la prima volta che lo vedeva, di certo, e si sorprese di come
non fosse
invecchiato di una virgola, mentre lei sentiva di aver messo almeno
dieci anni
in quei nove mesi. Visto da così vicino e col trucco colato
non era così
perfetto come cercavano di farlo passare nelle campagne pubblicitarie
e, per
qualche strana ragione, questo non faceva altro che ricordarle
perché le era
piaciuto così tanto e perché continuava a non
esserle indifferente, anche
quando, tra loro due, era già finito tutto.
«Mi
sei mancata.»
Si
limitò ad osservarla negli occhi, come se volesse leggerle
nella mente, e lei
si ritrovò a sperare che lo facesse, che riuscisse davvero a
capire quello cui
stava pensando, perché avrebbe solo desiderato ammazzarlo
dopo una confessione
del genere.
«Capisco,
allora è questo il motivo per cui mi hai cercato
così spesso in questi mesi.
Perché ti sono mancata, ovvio.» Lo disse con il
sarcasmo che le marcava
l’accento, ma poco le interessava di avere una pronuncia
perfetta quando si
trattava di lui.
Poco
le interessava di tutto, quando si trattava di lui.
Jiyong
sorrise, trasformandosi completamente come gli succedeva ogni volta e
come
l’aveva sempre sconvolta: passava dall’essere
questo uomo misterioso e un po’
altero ad essere rilassato e imbarazzato dal fatto che stesse ridendo.
Una
trasformazione che l’aveva sempre lasciata confusa ed
irrimediabilmente
attratta. Peccato che, quando litigavano, non fosse così e
riuscisse
perfettamente ad interpretare il suo ruolo di uomo altero e orgoglioso,
portandola spesso a lasciare la stanza prima di passare a rompergli le
cose in
testa; per non parlare di quando era arrabbiato sul serio, anche in
quel caso
riusciva perfettamente a fare lo stronzo,
finendo col dire cose che non pensava soltanto per allontanarla.
Riuscendo,
alla fine, a mandarla via definitivamente.
«La
tua lingua mi è mancata più di quanto mi sia
mancata tu, se devo essere
sincero.» Rise e lei non riuscì a prendersela
davvero, vedendolo sorridere in
quel modo.
«Sì,
la mia lingua ti è sempre piaciuta
parecchio…» Si mise seduta dritta sulla
sedia, portando le spalle in alto e sorridendogli nel modo che sapeva
dargli
sui nervi. Jiyong decise di lasciar correre, pensando di essersi
meritato una
tale risposta.
«Non
mi dici niente sui capelli?» le chiese, accavallando le gambe
e poggiando il
braccio sinistro sul bracciolo del divanetto.
«Stai
meglio con i tuoi capelli naturali.»
«Non
mi dai mai soddisfazioni» scherzò, sentendo la
tensione togliere spazio
all’ossigeno che condividevano.
«In
realtà, sembravi sempre molto soddisfatto, se non ricordo
male…»
«Beatrice!»
la chiamò, in tono di avvertimento, passandosi una mano fra
i capelli.
Non
era stato mai del tutto capace di dire il suo nome in maniera esatta,
però lei
si era sempre accontentata dello sforzo che metteva nel pronunciarlo e
non le
aveva mai dato fastidio, non quando poi lo sussurrava mentre facevano
l’amore –
amore? Ma lo era stato davvero?
«Te
lo ricordi come ci siamo conosciuti?» Lo chiese con il
sorriso sulle labbra,
facendole sciogliere un po’ il nodo che le bloccava la gola.
«Certo
che me lo ricordo.» Alzò gli occhi al cielo,
pensando a come si fossero
conosciuti casualmente in discoteca e a come lei non sapesse chi fosse
quel
ragazzo a cui aveva riso in faccia per il tatuaggio sul braccio.
«Tu
eri ubriaca…»
«Leggermente
ubriaca» lo corresse, sorridendo. «E tu sei un
cretino che si fa i tatuaggi in
altre lingue senza prima accertarsi che siano davvero
giusti.» Si tolse le
scarpe, portando i piedi sulla sedia e le ginocchia al petto.
«Prima
di te, non me lo aveva mai detto nessuno.»
rifletté, scompigliandosi i capelli
in un gesto che aveva sempre avuto un certo effetto su di lei.
«Prima
di me, una metà era spaventata dall’immagine del
duro G-Dragon, l’altra metà
non poteva capire l’errore, invece.»
Più
parlavano e meno Beatrice sentiva la voglia di alzarsi da quella sedia
per
andare a casa, lasciando lui lì. In pochi minuti, le aveva
ricordato che
significava avere a che fare con lui e, soprattutto, le aveva ricordato
perché,
per quanto il loro rapporto fosse stato breve, l’avesse
lasciata così
destabilizzata, perché loro due erano sempre stati in grado
di parlare di tutto
e di dirsi tutto, discutendo di cose che spesso non avevano a che fare
con
nessuno dei due, e che, in qualche modo, riuscivano a diventare loro.
Si erano
detti così tante cose che, quando era finito tutto, le era
sembrato quasi un
tradimento sapere tutti quei particolari, tutte quelle riflessioni e
quelle
considerazioni personali quando non avrebbe più potuto
condividerle con lui.
Questo
le aveva fatto male, più di tutto: trovare una connessione
mentale con
qualcuno, soltanto per vederla distruggersi a causa della distanza,
degli
impegni e delle incomprensioni.
Jiyong
la osservò di nuovo attentamente, sentendo un certo
nervosismo nel dover
pronunciare le parole che stava per dire. Si passò la lingua
sulle labbra, per
inumidirsele e per guadagnare un po’ di tempo prima di dover
aprir bocca per
parlare, e Beatrice si sentì mancare a quel gesto,
perché era stato chiaro fin
dalla prima volta che lei fosse sempre stata esageratamente attratta da
lui.
«Forse,
dovrei ringraziarti…» Si passò una mano
fra i capelli e sul collo, assumendo
quell’espressione imbarazzata che, invece di renderlo
sciocco, glielo aveva
sempre reso più umano e più vicino.
«Per
cosa?»
Improvvisamente,
anche la poca distanza che c’era fra di loro e che prima non
avrebbe mai voluto
veder diminuire, le stava sembrando infinita, come le era sempre
sembrato
infinito il tempo che passava con lui e infinitamente lungo il tempo in
cui
erano lontani. Decise, quindi, di alzarsi, sotto il suo sguardo sempre
vigile, e
mettersi seduta al suo fianco, con la schiena contro l’altro
bracciolo del
divano. Per lui, fu quasi automatico portare una mano sopra il suo
ginocchio quando
Beatrice allungò i piedi sotto le sue gambe.
Visto
di profilo, non sembrava così spensierato e lei sapeva che
non lo era mai stato
davvero.
Forse,
si era sbagliata all’inizio, forse, anche lei aveva visto
solo quello che aveva
voluto vedere, perché, adesso, improvvisamente, le sembrava
che anche lui
avesse guadagnato degli anni in anticipo in quei mesi. O, forse, li
guadagnava
da prima e, adesso, erano diventati soltanto più evidenti.
«Stai
bene, Ji?» Glielo chiese perché lui le aveva
sempre fatto lo stesso effetto:
poteva essere arrabbiata come e quanto voleva, ma vederlo perso nei
suoi
pensieri, con quell’aria nostalgica e con
quell’espressione stanca, le aveva
sempre messo addosso un vuoto che non si sapeva spiegare. Quando
sorrideva,
sembrava emanare una luce da dentro che riusciva ad accecare ed
attrarre allo
stesso tempo, lasciando chi lo circondava confuso e bruciato da
quell’interazione troppo breve e troppo inaspettata. Non
ottenendo risposta,
decise di cambiare domanda.
«C’è
qualche motivo particolare per cui hai voluto vedermi?» Lo
chiese con
delicatezza, sapendo quanto fosse facile farlo sentire in gabbia e come
lui
avesse così tanta paura di sentircisi da reagire in maniera
brusca anche quando
non ce ne sarebbe stato motivo.
Jiyong
sospirò, prendendo ad accarezzarle distrattamente il
ginocchio. «Lo hai sentito
l’album?» le domandò, girandosi a
guardarla e poggiando la nuca contro lo
schienale del divano. Lei quasi si sentì in colpa a scuotere
la testa in segno
di diniego, come troppo spesso si era sentita in colpa senza un reale
motivo
quando stava con lui.
«Immaginavo»
sospirò, stringendole il ginocchio.
«Ti
aspettavi che lo sentissi?»
«Ci
speravo, più che altro.»
«Le
conosco comunque quasi tutte, ne parlavamo
spesso…» tentò di giustificarsi,
nonostante non dovesse farlo.
Avevano
parlato di così tante cose che, spesso, si sorprendeva
quando pensava che
ancora se le ricordava tutte. Quando si erano incontrati, lui aveva da
poco
finito il tour con il suo gruppo e si trovava a Milano per la settimana
della
moda, cui spesso veniva invitato da quanto aveva capito quando
l’aveva
conosciuto un po’ di più. Beatrice si trovava a
Milano casualmente: arrivata
giusto il giorno prima, era uscita quella sera spinta da una sua amica
che
voleva farle sperimentare la vita mondana milanese prima che tornasse a
Roma.
Non
aveva la più pallida idea né di chi fosse lui
né di come fosse finita a dirgli
che il tatuaggio che aveva sull’avambraccio destro era
sbagliato. Si ricordava
perfettamente come lui l’avesse guardata dall’alto
in basso, con le dita
aggrappate attorno al collo di una bottiglia di birra e una sigaretta
spenta
fra le labbra. Quando lei, poi, aveva aggiunto che non si poteva fumare
dentro
al locale, lui l’aveva guardata divertito e le si era
avvicinato chiedendole se
volesse andare a fumare fuori con lui, in modo da spiegargli anche che
c’era di
sbagliato nel suo tatuaggio.
Quando
ci ripensava, Beatrice non riusciva ancora a spiegarsi che le fosse
preso:
nonostante l’alcool in circolo, non le era mai successo di
aggredire le
persone, per di più sconosciuti, in quel modo e sicuramente
non era così
ubriaca da credere che fosse sensato seguire uno sconosciuto da
qualsiasi parte
che non includesse un posto affollato e tanta luce; eppure lo aveva
fatto, seguendolo
fuori e guardandolo camminare con quell’andatura quasi a
rallentatore e col
passo cadenzato, con la sicurezza di chi sa che la gente lo
seguirà
indipendentemente. Quella stessa sicurezza con cui le aveva risposto e
che
sembrava circondarlo come una seconda pelle, che un po’
l’aveva infastidita
all’inizio e, quasi sicuramente, era stata il motivo per cui
le era piaciuto da
subito. Quel latente fastidio l’aveva provato anche Jiyong a
sentirsi dire da
una perfetta sconosciuta che il tatuaggio, cui teneva tanto, era
sbagliato e,
più per sfida che per reale interesse, aveva deciso di
ribaltare la situazione
a suo favore.
***
Uscirono
fuori e l’aria fresca fece bene ad entrambi.
Beatrice
si riprese un po’ dal frastuono della musica alta e dalla
sensazione di
leggerezza che le dava l’alcool, ritornando con i piedi per
terra e prendendo
ad osservare il ragazzo che le stava di fronte. Non riusciva a dargli
un’età
precisa e questo la preoccupava, era poco più alto di lei ed
era vestito in
maniera oscena, le sembrava che fosse leggermente truccato e, quando
afferrò il
clipper per accendersi la sigaretta, notò che aveva lo
smalto nero tutto
mangiucchiato sulle unghie. Per un po’ si chiese chi cavolo
fosse e cosa ci
facesse lei lì fuori, poi si perse ad osservarlo fumare, nel
modo che,
successivamente, avrebbe sempre associato a lui: quando portava la
sigaretta
alle labbra lo faceva posizionandola fra l’indice e il medio
e la lasciava lì,
quando la riprendeva per espirare il fumo lo faceva usando
l’indice e il
pollice, come faceva lei quando era più piccola e le era
capitato di fumare in
gruppo qualche sera. Lo faceva con un’aria così
smaliziata e rilassata,
osservandola con gli occhi un po’ socchiusi e il mento
sollevato, che lei finì
per domandarsi illogicamente se quella che stesse fumando fosse davvero
una
sigaretta e non altro.
«Che
c’è di sbagliato nel mio tatuaggio,
quindi?» Espirò il fumo dalle narici,
appoggiandosi con una spalla ad un lampione lì vicino.
Beatrice
ci mise un po’ per capire che le avesse parlato, un
po’ per capire le parole
che le aveva detto e un po’ per riuscire a pensare ad una
risposta che fosse
sensata e non la facesse apparire come si sentiva, ovvero
tendenzialmente
ammaliata dal modo in cui la stava osservando.
«Dovrebbe
essere dolce vita, non vita dolce.
In
realtà, non è neanche sbagliato, ma non suona
bene se lo dico come l’hai
scritto…» Si strinse nelle spalle, portandosi le
braccia al petto, essendo
uscita con il vestito sbracciato che aveva messo per quella sera e
senza il
giacchetto, e continuando ad osservarlo con interesse.
Non
riusciva davvero a collocarlo in nessun modo e questo la infastidiva:
non era
sicura di dove fosse, non sapeva cosa ci facesse a Milano, non
conosceva
neanche il suo nome e, per di più, lo aveva avvicinato lei
senza un motivo
preciso. Ben presto, Beatrice avrebbe capito che, quando si trattava di
Jiyong,
avrebbe fatto bene a non farsi domande che lo avrebbero infastidito, a
non
cercare risposte che lo avrebbero fatto sentire in gabbia e a non
provare a
forzarlo a dirle niente, ottenendo come unico risultato il suo
allontanamento.
«Cosa
ti fa pensare che io non l’abbia voluto scritto proprio
così?»
«L’hai
fatto scrivere tu così?»
Il
ragazzo scosse la testa, confermando ciò che Beatrice
pensava. «Beh, allora ho
ragione io.»
Il
sorriso che le era nato involontariamente sulle labbra come segno di
vittoria,
le si spense in fretta nel momento in cui Jiyong le si
avvicinò, facendola
indietreggiare contro il muro del locale e impedendole di vedere la
luce del
lampione. Le espirò l’ultima boccata di fumo al
lato della faccia, lasciandola
libera di non inspirarlo se non avesse voluto, e spense la cicca
strofinandola
sul muro accanto alla sua mano. Mentre continuava a fissarla, Beatrice
vide con
la coda dell’occhio le sue dita che la lanciavano a qualche
metro di distanza,
completamente a disagio per la situazione in cui si trovavano, ma
stranamente
ed incoscientemente per niente spaventava.
