La prossima volta

di ColdBlood
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Sono tornata con Alberto e Aureliano, post prima stagione, ovviamente.
La storia sarà divisa in tre parti, quindi mettetevi comode.Alcuni nomi e situazioni "nuove" sono state prese in modo abbastanza libero dal romanzo, cioè "Suburra" di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo.
Spero vi piaccia.

Take care

 



La prossima volta


Non era esattamente come se lo era immaginato, fare il capo. Quando vedeva sua sorella fare i conti, seduta ad una sedia, con carte e calcolatrici e conta soldi era convinto che lo facesse per eccesso di zelo. E poi, insomma, era una femmina, queste cose le venivano bene.
Ma ora capiva che non era così. Livia non lo faceva perché voleva, ma perché doveva. Perché suo padre era troppo ignorante e distratto per fare queste cose. Ma lui non aveva altra scelta ora.
Cosa doveva fare? Far fare i conti a Romoletto? O assumere qualcuno che lo facesse al posto suo? Non era andata a finire bene, l'ultima volta
Era seduto in un piccolo ufficio accanto alla sala grande del suo ristorante sulla spiaggia, perché a casa sua non voleva più starci. Il ricordo di Isabelle e di sua sorella era troppo presente ancora
Fare il capo non era così divertente, dopotutto.

Venne interrotto nel bel mezzo di una divisione e questo gli fece provare un’ondata di odio. Verso la matematica e verso Romoletto.
«Aurelià, ce sta qualcuno che te vole parlà.»
Alzò lo sguardo e vide che accanto al suo uomo di fiducia c’era un ragazzino di Ostia. Lo aveva già visto altre volte, era uno dei piccoli spacciatori che spingevano la sua roba in città, tra i coetanei.
«Che voi, ragazzì?» gli chiese, guardandolo duramente. Lo faceva solo perché lo divertiva vedere la paura che incuteva negli altri. Lo faceva sentire potente, ovviamente. Anche se era dietro ad una scrivania a fare conti come un ragioniere.
«Io…io…» iniziò il ragazzo, ma non riuscì a completare la frase perché Romoletto lo interruppe.
«Se tratta de Spadino Aurelià. Sto ragazzino lo ha visto in un locale pe froci.» disse.
Aureliano sentì una vampata di calore attraversargli il corpo. Non era imbarazzo, non era rabbia…era panico.
Si alzò di scatto lasciando, facendo cadere accidentalmente a terra la vecchia calcolatrice, che si aprì facendone saltare fuori una pila su due.
Si avvicinò ai due ospiti e fissò gli occhi in quelli del ragazzo.
«Parla.» disse soltanto.
«Stavo a Roma, uscita con gli amici. Stavamo a cercà un posto dove spigne un po’ de roba senza da fastidio a nessuno e l’ho visto. Un locale privato, me pareva, ma lui stava fori ‘co un ragazzo biondo ossigenato. Tutto omini. » disse, il ragazzetto.
«Qualcun altro l’ha riconosciuto?» chiese, avvicinandosi un altro po’. Il ragazzo era in estrema soggezione.
«Nono, solo io. Nessuno dei miei lo conosce de faccia.»
Aureliano fece un piccolo sospiro sommesso.
«Famo che tu sta cosa nun la dici a nessuno. Vale pure pe te…» disse puntando il dito contro Romoletto, poi tornò a dare attenzione al ragazzo. «Se vengo a sapè che hai detto qualcosa a qualcuno te butto in mare e te faccio magnà da li pesci. Siamo intesi?» lo minacciò aspramente.
Il ragazzo non ebbe il coraggio di parlare, solo di annuire terrorizzato con la testa.
«Vattene mo» disse quindi, girandogli le spalle.
Prima che anche Romoletto lasciasse la stanza, gli fece segno di avvicinarsi. «Daje qualcosa al ragazzo e fatte di il posto preciso» disse, sottovoce. «E tieni le recchie pizze»
Quando rimase solo, dopo un secondo di silenzio, sbatté rumorosamente la mano sul tavolo.
«Imbecille di uno zingaro de merda.»

Ragionò per una giornata intera su quello che avrebbe potuto fare. Una parte di sé gli diceva di farsi gli affari propri e di non impicciarsi ancora una volta con la famiglia Anacleti, ancor meno con Spadino.
Aveva pensato di contattarlo, di chiamare quell’idiota e farlo ragionare, ma si era trovato stranamente sconvolto quando si era reso conto che non sapeva come raggiungerlo.
Prima era Gabriele a tenerli in contatto, ma lui era fuori dalla cornice ormai, per sempre.
Aveva fatto avanti ed indietro nella sua stanza, irrequieto, nervoso e con un nodo allo stomaco.
Non aveva davvero il coraggio di chiedersi cos’era quella sensazione, ma lo sapeva benissimo.
Magari mentre lui era li a chiedersi cosa fare, qualche zingaro figlio di puttana del clan Anacleti aveva beccato quell’idiota di Spadino con qualche puttana bionda e adesso…
Aveva sempre pensato che Spadino era in grado di prendersi cura di se stesso, di sopravvivere. Perché aveva fatto un errore così sciocco?
In un attimo il suo corpo scelse per lui, afferrò la giacca di pelle e in un attimo si trovò nella sua Jeep.
Dopo quaranta minuti di strada, nelle strade notturne di Roma e del suo hinterland arrivò davanti al locale in questione.
Grazie a Dio non era esageratamente frocio come se lo era immaginato, non c’erano insegne al neon, né uomini poco vestiti fuori ad aspettare i clienti. Sembrava un locale come un altro, con un bodyguard vestito di nero alla porta.
L’insegna diceva “Clelia”, con dei caratteri puliti. Su un box di plexiglass evidentemente destinato a locandine di eventi c’era un foglio bianco con scritto “Club Privato”.

