Resen-Lhaw 3
Gente,
eccomi qui con un nuovo capitolo del mappazzone fantasy. Ringrazio come
sempre tutti coloro che mi seguono, mi leggono o gentilmente mi
commentano.
Capitolo
3
Il
giorno dopo il cielo era sempre grigio, ma non pioveva. La pianura
però era fradicia d’acqua e negli avvallamenti del terreno si
erano raccolte piccole pozzanghere torbide. Le ruote dei carri
lasciavano solchi sul nastro di terra battuta che fungeva da strada.
Res
si guardava intorno. Era improbabile che arrivassero altri
tanroth-ath, la fine dei primi doveva aver insegnato agli altri che
il gruppo di umani era da lasciare in pace, ma quelle belve non erano
l’unico pericolo della regione.
Stavano
marciando da un po’ quando vide un’aquila solcare il cielo. Il
rapace volò dritto fino a oltrepassare la colonna, poi virò e tornò
indietro. Al secondo passaggio notò che era più piccola delle
aquile del Daishrach e aveva un piumaggio più chiaro.
Alla
vista dell’uccello, il capitano Arahad estrasse l’arco e lo armò,
quindi incoccò una freccia e lo cercò con gli occhi.
Res
vide il principe Dewrich raggiungere al galoppo l’ufficiale. Dalla
coda della colonna non riusciva a sentire cosa si stessero dicendo,
ma si accorse che il principe aveva alzato la voce. Il capitano mise
via la freccia, poi tolse la corda all’arco e lo ripose.
Nessuno
sembrò fare caso all’episodio, e la marcia proseguì come se non
fosse successo nulla.
Non
doveva mancare molto, ormai. Pian piano la falesia era passata dal
rosso scuro al grigio piombo e di pari passo si era fatta più ripida
e imponente. Ormai era una parete scabra che nei rari momenti in cui
il cielo era libero dalle nuvole proiettava sulla via un’ombra nera
e densa come pece.
Chi
ne aveva la possibilità cercava di procedere fuori dal sentiero,
verso la pianura aperta. Lasciati a se stessi, i cavalli e gli
animali da soma tendevano a stare lontani da quella mole sinistra.
Anche
gli uomini erano inquieti: Res si accorgeva che i commilitoni erano
tesi, scattavano per un nonnulla e per cose altrettanto futili si
lasciavano andare a risate nervose e cariche di inquietudine.
Sembrava
di essere nell’imminenza di una battaglia.
L’aria
del resto si era fatta strana. Aveva un che di incombente,
oppressivo. Era come se respirare costasse più fatica del normale.
Il
soldato si guardò intorno: forse era la magia di cui era impregnata
la zona del Primo Tempio. Tutto lì risentiva della sua presenza, non
c’erano animali, o tracce di essi, l’erba si era fatta ancora più
rada e dura. I rari cespugli che costellavano la pianura erano
scomparsi del tutto.
Il
vento intonava un canto mesto, che risuonava nelle orecchie carico di
dolore e rimpianto.
Avevano
ricominciato a tremargli le mani e sentiva il sudore scorrergli lungo
la schiena: anche il suo problema si faceva sentire di più in
quell’ambiente strano.
Un
brillio in un ciuffo d’erba attirò la sua attenzione. Guardò in
basso e vide che tra gli steli c’era un piccolo oggetto di metallo.
Si chinò a raccoglierlo, lo osservò: era un chiodo da maniscalco,
con la testa quadrata resa lucida dall’uso. Era piuttosto lungo,
segno che era stato forgiato per un cavallo pesante, forse
addirittura per un destriero da guerra. Non doveva trovarsi lì da
molto, dato che gli agenti atmosferici non avevano ancora fatto in
tempo a renderlo opaco.
Rimase
perplesso: i nomadi di As’del, che spesso sconfinavano in quei
territori, non avevano l‘usanza di ferrare i cavalli, quindi quel
chiodo non poteva essere caduto durante una scorribanda di predoni.
D’altra
parte, se dal Daishrach o dal Theythrim fosse partita una spedizione
diretta in quelle zone, si sarebbe venuto sicuramente a sapere, data
la concomitanza con la spedizione reale.
Ripose
il piccolo oggetto, riproponendosi di parlarne alla prima occasione
con il capitano Arahad.
“La
senti?” stava dicendo frattanto Cresdan. “La senti, principe?”
“Che
cosa, maestro?”
“La
magia! È dappertutto.”
Herich
annuì, poi si passò una mano fra i capelli, tirandoseli indietro.
