Granelli di nervi secchi

di Cress Morlet
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Sherlolly

Prima dell’inizio della storia.

Ringrazio prima di tutto il gruppo Parole tra le dita per il prompt Luce e ringrazio tutto lo Staff del neonato gruppo Boys Love- Fanfic e Fanart's World per il prompt Abbraccio. Senza di loro io non avrei mai iniziato a scrivere questa storia, importante per me perchè mi ha aiutato a superare il finale di Sherlock. Una serie stupenda di cui mi sono innamorata davvero solo grazie ad un rewatch appena conclusosi e che mi ha sconvolto tantissime certezze e che mi ha regalato disumane bellezze. Che la Johnlock mi perdoni, perchè la Sherlolly è diventata la mia vita. Spero questo racconto possa piacervi, lo spero davvero moltissimo, con il cuore. Ringrazio infinitamente Mari Lace per aver letto la storia in anteprima e avermi aiutato ad aggiustarla, questa storia è qui grazie a lei. Tesoro, aspettiamo insieme la quinta stagione e viviamo intanto di Sherlolly, quanto più possibile. Come sempre dedico la storia, ormai siete abbonate ragazze mie e vi starò annoiando da morire, a Jill e Victoria, perchè le mie storie sono pezzi della mia vita e loro ne fanno completamente parte, e infine a Miryel, ciccia io continuo a scrivere grazie a te. Buona Lettura!

                                                                                                     GRANELLI DI NERVI SECCHI

Sei stata la mia luce, Molly Hooper.
Forse vorresti sentirti dire questo, forse desideri una mia frase dolce o delle paroline romantiche, aneli uno splendente lieto fine, preghi di poterlo ottenere da me.
Da me, Molly?
Io, di lieto, non ho avuto neppure l’inizio.
Vivevo in un terribile pozzo, segregato da mattoni umidicci e cascate di acqua, vivevo lì, insieme al mio più vecchio amico di infanzia, insieme a Victor Trevor.
Lo sai, vero? Sai che ho sempre sognato l’acqua in ogni mio incubo più cupo e poi, ma certo che lo sai, sai bene che ho sempre conservato un desiderio morboso di capirla, questa sostanza appiccicaticcia, e di riuscire a vedere negli abissi più profondi della mia anima, nonostante il bruciore agli occhi e la pressione contro i polmoni.
Perché sono sempre stato bravo a cadere. Te lo ricordi, no? Sì che lo ricordi.
Ho lasciato il cuore su quel tetto e tu me lo hai riportato, sbattendomelo in faccia.
Ma eri qui, nella mia testa, sei sempre stata qui. 