Jiyong
le portò la mano destra a fianco alla testa, appoggiandola
al muro, e avvicinò
la bocca al suo orecchio destro, facendola finire ancora più
schiacciata contro
il muro, divertito dall’imbarazzo che le leggeva negli occhi.
«Aiutami,
ti va?» le chiese, sussurrando contro la sua guancia.
«Non riesco a capire se
stai facendo di tutto per attirare la mia attenzione o se sei una di
quelle
persone che deve sempre aprire la bocca anche quando a nessuno
interessa quello
che hanno da dire?»
Beatrice
non registrò subito le parole, troppo confusa da
quell’eccessiva vicinanza e troppo
concentrata sul tono che aveva usato piuttosto che su ciò
che aveva detto.
Quando il suo cervello decise di uscire dalla trance in cui si era per
un
attimo perso, la ragazza voltò di scatto la testa
in direzione di Jiyong,
sentendosi punta nell’orgoglio.
«Prego?»
Lo domandò praticamente sulle sue labbra, guardandolo come
se l’avesse
insultata. «Neanche ti conosco, perché dovrei
preoccuparmi di quello che
pensi?»
Si
fissarono negli occhi per qualche secondo, senza parlare.
Nello
sguardo di Jiyong passò un lampo di consapevolezza,
sostituito quasi
immediatamente dalla sua solita espressione un po’ arrogante.
«Non
mi conosci, eh?»
«Dovrei?»
Beatrice ribatté confusa, iniziando a pensare di aver
avvicinato qualcuno che
non avrebbe dovuto.
«Come
ti chiami?»
«Beatrice»
rispose, senza neanche pensarci due volte, da incosciente
com’era diventata
quella sera.
«È
diverso, mi piace» approvò, come se a lei dovesse
interessare qualcosa se lui
non avesse apprezzato il suo nome. «Vuoi bere qualcosa con
me, Beatrice?»
Il
modo in cui disse il suo nome la sorprese non poco, aspettandosi una
pronuncia
terribile. Non riuscì a fare altro che annuire mentre lui le
metteva un braccio
intorno alle spalle e la trascinava di nuovo all’interno del
locale. Avrebbe
dovuto capirlo dal primo momento che Jiyong avrebbe continuato a fare
cose che
l’avrebbero sorpresa, sia nel bene che nel male.
***
«Ancora
hai questa brutta abitudine di isolarti nella tua mente?» le
domandò
improvvisamente Jiyong, riportandola sul divanetto su cui si trovava.
Beatrice
non rispose, passandosi una mano fra i capelli e poggiando i gomiti sul
bracciolo cui si trovava appoggiata.
«Neanche
te lo chiedo a cosa stessi pensando,» continuò,
con un sorrisetto sulle labbra,
«dall’espressione che avevi era abbastanza
chiaro…»
«Prego?»
scandì ogni singola sillaba, guardandolo con aria di sfida.
«Stavi
sicuramente pensando a noi due, a come ero bravo a letto, a quanto ti
manca
fare sesso con me…» scherzò, facendola
ridere.
«Sei
proprio un cretino…» borbottò,
colpendolo sul petto. Era sempre stato così
magro che, le prime volte, lei aveva avuto quasi paura di fargli male
se lo
avesse toccato in modo troppo sgarbato.
Jiyong
le afferrò la mano con cui lo aveva colpito e
intrecciò le dita con le sue,
spegnendo immediatamente l’ilarità che
c’era nell’aria.
«Ji,
che fai?» gli domandò, sconfitta
dall’evidenza di non voler togliere la mano
dalla sua. Indipendente dalla sua volontà, il suo pollice
prese a disegnare
cerchi sul piccolo tatuaggio che aveva sul dorso della mano e Jiyong la
guardò
come se gli fosse mancato quel contatto.
Quando
gli aveva chiesto il significato di quel tatuaggio, insieme al
significato di
tutti gli altri, durante quello che probabilmente era stato il giorno
più lungo
della sua vita, lui le aveva fatto una smorfia, indeciso se fidarsi o
meno, e
poi aveva sorriso, come se stesse guardando una bambina troppo curiosa.
In
fondo, lei lo era davvero, una bambina, rispetto a lui, solo
anagraficamente,
però, perché, fra i due, quello che sembrava
più giovane era sicuramente lui.
In
realtà, Beatrice ancora si sorprendeva che le avesse parlato
così apertamente e
tranquillamente dei motivi che si nascondevano sotto i suoi tatuaggi,
dopo una
sola notte passata insieme e più baci che parole condivise.
Alcuni tatuaggi che
si era fatto non avevano un significato profondo – come la
sfera di Dragon Ball
che aveva sulla spalla sinistra e che l’aveva fatta ridere
–, altri, invece,
avevano un significato forse anche troppo profondo per essere condiviso
con lei
che, in fin dei conti, era solo una sconosciuta con cui aveva fatto
sesso un
paio di volte in una notte.
Neanche
Jiyong sapeva che cosa lo avesse posseduto quella mattina: quando lei
l’aveva
guardato realmente interessata al significato dei tatuaggi che aveva
accarezzato tutta la notte precedente, lui non aveva trovato
né la forza né la
voglia di dirle che erano cose private e che non avrebbe dovuto
chiedere,
perché si era riscoperto improvvisamente ed insensatamente
desideroso di dirle
tutto, di condividere tutti i suoi pensieri con qualcuno la cui
opinione, in
quanto sconosciuto, non avrebbe dovuto preoccuparlo.
***
E
così, mentre lei lo guardava seduta con le gambe incrociate
sul materasso e con
indosso solo la sua maglietta bianca della sera precedente che le
lasciava
intravedere il profilo del seno, lui iniziò a parlare,
partendo dall’inizio e
proseguendo in ordine cronologico. Beatrice rimase incantata mentre lo
ascoltava parlare dei suoi primi tatuaggi e di come, con il passare
degli anni,
avessero assunto un significato e un peso emozionale leggermente
diverso da
quello che avevano avuto all’inizio; tenne a ripetere
più volte che non si
pentiva di nessuno dei tatuaggi che aveva, alcuni semplicemente non lo
rappresentavano più come un tempo, rimanendo pur sempre cose
che pensava.
C’erano,
poi, dei tatuaggi che aveva fatto per quella che era stata la sua
ragazza per
così tanto tempo che, quando si erano definitivamente
lasciati, dopo un tira e
molla che lo aveva sfiancato mentalmente, per un po’ non
aveva saputo più che
fare della sua vita, senza la consapevolezza della sua presenza
costante, anche
quando avrebbe fatto meglio a non restargli accanto. Beatrice si
strinse nelle
spalle, non sapendo cosa dire né se fosse giusto che lei
dicesse qualcosa, limitandosi
a rimanere in silenzio.
Jiyong
riprese a parlare dopo un po’, forse troppo perso nei
dettagli di quella che
doveva essere stata una persona veramente importante per portarlo a
farsi dei
tatuaggi di cui, anche dopo che si erano lasciati, lui non si pentiva.
Con un
gesto della mano, le fece capire di doversi avvicinare e lei gli si
posizionò a
fianco, un po’ incerta di quello che si sarebbe aspettato che
facesse; quando
lui le passò un braccio intorno alla vita e le fece
intendere di doverglisi
mettere a cavalcioni, lei si lasciò trascinare su di lui,
abbandonando le
braccia in grembo, un po’ a disagio nonostante non fosse
certo la prima volta
che si trovava in quella posizione – soltanto che la presenza
della luce che
filtrava dalla finestra della sua camera d’albergo rendeva
tutto più reale,
mentre le cose che erano successe la notte prima potevano benissimo
essere
scambiate per dei sogni, il buio, in fondo, riusciva a celare tutto.
Jiyong
si sistemò meglio contro lo schienale del letto e
poggiò le mani sulle cosce
nude della ragazza, accarezzandole dal basso verso l’alto e
notando la pelle
d’oca che le si formava.
«Come
vedi, ho la mia data di nascita tatuata sulla spalla sinistra e, prima
che tu
dica che è sbagliata, sappi che l’ho voluta io
così, perché il numero otto mi
sta particolarmente a cuore.» Beatrice alzò le
mani in segno di resa, cercando
di mantenere un’espressione seria mentre pensava che, se non
lo avesse detto
prima lui, avrebbe probabilmente avuto da ridire anche su quel
tatuaggio. «Sei
incredibile, sai?» scherzò, poggiandole le mani
sui fianchi e tirandola
bruscamente sopra il suo bacino; Beatrice dovette appoggiarsi allo
schienale
con entrambe le mani per evitare di perdere l’equilibrio e
rovinargli
completamente addosso. Le afferrò il mento con una mano e la
costrinse a
guardarlo negli occhi, mentre lei sentiva la sua erezione contro
l’interno
coscia. «Avresti avuto la faccia tosta di insultarmi un altro
tatuaggio…»
Lo
sussurrò sulle sue labbra, mordendole quello inferiore per
poi baciarla a
stampo e lasciarla andare di botto, molto più confusa e
accaldata di prima.
La
ragazza tornò a sedersi sulle sue cosce, guardandolo
sbigottita, incapace di
metabolizzare ciò che era successo così in fretta.
«Un
paio di anni fa,» riprese a parlare, sospirando,
«non stavo passando un bel
periodo. Con la ragazza che ti dicevo non andava benissimo, il lavoro che faccio mi ha sempre messo
troppe pressioni addosso e troppe restrizioni ed ero arrivato a non
stare bene
né con me stesso né con gli altri che mi
circondavano e che tentavano di
aiutarmi…»
Non
entrò nei dettagli e lei non chiese per non essere
inopportuna, soltanto quando
lui sarebbe ritornato in Corea, Beatrice avrebbe scoperto con chi aveva
passato
due giorni a stretto contatto, grazie ad una semplice ricerca su
Internet,
finendo per chiamarlo solo per urlargli contro che era stato un
incosciente e
che avrebbe fatto meglio a cancellare il suo numero, visto che tanto
non aveva
fatto altro che omettere la verità. Naturalmente, lei, il
suo, non era riuscita
ad eliminarlo e neanche Jiyong aveva trovato la forza per scordarsi
quelle
quarantotto ore surreali come se non fossero mai esistite, come se non
avesse
condiviso niente con lei.
La
risoluzione di non cercarsi era durata una settimana e,
sorprendentemente, era
stato lui il primo a dare bandiera bianca, chiamandola una sera mentre
lì era
notte inoltrata. Avevano parlato per quasi un’ora e non si
erano detti niente che
potesse inquadrare meglio la situazione in cui si stavano infilando
senza
neanche volerlo; e così era poi sempre stato: non erano mai
stati ufficialmente insieme,
nessuno, che non
fosse il suo manager o quelli che poi aveva conosciuto come membri del
gruppo
di cui Jiyong faceva parte quando era andata a trovarlo in Corea,
sapeva della
sua esistenza, eppure loro, insieme, lo erano stati per quasi un anno.
Alla
fine, avevano finito per lasciarsi quando le evidenti
difficoltà che aveva
Jiyong a legarsi erano venute a galla, facendo riflettere Beatrice
sull’eventualità che sarebbe potuto finire tutto
male, facendola riflettere
sull’enorme distanza che li separava e facendole decidere di
chiedergli una
pausa che lui, orgoglioso com’era, non aveva accettato,
costringendola
praticamente a lasciarlo, dopo aver farcito il tutto con un tono di
voce
esageratamente alto da entrambe le parti e con frasi che era sicura che
lui non
pensava ma che l’avevano ferita perché, nonostante
tutto, lui aveva avuto lo
stesso la faccia tosta di dire.
«Non
stavo troppo bene ed avevo bisogno di qualcosa da poter guardare
giornalmente
che mi ricordasse che non dovevo incastrarmi nei miei pensieri e che
quello che
mi diceva la mia testa non era la realtà. Avevo bisogno di
qualcosa che mi
ricordasse che ero circondato da persone che mi volevano bene, che non
ero
solo…» Prese a giocare con il colletto della
maglietta che aveva indosso lei,
abbassando lo sguardo sulla sua mano sinistra e sorridendo amaramente.
«La mano
l’avevo sempre sotto gli occhi…»
Rilassò le dita, aprendo il palmo e osservando
la piccola faccina che aveva tatuata sul dorso, fra il pollice e
l’indice. «Questa
faccina mi sorride tutti i giorni quando la guardo e mi ricorda che va
tutto
bene, anche quando non va bene niente. E, poi, mi divertiva il fatto di
poterla
sostituire alla mia bocca…» Chiuse le dita della
mano come se volesse fare una
pistola e poi si portò la mano sulle labbra, capovolgendo la
faccina e
facendola ridere. Senza pensarci, Beatrice si avvicinò e gli
lasciò un bacio
proprio sul tatuaggio, allontanandosi quasi imbarazzata per quel gesto
spontaneo. Jiyong abbassò la mano lentamente, guardandola
negli occhi con una
decisione che la spaventò; la afferrò dietro la
nuca e la trascinò sulle sue
labbra, baciandola con una lentezza e un’intensità
che la lasciarono senza
fiato.
Beatrice
si aggrappò alle sue spalle, avvicinandosi istintivamente al
suo petto con il
seno e accarezzandogli i capelli in punta di dita, mentre si
esploravano le
bocche vicendevolmente. Le mani di Jiyong scesero dai suoi capelli alla
sua
schiena, stropicciando e sollevando il cotone bianco della sua
maglietta,
mentre lei gli passava le braccia intorno al collo e gli accarezzava la
nuca,
dove c’era un altro tatuaggio che aveva intravisto e che gli
rendeva la pelle
diversa al tatto, non riusciva di preciso a collocare la sensazione che
le dava
toccarla ma sembrava quasi di stare sfiorando del velluto.
Beatrice
si staccò dalle sue labbra, ottenendo un sospiro di dissenso
dal ragazzo,
troppo curiosa di sapere la storia del resto dei suoi tatuaggi.
«E
questo qui dietro… Qual è il suo
significato?» domandò, continuando a
carezzargli la nuca.