Nonostante fosse freddo si sentiva avvampare, e il taglio che gli
segnava il viso aveva ricominciato a bruciare.
Il
cielo si era nuovamente coperto, in lontananza brontolavano dei
tuoni, ma non spirava un filo d’aria. La pianura si perdeva in un
crepuscolo livido. “Quando arriveremo?” chiese.
“Se
Dras ci assiste, questa sera dormiremo ai piedi del Primo Tempio.”
Il
ragazzo si voltò verso il precettore: “E poi cosa succederà?”
L’altro
gli sorrise. “Hai paura, per caso?”
Herich
chinò la testa. “Un po’.”
“Per
la cerimonia che devi compiere o per quello che verrà dopo?”
“Entrambe
le cose, credo.” Poi, dopo una pausa: “Anzi, più per la
seconda.”
“Ti
capisco. Ma è normale, nessuno è tranquillo quando viene qui. C’è
molta magia qui intorno, e la magia rende tutti nervosi. Ci mette a
nudo per come siamo veramente, costringe a pensare a noi stessi, e
non sempre in termini positivi.”
Passò
qualche istante di silenzio, l’aria era sempre fredda e immobile,
gli unici rumori che si udivano erano lo scalpiccio degli zoccoli e
lo scricchiolio del cuoio dei finimenti. Alla fine Herich chiese: “Tu
sei già stato qui, maestro?”
“Tanti
anni fa, quando sono stato ordinato chierico. Ma non sono entrato nel
Primo Tempio, lì possono entrare solo i membri della famiglia reale
prescelti da Dras.”
“E
se ci entra qualcun altro cosa succede?”
L’altro
si sporse sulla sella per fissarlo negli occhi. “Che domande fai,
Herich? Nel Primo Tempio può entrare solo chi è designato da Dras.
Sarebbe come se qualcuno invitasse ospiti a casa propria: è ovvio
che vuole solo quegli
ospiti,
non chiunque passi per di lì.”
Il
ragazzo chinò la testa. Non era certo di condividere quel
ragionamento, per come la vedeva lui ogni fedele aveva diritto a
entrare in un tempio del dio che venerava, tuttavia si limitò ad
annuire in silenzio. Era stanco, la lunga giornata di viaggio
cominciava a farsi sentire, l’atmosfera particolare del luogo gli
stava pesando sulle spalle come un mantello fradicio, per cui preferì
non replicare.
Ci
volle ancora un’ora di marcia, poi Herich si accorse che la falesia
era tagliata da una lunga spaccatura verticale, come se un gigante
l’avesse tranciata in due con un colpo d’ascia. Dopo quella
fenditura proseguiva perdendosi all’orizzonte.
L’atmosfera,
nel frattempo, si era fatta ancora più densa e opprimente, e nella
luce che andava scemando non c’erano altri rumori a parte quelli
prodotti dalla colonna in movimento.
Dewrich
passò al trotto, drizzandosi sulle staffe per vedere meglio la gola.
“Sembra che ci siamo, alla fine!” esclamò. Spronò il cavallo e
scomparve verso la spaccatura della falesia.
Il
chierico scosse la testa e disse: “Sempre così: impulsivo e
impaziente. Ci saresti dovuto entrare tu per primo nella valle di
Os’lak.”
Herich
lo fissò preoccupato. “E quindi cosa succederà se è entrato
lui?”
Cresdan
sorrise bonario. “Niente. Dras avrà la pazienza che manca a lui e,
bontà sua, non lo fulminerà.”
Nel
frattempo si stavano avvicinando alla fenditura. Herich cominciò a
intravedere una struttura che sembrava una specie di gigantesca
colonna svettante su tutta la pianura.
Quando
furono in grado di vedere al di là della falesia, il ragazzo non
poté trattenere un’esclamazione di meraviglia: dal terreno
sorgevano tre enormi costruzioni alte e strette, una più grande
centrale e due più piccole ai lati e arretrate rispetto alla prima.
Esse avevano le pareti completamente lisce, a parte una lunga
fenditura verticale che dalla porta di ingresso arrivava fino alla
sommità, decine di piedi più in alto. Lunghe scalinate scavate
nella pietra conducevano a ognuno degli edifici.
Non
appena si affacciarono, il cielo immobile prese a ribollire di nubi
scure, che si addensarono intorno alla sommità dei tre templi. Tra i
turgidi nembi cominciarono a crepitare dei fulmini azzurrini,
illuminando la zona circostante di un bagliore gelido.