Non ho mai smesso di provare, a occhi chiusi e mente aperta, a domandarti scusa. Affannato ho cercato, ho vivisezionato, il metodo più efficace, più giusto, quello meno difficile per me.
Che spreco, ora che ci penso, che spreco di tempo. Tu eri già andata via e per sbaglio avevi rotto qualcosa, avevi serrato ogni porta.
Perché non mi hai mai detto che faceva tanto male? Oppure ci hai provato?
Quando mi guardavi ferma, congelata al tuo posto, e ti spegnevi come una lampadina difettosa della metropolitana, in quei momenti tentavi di riferirmi quanto eri triste?
Non lo so, su certe cose non sono mai stato attento.
“Molly.”
Odio cadere dal divano, è una bruttissima sensazione. Tu potresti aiutarmi, tu dovresti essere qui per aiutarmi. Invece aspetti che sia io, sempre io, a supplicarti, con voce chiara e convinta, proprio come piace a te, e che sia sempre io a pregarti di smettere di farmi cadere.
Basta cadere. Non ne abbiamo già avute abbastanza di cadute? Io cado, sono bravo, sono sempre stato bravo a cadere, nella mia cosciente e marmorea decisione di voler essere eccelso in tutto, e quindi ho continuato e continuato e continuato a ritrovarmi steso a terra ogni giorno della mia vita, fino a quando mi sono reso conto che cadere è noioso.
E la solitudine lo è ancora di più.
“Molly!”
Finalmente ti decidi ad aprire la porta e hai pure l’ardire, - da dove viene tutto questo coraggio e questo spirito di fuoco? -, di guardarmi male e di entrare scocciata in questa stanza distrutta, tra i fogli sparpagliati a terra e le foto strappate, gli oggetti appuntiti dimenticati in giro e le lenzuola arrotolate ovunque.
Ma dov’è il violino?
“Dove è John?”
E non guardarmi male, non essere gelosa, smettila con questi bronci che non fanno effetto a nessuno.
John è importante, non penso tu possa rimproverarmi per questo.
Oppure sì? Sei pronta a combattere contro di me anche quando le mie intenzioni sono buone?
Sei, per caso, una paladina della giustizia?
Molly Hooper, donna triste e sola, capace di amare un cadavere più di se stessa.
Io non ti comprendo, piccolo topolino di campagna.
“Dov’è John?”
“Tornerà presto. Doveva comprare alcune cose al supermercato, così mi ha detto.”
Ti vesti sempre tanto male, calpesti costantemente il concetto di moda, anche adesso, con quei pantaloni lunghi di un marrone stinto, la camicetta a righe e il maglione lanuginoso: un orrore per gli occhi.
Mostri un tale disinteresse nel curarti, nel tentare invano di renderti presentabile e gradevole alla vista, e lo fai non perché sei un’anima libera dai pregiudizi e dalle etichette imposte dalla società, non perché hai un’elevata concezione di te stessa e del tuo fisico sgraziato e non per un’ostentata manifestazione di emancipazione femminile al contrario, no.
È solo perché, non osservarmi scocciata, tu sei sempre stata vecchia, dentro di te, e la giovinezza non ti è mai appartenuta, di questo possiamo esserne certi entrambi. Hai sempre preferito la praticità ad un cappellino vezzoso. Non è ovvio?
“Adesso? Che cosa mai deve comprare?”
Come mi guardi male, come assottigli gli occhi su quel tuo visino smunto.
“Cibo, per esempio. Oppure dell’acqua. I cosiddetti beni necessari per la sopravvivenza. Perché, forse ti sembrerà strano, qui ci sono persone che vogliono vivere. C’è gente, in questa casa fatiscente, che non vuole sprecare la propria vita in questo modo osceno, così come fai tu.”
“Cosa farnetichi?”
Eccolo, eccolo lo sguardo rancoroso, eccolo. La rabbia che ti ribolle dentro come un vulcano, le mani che tremano e pizzicano, i polpastrelli che prudono. Lo sento anche io, striscia verso la mia pelle e riesco a sentirlo, io riesco a percepire l’immenso sforzo che i tuoi arti stanno compiendo pur di trattenersi dal seguire l’istinto.
Vorresti farmi male, anche tu, come John, vorresti farmi davvero male.
Ti ho cambiata io? Io ti ho fatto questo?
“Sai benissimo cosa sto dicendo.”
“Serviva solo per un caso. Sono pulito.”
Non mi piace essere sdraiato sul pavimento, no, mi ricorda alcune spiacevoli situazioni già vissute, già superate. 
Le gambe sono molli, il torace è contratto su se stesso, le braccia bruciano: è un effetto collaterale, è una conseguenza naturale del corpo che registra il bisogno di qualcosa che ora non può più avere, non più, e così il mio sistema nervoso non accetta le decisioni della mia mente, si ribella.
Audace è diventato, non trovi?
Proprio come te. Tutti coraggiosi adesso, tutti superbi e pronti a dirmi cosa è meglio, cosa è più intelligente.
Vogliono dirlo a me. Pezzi di pelle, pezzi di nervi, cellule impazzite che si mangiano a vicenda e poi tu: tutti volete dirmi come comportarmi.
“Pulito?”
Non c’è bisogno di avvicinarsi tanto, ormai sono già seduto sul divano, grazie per la tua 
pronta assistenza.
Rischi un infarto, Molly Hooper, se continui a non respirare e a incedere tanto lentamente sul legno scricchiolante di questa stanza e se continui a tremare da capo a piedi con il volto cereo.
Rischi di morire davanti ai miei occhi.
E nessun ti amo questa volta ti risveglierà.
“Pulito?”
E rischi di perforarmi un orecchio se continui a urlare in questa maniera indecente.
Non mi sono drogato, non è come credi tu. Non stai osservando bene e così non vedi nulla. Ma potrei provare a giustificarti, con quegli occhi piccoli che ti ritrovi sulla faccia, quelle palline scure, come potresti mai vedere bene?
Qualcuno direbbe, qualcuno che non sono io, che la bella luce dei tuoi occhi è polvere sulle corde di uno Stradivari.
Luce tremula sul fondo di ogni mio più madornale errore.
Qualcuno, qualcuno che non sarò mai io, ti potrebbe dire che sembri persino carina sotto questa luce pomeridiana, questa luce di ottobre, che filtra dalla finestre socchiuse, coperte da tende dozzinali.
Il Sole è buio oggi, ma tu non l’hai notato.
Vedo sempre tutto io.


