Resen-Lhaw 1
Salve
a tutti/e! Ecco il nuovo mappazzone per la gioia (si fa per dire) di
tutti voi!
Rivolgo
un ringraziamento speciale a Jadis_ perché l’idea originale
per questa storia nasce da un suo contest che purtroppo non è andato
a buon fine, ma mi ha comunque regalato grandi spunti.
Ringrazio
ovviamente in anticipo tutti coloro che passeranno di qui, e la
giudice che ha mi ha dato l'occasione di finire questa vicenda
tristemente
rimasta a metà.
L’ULTIMA
BATTAGLIA DI RESEN-LHAW
Capitolo
1
Il
principe Herich e il suo precettore, un imponente chierico del culto
di Dras, stavano camminando fianco a fianco lungo il colonnato che
circondava la terrazza del palazzo reale. Era pomeriggio inoltrato e
il sole faceva splendere il marmo bianco dell’edificio donandogli
una corposa tonalità di avorio. I vessilli rossi della casata, uno
su ogni torre, sventolavano pigri nella lieve brezza.
L’orizzonte
era occupato dall’imponente scenario dei monti Kelis.
La
passeggiata non era uno svago fine a se stesso, ma uno dei modi che
il precettore aveva escogitato per fare lezione al suo pupillo:
alcuni filosofi sostenevano che impartire insegnamenti al cospetto
delle bellezze della natura aiutasse l’apprendimento ed egli era un
acceso sostenitore della teoria. “Ebbene, principe,” lo
interrogò, “cosa sai dirmi della poesia di Esthin?”
Il
ragazzo distolse a fatica lo sguardo dalla piazza d’armi che si
vedeva dalla terrazza e in tono distratto rispose: “La poesia di
Esthin, sviluppatasi nel palazzo omonimo nel secondo secolo dell’Era
Terza, anche detta Nostra Era, tratta principalmente di amore cortese
e nasce per cantare le virtù della donna amata elevandola al rango
di creatura semidivina.” Detto questo, tornò a rivolgere lo
sguardo nella direzione di prima.
Il
chierico emise un sospiro: le parole esatte che gli aveva detto a
lezione, e che lui aveva senza dubbio imparato a memoria. “Hai
scritto il componimento che ti avevo chiesto?”
“Sì,
maestro Cresdan.”
“Sentiamolo
un po’.”
Il
ragazzo si schiarì la voce e cominciò: “Oh mia signora, che...”
ma subito si interruppe e letteralmente sobbalzò quando uno dei
guerrieri che si trovavano sulla piazza d’armi ne disarmò un
altro.
“Ebbene?”
“Mia
signora… il tuo vestito...” Di nuovo si interruppe.
Il
chierico emise un sospiro. “Principe, tu non mi stai prestando
attenzione.”
Il
ragazzo ritirò appena la testa fra le spalle, ma non smise di
scrutare ansiosamente lo spiazzo disseminato di coppie intente a
duellare. “È che oggi torna Dewrich,” rispose in tono di scusa.
“E
questo ti sembra un buon motivo per non seguire la lezione? Conoscere
la poesia è importante per un principe.”
“A
Dewrich non serve la poesia,” fu la risposta, “lui è un
guerriero.” Poi il ragazzo emise un sospiro e si appoggiò alla
balaustra, guardando in giù con nostalgia.
“Parlami
della battaglia di Brielar, allora,” gli disse Cresdan.
Il
ragazzo si girò verso di lui con gli occhi illuminati. “Il
massacro del golfo di Brielar è la battaglia più famosa della
Guerra Orientale, in cui l’esercito del Waerund fermò l’avanzata
dei predoni di As’del e li ricacciò oltre il fiume Phorean. In
quella battaglia si ricordano il celebre comandante Tjeran Sonse,
anche detto Resen-Lhaw, o Leone Rosso del Waerund, e il suo eroico
sacrificio, che ha permesso al re Elkiergar, alla battaglia
successiva, di trionfare sull’esercito invasore. I bardi cantano le
gesta del valoroso generale, che alla testa delle sue truppe fermò i
nemici abbastanza a lungo da consentire al grosso dell’esercito del
re di attestarsi su posizioni tatticamente più vantaggiose. Lui e i
suoi soldati morirono eroicamente, con le armi in pugno.”
Il
chierico annuì soddisfatto. “D’accordo, vedo che hai studiato.”
“Posso
andare?”
“Dove
vuoi andare, Herich?”
“A
incontrare Dewrich.” Poi, visto che il precettore non dava segno di
decidersi, insisté: “Torna oggi dal tempio di Jechen, ha ricevuto
l’armatura con le insegne del dio in oro. Posso?”
“D’accordo,
ma per domani voglio un componimento nello stile di Esthin. Di almeno
cinquanta versi.”
“Sì,
sì!” gli rispose di getto il ragazzo correndo via. Cresdan era
sicuro che non avesse nemmeno sentito quello che gli aveva chiesto.
“Scommetto
che domani mi porterà un esercizio di matematica,” disse fra sé e
sé crollando le ampie spalle. Si incamminò con le mani dietro la
schiena, pensando che Herich era davvero un ragazzo sfortunato:
riusciva perfettamente in qualsiasi prova di natura intellettuale,
aveva memoria, sagacia e intelligenza, ma aveva in spregio tutto ciò,
mentre anelava disperatamente alla gloria delle armi. Peccato che a
sedici anni fosse ancora snello come una fanciulla, e così delicato
che anche solo usare la spada per mezz’ora gli faceva venire le
vesciche alle mani.