La
puledra scartò innervosita. “Buona,” disse subito Herich,
battendole la mano sul collo, ma l’animale appiattì le orecchie e
cominciò a indietreggiare, tanto che Cresdan, il cui mulo stava
invece assistendo imperturbabile al fenomeno, dovette sporgersi e
afferrarla per le redini.
Le
nubi stavano girando in tondo sulla cima dei tre templi e lanciavano
fulmini contro di essi. Le scariche non li danneggiavano e si
incanalavano come acqua lungo la fenditura che tagliava la facciata
degli edifici dall’alto in basso, e a seconda della loro potenza si
avvicinavano di più o di meno alla porta d’ingresso.
Res
osservò ciò che stava accadendo senza curiosità. La magia di cui
la zona era pervasa accentuava il suo problema, per cui aveva i
muscoli doloranti, la bocca secca e sudava copiosamente nonostante il
freddo. Strinse i denti ben deciso a non far trapelare nulla,
ringraziando che nessuno l’avesse così a cuore da voler sapere se
stesse bene o male.
Il
fenomeno pian piano si esaurì, le scariche smisero di illuminare la
zona e le nubi interruppero il loro moto vorticoso. Sulla scena
ritornò la stessa calma immobile di poco prima.
“Questo
era Dras che ci salutava,” sentì dire al chierico. Represse a
fatica un’imprecazione.
Non
appena Arahad diede l’ordine di approntare il campo, si diresse
verso uno dei carri e cominciò a scaricare il necessario. Si sentiva
esausto, ma almeno la fatica fisica l’avrebbe distolto dai
pensieri, che tornavano particolarmente tormentosi e insistenti
quando il suo problema per qualche motivo si aggravava.
“Ehi,
tu!” si sentì chiamare.
Si
voltò e vide il sergente con i pugni puntati sui fianchi.
“Sergente?”
“Prendi
quel carro!” ordinò il sottufficiale indicando il veicolo civile
coperto dalla tela cerata, “Il principe vole che sia scaricato
subito.”
“Sì
sergente.”
“E
vedi di non rompere niente, altrimenti ti romperò io la schiena con
la frusta.”
Res,
che era tutta la testa più del suo interlocutore, senza particolare
emozione rispose: “Sì, sergente.”
Abbandonò
quel che stava facendo, prese per le redini il cavallo che trainava
il carro e lo condusse verso il principe Dewrich. Questi gli ordinò
di scaricare ciò che c’era sul pianale in una zona dove la parete
di roccia si incavava formando una larga grotta. “Così saremo al
coperto anche se dovesse piovere,” disse.
“Sì,
principe,” rispose il soldato.
“Ora
prendi le anfore e allineale lungo la parete. Vedi di non romperle.”
“Sì,
principe.”
“E
vedi di non rubarne una, guarda che le ho contate.”
“Io
non bevo, principe.”
“Questa
è bella, un soldato che non beve! Beh, vedi di non rubarne una da
portare ai tuoi compagni, allora.”
Res
non rispose. Si limitò a prendere un paio di anfore, una sotto ogni
braccio, e a portarle in un angolo della grotta. Ripeté il percorso
fino a che il pianale non fu completamente vuoto. A questo punto si
inchinò al giovanotto in armatura, che per tutto il corso
dell’operazione non gli aveva tolto gli occhi di dosso e gli disse:
“Ho finito, principe.”
“Ora
le ceste di provviste.”
“Sì,
principe.”
Anche
quelle finirono accanto alle anfore.
Alla
fine, Dewrich gli disse: “Sei
stato meno stupido di quello che pensavo. Puoi andare.”
Il
soldato si limitò a inchinarsi, quindi raggiunse il plotone.
Nel
frattempo era stato distribuito il rancio e tutti stavano mangiando.
“Non c’è rimasto niente per te!” lo accolse una voce. Alla
frase seguirono delle risate.
“Se
vuoi, c’è del pane secco.” disse un altro “Va bene per i cani
come te!”
Una
pagnotta arrivò in volo e rimbalzò a terra davanti ai suoi piedi.
Senza
un parola, Res si chinò a raccoglierla e si allontanò nel buio.
Era
seduto davanti alla sua tenda quando una voce lo chiamò. Stupito, si
voltò in quella direzione. “Principe?” chiese.
Herich
si fece avanti. Aveva in una mano un involto e nell’altra una
piccola lanterna. La fiammella tremolante gli illuminava il viso dal
basso, facendo sembrare ancora più trasparenti i suoi occhi cerulei.