Alzo la testa, che dolore al collo, e tu sei qui dinanzi a me e non ti controlli più.
Mi schiaffeggi.
Io sono pulito e tu mi schiaffeggi.
La fragile Molly Hooper che osa schiaffeggiarmi. Quale topolino superbo sei diventata, mi arrossi le guance e pretendi di avere ragione solo perché credi io abbia ricominciato a drogarmi.
Con gli occhietti lucidi e le labbra tanto tirate da spaccarti la faccia, mi guardi e sei pronta a picchiarmi ancora.
Perché sto morendo, dici, perché butto la mia vita, balbetti, e tu non puoi sopportarlo.
Perché tu non vuoi che io muoia.
“Sei bassa, Molly. Sei troppo bassa.”
Almeno una volta, almeno una volta prima di cadere, solo una volta, avrei voluto potermi perdere in un tuo abbraccio, lo avrei voluto davvero.
Ma come sarebbe stato possibile?
Tu sei bassa, scheletrica, rigida.
È impossibile abbracciarti, per me, perché devo completamente piegare la schiena e cercare di afferrare quella poca carne contenuta dai tuoi vestiti sfatti, vecchi, ridicoli.
Molly Hooper, tu sei sempre stata una donna impossibile per me.
Ma non potevi nascere più alta? E poi più alta ancora?
Tu sai come sono io. Non noto realmente certe cose, non mi concentro sulle persone intorno a me, e sono uno stronzo, un emerito sbruffone che ha bisogno di sballarsi con casi impossibili e cadaveri sporchi.
È colpa tua, in fondo, tutta questa situazione è colpa tua.
Se tu fossi nata più alta, se tu avessi avuto più carne e meno ossa, se tu avessi urlato invece di bisbigliare, allora io non ti avrei mai confuso con uno dei tanti scheletri che arreda la mia esistenza.
È colpa tua.
Io mi sarei accorto prima, io lo avrei dedotto anni fa, di essermi innamorato di te.
Ma tu, no, tu no, non potevi aiutarmi.
Tu dovevi nascere così, piccola e accartocciata su te stessa, con solo un tocco di rossetto sulle labbra sottili.
Per dispetto, sei nata così per farmi un dispetto.
“E sei anche brutta.”
Hai la pelle rugosa, lo sai?
Si vede già da qui, non ho bisogno di toccarla, so già la sensazione che proverebbero i miei polpastrelli.
E non sai parlare, non sai conversare, e ti sei ostinata, ma che cosa tremendamente ridicola, ad amarmi in silenzio per così tanto tempo, per così tanti anni, da farmi credere che tu non abbia mai avuto autopsie da completare e sacchi della spazzatura da buttare.
È modo di comportarsi?
“Intendevo solo constatare, è un ragionamento uguale agli altri, che tu non sei particolarmente bella, oggettivamente. Non attiri minimamente l’attenzione, ti fai dimenticare facilmente. Sei come tappezzeria.”
Eppure tu contavi, eppure tu conti.
Ricomincerei a drogarmi, a drogarmi veramente e a scrivere le liste da consegnare a Mycroft, solo per farmi schiaffeggiare da te, ancora una volta.
Non essere troppo arrabbiata con me, però, perché tu mi conosci, io lo rifarei.
Ti direi ti amo e poi distruggerei la tua bara fino alla fine dei miei giorni.
Ah.
Non lo sai che ho distrutto la tua bara?
“Sarò anche brutta, banale, inesistente. Ma tu non sembri affatto pulito.”
Mi guardi negli occhi e non appena batti le ciglia scoppi ancora, ti sgonfi come un palloncino e trattieni con un pugno la mia vestaglia. Non è come immagina quella tua testolina squadrata, non è come in passato, non è come quella volta.
L’ho promesso.
“L’avevi promesso. Sei un bastardo.”
Smettila di piangere, basta.
Finiscila, adesso. Ma perché piangi?
Vuoi un bacio, è per questo che piangi?
Vuoi un bacio?
“Basta.”
Ecco, guarda, ti bacio, ti do un bacio, ma smettila di piangere, smettila subito.
“Basta piangere. Basta.”
Se continui a picchiarmi come credi io possa baciarti?
Nonostante il dolore alle gambe e le mani che non controllo, le tempie che pulsano, io sono qui, sono qui in piedi, dinanzi a te, e con il tuo viso tra i palmi. E cerco, non mi sento bene, di baciarti, io cerco, mi fa male la testa, di trovare le tue labbra tra questi capelli aggrovigliati e queste lacrime fastidiose, io ci sto provando.
Non potresti rimanere ferma? O, almeno, potresti provare a far finta di volermi aiutare?
“Sei un tale bastardo.”
Mi confondo e ti bacio la guancia, all’angolo delle labbra, ti bacio lì, - non ti è sempre piaciuto quel punto? -, e tu comunque non smetti di parlare, non smetti di inveire, di criticare.