Si guardò intorno, cercò la macchina di Spadino ma provò sollievo nel non trovarla. Almeno era stato abbastanza furbo da non portare la sua auto, che chiunque avrebbe riconosciuto, vicino a quel posto.
Ma dall’altra parte ora si trovava da solo, con la sua macchina, davanti ad un locale gay senza sapere cosa fare.
Cosa pensava? Di trovarlo li davanti ad aspettarlo? O che lo avrebbe beccato mentre faceva la sua entrata?
Doveva andare via, Spadino non sarebbe arrivato, ma non riusciva a convincere il suo corpo a girare la chiave e filare via da lì.
Rimase fermo in macchina per quasi un’ora, tanto che ad un certo punto il bodyguard davanti al locale iniziò a guardarlo insistentemente, probabilmente insospettito da quella strana situazione. Una jeep nera, con un uomo fermo dentro che non faceva altro che guardare verso il locale.
Ad un certo punto ebbe la sensazione che il bodyguard si stesse per muoversi e avvicinarsi a lui, quindi mise in moto la macchina e se ne andò velocemente.

La sera dopo, comunque, era di nuovo li e anche quella dopo ancora, ma di Spadino nessuna traccia. Forse si era preoccupato per niente? Forse davvero Spadino era solo li per vendere un po’ di roba.
Pure i froci sniffano no? Come tutti gli altri.
Ma la quarta sera lo vide.
Aveva trovato un posto dietro un secchione dell’immondizia, questo non lo rendeva invisibile dall’entrata del locale, ma almeno non era in piena vista, e lui aveva una chiara visione dell’ingresso e delle persone che passavano sul marciapiede. Si erano fatte le due di notte e lui era lì da troppo tempo.
Quindi lo vide ed era diverso. Non aveva una delle sue felpe, o la sua giacca a vento bensì una giacca nera casual sopra una t-shirt con una stampa gialla fosforescente. Era dopotutto Spadino.
I capelli erano diversi, e questa fu una delle cose che più lo infastidirono. I capelli al lato della testa erano cresciuti e la cresta era sempre meno evidente, anche se ce n’era ancora un accenno. Erano capelli normali, non erano da Spadino.
Dietro di lui c’era un ragazzo magrolino e alto con i capelli biondi ossigenati, che lo seguiva come un cagnolino.
Spadino diede la mano al buttafuori e Aureliano vide chiaramente che gli passava qualcosa, ma non era droga, era un pezzo da cento euro, lo vide chiaramente. Probabilmente lo stava pagando per il suo silenzio e un attenzione particolare a chi faceva entrare.
Si guardò intorno Spadino, uno sguardo distratto, e poi entrò nel locale seguito dal ragazzo.
«Che sta a fa sto cojone» la rabbia stava prendendo il controllo, e lui non poteva permetterselo. Doveva agire, dove fare qualcosa ma essere freddo, altrimenti avrebbe finito per ammazzare qualcuno li dentro.
Si prese un attimo, inspirò e espirò per calmarsi, stringendo le mani sul volante e cercare un minimo di autocontrollo.
Le mani gli pizzicavano, il corpo gli diceva di uscire subito dalla macchina e andarlo a prendere per il collo.
Sospirò ancora, e quando pensò di essere abbastanza calmo uscì dalla macchina e venne accolto dall’aria fresca di una sera di ottobre. Si sistemò la giacca e attraversò la strada.
Il bodyguard lo vide arrivare e modificò la sua posizione, gonfiando il petto e lasciando andare le mani lungo il corpo in caso fosse necessario utilizzarle.
Quando gli fu abbastanza vicino disse «Qui non si può entrare. È un club privato.» gli disse, abbastanza calmo, ma evidentemente Aureliano non si era calmato abbastanza perché con un movimento fluido impugnò ed estrasse la sua pistola dal retro del suoi jeans e gliela puntò sotto il mento.
Poteva essere grosso quanto voleva, ma contro una pistola non c’è niente che puoi fare.
«Non me ne frega un cazzo.» disse, con un sorriso inquietante «Ora tu mi lasci entrare e fai il bono. Prendo na persona e me ne vado, senza fa problemi. Siamo d’accordo?»
Il bodyguard annuì, con gli occhi terrorizzati e lucidi.
«Bene» disse soltanto Aureliano, mettendo via la pistola e passando attraverso la tenda a frange argentate. Dopotutto era un posto pacchiano, in pieno stile Spadino.