Si morse il labbro inferiore come faceva sempre quando era
imbarazzato.
“Che
c’è, principe?” lo incoraggiò.
Il
ragazzo gli rivolse un lieve sorriso. “Tu una volta mi hai aiutato,
ora io aiuto te.” Appoggiò l’involto ai suoi piedi e corse via.
Quando
se ne fu andato, Res lo aprì e non poté fare a meno di sorridere
fra sé e sé: c’erano dentro pasticcio di carne, confettura,
frutta secca e focaccia, ovvero quello che probabilmente gli era
stato servito a cena. Doveva essersi accorto in qualche modo che gli
avevano impedito di mangiare, e quindi vi aveva rinunciato, del tutto
o in parte, per portarlo a lui.
Mangiò
tutto, più per non mortificare il ragazzo che per fame, e poi si
raggomitolò coprendosi col mantello.
§
Herich
si alzò all’alba. Aveva dormito poco e male, rigirandosi in preda
all’agitazione e all’aspettativa per la maggior parte della
notte. Ricordava però che in uno dei pochi periodi di sonno aveva
sognato Resen-Lhaw: l’aveva visto come sempre di spalle, sulla
scogliera a picco sul golfo di Brielar.
L’eroe
non si era voltato, ma una voce gli aveva detto: Si
rivelerà nel momento del bisogno.
Si
aggirò un po’ stranito nella tenda, chiedendosi se si trattasse di
un sogno premonitore. Fuori cominciavano a farsi sentire i primi
suoni dell’accampamento che si stava svegliando, il tramestio dei
soldati, qualche ordine gridato, qualche nitrito. Da una fessura, in
una luce lattiginosa che toglieva ombre e contrasti, riusciva a
vedere i tre templi. Alla base della scala che portava al più grande
c’era una piattaforma naturale di roccia e su di essa c’era
Cresdan, in grandi paramenti, che salmodiando a mezza voce accendeva
delle candele. Le prendeva una ad una da un cesto, appiccava fuoco
allo stoppino, inclinandole faceva colare un po’ di cera sulla
pietra e poi ve le incollava sopra. Doveva aver cominciato molto
prima del sorgere del sole, perché ormai la piattaforma ne era quasi
completamente coperta e alcune candele erano ridotte a mozziconi
consumati. Rivoli di cera bianca serpeggiavano sulla pietra e si
raccoglievano al suolo in piccole colate.
Non
volendo disturbarlo, Herich si ritrasse evitando di uscire dalla
tenda.
Sedette
sul letto con le mani in grembo e prese in considerazione l’idea di
vestirsi, saltare sul primo cavallo che trovava e allontanarsi nella
steppa.
Mentre
era immerso in quelle angosciose meditazioni, entrò Dewrich. “Buon
giorno, fratello!” lo salutò allegro. “Sei pronto?”
A
quella domanda, Herich quasi trasalì. “No, non credo di esserlo,”
mormorò.
L’altro
si spostò fino a chinarsi con un ginocchio a terra di fronte a lui.
“Ma devi,” gli disse, fissandolo negli occhi.
Il
più giovane si limitò a distogliere lo sguardo.
Passò
qualche secondo di silenzio, poi l’altro gli chiese: “Ricordi
quando abbiamo duellato?”
“Sì.”
“Ebbene,
ci sono situazioni nella vita in cui non ha importanza se sei
preparato o no per affrontare quello che sta arrivando: lo devi
affrontare e basta, con i mezzi che hai, sperando che siano
sufficienti. Come in guerra. L'avversario non ti colpirà certo più
piano, se si accorge che non sei alla sua altezza.”
“Questo
lo so, fratello.”
“Bene,
allora fa quello che devi e smetti di frignare. Nessuno verrà a
farlo al posto tuo.”
Herich
lo fissò speranzoso. “Neppure tu, fratello?”
“Dras
ha scelto te,” fu la lapidaria risposta. Poi Dewrich si alzò in
piedi. “Ha scelto te,” ripeté duro, “quindi vedi di non
deluderlo.” Fece per andarsene, poi però si fermò e si voltò a
fissare Herich. “Non pensare che questo sia un gesto crudele nei
tuoi confronti,” gli disse. “Per quanto ti possa sembrare strano,
io adesso ti sto aiutando. Ti impedisco di aggrapparti a qualcuno più
grande di te come hai sempre fatto nella tua vita, ti spingo a
camminare con le tue gambe. Un giorno mi ringrazierai per questo.”