“A
volte i disegni di Dras sono davvero imperscrutabili,” borbottò
fra sé e sé.
Herich
nel frattempo stava scendendo a precipizio i gradini della terrazza.
Si lasciò alle spalle il palazzo di marmo bianco e corse verso i
quartieri delle guardie, raggiungendo la piazza d’armi.
L’enorme
spiazzo era diviso in due parti da una linea tracciata per terra: da
un lato i soldati di Dyat facevano le esercitazioni e dall’altro i
maestri d’armi impartivano lezioni agli alti ranghi militari e ai
figli dei nobili. In quella zona c’erano diverse coppie di
duellanti che si allenavano sotto l’occhio vigile degli istruttori.
Il
ragazzo sogguardò per un po’ l’arena, ma prima che potesse
decidere se entrarvi o meno, risuonò nell’aria un alto nitrito.
Tutti smisero di combattere e si voltarono verso la provenienza del
suono: dalla Via d’Onore, ovvero il viale che metteva in
comunicazione la piazza d’armi con la porta orientale di Dyat,
stava arrivando al galoppo un cavaliere. Aveva un’elaborata
armatura, ma non portava l’elmo. Dietro la schiena, assicurata alla
maniera dei guerrieri di Jechen, aveva una spada dalla lama
leggermente ricurva.
“Dewrich!”
esclamò il giovane principe. Senza indugio corse in quella
direzione, ma subito si trovò nel mezzo di una folla che stava
facendo esattamente la stessa cosa: gli ufficiali e i nobili,
infatti, unitamente ai maestri d’armi, stavano praticamente
facendo a gara per essere i primi a porgere i loro omaggi a quello
che con ogni probabilità sarebbe diventato presto l’erede al
trono.
Il
cavaliere arrestò il destriero al centro dello spiazzo e scese di
sella con un balzo agile, poi si tirò indietro i capelli che gli
erano scivolati sugli occhi. Si guardò intorno con espressione
fiera.
Tutti
si inchinarono.
“Salute
a te, Taman!” disse il principe per prima cosa, rivolgendosi al
capo dei maestri d’armi. “Hai visto che finalmente ce l’ho
fatta a diventare un guerriero?”
“E
vedo che sei consacrato a Jechen il Possente,” rispose l’uomo
porgendogli la mano. “È un grande onore per me.”
Dewrich
la strinse con calore. “Ora ti penti di tutte le volte che mi hai
fatto mangiare la polvere dell’arena?”
L’altro
sorrise. “No, principe. Se i miei insegnamenti fossero stati più
morbidi, il dio della guerra non ti avrebbe mai scelto come suo
adepto.”
Dopo
Taman, altri si fecero avanti, ansiosi di salutare il giovane o di
complimentarsi con lui.
Herich
attese pazientemente. Solo quando tutti si furono allontanati si
avvicinò cauto. “Fratello?” lo chiamò.
Dewrich
si voltò nella sua direzione. “Herich! Vieni qui da me, fratello
mio!”
Il
ragazzo corse ad abbracciarlo. “Resterai molto?” gli chiese.
Socchiuse gli occhi, inebriato dall’odore di cuoio e ferro
dell’usbergo, che gli ricordava le battaglie di cui amava leggere.
“Almeno
fino al Rito.”
“Dopo
andrai via subito?”
L’altro
alzò le spalle. “Dipende.”
Herich
sorrise. “Allora resterai. Dras sceglierà sicuramente te.”
“Vedremo,”
si limitò a rispondere Dewrich. Si tirò indietro i capelli e spostò
anche dalla fronte del fratello le ciocche ribelli che perennemente
la coprivano, poi soggiunse: “Vieni, andiamo a portare Aglas in
scuderia.”
“Non
lo affidi agli stallieri?”
“Solo
io posso toccare il mio destriero da guerra. E mio fratello,
naturalmente.”
Herich
sorrise. “Posso montarlo?”
“È
un destriero da guerra,” rispose Dewrich.
“E
allora?”
“Ci
vuole molta forza, Herich.”
Il
più giovane si rabbuiò e si chiuse in un risentito silenzio.
Fu
l’altro che dopo un po’ gli chiese: “Come vanno i tuoi studi?”
Il
ragazzo fece spallucce. “Bene,” rispose senza entusiasmo,
“Cresdan dice che se volessi potrei diventare chierico prima dei
vent’anni.”
“Prima
dei vent’anni? Sul serio?”
“Non
mi interessa diventare chierico. Non voglio passere tutta la vita a
scrivere delle pergamene e a buttare incensi sui turiboli. Voglio
combattere.” Fece passare qualche secondo, poi soggiunse: “Come
te.”
A
quelle parole Dewrich rimase in silenzio e per un po’ gli unici
suoni che si udirono furono lo scalpiccio degli zoccoli del destriero
e il rumore dei loro passi. Infine, il principe disse: “Non
disprezzare i doni di Dras, egli sa a chi deve elargire l’una o
l’altra virtù.”
“Allora
Dras deve proprio odiarmi,” replicò cupo il ragazzo. Chinò la
testa e si tirò indietro i capelli che gli erano di nuovo scivolati
sulla fronte.
L’altro
gli circondò le spalle con un braccio e lo tirò verso di sé.
“Chierico prima dei vent’anni non è una cosa da poco.”