Jiyong
sospirò per l’ennesima volta, alzando gli occhi al
cielo e scuotendo la testa.
«La
faccina…» espirò, poggiando la fronte
nell’incavo del suo collo e parlandole
contro la pelle sensibile della mascella, facendola muovere agitata
contro il
suo bacino nel tentativo combinato di allontanarsi dalle sue labbra,
che le
provocavano la pelle d’oca strusciando in quel modo mentre
parlava tranquillo, e
di avvicinarsi, per continuare a sentirlo sempre più vicino.
«La faccina,
evidentemente, non è stata abbastanza o, forse, non
è stata abbastanza la mia
voglia di stare bene perché, dopo, è diventato
sempre più difficile non dare
ascolto a quello che mi diceva la mia testa, diventava sempre
più difficile non
pensare di essere completamente da solo. Ho iniziato ad avere ansia da
prestazione
per qualsiasi cosa facessi, sentivo gli occhi di tutti addosso e, a
volte,
riuscivo perfino a sentirli giudicarmi; l’unico modo in cui
riuscivo a calmarmi
era inspirando ed espirando e ripetendomi che era tutto nella mia
testa, ma era
sempre più difficile ricordarsi di respirare quando non
riuscivo neanche a
pensare che ci potesse essere una via d’uscita da quello che
provavo. Ho
chiesto aiuto perché mi sono accorto di non poterne uscire
da solo e una delle
prime cose che mi ha detto il dottore riguardava proprio la
respirazione. Mi ha
aiutato a dimenticare l’esterno, concentrandomi su quello che
provavo e sul mio
battito, mentre inspiravo ed espiravo, per tentare di riottenere il
controllo
sulla mia mente quando questa sembrava volermi sfuggire.
L’unico modo in cui
riuscivo a farlo era accovacciandomi in avanti, così ho
deciso di tatuarmi
sulla parte alta delle cosce inhale ed
exhale, in modo che mi ricordassi
sempre di respirare. Respirare è davvero la cosa
più importante del mondo: non
respirare equivale a non riuscire a pensare e non pensare equivale a
non poter
vivere. Per un po’, credo di aver dimenticato come si facesse
a respirare e, di
conseguenza, credo di aver dimenticato anche come si viveva.»
Beatrice
non disse niente mentre lui sussurrava quelle parole come una
confessione
contro la sua pelle, sentì il cuore stringersi nel petto e
si domandò, per la
seconda volta, cosa ci facesse ancora
con lui, in quelle condizioni.
«Non
è stato facile imparare di nuovo a respirare,»
continuò, «però, quando ho
pensato di stare abbastanza bene e di essere tornato me stesso ho
deciso di
fare il tatuaggio che ho dietro la nuca. Il punto è che, una
volta che ti sei
perso, è sempre troppo facile perderti di nuovo e
così, anche adesso che sto
bene, ci sono volte in cui devo ricordarmi come si respira. Ho vissuto
così
tanti anni all’ombra dell’identità che
mi ero creato che credo di aver
dimenticato chi fossi io, io senza tutti gli occhi del mondo addosso.
Ci sto
lavorando su chi sono…»
Quelle
parole non avevano molto senso alle orecchie di Beatrice ma non si
arrischiò a
chiedere, pensando che, se avesse voluto approfondire,
l’avrebbe fatto lui. «Ti
sto raccontando tutte queste cose e non ne so neanche una di
te…» rifletté,
afferrandole il viso fra le mani. Lei non riuscì a parlare e
lui dovette
compensare il silenzio di entrambi ancora una volta.
«Secondo
te, che vuol dire il mio tatuaggio?» Le chiese la sua
opinione con un’aria
vagamente di sfida, con la volontà, forse, di capire se lei
riuscisse a stare
al suo passo.
Beatrice
accettò la sfida con il sorriso sulle labbra, alzandosi sul
materasso e
facendogli segno di farsi avanti in modo che potesse posizionarglisi
alle
spalle ed osservare bene il disegno.
Si
sedette, stendendo le gambe ai suoi lati, e Jiyong si lasciò
andare contro il
suo petto mentre lei passava le dita sul tatuaggio: che fosse un angelo
non
c’erano dubbi, aveva le ali spiegate e una gamba sollevata,
mentre la testa era
molto più chiara del resto ed era circondata da una specie
di aureola, altrettanto
chiara. Un po’ per il suo nome – per
Dante –, un po’ per la sua passione per
la Letteratura in tutte le sue
forme, Beatrice aveva sempre provato un certo fascino per la Bibbia e
per le
sue interpretazioni, non riuscendo mai, però, a provare lo
stesso fascino per
la religione.
«Ho
due ipotesi…» si schiarì la voce,
poggiandogli il mento sopra la spalla e
parlandogli direttamente nell’orecchio, mentre gli chiudeva
le braccia intorno
al busto, in una specie di abbraccio. «Riguardano entrambe
due angeli e, devo
ammettere, che una mi affascina più dell’altra ma
credo non sia quella la
risposta.»
Jiyong
si voltò sorpreso, forse aspettandosi di essere andato a
letto con
un’ignorante.
«Spara.»
si limitò a dire, tornando a poggiare la nuca contro la
spalla della ragazza
mentre si faceva cullare dal movimento tranquillo del suo seno.
«Sono
abbastanza sicura che si tratti o dell’Arcangelo Michele o di
Lucifero.» Fece
risalire una mano dal suo addome, lungo il suo braccio, fino ad
arrivare alla
spalla e ad immergerla nei suoi capelli neri; mentre parlava prese a
passargli
le labbra sul collo e sulla guancia sinistra, lasciando a tratti dei
piccoli
baci. «Dalla posizione vittoriosa e dal modo regale con cui
è tatuato, sono più
propensa per Michele, ma la storia di Lucifero mi è sempre
piaciuta di più. Vuoi
perché da adolescente pensavo davvero che fosse
meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso,
vuoi perché Lucifero
non ha mai rappresentato la perfezione angelica, ma sempre
l’imperfezione
umana, quindi, pur non volendo, è sempre stato
più abile ad attirare la mia
attenzione e la mia compassione, come se riuscissi a giustificarlo per
ciò che
aveva fatto e a scagionarlo dalle sue colpe. Errare è umano,
dicono, eppure lui
era stato un angelo, quindi l’errore non poteva davvero
concepirlo, ed era
stato, fra tutti, il più bello e il più amato da
Dio, ma, per colpa della sua
superbia, era stato costretto a perdere tutto per trasformarsi nel Male
assoluto. Di cosa mi sorprendo, in fondo? Non è forse il
male che attrae
sempre? Michele, condottiero delle schiere angeliche e quintessenza di
tutto
ciò che era angelico, è sempre stato troppo
lontano dall’imperfezione in cui mi
rivedevo e troppo vicino alla perfezione che mi perseguitava per
riuscire
davvero ad interessarmi. Quando analizzavo la Divina Commedia a scuola,
c’era
una frase in latino che mi aveva colpito molto… Non ricordo
il latino, ma
ricordo vagamente la traduzione: era qualcosa che aveva a che fare con
la
figura di Lucifero e che parlava di come fosse stato chiamato
così perché, fra
tutti, era il più splendente ma
la
considerazione della sua bellezza aveva finito per
accecarlo.»
Quando
smise di parlare, impiegò qualche secondo per rendersi conto
dello sguardo
sorpreso di Jiyong, che la osservava come se avesse appena avuto
un’illuminazione. Beatrice abbassò gli occhi,
imbarazzata, e tornò ad accucciarsi
nell’incavo del suo collo.
«Questo
è certamente Michele, ma tu, Jiyong, chi sei? Chi sconfigge
il Male o chi viene
sconfitto dal Bene?» Era la prima volta che pronunciava il
suo nome da quando
glielo aveva detto al terzo drink che le aveva offerto. «Tu
sei Michele o
Lucifero?»
Jiyong
pensò che era la prima volta che qualcuno gli faceva una
domanda simile e si
ritrovò a pensare a tutti i motivi che si nascondevano
dietro quel tatuaggio,
all’incapacità di riconoscersi in quello che si
era costruito intorno e alla
difficoltà di capire se fosse rimasto qualcosa di lui, che
fosse soltanto suo e
non anche del pubblico. Non riuscì a rispondere alla domanda
che lei gli aveva
fatto, non a voce almeno, ma riuscì perfettamente ad
ammettere a sé stesso di
non essere più in grado di vivere come G-Dragon,
sacrificando Jiyong, giungendo
alla conclusione di non essere né Michele né
Lucifero, ma entrambi,
perché, come Michele, combatteva giornalmente per
riuscire a stare bene e, come Lucifero, era ormai imperfetto e non
avrebbe
avuto più senso aspirare ad una perfezione apparente e
fredda quando poteva
imparare a governare il suo caos.
Beatrice
neanche si accorse di non aver ottenuto una risposta, quando
sentì le labbra di
Jiyong premere contro le sue con insistenza, strappandole un gemito che
gli
permise di baciarla come voleva fare da quando aveva smesso di parlare.
Non
sapeva neanche lui cosa gli fosse preso improvvisamente, sapeva
soltanto che,
così com’era, lei era troppo vestita e troppo
distante e troppo fredda, mentre
lui voleva sentirla nuda, vicina e calda, perché si era
sentito troppo esposto
quando lei lo aveva inquadrato con una sola frase, senza neanche
conoscerlo
davvero, e voleva soltanto riuscire a perdersi dentro di lei, per poi,
forse,
imparare a trovarsi anche.
«Fai
l’amore con me…» le sussurrò
sulla guancia, mentre entrambi ansimavano alla
ricerca di aria dopo quello che era probabilmente stato il bacio
più lungo
della loro vita.
Jiyong
non riuscì a trattenersi dal dire quelle parole che
spaventarono la parte più
razionale di Beatrice, mentre l’altra sua parte, molto
più piccola e
incosciente e istintiva, capì subito che l’amore
di cui parlava lui non era
davvero amore, ma non era neanche
sesso e non sarebbe stato giusto sminuirlo in quel modo, quando
ciò che stavano
vivendo era surreale, come se si fossero scontrati soltanto
perché poi
potessero incontrarsi mentalmente, riconoscendosi in un modo che
nessuno dei
due aveva preventivato.
Jiyong
si girò completamente, facendola stendere e schiacciandola
sotto il suo corpo,
mentre con una mano le accarezzava la pancia e saliva, portandosi
dietro la
stoffa della sua maglietta, fino a toglierla completamente.
Così nuda e
sensibile, l’avrebbe voluta sempre e quei pensieri che non
riusciva ad
impedirsi di fare lo spaventavano e lo eccitavano allo stesso tempo,
perché, in
fondo, l’aveva conosciuta soltanto la notte prima e
c’erano tantissime cose che
lei ancora ignorava della sua persona, ma era riuscita a capire, in
meno di
ventiquattro ore, quello che bastava per colpirlo e non poteva fare a
meno di
pensare cosa sarebbe stata in grado di capire con più tempo.
Beatrice
gli legò le gambe intorno al bacino mentre lui oscillava
avanti ed indietro e,
per miracolo, riuscì a ricordargli del preservativo, che
indossò in un attimo,
affondandole dentro mentre la osservava dall’alto con quegli
occhi scuri che
sembravano volerle scavare dentro. Le passò un braccio sotto
la testa,
tirandola in alto mentre con la lingua le disegnava l’angolo
della mandibola, e
lei si aggrappò alle sue spalle perché quella era
forse una delle posizioni più
scomode che avesse mai assunto in vita sua, ma non le importava quando
lui la
guardava come se stesse facendo alla sua mente quello che stava facendo
al suo
corpo. Quando sentì di essere arrivata al culmine, si
portò la mano destra alla
bocca, affondando i denti nella pelle perché non le era mai
piaciuto essere
troppo rumorosa; Jiyong gliela spostò, bloccandole il polso
sul materasso e
continuando a spingere fino a quando non ottenne un gemito strozzato e
la sentì
contrarsi spasmodicamente intorno alla sua intimità,
lasciandosi andare contro
il suo corpo.
Beatrice
tornò alla realtà dopo qualche minuto, sentendosi
spossata come mai le era
capitato. Jiyong le stava ancora addosso, il suo respiro tranquillo le
accarezzava l’incavo del collo e a lei quasi dispiacque
doverlo far spostare
per andare in bagno. Scuotendogli la testa, tutto quello che ottenne fu
un
mugugno e una smorfia che la fece ridacchiare e che fece apparire lui
ancora
più giovane di quello che già sembrava.
«Ji,
dai, spostati, devo andare in bagno!»
Senza
volerlo, quella fu la prima volta che lo chiamò come avrebbe
imparato a
chiamarlo sempre, prima di sapere dell’esistenza di G-Dragon,
prima di usare il
suo nome intero quando era arrabbiata o era estremamente seria in
quello che
stava dicendo, prima di sapere che quello non era neanche un vero e
proprio
diminutivo in coreano e che, a lui, andava bene soltanto
finché era lei a
dirlo.
«Rimani
qui, dopo andrai in bagno…» borbottò,
scivolandole da dosso ma non lasciandola
andare.
«Sei
proprio un bambino.»
«Sshh»
Le poggiò un dito sulle labbra e, poi, le posò la
mano sugli occhi, facendole
capire che avrebbe dovuto dormire. Beatrice alzò gli occhi
al cielo,
sorprendendosi quando lui le si avvicinò per rubarle un
altro bacio prima di
mettersi nella sua parte di letto e crollare addormentato.
***
«Non
è vero che le conosci tutte le canzoni
dell’album…» Le strinse le dita, non
rispondendo per l’ennesima volta alla sua domanda.
Jiyong
non le aveva mai risposto direttamente e con parole chiare e lei aveva
capito
subito che forzarlo non sarebbe servito a niente, quindi aveva imparato
ad
aspettare i suoi tempi.
Beatrice
sospirò, arrendendosi a quella morsa allo stomaco che
sentiva soltanto
guardandolo e sapendo che non avrebbe più fatto parte della
sua vita, non come
lei voleva vederlo farne parte.
«Come
le hai sistemate, alla fine?» domandò,
stringendosi nelle spalle e contro il
bracciolo del piccolo divano.
Avevano
passato intere giornate a parlare di quello che sarebbe stato il suo
album, del
significato che lui gli attribuiva e di quanto fosse personale,
così personale
che, per un po’, aveva anche pensato di non farlo uscire.