Uscì.
Herich
rimase solo nella tenda, e di nuovo ponderò l’idea di saltare sul
primo cavallo e scappare lontano. Per quanto si ripetesse che
comunque suo padre Evertas avrebbe regnato ancora molti anni, anni
che avrebbe potuto utilizzare con profitto per apprendere e
accumulare esperienza, sapeva perfettamente che da quel momento in
poi la sua vita non sarebbe più stata la stessa, e quel cambiamento
gli faceva paura.
In
quel momento, entrò nella tenda Cresdan. “Principe, sei pronto?”
chiese.
Schierato
con gli altri a qualche centinaio di passi dal tempio, Res era in
posizione di riposo, con lo scudo rettangolare appoggiato contro la
coscia e la mano sull’impugnatura della spada. La lorica e l’elmo,
lucidati per almeno un’ora, brillavano come uno specchio.
Incorniciate
dalla valle, le tre costruzioni si ergevano maestose. Ai due lati
della porta di quella centrale erano stati accesi dei fuochi, che
davano alla pietra grigio-azzurra una tonalità vagamente dorata.
Sebbene
fosse giorno fatto, vi era nell’aria una luce livida. Le nubi si
stavano addensando sopra le tre costruzioni e già le prime folgori
avevano preso a crepitare sulla sommità. Nella scanalatura della
facciata scendevano fugaci rivoli di luce.
Accompagnato
dal chierico, il principe si presentò all’inizio della scala di
pietra. Res lo osservò: era pallido, aveva l’espressione tesa.
Immaginò che avesse paura. Indossava uno strano copricapo di piume
rosse che gli ricadeva fin sulle spalle e un abito nero dal colletto
rialzato, ornato di ricami. Dovevano essere vesti cerimoniali.
Il
corpulento sacerdote gli mise un braccio intorno alle spalle. Il
soldato vide che gli indicava il tempio e parlando annuiva con
decisione, voltandosi di tanto in tanto verso il ragazzo, come per
indurlo a fare altrettanto.
Alla
fine gli rivolse un inchino e si allontanò.
Il
principe rimase solo alla base della scala. Alla sua destra, il piano
coperto di candele tremolava sotto l’effetto della brezza che si
stava alzando.
Le
nubi si addensarono ulteriormente, fulmini poderosi, che si
abbattevano con scoppi che laceravano le orecchie, cominciarono a
tempestare la cima dell’edificio. Il canale di luce andò facendosi
sempre più intenso.
L’entrata
del tempio, un altissimo arco a sesto acuto, all’improvviso si
aprì, proiettando un bagliore dorato sugli ultimi gradini della
scala.
Il
ragazzo prese a salire. Camminava lento, sembrava che ogni passo gli
pesasse come piombo. A un certo punto addirittura si fermò, poi si
voltò indietro, come se stesse cercando qualcuno. Fece scorrere lo
sguardo sui ranghi e Res ebbe l’impressione che stesse cercando
lui.
A
rischio di attirarsi le ire del sergente, piegò appena la testa,
come per fargli capire che lo stava seguendo. Il ragazzo sorrise, poi
si girò e riprese la salita.
Fermo
davanti alla porta, Herich strinse gli occhi e spostò indietro le
piume rosse che, come i capelli, per l’ennesima volta gli erano
finite davanti al viso.
Cercò
di vedere qualcosa al di là della soglia, ma aveva l’impressione
di essere affacciato su una stanza completamente vuota.
Si
era immaginato un altare, statue imponenti, o magari una scala che
conducesse da qualche parte, invece oltre la porta non c’era niente
di tutto ciò.
Si
chiese cosa significasse. Cresdan non gli aveva detto quasi nulla su
ciò che sarebbe successo, sostenendo che sarebbe stato Dras in
persona a rivelargli ciò che doveva fare o non fare, ed egli si
trovò a chiedersi cosa sarebbe accaduto se il dio dai mille volti
invece di dargli istruzioni si fosse limitato a stare a guardare cosa
avrebbe fatto.
Fece
un passo oltre la soglia.
Di
colpo si trovò in un paesaggio innevato e illuminato da una
splendida luna piena. Ai suoi lati c’erano rocce aguzze, mentre
proprio di fronte a lui, su una cresta impervia e ghiacciata, si
ergeva una struttura circolare che sembrava un colonnato. Sopra di
essa si trovava un enorme trono, sul quale era seduto un uomo
imponente e barbuto, grigio come la pietra che lo sosteneva, con
abiti regali e una lancia nella mano destra.