Mi tormenti e lo fai perché, Eurus te lo saprebbe spiegare meglio, tu non sai gestire i contesti emotivi.
“Sono pulito. Tranquillizzati, stai avendo una crisi di panico.”
Sei troppo umana, Molly, non sei gestibile.
Sei troppo umana.
Cercare di afferrarti è impossibile perché sfuggi via, le tue ossa si dimenano e si ribellano alle mie mani, cascano.
Ti asciughi freneticamente le guance e ti soffi il naso contro la manica della camicetta, ed è così poco igienico.
Quanti piagnucolii per nulla.
Quando piangi sembra che squittisci come i topi, produci un rumore strano, forse a causa del tuo setto nasale deviato.
Non sei solo brutta, sei un completo disastro, sei una catena di difetti genetici e tratti tristi. Hai delle rughe d’espressione intorno alla bocca, talmente profonde che si potrebbe dedurre tu sia sempre stata un essere totalmente infelice.
Ed è qualcosa che io non sopporto più.
“Quando John avrà la decenza di tornare ti spiegherà ogni cosa nel dettaglio. È evidente che a me non crederai mai, non in queste condizioni.”
Non ricominciare con quello sguardo rancoroso, con quelle sopracciglia aggrottate e le rughe sulla fronte, no.
Tu fai dei passi all’indietro e io così non riesco più a toccarti né a cercare la pelle magra e tesa del tuo collo sottilissimo.
È stancante concentrarmi solo su di te.
C’è un universo, in ogni particella di polvere di questa stanza e delle strade di Londra, di questo mondo.
Ci sono universi dentro gli universi, mondi all’interno di ogni stella, e tu non reggi il confronto.
Sei solo una piccola particella nata dall’unione di miliardi di cellule che si sono cercate e aggrappate le une alle altre nel caos spaziale, sei un puntino nero su una mappa nera.
E io ho delle cose da osservare, segreti da dedurre, casi da risolvere, tempo che non posso sprecare e che devo impiegare al meglio, per fare qualcosa di grande, per raggiungere conoscenze che ti farebbero impallidire, che farebbero impallidire chiunque.
Tu, invece di capirlo, pretendi un’attenzione che non posso concederti, un’attenzione che mi strappi via, a forza, con il tuo corpo emaciato e le tue dichiarazioni appassionate.
Sei egoista, te lo ha mai detto nessuno?
Rimani qui, non mi scansare.
“Amarti è deleterio, è da masochisti. Mi fa così male che il più delle volte dimentico il motivo per cui mi sono innamorata di te, proprio di te. Non di chiunque altro, ma di te.”
Finalmente riesco a riprenderti, topolino spaventato che non sei altro, e ti stringo un po’ nel tentativo di farti calmare.
“Odio amarti. Lo odio da impazzire.”
Dimmi, perché? Avanti, dimmi, perché ancora non mi abbracci?
“Penso che quando ricorderò perché mi sono innamorata di te, smetterò di farlo. Perché niente può giustificare questo, tutto questo, niente. E allora, ascolta quanto sono pazza, preferisco non ricordare, preferisco rimanere così. Non voglio smettere di amarti, non voglio smettere mai.”
Quanti difetti chimici che hai, Molly Hooper.
Sei un intero contesto emotivo.
“Sei l’amore della mia vita, Sherlock. E anche se io non conto nulla, anche se io non sono niente per te, te lo chiedo comunque e ti supplico di ascoltarmi. Guarisci.”
Sei stancante, Molly.
Sei logorante.
Ma finalmente ti stringi a me, con tutto il volto premuto contro il mio petto e le braccia intrecciate dietro la mia schiena. Stringi così forte che ti sento ovunque, mi macchi il pigiama con il tuo trucco e cerchi di superare con le mani le mie scapole e di aggrapparti alle mie spalle, le dita che arrancano a tirarmi la maglietta.
Devo piegarmi io, come sapevo già, - sai quanto è pesante sapere sempre tutto? -, e devo abbassarmi totalmente e solo così riesci a lamentarti un po’ contro il mio collo.
È piacevole, un corpo contro un corpo.
Forse si prova questo, durante il sesso, uno strano incastro di pelle e paure che riposano in pace. O forse si prova dopo, io non ne sono sicuro.
Eppure lo sto provando adesso.
“Sono pulito.”
Borbotti qualcosa e poi ti arrampichi a baciarmi per sbaglio, no, non è neanche un bacio, è uno sfiorarsi di labbra voluto da te che sussulti e ti sgretoli come una foglia secca. Mi ricordi tutte le mie bugie e i miei scherzi e poi scivoli sulla mia bocca, un secondo, e poi giù sul mento.
Sentimenti.