“Io
non voglio diventare chierico,” ripeté Herich. “Voglio
combattere. Tutti i giorni mi faccio dare lezioni da Taman, sai?”
“Da
Taman? Allora sì che sei un coraggioso!” rispose Dewrich ridendo.
“Ha
detto che con lo stocco me la cavo bene,” replicò Herich, indeciso
se sentirsi preso in giro o unirsi alla risata.
A
quelle parole, il più grande si fermò, costringendo l’altro a
fare altrettanto. Lo prese per le spalle e fissandolo negli occhi
disse: “Allora domani combatteremo, d’accordo? Voglio proprio
vedere se Taman ti ha detto la verità o se ti stava solo adulando
perché sei il figlio del re.”
“Con
te non lo ha mai fatto, perché dovrebbe farlo con me?”
“Domani
vedremo,” gli disse Dewrich per tutta risposta.
Una
volta sistemato il destriero, i due si diressero verso il palazzo
reale. In previsione del Rito, tutti i templi erano aperti e ornati
di fiori e drappi ricamati. Anche le grandi porte di bronzo del
tempio di Dras erano aperte, una cosa che si verificava solo per
quell’importante cerimonia, quindi una volta ogni generazione.
All’interno si potevano vedere i sacerdoti e i novizi che si
affaccendavano ad allestire l’altare.
“Tu
sai come si svolge il Rito?” chiese Herich. Sogguardò l’interno,
che illuminato dal sole gli parve decisamente più ampio e maestoso
del solito. Era vagamente intimidito da tutti quei preparativi.
“Dovresti
dirmelo tu.”
“Perché
io?”
“Non
sei tu che studi da chierico?”
“Insomma,
basta!” protestò il ragazzo, dandogli una spinta come faceva
quando era più piccolo, “Io non voglio diventare un chierico. Non
mi interessa.”
L’altro
finse di barcollare. “Beh, domani Dras potrebbe anche dirti che
diventerai re.”
“Ma
figurati, vuoi che Dras scelga un inutile topo di biblioteca come me?
È ovvio che sceglierà te.”
“Siamo
nelle sue mani,” fu la sobria risposta.
Dopo
quella frase nessuno dei due aggiunse altro ed erano ancora in
silenzio quando arrivarono al cospetto del padre.
Re
Evertas era nella sala del trono, anch’essa addobbata per
l’occasione con gli stemmi della casata e le panoplie di armi degli
antenati. Herich si guardò intorno, sentendosi vagamente in
soggezione di fronte a tutte quelle insegne di guerra. Ancora una
volta, era come se impietosamente Dras gli ricordasse che non era un
guerriero e non lo sarebbe mai stato, e che la gloria delle armi gli
era preclusa. Ripensò a Resen-Lhaw e alla sua eroica resistenza e si
sentì invadere dallo struggimento: quello sì che sarebbe stato un
bel modo di essere ricordati. Chi si ricordava invece del pur saggio
e sapiente chierico che aveva scritto le liturgie del tempio di Dras?
Chi, a parte qualche studioso, parlava di lui con deferenza e
rispetto? Quante persone aveva salvato con l’impresa che aveva
compiuto? Si voltò verso il fratello e come sempre Dewrich gli parve
l’immagine stessa di Jechen, così come l’aveva sempre visto
raffigurato nei templi: alto, forte, con il volto pallido
incorniciato dai capelli neri lunghi fino alle spalle. Aveva
un’espressione decisa, che ispirava sicurezza. Sarebbe stato un
magnifico re.
Sospirò.
Con suo fratello aveva in comune solo il colore dei capelli, e forse
l’altezza. Paragonati a quelli verdi di Dewrich, persino i suoi
occhi cerulei, che normalmente suscitavano commenti estasiati, gli
sembravano brutti.
Il
re li chiamò a sé. Herich non poté fare a meno di notare che
l’atmosfera non aveva la connotazione informale delle riunioni
precedenti, e che il padre aveva un cipiglio grave che non gli aveva
mai visto se non in occasioni decisamente serie.
“Come
sapete, figli, domani notte Dras stabilirà chi di voi due dovrà
succedermi quando giungerà il momento.”
I
due si scambiarono un’occhiata ma rimasero in silenzio.
“Dras
sceglie secondo la sua imperscrutabile saggezza,” proseguì re
Evertas, “e non è bene andare contro i suoi voleri.”
Herich
annuì, poi si voltò verso Dewrich, che però si limitò ad
aggrottare appena le sopracciglia senza distogliere gli occhi dal
genitore. “Cosa succederà?” chiese il ragazzo.
“Sarà
il grande sacerdote a istruirvi,” fu la risposta. “La prima parte
della cerimonia avverrà nel grande tempio qui a Dyat.”
“E
la seconda, padre?”
“Il
prescelto si recherà a est, alla gola di Os’lak, dove sorge il
Primo Tempio. Lì riceverà la corona che il dio riterrà di
concedergli.”
“In
che modo?”
“Questo
è uno dei Sacri Misteri,” rispose Evertas, “non posso rivelarlo
neppure a voi che siete i miei figli.”
Herich
abbassò lo sguardo. Si chiese se il fratello gli avrebbe almeno
permesso di andare a Os’lak con lui.
Si
fermarono ancora un po’ a parlare col padre, poi vennero congedati
e uscirono nell’anticamera della sala del trono. Da lì si
diressero ai loro quartieri.