Jiyong
sorrise, voltandosi a guardarla come se non avesse potuto fargli
domanda più
bella. Beatrice alzò gli occhi al cielo, cercando di
impedirsi di sorridere a
sua volta mentre lo osservava.
«Aspetta,»
lo interruppe ancora prima che aprisse la bocca per parlare,
«hai aggiunto
qualche canzone rispetto alle quattro di cui avevamo parlato?»
Lui
annuì e lei capì perché le avesse
detto di non conoscerle tutte.
«Quante?»
«Solo
l’outro.» si limitò a dire, stringendosi
nelle spalle.
Beatrice
si alzò dalla sua posizione, afferrando la borsa che aveva
lasciato sulla sedia
e rovistandovi dentro, alla ricerca del cellulare. Chiese a Jiyong se
avesse un
paio di cuffie a portata di mano, individuandole su un mucchio di panni
che si
trovavano a terra; le afferrò, tornando a sedersi sul divano
con le gambe
incrociate, a fianco a lui questa volta.
«Lo
voglio sentire tutto intero…» spiegò,
collegando le cuffie al cellulare, mentre
apriva YouTube alla ricerca di quei video che aveva iniziato ad
apprezzare
quando aveva sentito la mancanza di Jiyong e aveva imparato che
l’unico modo
per sentirlo più vicino era ascoltarlo cantare.
Dall’ascoltare le sue canzoni a
trovare le traduzioni il passo era stato brevissimo e, mentre si
addentrava
nella sua musica, aveva anche capito un po’ più
della sua personalità e di
quello che doveva aver provato mentre cresceva sotto gli occhi del
mondo. Non
avevano mai parlato apertamente del significato delle sue canzoni
passate,
avevano, però, parlato tantissimo dell’album su
cui stava lavorando: le aveva
fatto sentire le canzoni che aveva già registrato quando lei
era andata in
Corea e aveva assistito anche alla registrazione di Untitled,
2014.
***
Quel
giorno si era svegliata e la prima cosa che aveva pensato è
quanto le mancasse lui, in un modo
che neanche lei riusciva
a spiegarsi.
Si
era alzata dal letto e aveva controllato il cellulare su cui ormai da
mesi
aveva impostato il doppio orologio, per sapere sempre che ore fossero
in Corea.
Aveva trovato un suo messaggio ed era finita col fare la prima vera
pazzia
della sua vita: si era informata ed aveva comprato un biglietto del
primo volo
disponibile, solo di andata, perché non sapeva quando
sarebbe tornata,
spendendo soldi che le lasciarono la carta di credito abbastanza
sofferente.
Il
pomeriggio successivo stava già facendo check-in in
aeroporto, con la prima
valigia che aveva trovato nell’armadio di casa sua, in cui
aveva gettato le
cose fondamentali senza preoccuparsi del resto, e con l’ansia
di dover
affrontare praticamente un giorno di viaggio e due scali completamente
da sola.
Quando
lo aveva detto a Jiyong, lui si era offerto di pagarle il biglietto, ma
Beatrice aveva rifiutato ed era rimasta ferma sul punto:
l’idea era stata sua e
loro erano solo amici, quindi non
sarebbe stato giusto far pagare lui per qualcosa che voleva fare lei e
di cui,
nonostante le ventitré ore di volo, non era riuscita a
giustificarsi.
Durante
lo scalo di cinque ore a Bangkok, aveva alternato momenti di noia
assoluta a
momenti in cui si era chiesta se non avesse appena lanciato dal balcone
seicento euro per quel viaggio di cui continuava a non darsi ragione.
Era
arrivata di prima mattina e aveva dovuto recuperare tutti i messaggi
che le
erano stati inviati mentre lei era in volo, soprattutto quelli di sua
madre che
le chiedeva se non fosse definitivamente impazzita. Aveva sentito
brevemente
Jiyong, che le aveva spiegato come sarebbe dovuta arrivare a Seul
dall’aeroporto e quale taxi avrebbe dovuto prendere1,
inviandole poi
un messaggio con l’indirizzo cui si sarebbe dovuta far
portare. Si era scusato
più e più volte perché non era
riuscito ad organizzarsi in modo da andare a
prenderla di persona, ma Beatrice non aveva neanche chiesto che lo
facesse,
sapendo di aver organizzato tutto all’ultimo e conoscendo
tutti i suoi impegni.
Quando
arrivò ad Incheon erano da poco passate le otto; dopo aver
aspettato la valigia
e con lo zaino, che aveva portato con sé
sull’aereo e in cui aveva messo una
felpa, in caso di necessità, il caricatore del cellulare, le cuffiette,
i
documenti, il portafoglio e altre cose che avrebbero potuto esserle
utili
durante quel viaggio infinito, in spalla si incamminò
cautamente nella
direzione che indicavano le varie frecce e che avrebbe dovuto portarla
ai taxi.
Si fermò al primo bancomat che si trovò di fronte
e ritirò una cifra
approssimativa di quanto si aspettava di pagare in base ai chilometri
che le aveva
detto Jiyong.
La
prima cosa che notò non appena fuori
dall’aeroporto fu la differenza di
temperatura – nonostante fosse sera, dovette togliersi la
felpa che aveva
indossato in aereo –, subito dopo, notò che i taxi
si trovavano proprio
all’uscita. Cercò di approcciare il primo tassista
che le facesse una buona
impressione e, non appena salì dopo aver sistemato la
valigia, questo mise in
moto facendo partire il conta chilometri. Non fecero molta
conversazione
durante il viaggio, le chiese giusto da dove venisse e che cosa ci
facesse in
Corea, facendole domande che era un giorno intero che lei stessa si
chiedeva
senza riuscire a darsi risposte sensate; gli fece leggere
l’indirizzo e gli
chiese quanto avrebbe impiegato, scoprendo che fosse un viaggio di
più di
un’ora. Si appoggiò al sedile con aria sconsolata
e finì per passare quelle che
diventarono due ore, a causa del traffico, osservando la strada che
scorreva
fuori dal finestrino, mentre si domandava, per l’ennesima
volta, cosa ci
facesse lì.
Il
tassista si fermò di fronte due enormi grattacieli e lei si
chiese quanto
famoso fosse davvero Jiyong per abitare in un posto del genere
– quella
riflessione la spaventò un po’. Pagò il
tassista e rimase in mezzo al
marciapiede, con la valigia e lo zaino in spalla, chiedendosi come
avrebbe
fatto a dirgli di essere arrivata senza un cellulare funzionante e
senza una
connessione da sfruttare.
Sperò
nel suo buon senso e, dopo aver aspettato per dieci minuti di fronte a
quella
che sembrava un’entrata su cui c’era scritto Galleria Forét, decise di
sedersi sulla sua valigia e di guardarsi
intorno: lo spettacolo non era niente male, la maggior parte delle
abitazioni
che si trovavano in quei due palazzi avevano le luci accese,
tutt’intorno c’era
vegetazione facendole capire di trovarsi in quello che doveva essere
una specie
di parco. Rimpianse di non aver portato con sé la sua
macchina fotografica,
perché quello sarebbe stato uno spettacolo da immortalare
all’istante.
Controllò
la batteria del suo cellulare e decise di accontentarsi di scattare
qualche
foto in quel modo: mentre era intenta a cercare un angolo che rendesse
in foto quello
che stava vedendo con i suoi occhi, qualcuno dietro di lei si
schiarì la voce,
spaventandola perché troppo concentrata su ciò
che stava facendo.
Si
girò, aspettandosi di trovare qualche poliziotto che le
dicesse di non poter
sostare lì davanti con la sua valigia, ma ciò che
vide fu un cappello ben
calcato in testa, una mascherina nera e un giubbotto, nonostante il
caldo.
Impiegò pochi secondi a capire che si trattasse di Jiyong,
impiegò, però, molto
più tempo a capire cosa stesse provando a rivederlo di
persona dopo tre mesi in
cui si erano sentiti e visti solo tramite uno strumento tecnologico.
«Mi
hai fatto aspettare…» si limitò a dire,
alzando la visiera del cappello in modo
da riuscire a guardarla negli occhi. Beatrice non si sentiva in vena di
scherzare e, in un istante, le crollò addosso
l’enormità di ciò che aveva
fatto: un viaggio di quasi un giorno, con un biglietto di solo andata,
per
trovarsi in un paese di cui non conosceva niente e nessuno, se non lui, e senza una reale ragione che
giustificasse la mancanza che aveva sentito e che l’aveva
spinta a partire.
La
colpì come un fulmine a ciel sereno la consapevolezza di
essersi affezionata un
po’ troppo a lui in quei mesi e si pentì di essere
arrivata fin lì, non
chiedendogli prima se fosse d’accordo.
«Jiyong,
io…»
«Sei
pazza?» la bloccò, avvicinandosi di scatto e
mettendole una mano sulla bocca.
Le successive parole le pronunciò praticamente sul suo
collo: «Non pronuncerei
il mio nome con tanta leggerezza, non quando le persone sanno che io
qui ci
abito davvero!»
Beatrice
si richiese quanto effettivamente fosse famoso e si scoprì
ancora più
preoccupata dal conoscere una sua eventuale risposta.
«Vieni!»
Le afferrò la valigia con la mano sinistra, mentre le dita
dell’altra si
intrecciavano con le sue, invitandola a seguirlo. Mentre attraversavano
la hall
e salivano i vari piani, nessuno si sprecò a guardarli
più del necessario, ma
lei si sentì a disagio comunque, con addosso una t-shirt, un
jeans qualunque e
un paio di sneakers bianche; cercò di tenere la testa il
più bassa possibile,
in modo tale da non dover incontrare neanche lo sguardo di quei pochi
che aveva
visto salire e scendere mentre osservava il pavimento
dell’ascensore. Quando
Jiyong le tirò la mano, facendole capire di essere arrivati
al suo piano,
Beatrice si limitò a seguirlo, alzando lo sguardo soltanto
quando sentì la
porta sbattere dietro di sé.
«Mi
dispiace di non aver mandato nessuno a prenderti
all’aeroporto.» sospirò,
togliendosi le scarpe all’entrata. «Sarai
stanca… e affamata. Non so cosa ci
possa essere in frigo, io non sarei in grado di cucinarmi neanche se
stessi
morendo di fame, ma sicuramente qualcosa riesco a trovarlo. Ti faccio
vedere un
po’ in giro…» continuò,
togliendosi il giubbotto e il cappello e lanciando
entrambi sopra il divano che aveva nel salotto. Beatrice
notò per primi i vari
quadri che aveva appesi alle pareti e, quasi contemporaneamente, si
ritrovò a
fissare la canotta che indossava, mentre aspettava paziente che lei lo
seguisse.
Lui
la osservò mentre se ne stava lì, impalata,
all’entrata, con ancora le scarpe
ai piedi, che lo guardava come se non sapesse come ci fosse arrivata.
Quando
gli aveva detto di aver preso un biglietto per venire in Corea, la sua
parte
più razionale si era chiesta che cosa significasse quel
gesto, l’altra, invece,
aveva semplicemente sorriso, felice all’idea di rivederla di
persona. Si era offerto
di pagarle il biglietto, perché sapeva che lei era una
fotografa,
professionista certo, ma non così famosa da potersi
permettere un viaggio del
genere su due piedi e lei lo avevo completamente bloccato, non volendo
sentire
ragioni, nonostante i soldi fossero probabilmente l’unica cosa che non gli mancava.
Lei,
invece, gli era mancata e non si era accorto di quanto fin quando non
l’aveva
vista piegata in una posizione strana mentre cercava di fare una foto
al suo
palazzo con il cellulare. Lo aveva fatto sorridere dietro la mascherina
e lo
aveva fatto sentire spensierato come durante quei due giorni che
avevano
passato insieme a Milano, come quelle volte in cui sentiva la sua voce
al
telefono o si vedevano tramite Skype.
«Jiyong,»
cominciò, passandosi una mano fra i capelli, «io
non so davvero che mi sia
preso. Sono venuta qui con così poco preavviso e tu,
nonostante tutto, non mi
hai neanche lasciato per strada e non so perché sono
qui…» Prese un profondo
respiro, mentre continuava ad osservare il quadro che gli stava dietro
invece
che guardarlo negli occhi. «Non voglio disturbarti, dammi
massimo una settimana
e me ne vado. Non so neanche perché sono qui, in
realtà…» ripeté, spostando
finalmente lo sguardo su di lui.
«Non
mi dai fastidio, mi fa piacere rivederti di
persona…» Ci fu un attimo di
silenzio, interrotto dal miagolio di Iye, che comparve dietro le gambe
del
padrone, strusciandosi contro i suoi calzini ed allontanandosi non
appena
Jiyong tentò di accarezzarlo. «Levati le scarpe e
vieni, ti faccio vedere dove
puoi mettere le tue cose!»
Beatrice
si abbassò per slacciarsi le scarpe e, mentre era intenta a
toglierle, il suo
gatto le si avvicinò, circospetto, facendole un giro intorno
prima di sdraiarsi
a terra, come se volesse essere accarezzato. La ragazza gli
passò le dita fra
le orecchie, accovacciandosi a fianco a lui.
«È
bello vederti finalmente di persona…»
«Io
non lo farei, è un gatto tendenzialmente violento con
persone sconosciute che
invadono il suo spazio» rise, osservandola interagire con
quello che,
nonostante fosse un animale, era diventato una parte importante della
sua vita
– una parte che lo aiutava a non sentirsi completamente solo.
Non fece in tempo
a finire di dire la frase che Iye si girò di scatto,
mordendole il dorso della mano.
«Ti
ha fatto male?» si preoccupò subito, avvicinandosi
per controllarla.
«Non
ti preoccupare,» rispose lei, da terra, mentre continuava
imperterrita ad
accarezzarlo e a giocarci, facendosi graffiare e mordere la mano,
«anche io
avevo un gatto un po’ violento: credo che lo facesse con
l’intenzione di
giocare… In fondo, a parte le volte in cui ti piantano gli
artigli nella pelle,
non fanno mai realmente male.»
Si
alzò da terra dopo qualche minuto, sorridendo nonostante la
sua mano destra
fosse completamente ricoperta di graffi e uno di questi stesse anche
leggermente
sanguinando.