Dei passi pesanti annunciano John, una risata strozzata è il marchio della piccola Watson che cerca di compiacere il padre per ottenere subito la sua porzione di gelato. Stanno salendo le scale e tra ventisei secondi saranno qui, in questa stanza.
“La famiglia Watson presto ti tranquillizzerà sulle mie condizioni. Potrai smettere di stressarti inutilmente, sperando crederai almeno a loro.”
Mi guardi triste e scuoti la testa, sussurrando sconsolata che se sei a Baker Street non è per caso, ma perché ti è stato chiesto.
Da John, dalla signora Hudson, da Lestrade.
Da Mycroft.
Sì, lo so, vorrei dirti, perché questo è il mio piano. L’unico modo per riuscire di nuovo a vederti, dato che avevi ricominciato a nasconderti tra le mura rassicuranti della tua casa, proprio come un bravo topolino.
Sei come John, vorrei dirti, tu corri sempre da me quando pensi io sia in pericolo.
Non è stato difficile immaginare di trovarti qui oggi: sei prevedibile, vorrei rilevarti, sei proprio banale.
Sto per farlo e quando ti guardo, talmente tanto vicina con il tuo odore di disinfettante, io mi sento strano.
Mi diresti un’altra volta ti amo?
Qui, adesso, con le labbra posate sulla mia mascella, potresti dirlo un’altra volta?
Non come quando me l’hai detto al telefono, non con quella voce così fragile da ultimo respiro prima di morire.
Dì di amarmi, ma dillo bene.
Topolino impaurito dalle luci della città, che ti incanti a guardarmi come se al mondo esistessi solo io, che ti consegni a me senza più difese e che pendi dalla mia bocca che copri con le dita.
Così piccola e così piena di emozioni.
Hai le pupille dilatate, il corpo caldo e il respiro talmente irregolare da rendere inutile la mia necessità di contarti i battiti delle vene del polso.
Mi ricordi una realtà contro cui tu mi hai fatto sbattere la faccia, con violenza, ben attenta che io provassi talmente tanto dolore da non dimenticarmene. Quella necessità dell’animo che io ho dovuto accettare e con cui ora, per colpa tua e solo tua, io sono costretto a convivere.
Dimmi ti amo, avanti.
“Quando mi guardi così... amarti mi fa un po’ meno male.”
Dimmelo.
“Potresti dire alcune parole per me, Molly?”
E io ti dirò che ho bisogno di te.
“Sei davvero un bastardo, Sherlock.”

Io sono un bastardo e tu sei un granello di polvere privo dello specchio su cui può posarsi.
Non sei stanca di essere trasportata dal vento? Non siamo entrambi stanchi di essere distrutti?





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