“Ho
voglia di togliermi questa armatura e farmi un bagno,” disse
Dewrich, “nonostante sia stata fatta dagli artigiani di Fjorn, dopo
una giornata comincia a pesare.”
Herich
la guardò: era tutta di ferro blu e cuoio, con decorazioni in
argento. “È bella,” disse. “Ne aveva una così Adale di Lidas,
secondo le cronache, e costava più di tutto il suo regno, perché il
ferro blu è uno dei materiali più rari che ci siano.”
“Vedo
che sei ben informato. Te la farò provare, se vuoi.”
“Davvero
posso indossarla?”
Il
maggiore stava per rispondere quando alle loro spalle echeggiò una
voce: “Che mi prenda un colpo se quello non è Dewrich il
guerriero!”
Un’altra
rispose: “Sì, è lui. Andiamo a salutarlo, scommetto che non
rifiuterà una bevuta con i vecchi amici!”
Essi
si girarono all'unisono e videro due giovani esponenti della nobiltà
di Dyas. In tono allegro, Dewrich esclamò: “Nelber, Lyerwen!
Quanto tempo! Datemi solo un attimo per togliermi questa roba e sono
da voi.” Si voltò di nuovo verso il fratello: “Perdonami,
Herich, ma è tanto che non li vedo.”
“Fa
niente,” rispose il ragazzo con un’alzata di spalle. “Va'
pure.”
La
biblioteca era una sala ampia e ombrosa, che odorava di pergamena e
legno incerato. I raggi di sole che entravano dalle vetrate facevano
brillare il pulviscolo che danzava nell’aria.
Herich
chiuse il libro che stava sfogliando e rimase con la guancia
appoggiata alla mano e il gomito puntato sul piano del tavolo. Emise
un sospiro, che il silenzio pieno di echi amplificò fino a farlo
sembrare il sussurro di uno spirito inquieto.
Dewrich
l’aveva lasciato per andare con i suoi amici e a lui non era
rimasto altro da fare che rintanarsi come al solito a leggere le
vicende degli eroi. Abbassò lo sguardo sul grande tomo miniato che
aveva davanti: Cronache della Guerra Orientale.
Ripensò
a Resen-Lhaw. Siccome non era riuscito a trovare immagini del suo
volto da nessuna parte, se lo figurava sempre di spalle, con addosso
l’elmo, l’armatura e la cotta d’arme rossa. Nella sua
immaginazione impugnava due spade, e si ergeva fiero e indomito a
scrutare il golfo di Brielar.
A
volte l’aveva anche sognato: Resen-Lhaw era di spalle, esattamente
nella posizione in cui lo immaginava, ma quando lui cercava di
raggiungerlo, si accorgeva che non era possibile, e mentre l’eroe
continuava a fissare sdegnoso il mare, le sue mani annaspavano nel
vuoto senza mai toccarlo.
Sospirò.
Talvolta rimpiangeva di non essere esperto nell’arte della pittura,
perché altrimenti avrebbe volentieri disegnato lui un ritratto di
Tjeran Sonse in armi. Sapeva dalle cronache che aveva gli occhi
azzurri e i capelli biondi, ma il resto poteva solo immaginarlo.
Si
chiese se nell’esercito ci fosse qualcuno che aveva preso parte
alla Guerra Orientale. Magari c’era ancora qualche veterano che
l’aveva visto, o che magari in qualche battaglia precedente al
Massacro aveva addirittura combattuto al suo fianco.
Appoggiò
la fronte sul tavolo emettendo un sospiro. Presto Dewrich sarebbe
diventato l’erede al trono. Si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei
figli che avrebbero portato avanti la casata, magari avrebbe
combattuto delle guerre, o sarebbe stato ricordato nelle cronache per
qualche altro motivo.
Poi
pensò a se stesso: cosa lo aspettava? Un avvenire da chierico,
segregato in un monastero a recitare salmi.
§
Il
mattino era radioso. Non c’era una nuvola in cielo e il sole faceva
splendere il marmo bianco del palazzo reale così intensamente che
guardarlo faceva quasi male agli occhi. La luce forte toglieva le
ombre agli elementi architettonici, e archi, lesene e cupole quasi
scomparivano confondendosi in un'unica massa candida.
Dalle
vette dei Kelis spirava una brezza fresca, che faceva sventolare i
vessilli scarlatti come lingue di fuoco.
Herich
e Dewrich percorsero la scala che dal porticato del palazzo portava
alla piazza d’armi. Il maggiore aveva lasciato da parte l’armatura
ed entrambi avevano come protezione solo una leggera imbottita. Al
fianco avevano uno stocco.
Il
più giovane precedeva l’altro di parecchi passi e spesso si
fermava e si voltava indietro per controllare che non rimanesse
troppo indietro. “Andiamo?” gli chiese a un certo punto.
“Con
calma. Hai tutta questa fretta di farti umiliare da me?”
Herich
sorrise. “E chi ti dice che sarai tu a umiliare me?”
Dewrich
non replicò.
Giunsero
alla piazza d’armi, che a quell’ora era percorsa solo dai soldati
di guardia. Si misero uno di fronte all’altro e sfoderarono le
armi, quindi si scambiarono il saluto.
“In
guardia,” disse Dewrich, poi assunse la posizione regolamentare.
Herich
si morse il labbro inferiore. Ora che si trovava di fronte suo
fratello con un’arma in mano, se ne sentiva piuttosto intimidito:
gli occhi verdi di Dewrich lo scrutavano per cogliere i suoi punti
deboli, la sua espressione risoluta lo metteva in soggezione. Il suo
fisico robusto, muscoloso, dalle movenze rapide e precise gli
sembrava quello di una belva pronta a colpire.