Herich
rimase a contemplarlo meravigliato, chiedendosi se fosse una statua o
una creatura vivente. Si accorse di non provare paura. Il freddo
pungente non lo faceva rabbrividire, ma gli donava una piacevole
sensazione di vitalità.
“Chi
sei?” chiese.
La
figura si mosse. “Io sono il volto che tu vuoi vedere,” rispose.
Il
ragazzo si avvicinò. Per quanto fosse illuminato da tergo, quindi
con il viso in ombra, il suo misterioso interlocutore aveva senza
dubbio le fattezze di re Evertas. Gli abiti erano gli stessi di
quando il re dava udienza nella sala del trono e anche la posizione
sullo scanno. “Padre?” disse stupefatto.
Seguì
qualche secondo di silenzio, infine giunse la risposta: “Vedi il
padre perché lo cerchi e lo brami. Speri in qualcuno che ti dica
cosa devi fare. Ma tu sarai re e dovrai essere tu il padre dei tuoi
sudditi.”
Herich
chinò la testa. “Ma io non sono pronto,” mormorò.
“Ci
sono cose per cui nessuno è mai pronto, e tuttavia vanno portate a
compimento.”
“Come
morire?”
“Come
morire.” confermò la figura.
Il
ragazzo si avvicinò ancora, ormai era ai piedi della cresta di
roccia. “Ma il mio morire, vedi, non influirebbe sul benessere e la
sicurezza di migliaia di persone, mentre il mio cattivo governo sì.
Posso anche accettare di andare al cospetto di Dras, ma non di
condannare i miei sudditi alla miseria e alla sofferenza per colpa
della mia incapacità.”
“Sei
già al cospetto di Dras.”
Herich,
che stava per aggiungere altro, tacque e deglutì a vuoto. “Allora
sono… morto?” osò chiedere dopo un po’.
“Per
rinascere.”
“Che
cosa significa?”
“Oggi
muori come principe e rinasci come re. Ti darò una corona, essa avrà
occhi per vedere e orecchie per udire, e mani per soccorrere. Sarai
per il tuo popolo un padre misericordioso.”
La
figura sollevò la mano che non reggeva la lancia e la volse con il
palmo verso l’alto. La luce della luna sembrò condensarvisi sopra,
creando una sfera pulsante nella quale pian piano cominciarono a
formarsi delle diafane volute che si torcevano e si intrecciavano.
Nel
corso del processo lo splendore del globo divenne così forte che
Herich dovette coprirsi gli occhi con una mano.
Si
ritrovò sdraiato a faccia in giù nella sala del tempio, ancora con
una mano sugli occhi. Si alzò lentamente, si guardò intorno: non
c’era più il paesaggio innevato, la temperatura era confortevole.
Dall’alto proveniva una fioca luce dorata. Al centro della stanza
c’era un supporto di pietra sul quale era posata una corona di un
metallo bianco che poteva essere platino o argento estremamente puro.
Su di essa erano raffigurati tre fra i Wenos più potenti: Folan che
tutto vede, Cavach che tutto ode e Undiah Mano di Dras.
“Grazie,”
mormorò.
La
luce ebbe un’oscillazione.
Herich
raccolse con mani tremanti la corona. Le figure erano così
realistiche che davano l’impressione di guizzare sul metallo come
animate di vita propria. Cresdan gli aveva spiegato, in una delle
lezioni che gli aveva impartito durante il viaggio, che le corone
erano oggetti magici, in cui Dras infondeva dei poteri, diversi a
seconda delle figure che vi venivano rappresentate.
Il
fatto che il dio avesse scelto per la sua corona i Wenos, ovvero i
suoi aiutanti più fedeli, faceva capire che avrebbe guardato al suo
regno con benevolenza.
Si
passò una mano fra i capelli per spostarseli dal viso, e così
facendo si rese conto di non avere più il cimiero di piume rosse.
Forse Dras se l’era tenuto in cambio della corona. Si ripromise di
chiederlo a Cresdan.
Uscì
dal tempio. Il cielo era coperto, ma i fulmini avevano smesso di
crepitare e c’era una luce cupa come di crepuscolo. Sulla pietra
alla base della scala non c’erano più candele accese, ma solo uno
strato di cera solidificata. I soldati erano ancora dove li aveva
lasciati e il suo primo pensiero fu che probabilmente erano più di
quattro ore che aspettavano lì in piedi impalati.