«Guarda
che ti ha fatto…» borbottò Jiyong,
afferrandole il polso e trascinandola in
bagno; aprì l’acqua del rubinetto e
lasciò che scorresse sopra la sua mano,
aprendo poi un mobiletto in alto dove teneva il cotone idrofilo e
l’acqua
ossigenata. Beatrice si lavò la mano, chiudendo il
rubinetto, per poi afferrare
l’asciugamano che lui le stava passando e tamponarsi i graffi
con l’ovatta
imbevuta che le diede.
«È
inutile che continui a guardarmi con quello sguardo
afflitto,» scherzò, «Iye
non mi ha fatto niente davvero. Ero abituata a cose
peggiori…» rise, mentre
Jiyong scuoteva la testa e alzava gli occhi al cielo.
«Ho
tre camere, due se non vuoi dormire con me.» Uscì
dal bagno, girandosi per
farle un occhiolino che le fece alzare un sopracciglio, scettica,
mentre lui se
la rideva.
«Sei
proprio un cretino» gli borbottò contro,
seguendolo in quel piccolo giro
turistico di casa sua. Beatrice decise di sistemarsi nella prima stanza
che le
fece vedere e, poi, gli domandò se potesse usare il bagno
per lavarsi,
considerato il viaggio, e dove potesse trovare gli asciugamani. Jiyong
le
spiegò che ogni camera aveva il proprio bagno e, aprendo una
porta alla sua
destra, la fece entrare, facendole vedere dove poteva trovare tutto
quello che
le serviva. La lasciò da sola, convinto di poter trovare del
ramen istantaneo
nella sua dispensa e di essere in grado di prepararlo senza dare fuoco
a
niente, e Beatrice si chiuse la porta alle spalle, riempiendo la vasca
di acqua
calda.
Non
era mai stata una grande sostenitrice dei bagni, preferiva nettamente
la
velocità e la comodità di una doccia, e, insieme
al box doccia, mentre si
spogliava e si immergeva nell’acqua, notò, con
infinito dispiacere, anche
l’assenza del bidet. Cercò di essere il
più veloce possibile, ancora
leggermente a disagio dall’estraneità di quella
casa.
Dopo
essersi asciugata ed aver lasciato i capelli bagnati come faceva di
solito,
indossò la solita maglietta larga e i soliti pantaloncini
che usava come
pigiama – quando non dormiva direttamente senza niente per il
caldo – e si
diresse scalza verso la cucina, tentando di non perdersi.
Jiyong
la sentì arrivare senza doversi neanche girare per vederla.
«È stato abbastanza
facile da preparare, sulla busta c’era scritto di farlo
bollire in acqua calda
per circa cinque minuti e di aggiungere il resto. Non ho le forchette,
quindi
dovrai accontentarti delle bacchette.»
Si
girò con una ciotola in una mano e le bacchette
nell’altra e non riuscì ad
impedirsi di guardarle le gambe nude, chiedendosi di nuovo cosa ci
facesse
davvero lei lì e cosa sarebbe stato giusto pensare, visto il
loro stato di amicizia.
«Tu
non mangi?»
«Già
fatto, sono pur sempre le undici.» Nonostante le sue parole,
dopo aver poggiato
la ciotola e le sue bacchette sulla piccola isola nel centro della
cucina,
tornò indietro, afferrandone un altro paio e mettendosi
seduto di fronte a lei.
«Non
è per niente ansioso sentirmi osservare in questa maniera,
mentre cerco di
evitare di farmi finire tutto addosso…»
commentò sarcastica Beatrice,
impugnando le bacchette nell’unico modo che le riusciva bene
e mescolando i
noodles con il resto del condimento.
«Le
tieni male,» rise, correggendola, «non devi
incrociarle, devi fare leva con le
dita.» Le dimostrò come doveva fare prendendo i
noodles e portandoseli alla
bocca. Beatrice cercò di imitarlo, riuscendoci soltanto per
poco e tornando poi
al suo metodo, mentre Jiyong se la rideva.
«Com’è?»
«Diverso…»
La ragazza era davvero poco interessata al sapore: non mangiava da un
giorno e
qualsiasi cosa le sarebbe andata bene.
«Diverso
come?» insistette.
«Diverso
e basta. Buono, ma non mi fa impazzire… Continuo a preferire
il sushi e il
riso!» concluse, stringendosi nelle spalle e continuando a
mangiare.
Jiyong
rise, scuotendo la testa come era solito fare per spostarsi i capelli
dalla
fronte: «Sei proprio come Seunghyun
hyung…»
«Intendi
T.O.P.?» In quei mesi, avevano parlato anche del suo gruppo:
ogni volta che il
nome di qualcuno di loro usciva dalle sue labbra – il che
succedeva spesso –,
gli occhi di Jiyong si illuminavano, rendendo palese quanto ognuno di
loro gli
fosse a cuore. Vederlo così felice, mentre le raccontava
qualcosa che gli era
successo quel giorno e che riguardava anche uno di loro, le aveva
sempre fatto
piacere, così, senza nemmeno accorgersene, aveva finito per
imparare anche i
loro nomi.
Lui
annuì, finendo gli ultimi noodles che Beatrice aveva
lasciato quando si era
sentita così sazia da non riuscire ad ingoiare
più nient’altro. Si alzò per
poggiare la ciotola e le bacchette nel lavandino e lei fu abbastanza
insistente
da convincerlo a lasciarle lavare tutto come ringraziamento per averle
dato da
mangiare; Jiyong le diede tutto il necessario e asciugò
quello che lei
sciacquava, poggiandolo al proprio posto.
«Ma
non hai sonno?» Le domandò curioso, mentre si
sdraiava sul divano di pelle nera
che aveva in salotto, subito raggiunto da Iye. Beatrice stava
girovagando per
la stanza, altrettanto curiosa, mentre leggeva i titoli dei libri che
si
trovano sui vari scaffali: la maggior parte riguardava arte di vario
tipo, da
trattati su pittori contemporanei a libri di fotografia, alcuni libri
erano
completamente in coreano, lasciandola nel dubbio di cosa ci fosse
scritto,
altri erano in inglese.
«Ho
dormito sull’aereo… E, poi, in Italia, adesso,
sono le cinque di pomeriggio.»
Un
libro attirò particolarmente la sua attenzione: lo prese il
più delicatamente
possibile e lo sfogliò, sorridendo quando vide che aveva sia
la versione
originale che la traduzione in coreano.
«Hai
letto la Divina Commedia?» gli chiese, con un sorriso enorme,
mentre andava a
sedersi sul divano accanto a lui.
«Sto
leggendo.» la corresse, tirandosi in posizione eretta di
scatto e facendo
allontanare Iye, spaventato da quel movimento improvviso.
«Perché non me la
leggi tu?»
Si
morse il labbro inferiore, sorridendo a bocca chiusa e poggiando le
mani sulle
sue ginocchia.
«Non
so leggerlo il coreano, ti ricordo. E, se te la leggessi in italiano,
tu non
capiresti…»
«Ma
puoi sempre spiegarmela in inglese» propose, addolcendo la
sua espressione come
faceva ogni volta che le doveva chiedere qualcosa.
Beatrice
rimase un po’ perplessa da quella richiesta. «Non
so se sono in grado di
trovare le parole giuste per esprimere il senso di
quest’opera in inglese.» Si
rigirò il volume fra le mani: «Non è
un’opera come un’altra, per me, e Dante
non è un poeta come tutti gli altri.»
«Per
il tuo nome?» chiese, facendosi più vicino.
«Non
solo, per tantissime ragioni… Ciò che provo
leggendo le opere di Dante, non
penso sarò mai in grado di esprimerlo a parole, soprattutto
tramite parole di
una lingua che non mi appartiene realmente. Lui,
con tutte le sue contraddizioni di uomo e di poeta, è stato
davvero importante
nella mia vita e, nonostante la religione non sia qualcosa in cui mi
definisco,
la sua visione dell’aldilà mi ha sempre
affascinato così tanto che non sono mai
stata in grado di ripudiare completamente il Cristianesimo.»
Aprì
il libro alla prima pagina, a sinistra i versi in italiano mentre a
destra vi
era quella che doveva essere la parafrasi coreana. «Ci sono
terzine che so a
memoria e altre che vorrei tanto sapere; ogni volta che le rileggo,
sento un
calore che mi pervade e, spesso, mi commuovo di fronte alla sofferenza
e
all’umanità di alcuni personaggi
dell’Inferno, di fronte ad alcuni messaggi che
Dante ha cercato di dare – come il fatto che le colpe dei
padri non dovrebbero
mai ricadere sui figli con l’episodio del Conte Ugolino
– oppure l’idea, nel
Paradiso, che Dio sia un’entità d’amore,
che lui sia l’amore che muove tutto
l’Universo e che noi viviamo
per ricongiungerci con lui dopo la morte. Non è
un’idea che condivido, perché
non so neanche se credere alla sua esistenza, ma è un punto
di vista che mi
affascina, perché dà un senso a tutto il bene e a
tutto il male che ci circonda.
Nel Paradiso, Dante fa dire a Beatrice che tutte le cose hanno ordine
fra loro
e che è questo che ci rende simili a Dio, giustificandoci
tutti e in tutto
perché, indipendentemente da quello che pensiamo di essere e
che pensiamo di
meritare, ci sarà sempre un posto per noi, ovunque andremo.
La prima volta che
ho letto e capito questa terzina penso di aver pianto: per la prima
volta, ho
capito cosa rende il Cristianesimo così gettonato agli occhi
di chi crede. L’uomo
vuole solo essere accettato per quello che è e questa
religione e le parole di
Dante ti fanno credere che tu sia già stato accettato
completamente e non ci
sia bisogno di impegnarti per essere qualcosa di diverso, qualcosa di
migliore,
perché sei già abbastanza così come
sei.»
Osservò
la pagina cui aveva aperto il libro, attimi che passarono nel silenzio
totale
interrotto soltanto dai loro respiri.
«Quando
ero più piccola,» sorrise fra sé e
sé, ricordando le superiori, «per diverse
ragioni, ho avuto un allontanamento da Dante: forse è stata
la mia età, forse
avevo sempre troppo idealizzato il poeta, dimenticandomi
dell’uomo, ma, per un
periodo, ho pensato che tutti i poeti fossero ipocriti,
perché lui condannava
gli altri all’Inferno per i loro peccati ma era il primo che
avrebbe tradito la
moglie per Beatrice o che, probabilmente, lo aveva anche già
fatto,
idealizzavano tutti la donna come creatura angelica nelle loro poesie
ma, nella
realtà, la sua posizione nella società valeva
quanto quella di un soprammobile,
bello da vedere ma pur sempre un oggetto.» Si interruppe,
continuando ad
accarezzare le pagine del libro.
«Dicono
che più si diventa grandi, più si apprezzano cose
che prima non consideravamo
neanche. Io sono cresciuta con Dante e, all’inizio,
l’ho amato
incondizionatamente, poi, l’ho amato un po’ di meno
per la sua ipocrisia e,
infine, l’ho accettato totalmente. Beatrice, in
realtà, non era altro che una
poveretta morta giovane con cui lui aveva interagito poco e niente,
eppure è
grazie alla sua sola esistenza che noi adesso abbiamo la Divina
Commedia e la
Vita Nova e tutte le altre opere. Sbagliavo quando mi ero convinta che
Beatrice
fosse soltanto uno strumento per un fine: in Beatrice, Dante aveva
visto
l’infinito per nessuna specifica ragione, perché
lei era stata una ragazza come
un’altra, e la sua morte gli aveva arrecato un vuoto
così grande da poter essere
riempito soltanto dal suo ricordo perenne, impresso su carta per i
secoli a
venire. La Divina Commedia è un’opera troppo
grande per essere spiegata e non
so se io sono in grado di farlo al meglio.»
Alzò
gli occhi su Jiyong, dopo aver dato sfogo a neanche un terzo dei suoi
pensieri
sull’importanza di Dante e della sua opera nella sua vita,
trovandolo con gli
occhi lucidi.
«Stai
bene?» si preoccupò, spaventata di aver detto,
nella foga, qualcosa che poteva
avergli dato fastidio.
Jiyong
non rispose alla sua domanda, come al solito, facendone una a sua volta.
«Credi
davvero che siamo abbastanza così come siamo? Che ci sia un
posto nel mondo per
ognuno di noi?» Glielo domandò con
un’espressione che lei non gli aveva mai
visto, come se fosse un bambino piccolo che cercasse conferme e volesse
rassicurazioni. Beatrice si chiese, per l’ennesima volta,
come potesse aiutarlo
a capire ciò che non gli avevano fatto credere per la
maggior parte della sua
vita – di non dover essere sempre
migliore della volta precedente e di essere abbastanza già
così com’era,
proprio perché era così com’era.
«Credo
che non ci faccia bene ritenerci non abbastanza e spero vivamente che
ci sia un
posto nel mondo che è solo per noi…»
Successe
tutto così in fretta che non riuscì a
metabolizzare nell’immediato: Jiyong la
guardò con un’espressione decisa, le tolse il
libro dalle mani, lasciandolo cadere
a terra, e la baciò, approfondendo quasi subito mentre
sfruttava la sua
sorpresa. Beatrice non riuscì ad impedirsi di ricambiare,
mentre lui le passava
le mani sotto le cosce, in modo da distenderle e creare abbastanza
spazio per
sdraiarsi contro di lei. Non sapeva cosa avesse scatenato quella
reazione da
parte sua, se fossero state le sue parole a colpirlo o se,
semplicemente, la
fragilità che gli aveva letto nello sguardo lo avesse
lasciato così scoperto da
renderlo bisognoso di un contatto fisico di qualunque natura.
Se
fosse stato quest’ultimo il motivo, Beatrice avrebbe
preferito non saperlo.
Le
passò la lingua sul labbro inferiore, facendola scivolare
ancora più sotto il
suo corpo e poggiandole i gomiti ai lati della testa; le morse il
labbro e,
poi, scese sul suo mento e sul suo collo, lasciando una scia di saliva
e di
baci che si interruppe soltanto quando incontrò il bordo
della sua maglietta.
Gliela tolse velocemente, lasciandola nuda dalla vita in su mentre la
guardava
come se fosse la prima volta che la vedeva. Si alzò a sedere
sul divano,
trascinandola con sé, in modo che le sue gambe gli si
stringessero dietro la
schiena, e si tolse anche lui la maglietta, per poter sentire la loro
pelle
direttamente l’una contro l’altra.