“Forza,
fratellino,” lo incitò il maggiore.
Il
ragazzo si obbligò a non cedere all’emozione. Strinse l’arma e
tentò un affondo, che l’altro parò senza difficoltà. Tornò in
posizione di guardia.
“Tutto
qui quello che ti ha insegnato Taman?” lo provocò Dewrich.
I
primi scambi furono molto tranquilli: parata e risposta, parata e
risposta. Dopo ogni assalto, Dewrich gli spiegava cos’aveva
sbagliato e glielo faceva ripetere come se gli stesse facendo
lezione. Poi, dopo un po’, gli chiese: “Ora sei pronto a fare sul
serio?”
Herich
deglutì. “Sono pronto,” rispose, sforzandosi di guardare il
fratello negli occhi.
“Molto
bene,” approvò l’altro, “preparati, perché ora vedrai cosa
succede davvero in quelle battaglie che ti piacciono tanto.”
Il
primo assalto fu talmente rapido che Herich non lo vide nemmeno
arrivare. Si trovò il ferro così vicino al viso che riuscì a
percepire l’odore dell’olio che era stato applicato sulla lama
durante l’affilatura, e poi si sentì spingere all’indietro e
finì nella polvere. Alzò lo sguardo e vide Dewrich che gli puntava
la spada al petto. “Rialzati,” gli ordinò brusco. Il volto si
era fatto duro, gli occhi fiammeggiavano.
Il
più giovane si rimise in piedi. Tentò un assalto, ma l’altro lo
deviò facilmente e di nuovo lo spinse via facendolo rovinare al
suolo.
“In
piedi.”
Herich
si rialzò ansante e si tirò indietro i capelli. Assunse di nuovo la
posizione di guardia, ben deciso a non mostrarsi inetto di fronte a
suo fratello. Si fece avanti con una punta al viso, ma l’altro parò
di filo falso e poi girò fulmineo il polso per rispondere con un
tondo rovescio. Herich si fece precipitosamente indietro, l’altro
lo incalzò senza dargli il tempo di rimettersi in posizione,
costringendolo a parare un colpo dopo l’altro. “Ecco, questa è
la guerra!” disse avanzando senza riguardi, “Che ne dici, ti
piace?”
“Dewrich...”
“Allora,
ti piace? Quando ti prendi colpi da tutte le parti e non sai cosa
fare, quando non riesci a vedere il tuo avversario da quanto è
veloce, è quella la guerra, non i tuoi stupidi libri con gli eroi
del passato, Haure il Senza Paura o il Leone Rosso del Waerund!”
Colpì
di nuovo con un fendente, Herich indietreggiò con un gemito
portandosi la mano al viso. Egli fece per colpirlo di nuovo, ma la
sua lama si arrestò contro quella di un’altra spada.
“Forse
non ti sei accorto che il tuo avversario è già fuori combattimento,
principe,” disse il padrone dell’arma con voce tranquilla.
Ancora
ansante, col sangue che gli colava lungo la guancia, il ragazzo aprì
le dita che gli coprivano il volto: chi aveva fermato il colpo era
una delle guardie, un soldato con la lorica segmentata e l’elmo
dalla cresta rossa. Percepì il bagliore di chiari occhi azzurri.
“Come
ti permetti?” ringhiò Dewrich. Fece per colpirlo con una
piattonata, ma il militare parò il colpo senza apparente difficoltà.
“Il giovane principe è ferito,” si limitò a fargli notare.
L’altro
stava per replicare quando echeggiò un brusco richiamo. Il soldato
rinfoderò la spada e si mise sull’attenti.
Arrivò
un sergente. “Che cosa sta succedendo qui?” sbraitò. Poi, una
volta che si fu avvicinato: “Ancora tu?”
Il
soldato rimase a fissarlo immobile.
“Ti
sei intromesso nell’allenamento di Sua Altezza?”
“Sì,
sergente.”
“Per
tutti i volti di Dras! Fila via, con te facciamo i conti dopo!”
poi, rivolto a Dewrich: “devi scusarmi, principe, quel soldato è
uno stupido, un buono a nulla. Di solito non dà problemi, ma ogni
tanto fa cose strane. Lo farò punire severamente, sta tranquillo.
Vedrai che gli farò passare la voglia.”
“No,”
intervenne Herich
I
due si voltarono verso di lui.
Ancora
con la mano sull’occhio, il ragazzo ripeté: “No, ha agito per
difendermi, ha fatto il suo dovere.”
“Non
eri in pericolo,” replicò brusco il fratello, “inoltre un
soldato semplice non deve intromettersi in certe cose. Io ti stavo
dando un insegnamento importante e quello stupido l’ha vanificato.”
Si rivolse poi al sergente: “Puniscilo in modo esemplare.”
Herich
gli prese il braccio. “No, per favore!”
“Ora
basta,” rispose brusco l’altro, “Non fare il bambino. I soldati
non devono prendersi certe libertà.”
“Ma
Dewrich...”
“Ho
detto basta.”