In
armatura completa, i capelli sciolti sulle spalle, Dewrich gli si
fece incontro. “Fammi vedere la corona, fratello,” gli disse per
prima cosa. Herich gliela depose in mano senza esitare, poi lo
oltrepassò e raggiunse il plotone schierato. Si guardò intorno
ansiosamente. “Capitano Arahad?” chiamò.
L’ufficiale
si fece avanti. “Altezza?”
“Capitano,
fa riposare gli uomini. Non serve a nulla che stiano qui schierati,
non corro pericoli.”
“Non
si può mai sapere, altezza.”
In
quel momento sopraggiunse alle sue spalle Dewrich, che disse:
“Herich? Puoi venire un momento, per favore?”
“Sì,
fratello.”
Res
seguì con lo sguardo i due principi che si allontanavano. Per quanto
il maggiore cercasse di tenere la voce bassa, si sentiva chiaramente
che stava redarguendo il più piccolo. L’altro, che ancora non
aveva preso confidenza con la propria condizione di futuro sovrano,
lo ascoltava a testa china incapace di ribattere.
Mentre
seguiva quello scambio, il soldato udì un grido di rapace. Girò lo
sguardo verso la provenienza del suono e vide un’aquila posarsi su
uno spuntone di roccia poco lontano. L’animale arruffò le penne
sul collo, si scrollò e poi rimase immobile. Res ebbe l’impressione
che stesse scrutando i dintorni.
Poco
dopo i due fratelli fecero ritorno. Il più grande stava dicendo:
“Voglio dimostrarti che ho a cuore il benessere dei soldati,
Herich, e che ho pensato anche a loro quando ho caricato le derrate
per festeggiare.”
“Davvero?”
“Certamente.”
Poi, a voce più alta: “Capitano Arahad, metti gli uomini in
libertà. Questa sera tutti berranno alla salute del futuro re!”
Res
notò che l’ufficiale sembrava decisamente poco convinto.
Continuava a guardarsi intorno, e un paio di volte fissò l’aquila
con astio. Il soldato immaginò che le avrebbe volentieri tirato un
colpo di balestra, se non avesse ricevuto un espresso divieto in tal
senso dal principe.
Attese
l’ordine di rompere le righe, poi si recò da lui. “Capitano,
posso parlarti?” gli chiese.
“Che
cosa vuoi?”
Res
gli mostrò il chiodo che aveva trovato. “Qualcuno è stato qui da
poco, capitano.”
L’altro
si rigirò il piccolo pezzo di metallo fra le dita. “Predoni di
As’del?”
“Non
ferrano i cavalli, capitano.”
“Quindi
chi può essere stato? Dei fedeli?”
“Non
so se qui vengano dei fedeli a pregare.”
Arahad
lanciò uno sguardo ai templi, che svettavano minacciosi
nell’oscurità incipiente, e disse: “Non ci sono tracce qui
intorno e in questa pianura si vedrebbe un uomo a cavallo a una lega
di distanza.”
“Sì,
di giorno. Di notte non lo so, capitano.” Poi, dopo una pausa: “E
adesso abbiamo con noi l’erede al trono del Daishrach e la sua
corona.”
L’ufficiale
emise un sospiro e si voltò verso Herich, che sembrava assorto in
una conversazione con il fratello. “Raddoppierò le sentinelle,”
disse semplicemente.
Non
appena calò la notte, Dewrich diede ordine di accendere dei grandi
fuochi davanti al Primo Tempio. Il capitano Arahad provò a
protestare, facendogli notare che mancando la palizzata il bagliore
delle fiamme sarebbe stato visibile fino a grande distanza, ma il
principe lo zittì e fece portare presso i falò le anfore e le ceste
che aveva ordinato di stivare nella grotta. Nelle prime c’era il
vino migliore di tutta la città di Dyat, quello che veniva servito
solo alla tavola del re, e nelle seconde c’erano cibi di ogni
genere: salsicce, pasticci, dolciumi, confetti, frutta secca e altro.
“Prendetene
tutti!” esclamò Dewrich, “festeggiate con me, amici miei!”
I
soldati risposero con veementi acclamazioni, quindi cominciarono a
servirsi con abbondanza.
Presto
l’atmosfera divenne molto allegra, si improvvisarono canti in onore
di Herich e della casa reale e nonostante i racconti di Res,
tornarono le ballate su Resen-Lhaw e anche sugli eroi del passato.
Come
al solito, il soldato sedeva in disparte. Da tempo non beveva più
alcolici, perché il vino faceva diventare il suo problema più forte
che mai, inoltre per vari motivi non amava stare in compagnia dei
suoi commilitoni.