Jiyong
le portò entrambe le mani sul volto, guardandola negli occhi
e rendendosi conto
di essere stato troppo affrettato e troppo inaspettato. Prese a
lasciarle baci
delicati sulle labbra arrossate e gonfie, che aveva maltrattato fino a
quel
momento, per spostarsi, poi, sulle guance, sul mento, sulla mascella
fino a
quando lei non si rilassò così tanto da chiudere
gli occhi e sospirare,
contenta.
«Non
so se riesco a starti lontano…» le
confessò, portandole le mani alla base della
schiena e tirandola verso di lui, in modo da avere il suo seno contro
le
labbra. Leccò la pelle dell’incavo mentre con i
palmi risaliva la sua schiena,
fino ad aggrapparsi alle sue scapole. Quando le prese un capezzolo fra
le
labbra, succhiandolo, Beatrice gli afferrò i capelli di
getto, sentendo uno
spasmo percorrerle tutto il corpo; lui le affondò i
polpastrelli nella pelle,
impedendole di muoversi da quella posizione, mentre dava le stesse
attenzioni
anche all’altro seno.
«Non
so se voglio starti lontano.» Pronunciò quelle
parole sulle sue labbra,
riafferrandole in un bacio che lasciò entrambi senza respiro.
«Non
pensavo sarebbe finita così…»
ansimò lei, passandogli una mano sulla fronte in
modo da spostargli i capelli e poterlo guardare meglio negli occhi. Lo
osservò
per qualche secondo rapita, con la testa tirata indietro dalla sua
mano, il
collo sottile completamente esposto, quelle pupille scure che la
seguivano in
ogni minima mossa e quelle labbra rosse. «Ma sei
vero?» sospirò nella sua
bocca, mentre lo baciava, non sapendo se fosse solo lei a vederlo
così bello.
Scese
con i baci sul suo collo, fino alla spalla dove c’era il
tatuaggio di Dragon
Ball e dove si fermò per morderlo.
«Mi
fai male…» rise contro il suo orecchio, non
spostandosi di un centimetro quando
lei iniziò a cospargergli il morso con baci a fior di pelle.
«Volevo
sentire se fossi vero.» gli rispose, ingenuamente,
afferrandogli il mento e
strusciando il naso contro il suo.
«Sono
molto vero…» Beatrice si allontanò
mentre lui cercava le sue labbra, in un tentativo
di farsi desiderare che sapeva farlo solo innervosire.
«Beatrice»
l’avvertì infatti, quando lei si
allontanò per la seconda volta, sorridendo e
portando l’indice sulle sue labbra, per tenerlo lontano.
Jiyong la guardò
storto, passandole un braccio intorno alla vita e ribaltando la loro
posizione
sul divano: la ragazza tornò di nuovo sdraiata mentre lui se
ne stava stretto
fra le sue cosce e sopra di lei; afferrò il polso della mano
che lei ancora
aveva sulle sue labbra e lo portò sopra la sua testa,
insieme all’altro,
bloccando le sue braccia in modo che non potesse muoverle. La
osservò per
qualche istante, mentre lei gli sorrideva in sfida dal basso,
portandole la
mano, che non stringeva i suoi polsi contro la pelle del divano, sulla
guancia
sinistra; le percorse con il pollice il bordo della bocca e lei
socchiuse le
labbra, accogliendo il suo dito e circondandolo con la lingua, mentre
lo
guardava con un’intensità che lo lasciò
atterrito.
«Mi
farai impazzire…» le sospirò in bocca,
cercando la sua lingua mentre il suo
pollice le tirava il labbro inferiore, costringendola ad aprirla
maggiormente per
accoglierlo.
«Per
così poco?» ansimò, quando lui le
abbandonò la bocca e scese con le labbra sul
suo collo. In risposta al suo sarcasmo, Beatrice ottenne una spinta che
le fece
percepire distintamente il profilo della sua erezione, decidendo che ne
aveva
avuto abbastanza di preliminari.
«Ji, li hai i preservativi, sì?»
«Se
è un modo per sapere se sono stato con qualcun altro in
questi mesi, la risposta
è no…» rise, lasciandole andare i polsi
e alzandosi per andare a recuperare
quello che gli aveva chiesto. Quando tornò, trovò
Beatrice che accarezzava Iye
tra le orecchie: vederla così presa dal suo gatto, mentre se
ne stava
praticamente nuda sul suo divano, sorridente, mentre gli parlottava in
quello
che doveva essere italiano e faceva espressioni buffe, inspiegabilmente
non
fece altro che eccitarlo ancora di più. «Vieni a
letto…» le sussurrò
all’orecchio, avvicinandosi da dietro.
Diede
un’ultima carezza ad Iye e lo seguì in camera sua.
«Non era un modo per sapere
se sei stato con qualcuna, semplicemente non voglio avere
sorprese.» Si strinse
nelle spalle, osservando i quadri appesi sopra il suo letto.
«Particolari…»
borbottò, non sapendo che altro dire.
Jiyong
la abbracciò da dietro, poggiando il mento sopra la sua
spalla: «Non ti
piacciono?» le mormorò contro il lobo
dell’orecchio, scendendo con la mano che
si trovava sul suo ombelico al di sotto dell’elastico dei
suoi pantaloncini.
«Non
direi necessariamente che non mi piacciono…»
ansimò, quando lui iniziò ad
accarezzarla, facendole tremare le gambe.
«Che
diresti, quindi?» Prese a mordicchiarle il collo e a
massaggiarle un seno con
l’altra mano.
«Non
è un genere che preferisco, ecco…»
Gemette
quando Jiyong iniziò a imprimere una pressione maggiore e
gli portò una mano
dietro la nuca, aggrappandosi ai suoi capelli.
«Sei
bagnata…» Lo sussurrò così
piano, soffiandole nell’orecchio, che Beatrice non
riuscì a capire se lo avesse detto davvero o lo avesse
immaginato lei.
«Per
fortuna.» gli rispose, ironica, girando il viso e lasciando
baci su tutto il
lato destro del suo volto. Jiyong sorrise in quel suo modo
caratteristico,
lasciando intravedere le gengive, e, a quella poca distanza, Beatrice
riuscì
anche a vedere il leggero rossore che gli colorì le guance.
Quando,
in quei mesi, aveva imparato a conoscere anche il suo personaggio sul
palco,
G-Dragon, la cosa che l’aveva più sconvolta era
stata probabilmente la loro
abissale differenza di comportamento: di fronte le telecamere e mentre
cantava
e con persone che non gli erano vicine, Jiyong era un’altra
persona – era
G-Dragon –, era la persona distaccata e strafottente e sicura
di sé con cui
aveva interagito non appena si erano conosciuti e che riusciva a
calamitare
l’attenzione proprio per questo, così come aveva
notato fosse impossibile
distogliere lo sguardo da lui durante le loro esibizioni di gruppo; non
appena
la musica si fermava o la telecamera si girava, tornava ad essere
sé stesso, il
sé stesso continuamente timido, abituato a coprirsi la
faccia con le dita
quando rideva e a tamponarsi il sudore sulla fronte con il dorso della
mano
quando imbarazzato, il sé stesso sorridente cui si era
affezionata.
Pensare
quelle cose in quel momento e rendersi conto di averlo osservato
così
attentamente in quei mesi la spaventò non poco.
«Stiamo
facendo la cosa giusta, secondo te?» mormorò sulla
sua guancia e lui si bloccò
subito, togliendo la mano sulla sua intimità e tornando a
stringerle le braccia
intorno alla vita.
«Non
voglio che tu ti senta costretta a fare niente.»
«Non
mi fai sentire costretta, lo voglio ed è forse questo il
problema. Domani
mattina, a che punto saremo? E c’è veramente un
punto cui dobbiamo arrivare?
Che rapporto abbiamo e perché sono partita così
dal nulla soltanto per
rivederti dopo tutto questo tempo?» Beatrice fece un respiro
profondo, cercando
di organizzare i suoi pensieri. «Non ti sto chiedendo niente,
davvero non lo
sto facendo. È il mio comportamento che non riesco a
capire…» Si staccò da lui
e andò a sedersi sul letto, poggiando i gomiti sulle sue
ginocchia e affondando
la faccia fra le mani.
«Ho
preso un aereo per vederti di persona, ho fatto ventitré ore
di viaggio per
vederti di persona… Dio, ho preso un aereo perché
mi mancavi!» ripeté,
sconvolta dalle sue stesse parole, rendendosi conto, per la prima
volta, di
quanto fosse stata incosciente. «So di volerti bene e so di
essermi affezionata
a te in questi mesi, ma il sesso dove si colloca? Non so se riesco a
farlo e a
continuare a volerti bene come un amico, non so se abbiamo sbagliato
tutto già
dall’inizio…»
Jiyong
le si accovacciò di fronte, poggiando le mani sulle sue
ginocchia. Non si era
aspettato una conversazione del genere ma avrebbe dovuto saperlo che
sarebbe
arrivata, considerando quanto aveva imparato di lei in quei mesi
– e lei
analizzava sempre tutto, troppo.
«Ascoltami,»
cominciò, passandosi la lingua sulle labbra secche,
«è colpa mia se sei così
confusa. Il punto è che anch’io sono confuso e non
posso aiutarti a capire
qualcosa che non capisco nemmeno da solo.» Le
afferrò una ciocca di capelli
castani fra le dita, giocandoci. «Non so dove si colloca il
sesso fra di noi,
ma so che io voglio collocarlo, perché non penso di essere
in grado di riuscire
a starti così lontano, non fisicamente né
mentalmente.» Le accarezzò una
tempia, guardandola negli occhi. «Sono contento che tu sia
venuta, perché mi
eri mancata…» ammise, portandole la mano sulla
guancia.
«Siamo
lontani.»
«Non
adesso…» Le passò il pollice sul labbro
inferiore e poi sul mento.
«Ma
lo saremo… e io non credo nelle relazioni a
distanza.»
«E
allora non staremo in una relazione. Beatrice, dammi un po’
di fiducia…»
Beatrice
non era molto convinta, ma, qualche tempo prima, si era detta che tutti
meritassero il beneficio del dubbio, almeno una volta. Jiyong si
alzò, sparendo
al di là della porta e ritornando qualche minuto dopo, con
la sua maglietta e
un libro in mano. Le lanciò addosso la maglietta, facendole
un occhiolino, e le
poggiò il libro a fianco, sulle coperte.
«Me
lo leggi questo primo canto, quindi?»
La
ragazza si rivestì, osservando il libro con aria
circospetta; infine annuì,
alzando gli occhi al cielo. Si spostò contro la testiera del
letto, incrociando
le gambe, e Jiyong le poggiò la testa sul ventre, mettendosi
comodo per
ascoltarla leggere.
Prese
a leggere dall’inizio, cercando di spiegargli anche quello
che diceva e
cercando di richiamare alla mente tutte le informazioni che derivavano
da
quando la parafrasi aveva dovuto farla per scuola. Quando non sapeva
come
spiegarsi in inglese, finiva per spostargli il libro di fronte in modo
che
potesse leggere la versione coreana.
«Mi
piace sentirti leggere in italiano…»
Respirò profondamente contro la sua
maglietta, lasciandole un bacio sul ventre da sopra il tessuto.
Beatrice gli
affondò le dita nei capelli e lui mugugnò,
strusciandosi contro il suo palmo
come un gatto e rilassandosi contro le sue cosce. Quando chiuse il
libro, dopo
aver cercato di fargli una panoramica completa del significato del
canto, della
figura di Virgilio e delle varie allegorie che vi erano e di come
potessero e dovessero essere interpretate, si osservarono per un
po’ senza
dirsi niente.
Beatrice
gli lasciò un bacio sulla fronte, uno sul naso e uno sulle
labbra e fu quasi
fisiologico, per entrambi, approfondirlo, con lentezza, prendendosi il
loro
tempo.
I
vestiti sparirono in fretta, ma per un po’ loro non fecero
altro che
accarezzarsi e guardarsi negli occhi. La penetrò lentamente,
intrecciando le
dita alle sue e lasciandole baci sulle guance, mentre lei gli
accarezzava la
schiena e gli stringeva i bicipiti, baciandogli i tatuaggi cui riusciva
ad
avere accesso.
Quella
divenne una sorta di tradizione: non appena riuscivano ad avere un
momento
libero, lei gli leggeva un canto della Divina Commedia e loro finivano
quasi
sempre per fare sesso, dopo.
Restò
in Corea per quasi tre mesi, utilizzando tutto il tempo a sua
disposizione.
Conobbe
il manager di Jiyong, che non fu per niente sorpreso quando lui gliela
presentò, e i membri del gruppo che, invece, furono
parecchio sorpresi di
conoscerla, costringendolo a spiegare come si fossero incontrati per
filo e per
segno e ritenendosi molto offesi di non averne saputo niente prima.
Considerando
la sua abilità con Photoshop e il suo lavoro da fotografa,
non fu difficile
trovare un lavoro part-time, soprattutto grazie a Jiyong che le fece
conoscere
alcuni suoi amici e la propose per qualche servizio fotografico. Quando
lui non
c’era o quando era impegnato in qualche progetto per cui
avrebbe dovuto essere
filmato, lei preferiva non andare per non dare nell’occhio e,
poiché Taehee
doveva stare con Jiyong, quando era libero, era Seungri a portarla un
po’ in
giro – sempre incappucciato – e a farle compagnia a
casa di Ji. Diceva che gli
era stata simpatica da subito e che Jiyongie – come lo
chiamava – sembrava più
contento del solito, rendendo di riflesso più felice anche
lui. Così, quando
lui aveva partecipato ad una mostra a Londra, era stato Seungri ad
intrattenerla per due giorni di fila, facendola morire dalle risate
mentre le
raccontava vari aneddoti che riguardavano sia Ji che gli altri membri
del
gruppo e facendole capire perché il ragazzo gli fosse
così affezionato.