Il
ragazzo chinò la testa. Si voltò verso il soldato che si stava
allontanando e cercò di imprimersi nella memoria quanto più poteva
di lui: era alto e forte, ma quando nessuno lo guardava tendeva a
stare un po’ ingobbito, come se si vergognasse della sua
corporatura. Nei pochi secondi che l’aveva visto non era riuscito a
stabilire quanti anni avesse, ma gli sembrava comunque che non fosse
giovane. Di sicuro era più vecchio del sergente che l’aveva
redarguito. Si chiese come mai un uomo di quell’età fosse ancora
un soldato semplice.
La
voce del fratello lo distrasse dai suoi pensieri: “Ti fa male?”
Herich
si girò verso di lui, rapido come se fosse appena stato sorpreso a
fare una cosa molto sconveniente. “No, fratello,” mentì.
“Fa
vedere.” Gli prese il volto fra le mani e lo osservò attentamente.
“Non è nulla,” concluse poi sbrigativo. “O, per meglio dire, è
il minimo che ti puoi aspettare andando in guerra.”
“Tu
sei stato in guerra, Dewrich?”
L’altro
levò di lui uno sguardo che sembrava volerlo incenerire, tanto che
Herich deglutì spaventato. “Sono un guerriero di Jechen,” fu
l’asciutta risposta, e il ragazzo ritenne più saggio non
insistere.
“Ora
andiamo,” disse poi, “voglio che ti lavi via quel sangue dalla
faccia.”
“Sì,
fratello.”
Come
sempre in biblioteca, Herich chiuse il libro e si toccò cautamente
il viso.
La
ferita in effetti non era grave: era appena uno sgraffio, che gli
segnava il sopracciglio e lo zigomo sinistri. Un colpo più deciso
gli avrebbe probabilmente tolto l’occhio, ma Herich era sicuro che
il fratello avesse dosato la forza del fendente con precisione per
fargli solo un po’ di male. Non per niente era un guerriero di
Jechen, quella della spada era la via che aveva scelto di percorrere.
Riguardò
il libro di battaglie, che nonostante la dura lezione del mattino
esercitava su di lui un immutato fascino, e ripensò al soldato, e
alla facilità con cui quell’uomo che per età avrebbe facilmente
potuto essere suo padre aveva parato la piattonata di Dewrich. Non
era stata solo fortuna.
Ripensò
a quello sguardo azzurro: l’aveva incrociato forse per un secondo,
ma in quel pur brevissimo tempo gli aveva comunicato lealtà, onore e
forza, e anche una strana amarezza.
Rimise
a posto il libro e andò ad affacciarsi alla porta: il corridoio era
deserto.
Ciò
che aveva in animo di fare non era nulla di sbagliato, ma chissà
perché aveva l’idea che se Dewrich l’avesse scoperto non ne
sarebbe stato per nulla contento.
Uscì
dunque cauto e si diresse verso la piazza d’armi. Una volta giunto
là, si guardò intorno smarrito: non era mai stato nei locali
riservati alle guardie, suo padre non glielo aveva mai permesso,
forse in previsione del suo futuro come chierico di Dras, per cui non
sapeva da che parte andare per cercare il soldato. Prese ad aggirarsi
un po’ perplesso: fino a quel momento, per lui le guardie erano
state figure immobili ai lati delle porte o sugli spalti, quasi gli
sembrava strano che fossero persone come tutte le altre, che si
muovevano e respiravano, con le quali si poteva parlare.
“Principe?”
si sentì chiamare a un tratto.
Si
girò e si trovò di fronte un graduato. “Io… stavo cercando un
soldato,” disse esitante.
“Che
soldato, principe?”
“Quello
che stamattina è intervenuto sulla piazza d’armi. Ho bisogno di
lui.”
“È
già stato punto con la massima severità, principe,” gli assicurò
il graduato, “non devi preoccuparti.”
“Io
non volevo che venisse punito,” replicò il ragazzo.
Il
sergente alzò le sopracciglia stupito, poi replicò: “È solo un
buono a nulla, principe, non vale la pena che tu perda il tuo tempo
con lui.”
L’altro
corrugò la fronte. “Voglio vederlo.”
Di
fronte a quel cipiglio, il sergente dovette cedere. “Come vuoi,
principe. È nel cortile dietro la caserma.”
Ignorando
gli sguardi di curiosità che gli venivano rivolti, Herich oltrepassò
gli edifici dove alloggiavano i soldati e arrivò al cortile, che era
essenzialmente un’arena grande come la piazza d’armi disseminata
di fantocci di paglia, bersagli per le frecce e strumenti ginnici.
Un
uomo stava sistemando i manichini danneggiati: lo vide sfilarne uno
dal suo supporto, sollevarlo di peso e poi portarlo verso un angolo
della spianata, dove ce n’erano già altri. Non aveva la lorica, e
la tunica rossa gli si tendeva sulle spalle ampie. I capelli corti
erano di un biondo chiarissimo.
Riconobbe
l’andatura ingobbita. “Soldato!” lo chiamò.
L’uomo
si fermò, e Herich ebbe quasi l’impressione che il suo richiamo
non l’avesse colto di sorpresa. Posò il manichino e si voltò
lentamente. “Principe,” lo salutò, portandosi al petto la destra
chiusa a pugno.
Il
ragazzo si avvicinò titubante, non del tutto sicuro, ora che lo
vedeva senza elmo e con addosso una semplice tunica, che fosse la
persona giusta.
“Sei
tu?” gli chiese, fissandolo ansiosamente in volto alla ricerca del
suo sguardo.
L’altro
abbassò gli occhi. “Io, principe?”
“Tu
mi hai aiutato, questa mattina.”