Rimase
comunque a guardarli, se non con tristezza, comunque con un senso di
estraneità malinconica.
Non
poté fare a meno di notare, però, che i soldati da una parte
sembravano in preda a un’euforia preoccupante e dall’altra, una
volta esaurita la fase di eccitazione, piombavano in un torpore dal
quale era difficile risvegliarli. Addirittura vide uno di essi cadere
riverso accanto al fuoco, così vicino che se fosse stato lucido
sarebbe saltato via con un urlo di dolore, e rimanere beato a ronfare
fino a che non fu afferrato per la collottola e trascinato via.
Spostò
lo sguardo sul principe Dewrich, e lo vide porgere una coppa
traboccante al fratello. Questi dapprima si schermì, poi bevve
qualche sorso, cominciando poco dopo a parlare forte e a barcollare.
Res
aggrottò le sopracciglia e involontariamente si leccò le labbra:
quelli erano gli effetti del tau’zeel, li conosceva molto bene.
Il
principe Dewrich stava somministrando tau’zeel di nascosto a tutti.
Pensò
al da farsi. Non poteva sapere cosa sarebbe successo, ma gli era ben
chiaro che il drogare qualcuno a sua insaputa implicava intenzioni
tutt’altro che buone.
Si
allontanò adagio fino a scomparire nel buio e dalla nuova posizione
rimase a osservare quello che stava succedendo intorno ai falò.
Aveva diverse possibilità. La prima era quella di inforcare un
cavallo, magari proprio il maledetto roano del principe, e partire al
galoppo verso Dyat. O verso qualsiasi altro posto di sua scelta.
Sarebbe diventato – o si sarebbe confermato – un vigliacco e un
disertore, ma almeno si sarebbe salvato la pelle. Le labbra gli si
stirarono in un sorriso amaro. Ma gli interessava, poi, salvare la
pelle? Andare da qualche altra parte, ricominciare in qualche altro
esercito, dato che non sapeva fare altro, sempre come l’ultimo dei
marmittoni, disprezzato da compagni e considerato un idiota dai
superiori?
Non
gli interessava più, in effetti.
La
seconda opzione era quella di unirsi agli altri. Non c’era più
nessuno abbastanza sobrio da accorgersi di lui, avrebbe potuto
ubriacarsi, avere finalmente tutto il tau’zeel che voleva e
sperimentare un’ultima volta quell’inaudita, estatica e al tempo
stesso terribile sensazione di assoluto piacere che conosceva così
intimamente.
Poi
sarebbe successo quel che doveva succedere, ma almeno avrebbe
concluso in bellezza una vita di disonore.
Non
si mosse, nemmeno quella possibilità gli andava bene.
La
terza scelta, forse l’unica che a conti fatti poteva considerare
accettabile, era quella di agire.
Ghignò
di nuovo. Agire, come?
Si
costrinse a ragionare lucidamente, nonostante il desiderio del
tau’zeel gli ruggisse ormai nelle viscere come un incendio. Deglutì
di nuovo, si sentì vacillare. Gli parve di cadere in uno stato di
trance, e quando si riprese aveva la mano su una delle anfore. Saltò
indietro come se avesse toccato del ferro rovente, con il cuore che
gli martellava nelle orecchie. Deglutì di nuovo più volte,
inghiottendo saliva che sembrava acqua. Aveva smesso da anni, ma in
quel momento avrebbe ucciso anche sua madre, pur di avere un sorso di
quel vino drogato.
Si
fece indietro, un passo per volta, percuotendosi le cosce con i pugni
più forte che poteva, per far sì che il dolore fisico lo
distogliesse dalla brama per la sostanza.
Urtò
con il tallone contro il primo dei gradini di pietra che portavano al
tempio. Si voltò in quella direzione. “Dras...” ansimò. Non
aveva mai pregato in vita sua, ma sentiva che la sua volontà stava
venendo meno. “Dras, aiutami.”
Salì
i gradini uno dopo l’altro, con i brividi che lo squassavano e la
vista annebbiata. Sprazzi del passato lo assalivano come pugnalate,
aumentando ogni volta il suo stato di agitazione.
Il
tempio non era illuminato, ma la porta era aperta. Non si soffermò a
considerare quella stranezza, si lasciò cadere all’interno e si
rannicchiò in un angolo, mentre la sua mente sovreccitata continuava
a ripetergli che doveva agire, agire, agire...
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