Per
un po’, si erano divertiti a conciarsi nei modi
più assurdi per riuscire a
passare inosservati mentre camminavano per le strade di Seul e Jiyong
le faceva
da guida turistica; dopo quella volta in cui, però, lui era
stato riconosciuto
e Taehee l’aveva portata via per evitare scandali di cui la
sua carriera non
aveva davvero bisogno in quel momento, avevano imparato a preferire le
mura di
casa, dove nessuno poteva fotografarli e gettarli in copertina da
qualche
parte, facendo indignare l’enormità di fan che
seguiva sia lui che i BIGBANG
perché, oltre all’evidente fatto che fosse una
ragazza, Beatrice aggiungeva
alla lista dei suoi punti a sfavore il fatto di non essere
né asiatica né
tantomeno coreana. Quando Jiyong le aveva spiegato come funzionava il
suo
mondo, quanto fossero controllati e quanto poco fosse permesso loro di
sbagliare e di deviare dalla perfezione che
veniva loro imposta dal basso, la ragazza era rimasta parecchio
sorpresa;
quando le aveva detto, inoltre, che lei sarebbe stata, per lui, uno
scandalo
indipendentemente dal modo in cui si sarebbe comportata, soltanto
perché
straniera, Beatrice era rimasta ancora più perplessa e
preoccupata da quello
che avrebbero potuto dirle.
Non
che si fossero mai detti esplicitamente di stare insieme, comportandosi
comunque come se lo fossero ed essendolo agli occhi di tutti quelli che
li
frequentavano, quindi, tecnicamente, non avrebbero potuto dirle niente;
non che
Beatrice fosse realmente spaventata da quello che avrebbero detto sui
social o
preoccupata dall’opinione di persone che non la conoscevano.
Per quanto possibile,
però, lei avrebbe cercato di evitare che qualcuno lo
scoprisse, perché,
nonostante tutti i nonostante, non le andava di essere messa alla gogna
pubblicamente.
La
mattina del suo compleanno, Ji era dovuto andare alla prima visione di
un
lungometraggio che aveva girato e che, partito come uno scherzo, era
diventato
molto più serio di quello che pensava. Quando gli avevano
proposto il copione,
aveva pensato fosse qualcosa di simile a quello che aveva
già fatto e, quindi,
aveva accettato senza problemi, pensando sarebbe stato divertente.
Quando, poi,
lo aveva letto, leggendolo anche a Beatrice, lei aveva riso, osservando
la sua
espressione sconsolata all’idea di dover davvero impegnarsi
per recitare nella
maniera più decente possibile e afflitto dalla
consapevolezza di doversi poi
rivedere – cosa che lo imbarazzava tantissimo ogni volta.
«Andrà
bene, vedrai» cercò di consolarlo lei,
lasciandogli un bacio sulla guancia e
arruffandogli i capelli. «Qualunque cosa tu faccia, riesci
sempre a farla
bene.» Gli sorrise e lui le passò un braccio
intorno alle spalle, tirandosela
addosso e lasciandole un bacio sui capelli.
La
strinse più forte contro il suo petto, prendendo un profondo
respiro sulla sua
testa; la chiuse in un abbraccio definitivo passando l’altro
braccio intorno
alla sua vita e rimasero così per qualche minuto, vicini ed
in silenzio. Jiyong
sapeva di essersi affezionato a lei, lo sapeva da un po’, ma
non riusciva ad
ammetterlo, non a voce alta e non davanti a lei. Seungri, una volta,
gli aveva
chiesto che cosa significasse tutta quella situazione, che cosa fosse
lei per
lui e se veramente valesse la pena rischiare un possibile scandalo
quando loro
due erano comunque così distanti.
Non
era stato capace di dirgli niente e lui aveva capito tutto.
Quando
le aveva raccontato di Kiko e di quella che era stata la loro
situazione per
anni, dei tatuaggi che aveva fatto per lei, della canzone che aveva
composto
quando aveva metabolizzato la loro rottura definitiva e delle parole
che aveva
scritto, Beatrice non aveva avuto niente da dire. Non aveva avuto
niente di
cattivo da dire su di lei, ammettendo anche che fosse davvero bella, e
non
aveva detto niente sui suoi tatuaggi, confessandogli di aver sempre
strettamente collegato anche lei il modo in cui poteva essere suddiviso
together al suo significato.
Quando
l’aveva portata in studio durante la registrazione di Untitled, lei si era commossa, ascoltando
solo la base e il modo in
cui lui cantava il testo, e, poi, era caduta in un mutismo che lo aveva
fatto
riflettere sul fatto che lei, probabilmente, avesse finito col pensare
a cose
che la riguardavano e non al fatto che lo stesse ascoltando cantare una
canzone
che aveva composto per la sua ex. Lo aveva un po’ infastidito
non ottenere
nessuna reazione, abituato a ragazze che dimostravano gelosia anche
quando era
fuori luogo.
Lei
non lo aveva bollato come suo, probabilmente non lo pensava neanche che
fosse
suo, non era gelosa di ragazze che avevano fatto parte della sua vita
ed erano
state importanti, non si era dimostrata infastidita da quei tatuaggi
che le
avrebbero sempre ricordato che, prima di lei, c’era stata
qualcun’altra tanto
importante da fargli decidere di marchiarsi la pelle per tutta la vita
e si era
commossa ascoltando quella canzone che era sostanzialmente una
preghiera per
poter tornare indietro e non fare gli stessi sbagli, per non perderla
ancora.
Quando Jiyong l’aveva vista con gli occhi lucidi e
silenziosa, le aveva chiesto
se le avesse dato fastidio qualcosa e Beatrice gli aveva semplicemente
risposto
che lo capiva, che capiva il suo senso di colpa e che capiva la sua
nostalgia,
che non era infastidita perché sapeva – o, almeno,
sperava – che quella
nostalgia non derivasse da un’effettiva voglia di tornare con
lei, ma dalla
consapevolezza di aver sbagliato. Gli disse che sapeva cosa
significasse
pentirsi di alcune azioni fatte, cosa significasse riflettere su quelle
azioni
fino a farsene logorare, nella speranza di tornare indietro e poterle
sistemare
o, comunque, potersi comportare diversamente. Gli disse che il modo in
cui la
cantava le aveva fatto sentire una morsa allo stomaco e che essere
gelosa non
avrebbe avuto senso, perché, se lui avesse voluto davvero
tornare con lei,
Beatrice non avrebbe comunque potuto fare niente per impedirlo.
Parlò
lentamente, sussurrandogli nell’orecchio, mentre nello studio
era calato un
silenzio innaturale. Quando finì, gli sorrise, sollevando
soltanto un angolo
della bocca, incapace di essere davvero contenta dopo aver ricordato
quello che
cercava sempre di spingere sul fondo della sua mente, lontano dalla sua
coscienza, e lui non riuscì a dire una parola, guardandola
di nuovo come se gli
avesse detto chissà quale verità, guardandola con
la stessa sensazione di
essere capito senza dover spiegarsi della prima volta che aveva aperto
bocca
per dire quello che le passava per la testa, la mattina dopo che
avevano fatto
sesso per la prima volta. Riuscì solo a baciarla,
prendendosi il suo tempo e
cercando la loro profondità, ignorando completamente tutte
le altre persone
nella stanza.
Non
gli era mai piaciuto baciare qualcuno in pubblico, perché
pensava che dovesse
rimanere una cosa privata, quindi, quando si staccò
delicatamente, lasciandole
un bacio sulla fronte e girandosi verso i mixer, non si sorprese di
vedere
l’espressione sconvolta di Youngbae – che aveva
insistito per assistere alla
registrazione. Lo guardò come se non lo riconoscesse
più per, poi, spostare il
suo sguardo su di lei, osservandola come non si era preoccupato di fare
prima,
come se improvvisamente la vedesse davvero, mentre lei continuava a
stare in
silenzio, con quell’aria nostalgica che non
l’avrebbe abbandonata per almeno
tutto il giorno e le dita intrecciate a quelle di Jiyong.
Non
era riuscita a finire di spiegargli la Divina Commedia in quei tre
mesi, così
quando l’aveva accompagnata in aeroporto, tutto
incappucciato, con l’ombra dei
baffi e del pizzetto che si era lasciato crescere in
quell’ultimo periodo e che
lei trovava estremamente provocante, l’aveva abbracciata,
sussurrandole, poi,
nell’orecchio che pretendeva che finisse di spiegargliela.
Jiyong
le aveva fatto una sorpresa per il suo compleanno, venendo a trovarla a
Roma,
nonostante fosse parecchio impegnato con l’album, e
fermandosi per due
settimane.
In
quell’arco di tempo, finì di leggergli la Divina
Commedia e riuscirono a
litigare parecchio, sbottando per ogni minima cosa e finendo sempre per
fare
pace sul letto, in un circolo che la lasciò stremata e piena
di domande su cosa
fosse giusto per loro e per lei. Per i suoi vari impegni e non
riuscendo spesso
a far coincidere le loro giornate, avevano finito per passare giorni
interi sentendosi
solo tramite messaggi, interagendo in un modo che, a causa del loro
reciproco
nervosismo e della loro incapacità di comunicare che spesso
si concludeva in un
enorme fraintendimento che lasciava entrambi arrabbiati e poco
volenterosi di
fare un passo indietro ed ammettere di aver sbagliato, dopo otto mesi,
l’aveva
fatta riflettere sempre di più su cosa significasse
continuare in quel modo e
se fosse giusto farlo, soprattutto.
***
Non
appena aprì il video che aveva trovato con i sottotitoli
già inseriti, non poté
non far cadere lo sguardo sul titolo della canzone conclusiva.
«Quando
l’hai scritta?» mormorò, col fiato in
gola, togliendosi una cuffietta
dall’orecchio e girandosi a guardarlo negli occhi.
«Poco
dopo che ci siamo lasciati.»
«Non
siamo mai stati insieme ufficialmente…» lo
contraddisse, aggrappandosi a quella
formalità.
«…ma
lo eravamo lo stesso.» Le portò una mano sulla
guancia, accarezzandola con il
dorso e spostandole i capelli sulla schiena.
«Ti
sei fatto lasciare e non ti sei fatto più
sentire.» constatò, spostandosi
bruscamente dal suo tocco.
Jiyong
sospirò, riportando la mano, ancora sollevata, sul suo
ginocchio.
«Ero
arrabbiato quando mi hai detto che volevi una pausa… Non sto
cercando di
giustificarmi, non ci sarebbe comunque niente da giustificare, sto solo
cercando
di spiegarmi.» chiarì, alzando le spalle ed
inspirando profondamente. «Quando
mi hai chiamato, quel giorno, credo di non aver più capito
niente e credo di
essermi sentito tradito. Ho sempre pensato che le pause fossero
soltanto
l’anticipazione di una rottura e che, chiederle, equivalesse
a dire che
qualcosa era già rotto. Quindi, perché non
lasciarsi e basta direttamente? Le
cose, una volta rotte, sono difficili da riparare e, anche se riparate,
non saranno
mai come quando erano tutte intere, perché semplicemente non
lo sono più per
davvero...»
Beatrice
lo osservò, sentendo una distanza più mentale che
fisica.
«Ho
detto cose che non pensavo, su di te e su di noi, ma ero
così arrabbiato e so
che non è una giustificazione ma le ho dette col solo
intento di farti male.
Non appena le ho pronunciate, me ne sono subito pentito. Il punto
è che, con
me, è sempre così, capisci? E le persone non
possono sempre comprendere le mie
intenzioni, non possono sempre giustificarmi, io
non posso sempre giustificarmi, pentendomi di qualcosa
soltanto
dopo che l’ho già detta.» Si
passò le mani sulla faccia, scompigliandosi i
capelli e guardandola come se avesse accettato di averla persa
dall’inizio di
quella conversazione.
Inspirò
di nuovo, poggiando la fronte sul palmo della mano e guardando dritto
davanti a
sé. «Non ti ho più chiamato
perché mi sentivo una merda…»
«Che
hai fatto?» Beatrice lo chiese con un tono di voce incerto,
avendo già un’idea
di quello che avrebbe scoperto e non sapendo come avrebbe potuto
reagire ad
un’informazione del genere.
«Quando
mi hai chiuso il telefono in faccia, mi sono sentito così
arrabbiato, con te e
con me stesso, che non sono più stato in grado di riflettere
lucidamente. Per
l’ennesima volta, una mia relazione finiva ed io non potevo
farci niente, alla
lista già troppo lunga di ex, si aggiungeva anche il tuo
nome e…» Si strofinò
le mani sul volto, mordendosi il labbro inferiore alla ricerca di
parole. «Ed
era un altro fallimento, capisci? Per l’ennesima volta, avevo
fallito… Avevo di
nuovo sprecato tempo e investito sentimenti in qualcosa che era
comunque
finito, come era finito sempre tutto
quello che ti aveva preceduta. Mi sento maledetto, a volte…
Poi, ragiono e
capisco che sono io il problema, che un motivo deve esserci se non
riesco a
concludere niente; se, prima o poi, mi lasciate tutte, devo
essere per forza io quello sbagliato…»
«Jiyong…»
sospirò lei, facendo per alzarsi e accovacciarsi vicino a
lui, bloccata
nell’azione dalla sua mano.
«Sono
andato a letto con un’altra.»
Beatrice
sentì un contraccolpo e si accorse di essere ricaduta a
sedere sul divanetto,
sbattendo la schiena contro il bracciolo. Si era aspettata una
rivelazione del
genere quando lui aveva iniziato a parlare, ma c’era una
grande differenza fra
aspettarsi qualcosa e sentirla realmente. Si morse l’interno
della guancia,
cercando di evitare che gli occhi le diventassero lucidi e fallendo
miseramente.
«Che
ti aspetti che ti dica?» mormorò, portandosi le
braccia intorno al petto nel
tentativo di farsi sostegno da sola, mentre tutto il dolore che aveva
provato
nei mesi precedenti le ricadeva addosso, seppellendola totalmente.
«La
sera stessa…» continuò, intenzionato a
dirle tutto. «Sono uscito con alcuni
amici perché volevo davvero ubriacarmi fino a dimenticare
persino il mio nome e
c’era questa ragazza, che avevo visto un paio di volte, che
era carina e
disponibile e ci stava palesemente provando con me… Un
bicchiere alla volta ho
iniziato a parlarci, a ridere e scherzarci finendo col ballare. Quando
è
arrivato Seungri e mi ha visto con lei, si è incazzato
tantissimo ed ho finito
per litigare anche con lui...» Si interruppe, poggiando la
schiena di nuovo
contro il tessuto del divano e continuando a non guardarla.