Il
soldato annuì. “Perdonami se ti ho mancato di rispetto, principe,”
disse poi.
“Perché
sei intervenuto?”
L’uomo
non rispose.
“Sicuramente
ti avranno frustato a causa mia.”
“Non
fa niente, principe.”
Seguì
un lungo silenzio. Da lontano giungevano spezzoni dei canti sacri che
venivano intonati in preparazione alla cerimonia serale. Nell’aria
c’era un vago odore di incenso. “Come ti chiami?” chiese infine
Herich.
“Res,
principe.”
“Res,
e poi?”
“E
basta, principe.”
Il
ragazzo prese un gran respiro. “Beh, Res… ecco, io vorrei che
fossi tu a insegnarmi la scherma.”
L’altro
alzò la testa e per la prima volta lo fissò dritto negli occhi. Il
suo sguardo era ardente, quasi rabbioso. “Io non ho niente da
insegnare a nessuno, principe,” ringhiò. La voce si era fatta
improvvisamente dura come la pietra.
“Ma...”
“Scusami,
principe, devo terminare il mio lavoro.”
Senza
aggiungere altro, il soldato gli rivolse il saluto militare, poi si
girò e se ne andò a grandi passi.
“Aspetta!
È una posizione di privilegio, saresti il mio istruttore…!”
L’altro
non si voltò nemmeno.
A
Herich, che era rimasto a guardarlo senza parole, non restò che fare
ritorno al palazzo reale. Si sentiva molto avvilito: aveva dovuto
scavare fuori un bel po’ di coraggio, per chiedere a quel Res di
istruirlo, ma evidentemente neppure quello era bastato a convincere
il militare che da lui si sarebbe potuto cavare fuori qualcosa di
diverso da un pavido chierico.
§
La
preparazione alla cerimonia era durata tutto il pomeriggio. Erano
stati abbigliati, lui con una lunga tunica ricamata e Dewrich con la
sua armatura di ferro blu, ornati delle insegne della casata e
istruiti sul come avrebbero dovuto comportarsi all’interno del
tempio.
Ora,
fianco a fianco, si apprestavano a entrare nell’enorme edificio.
Herich
riconobbe nella navata centrale, fra gli altri religiosi, Cresdan in
paramenti solenni: dato che era il suo precettore, aveva chiesto il
permesso di officiare il Rito accanto al Grande Sacerdote.
Strinse
gli occhi. Già sulla soglia, il calore prodotto dalle innumerevoli
candele era soffocante. L’atmosfera era opaca per gli incensi che
bruciavano sui turiboli e greve di quell’odore, sempre a metà fra
l’inebriante e il nauseante. Herich dovette passarsi una mano fra i
capelli mentre una sorta di capogiro lo faceva vacillare.
Il
fratello lo sostenne prendendolo per un braccio. “Cos’hai?” gli
chiese sottovoce.
“L’odore
mi dà fastidio.”
“Resisti.”
Il
ragazzo annuì. L’interno del tempio gli sembrava sempre più
fumoso, torrido, igneo. Sbatté le palpebre, di colpo infastidito
dalla luce forte.
Si
rese confusamente conto che stavano avanzando. I canti e la musica
coprivano il rumore dei passi e anche la sensazione della pietra
sotto i piedi gli giungeva incerta e vaga. Si concentrò sulla
stretta di Dewrich come se essa fosse stata l’unico appiglio per
non cadere in un precipizio.
Lo
avevano istruito a lungo sul contegno che avrebbe dovuto tenere, ma
la ferita che aveva sul viso gli stava bruciando così intensamente
che dovette toccarla per forza. Ritrasse i polpastrelli con un gemito
di dolore: gli sembrava di averli posati sul ferro rovente.
“Dewrich...”
mormorò smarrito. Forse il fratello gli rispose, ma lui non riuscì
a sentirlo. Di colpo tutto intorno a lui sembrò scomparire, lo
sfondo del tempio addobbato divenne un magma indistinto, il calore si
fece così intenso che credette di prendere fuoco. Sentì che gli
cedevano le ginocchia, ma la sua caduta sembrava non arrivare mai al
pavimento. L’ultima cosa che vide fu una luce accecante. Udì una
specie di tuono e poi tutto si fece buio.
Herich
aprì gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse passato, aveva mal di
testa e una sete atroce. Cercò di guardarsi intorno, benché muovere
il capo gli facesse aumentare il dolore, e si accorse di essere
ancora nella navata centrale del tempio, sdraiato su qualcosa di
morbido. Intorno a lui c’erano sacerdoti inginocchiati che
pregavano. “Devo… morire?” mormorò con voce roca.
Comparve
nel suo campo visivo il volto del re. “Sei il mio erede, figlio,”
gli comunicò il sovrano con una solennità che lo fece rabbrividire.
“Dras ha scelto te.”
Gli
pose davanti al viso uno specchio: la ferita che Dewrich gli aveva
procurato si era trasformata in un segno rosso simile a un tatuaggio.
Sollevò a fatica una mano e la sfiorò con le dita, percependo sotto
i polpastrelli una linea appena rilevata, e più calda della pelle
circostante.
“Ma
io...” mormorò. Avrebbe voluto dire che non era pronto, che non
era in grado. Che quando era comparsa la grande luce non aveva
sentito voci che gli svelavano segreti arcani né provato sensazioni
di beatitudine celestiale, che non gli erano stati conferiti doni
sovrumani o altro, ma era troppo esausto.
Pensò
che alla fine non gliene importava molto: prima o poi se ne sarebbero
accorti da soli.
Chiuse
gli occhi, ma subito due mani robuste lo riscossero, sollevandolo
letteralmente dal suo giaciglio. “Sono io, fratello,” disse la
voce di Dewrich.
“Mi
dispiace,” fu l’unica cosa che il ragazzo riuscì a mormorare.
“Mi dispiace, mi dispiace...”
“Ora
devi alzarti,” gli disse il maggiore.
“Non
ce la faccio.”
“Alzati,
il Grande Sacerdote ti sta aspettando per completare il rito.”
“Aspetta,
posso...” avrebbe voluto chiedere dell’acqua, ma già Dewrich lo
stava sospingendo lungo la navata, tra due ali di folla osannante che
gettava fiori al suo passaggio.
§
Passarono
alcuni giorni. Cerimonie e festeggiamenti si erano succeduti a un
ritmo incalzante, e Herich sostanzialmente non aveva ancora avuto
modo di elaborare con calma ciò che era successo. Continuava a
sembrargli tutto troppo assurdo, troppo impossibile per essere vero.
Dras
non poteva aver scelto lui.
Eppure
quando si toccava il viso trovava il segno del dio.
Suo
padre gli aveva mostrato il segno che a suo tempo aveva ricevuto da
Dras: era una piccola cicatrice a forma di ferro di cavallo, proprio
sotto la clavicola destra. Il padre di suo padre ce l’aveva sulla
schiena, e così via, andando indietro nelle generazioni.
Non
era ancora riuscito a parlare a quattr’occhi con Dewrich,
principalmente per tutti gli impegni ufficiali, ma anche perché il
fratello sembrava in qualche modo evitare la sua presenza, e questo
lo faceva soffrire moltissimo.
Avrebbe
tanto voluto discutere con Dras, per chiedergli il perché di quello
scherzo di cattivo gusto, ma a differenza degli uomini, il dio poteva
concedersi il lusso di parlare solo quando ne aveva voglia, e di non
rispondere alle domande che non gli piacevano.
Uscì
dalla biblioteca, dove come al solito si era rintanato, e subito si
imbatté in un valletto. “Principe, ti stavo cercando,” disse
questi rivolgendogli un inchino. “Il re tuo padre chiede di te.
Desidera che tu lo raggiunga nella sala del trono.”
Herich
ringraziò e subito si mosse in quella direzione. Quando giunse sul
posto, vi trovò riuniti il re, la regina, Dewrich, il Grande
Sacerdote, Cresdan e il generale Kierev, comandante delle truppe di
Dyat. Tutti si alzarono quando lui entrò, facendogli sorgere il
desiderio di voltarsi e uscire di corsa per l’imbarazzo.
Se
quello era un assaggio della sua futura vita da re, non sapeva
proprio come avrebbe fatto a tollerarla.
“Volevi
vedermi, padre?” chiese comunque, inchinandosi come sempre.
L’altro
annuì. “Dobbiamo organizzare il tuo viaggio.”
“Che
viaggio, padre?”
Intervenne
il Grande Sacerdote: “Dovrai recarti al Primo Tempio per ricevere
la corona.”
Herich
annuì. Ormai tutto procedeva a prescindere dal suo volere, quindi
non avrebbe avuto alcun senso opporsi. “Quando partirò?”
“Tra
un mese, al solstizio. Ma non andrai da solo: ti sarà assegnata una
scorta.”
A
quelle parole, si fece udire il generale: “Os’lak è ai confini
con le steppe di As’del. Non è prudente andarvi senza una scorta
armata.”
D’istinto,
Herich si voltò verso il fratello: “Ti prego, Dewrich: vieni con
me. Sono sicuro che non avrò nulla da temere, se tu sarai al mio
fianco.”
Il
maggiore sorrise. “Tranquillo, sarei venuto in ogni caso.”
“Davvero?”
“Ma
certo. Trascorrerò questo mese nel monastero di Voldas a meditare,
poi partiremo insieme.”
“E
con la scorta,” soggiunse il generale.
Herich
annuì di nuovo, con lo stesso movimento che faceva istintivamente
quando il precettore gli spiegava una materia che richiedeva tutta la
sua attenzione. “Chiedo una cosa, però,” mormorò esitante.
“Cosa,
principe?” volle sapere il generale.
“C’è
un soldato che si chiama Res. Vorrei lui nella scorta.”
“Mai
sentito.”
“Mi
ha detto che si chiama solo Res.”
“Mi
informerò, principe. Considerala una cosa fatta.”
“Grazie,
generale.”
La
riunione si sciolse, ognuno tornò alle proprie occupazioni. Herich e
Dewrich si spostarono nell’anticamera della sala del trono. “Come
fai a conoscere i soldati per nome?” chiese il secondo.
“Non
li conosco, fratello, ma quel Res è stato gentile con me.”
“Gentile
in che modo?”
“Ecco...”
Herich esitò. Non voleva dirgli che si trattava del soldato che
l’aveva difeso quando si erano misurati in duello. “Mi ha
aiutato.”
“I
soldati hanno il dovere di aiutarti, Herich. Sei l’erede al trono.”
Al più giovane parve che l’altro calcasse esageratamente sulle
ultime parole.
“Lui
è stato gentile,” tagliò corto. “Se la mia opinione conta
qualcosa, voglio anche lui nella scorta.”
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