«Se
devo essere sincero, litigare con Seungri mi ha dato il colpo di
grazia. Dopo
quello, ricordo poco e niente: ho vari flash di facce che non riesco a
collocare, di bicchieri che mi venivano messi in mano, delle luci e
della
musica alta, ma non riesco davvero a focalizzare un punto preciso;
appena credo
di poterlo fare, è come se mi scappasse. Mi sono risvegliato
nel letto della
ragazza che ti dicevo, sono abbastanza sicuro di averci fatto qualcosa
e,
insieme al mal di testa e alla nausea, ho subito sentito anche una
sensazione
di schifo. Non che mi giustifichi…»
La
guardò finalmente negli occhi, con quello sguardo
dispiaciuto e
quell’espressione mesta disegnata sul volto, e Beatrice non
riuscì a
controllare la rabbia che le salì in gola.
«Sei
più contento, adesso?» lo chiese alzandosi in
piedi ed allontanandosi.
«Come…?»
Lo
sguardo confuso che le rivolse non fece altro che farla arrabbiare di
più.
Poche
volte, mentre litigavano, Jiyong l’aveva vista davvero
infuriata: Beatrice
aveva sempre cercato di fare del suo meglio per evitare che la
situazione, già
difficile di per sé, diventasse ancora più
complicata, era, di suo, una persona
abbastanza razionale, che non credeva di dover avere sempre ragione e
che, dopo
aver detto quelle cose strettamente dettate dalla rabbia, ritornava
spesso sui propri
passi per scusarsi e trovare un punto di incontro, una cosa che andasse
bene ad
entrambi. Mentre cresceva, aveva imparato a ridimensionare il suo ego e
a
controllare il suo orgoglio, in modo che non dovesse più
ritrovarsi
completamente da sola, poiché incapace di gestire rapporti
di qualunque natura
senza considerarli sfide a chi riusciva a far soffrire di
più l’altro senza
soffrirne a sua volta.
Sapere
quelle cose da Jiyong l’aveva improvvisamente riportata
indietro nel tempo e
poco le interessava di essere diplomatica e razionale in quel momento.
«Sei
più contento adesso che ti ho ascoltato e che ti sei tolto
questo peso dalla
coscienza?» Quando era arrabbiata non riusciva a stare ferma
e quella volta non
fece eccezione: pronunciò quelle parole gesticolando
esageratamente con le mani
e tamburellando con il piede a terra. «No, perché
tanto la nostra relazione è
sempre stata questa, giusto? Io che ti ascoltavo e cercavo di capirti e
tu che
parlavi, pretendendo di essere capito…»
Sapeva di non star dicendo la completa verità, ma sapeva
anche che Jiyong le
aveva sempre detto che, spesso, si sentiva di opprimerla con i suoi
problemi e
lei, in quel momento, era stanca, stanca di doverlo capire, stanca di
cercare
una giustificazione alle sue azioni, stanca di pensare prima di parlare
per
evitare scontri, quando lui, evidentemente, tutti questi problemi non
se li era
mai fatti.
«Ma,
poi, esattamente, che senso ha dirmelo adesso, eh? E che senso ha avuto
mandarmi quel messaggio chiedendomi di venire? Ti diverti o pensi che
diverta
me questa situazione? Ma, in fondo, che ti frega, no? Tu sei il grande
G-Dragon, puoi pure calpestarli i miei sentimenti, no? Tanto chi sono
io?
Nessuno.» sbottò, appoggiandosi con le spalle al
muro e tirando un respiro
profondo. Dal nervosismo, avevano iniziato a tremarle le mani.
«Ma
la sai la cosa che mi diverte di più?» Lo disse
con un tono che, di divertito,
non aveva niente, mentre gli occhi le tornavano lucidi. «Che
sei stato tu a
chiedermi fiducia e io te l’ho data, quindi, alla resa dei
conti, l’unica
stupida sono stata io…»
«Beatrice…»
tentò di intervenire, senza alcun successo.
«No,
adesso, stai zitto! Mentre io stavo male per te, perché era
finito tutto, anche
se, ironicamente, non è mai iniziato un bel niente visto che
non siamo mai
stati ufficialmente insieme,
no?»
«Già
ti ho detto che questa è una cazzata!» si
intromise di nuovo, alzandosi in
piedi, alterato anche lui.
Jiyong
non era mai stato bravo a gestire la rabbia e, nonostante si stesse
impegnando
per capire quanto lei fosse delusa per dire delle cose del genere, che
non
erano vere – come non erano state vere le cose che lui le
aveva detto quando
gli aveva chiesto una pausa per capire –, queste lo avevano
ferito lo stesso –
come le sue parole avevano ferito lei.
«E
io già ti ho detto che devi stare zitto!»
Alzò il tono della voce, sbattendo
una mano contro il muro. «Mentre io
stavo male per te, chi lo sa quante te ne sei scopate, tu…»
«Quella
è stata l’unica volta!» si difese,
alzando il tono della voce in risposta al
suo.
Tra
loro, era stato sempre così quando finivano col litigare, in
fondo: una gara a
chi riusciva a perdere la voce prima.
«E
mi vuoi far credere di aver passato nove mesi in convento?»
Rise, per niente
divertita, guardandolo negli occhi. «Ma sai che
c’è? C’è che non mi
interessa…
Non sei stato in grado neanche di far finta di essere dispiaciuto per
una
giornata, prima di finire a letto con qualcun’altra, a questo
punto mi chiedo
se devo preoccuparmi anche per tutti i mesi che non ci siamo visti e in
cui
siamo stati insieme.»
Fece le virgolette
con le dita, pronunciando l’ultima parola con un tono
fortemente sarcastico.
«Adesso,
stai esagerando. Se credi davvero che ti abbia tradito tutto questo
tempo,
questa conversazione non ha senso…»
«Infatti,
non ha avuto senso dall’inizio, come non ha avuto senso
scrivermi quel
messaggio, come non ha avuto senso venire qui sperando
chissà cosa…» Gli si
avvicinò, mentre parlava, assumendo l’espressione
strafottente che lui aveva
sempre detestato. «Il punto è che non ti
farò uscire pulito da questa discussione,
come ne sei sempre uscito. Non sono io ad essere nel torto se penso che
potresti avermi tradito anche prima, sei tu ad essere nel torto
perché lo hai
fatto davvero.» Finì di parlargli praticamente ad
un soffio dal viso,
puntandogli il dito contro il petto e aspettando che lui le rispondesse
a tono.
Jiyong
sospirò, sentendola così vicina –
infuriata ma pur sempre vicina – e ripensando
a tutte le volte che avevano litigato di persona e a come fosse finita,
ogni
singola volta.
«Mi
ha sempre infastidito questo lato del tuo
carattere…»
«Beh,
non ti preoccupare, non dovrai vederlo mai più.»
Gli passò di fianco,
afferrando la borsa che ancora se ne stava abbandonata sulla sedia e
accovacciandosi per prendere le scarpe e andarsene scalza, troppo
instabile per
riuscire a camminare su quei tacchi.
«Non
è solo la canzone, che ho scritto pensando a quello che mi
avevi detto…»
ammise, tornando ad abbassare la voce e sperando che quello fosse
abbastanza
per evitare che andasse via. «Ho progettato tutto il tour
pensando a te che mi
leggevi la Divina Commedia. È diviso in tre parti,
così come ho sistemato
l’album in maniera che ci fosse un’intro, tre
canzoni ed un outro. Ho pensato a
quella volta che mi hai spiegato quanto fosse importante la numerologia
per Dante
e come avesse costruito la sua opera in maniera da essere divisa in tre
cantiche perché tre era il numero che rappresentava
l’unità e la trinità di Dio,
che è uno dei misteri più importanti per il
Cristianesimo. Do un significato
estremamente intimo a questo album – questo già lo
sai – e questo tour doveva
essere la mia rinascita… Come il viaggio di Dante attraverso
i tre regni
ultraterreni doveva essere la sua rinascita come uomo consapevole di
quale
fosse la verità, così questo tour doveva essere
la mia riscoperta come Jiyong e
non più come G-Dragon. Ho attraversato anch’io il
mio Inferno – scrivendo
quest’album e vivendo tutti questi anni dovendo essere
qualcuno che non sono
realmente –, questo tour doveva essere il mio Purgatorio
– mi sarei purificato,
cantando, e liberato dal peso di dover essere sempre
all’altezza di G-Dragon –
e la fine di questo tour sarebbe stata il mio Paradiso –
perché, finalmente,
tutti avrebbero saputo chi sono io realmente, dietro di lui.
Eppure, il paradiso non mi è mai sembrato così
lontano e
irraggiungibile come in questo momento e non so se questo tour, se
tutta
l’incertezza che ho provato per scrivere questo album, se
tutta l’ansia che
provo giornalmente se penso che adesso ho trent’anni2
e che non ho
realmente concluso ancora niente nella mia vita, se penso che, in tutti
questi
anni, non ho fatto altro che accumulare successi dal punto di vista
discografico e fallimenti dal punto di vista
sentimentale…» inspirò, chiudendo
gli occhi. «Ecco, non so se tutto questo mi abbia davvero
aiutato o mi abbia
semplicemente sfiancato… Sono stanco, Beatrice, stanco di
ferire le persone e
vedermele scivolare fra le dita, stanco di eliminare conoscenti che mi
cercano
soltanto quando hanno bisogno di qualcosa, stanco di dovermi comportare
tenendo
sempre bene a mente che qualsiasi mio passo falso porterà ad
uno scandalo,
stanco di sentirmi giudicare e stanco di persone che pensano che, con
tutti i
miei soldi, non dovrei avere problemi del genere. Con tutti i miei
soldi,»
sottolineò, sarcastico, «compro quadri che servono
a colmare quel vuoto che
provo quando mi ritrovo a casa da solo e mi accorgo di non avere
nessuno,
perché, invece di vivere la mia vita, l’ho presa e
barattata fin da subito per
un po’ di successo che non durerà per sempre.3
Sono stanco di essere
solo…»
«Non
è avendo qualcuno accanto che i tuoi problemi si
risolveranno, Ji…»
Beatrice
ritornò sui suoi passi, contro il suo buon senso e il suo
senso di
preservazione, e si sedette sul divano, aspettando che lui decidesse
cosa fare.
Quando Jiyong la raggiunse, le si sedette a fianco, poggiando le mani
in
grembo, mentre entrambi guardavano lo specchio che avevano di fronte.
«Mi
dispiace per averti fatto soffrire, non era mia intenzione. Sei davvero
l’ultima persona che avrei mai voluto
ferire…» mormorò, passandosi
nervosamente
le mani sulle cosce. Lei si voltò ad osservarlo mentre lui
continuava a
guardare di fronte a sé, studiando quel profilo che aveva e
che l’aveva sempre
fatta impazzire. Le passarono davanti tutte le volte in cui Jiyong
l’aveva
guardata di lato, con la coda dell’occhio, facendole quel
mezzo sorriso che le
faceva sempre quando voleva essere provocante e mordendosi il labbro
inferiore,
e tutte le volte che lei aveva riso di quell’espressione,
imbarazzandolo e
portandolo a coprirsi la faccia con il dorso della mano destra.
Sorrise, con
un’accettazione nuova, arrendendosi all’idea che
non si erano neanche mai detti
quello che provavano realmente, limitandosi sempre a dire di essersi
affezionati l’uno all’altra, di essere importanti
l’uno per l’altra e niente di
più. Beatrice non aveva nemmeno mai trovato il coraggio di
chiedersi se
l’avesse mai amato, anche se c’erano stati momenti
precisi in cui non era
riuscita a quantificare il calore che sentiva a livello del petto
quando lui la
guardava dritto negli occhi, come se volesse entrarle in testa, e, poi,
le
sorrideva, con un semplice ti voglio bene.
«Ji,
io non lo so se riesco a perdonarti…»
sussurrò contro il suo orecchio,
poggiandogli il mento sulla spalla sinistra e chiudendo gli occhi.
«Non
ti sto chiedendo di farlo…»
«Che
mi stai chiedendo, allora?»
Glielo
domandò riaprendo gli occhi e guardando anche lei di fronte
a sé, nello
specchio, per incontrare il suo sguardo, mentre gli spostava i capelli
tinti di
rosso dalla guancia sinistra a dietro l’orecchio.
«Ti
sto chiedendo di restare con me per un altro po’,
perché non me la sento di
stare da solo, non adesso e non quando tu sei così
vicina…»
Jiyong
si voltò, spezzando il contatto visivo che avevano
instaurato tramite lo
specchio solo per poterla guardare direttamente negli occhi.
Poggiò la fronte
contro la sua e sospirò, mentre lei scendeva con le dita ad
accarezzargli i
capelli sulla nuca, sentendogli duri al tatto come tutte le volte che
se li era
tinti da quando lo conosceva – spesso si era sorpresa che
avesse ancora dei
capelli da tingere in testa.
Beatrice
non riusciva a capire cosa la rendesse così incapace di
recidere di netto quel
rapporto: l’aveva fatta stare benissimo e l’aveva
fatta stare malissimo, ma era
evidente che, loro due, così com’erano, non
avrebbero mai funzionato realmente
insieme e si sentiva anche un po’ sciocca o, forse, solo un
po’ masochista a
tentare di far combaciare con tutte le sue forze qualcosa che,
evidentemente,
non era nata con i bordi complementari.
«Mi
dispiace di aver detto cose che non pensavo prima e che, comunque, non
erano vere…
Non sei mai stato un peso, per me.» si scusò,
arricciando il naso, e Jiyong le
spostò i capelli dietro l’orecchio sinistro,
poggiandole le labbra chiuse sulla
fronte e lasciandole la mano destra sul collo.
«Resti
giusto un altro po’, sì?»
«Sì,
resto giusto un altro po’…»
ripeté, affondando i denti nel suo labbro
inferiore, nel tentativo di convincersi di star facendo la cosa giusta.
Gli
poggiò la fronte contro la guancia, espirando, e Jiyong
portò il braccio
sinistro intorno alle sue spalle, poggiandole il palmo contro la nuca.
Rimasero
così per un po’, in totale silenzio.
NdA:
1.
Ci
sono diversi tipi di taxi in Corea del Sud: generalmente, quelli neri
sono per
gli stranieri ed il colore diverso sta a significare che
l’autista è in grado
di parlare e capire l’inglese.
2.
Mi
riferisco all’età coreana.
3.
Reinterpretazione
personale del passaggio “while
others
grew, I listed stocks. That’s why I’m a little short”
(traduzione inglese),
da Divina
Commedia.
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