Quando entrò la temperatura era molto più alta di quella esterna, le luci erano soffuse e una musica di sottofondo, forse per l’ora tarda. Superò subito sulla destra il bar del locale ed attirò l’attenzione di tutte le persone presenti al bancone, per l’impetuosità con cui aveva fatto il suo ingresso. Nessuno gli disse niente però e lui non presto attenzione a chi lo circondava.
C’erano tre scalini verso il basso che divideva l’ingresso dalla zona clienti. C’erano dei divanetti a ferro di cavallo e fortunatamente poche persone sedute. Erano tutti uomini.
Scese le scale e continuò a guardarsi intorno in cerca di Spadino. Sentiva l’urgenza di uscire da quel posto prendergli lo stomaco.
Finalmente lo vide.
Era nell’angolo destro della sala, su uno di quei divanetti blu. Aveva già un drink in mano e accanto a lui c’era ancora il ragazzino biondo ossigenato.
In una frazione di secondo lo raggiunse, mentre, dietro di lui, sentiva l’intero pub agitarsi.
Il bodyguard era entrato dentro e aveva detto al proprietario quello che era successo. Un gruppo di ragazzi, che lavoravano nel pub, si stavano radunando dietro di lui.
Spadino, sentendo il movimento, alzò gli occhi e lo vide.
Nei suoi occhi c’era sorpresa, imbarazzo e paura. Gli occhi di chi era stato beccato con le mani nel sacco.
Si alzò di scatto «E tu che cazzo ci fai qua?» esclamò.
«Stai zitto e viè co me. O te giuro che te tiro fori a calci» rispose Aureliano, nervoso sui suoi piedi.
Quando sentì queste parole il ragazzo accanto a Spadino si alzò in piedi per essere pronto ad agire, anche se non aveva idea di cosa stesse succedendo.
Il viso di Spadino si indurì e si avvicinò a lui. «Che cazzo ce fai qua?» ripeté con un tono di voce basso e severo.
Aureliano gli afferrò il viso, dal mento, e strinse le mani sulle sue guance. «Dobbiamo annà via da 'sto posto» rispose, sillabando bene ogni parola.
Quando vide che l’atteggiamento dello sconosciuto si era fatto più violento, il ragazzo si avvicinò a loro e lo fronteggiò «Chi cazzo sei eh? Vattene prima che chiamano le guardie!»
Aureliano sentì un’ondata di rabbia invaderlo e in una frazione di secondo spinse con violenza il ragazzo sul divanetto e tirò fuori la pistola.
«Te devi fa i cazzi tua, hai capito? Hai capito?!» urlò, agitando l’arma contro di lui.
Spadino si mise davanti a lui «Mettila via, coglione, che cazzo stai a fa? Daje, ce vengo co te, usciamo da qua.» disse, per farlo calmare.
Aureliano lo guardò per un secondo in viso, non aveva paura di lui, era solo estremamente infastidito.
Mise via la pistola e si girò verso l’uscita, guardò dietro di sé solo una volta per assicurarsi che Spadino lo stesse seguendo.
Il ragazzo rimase fermo sul divanetto, sotto shock.
«Mi dispiace» disse il bodyguard quando i ragazzi gli passarono accanto. Lo staff e qualche ospite si erano raggruppati al bar, per paura probabilmente.
«Non te sta a preoccupà. È tutto apposto» gli disse Spadino, dandogli una pacca sulla spalla.
Quando uscirono all’aria aperta, nessuno li seguì e la porta si chiuse dietro di loro. A quanto pare il pub aveva finito il servizio per quella sera.

Aureliano non si fermò ad aspettarlo mentre si dirigeva verso la macchina, sapeva che Spadino era dietro di lui. Sentiva i suoi passi leggeri sull’asfalto e i suoi occhi puntati dietro la schiena.
«Ma voi parlà, psicopatico der cazzo?» gli urlò Spadino alle sue spalle, fermandosi a pochi metri dal fuoristrada nero.
Aureliano non rispose alla domanda, disse solo «Sali in macchina»
«Io non faccio proprio un cazzo finché non parli»
Aureliano allora si voltò a fronteggiarlo. Erano praticamente in mezzo alla strada e nessuno dei due aveva intenzione di fare un passo.
«Io devo parlà? Io? Me lo voi spiegà tu invece che cazzo ce fai in un posto der genere?» esclamò. Il viso era rosso e paonazzo di rabbia.
Spadino sapeva qual’era il problema, l’aveva capito nel momento in cui l’aveva visto. Era segretamente terrorizzato perché se Aureliano l’aveva trovato, magari qualcun altro sapeva del suo rifugio, nonostante avesse preso tutte le precauzioni che aveva potuto.
«Questi nun so affari tuoi, non è vero Aurelià?»
«Se t’hanno visto i miei uomini Spadì…» si interruppe, abbasso la voce «Se te vedeva qualcuno dei tuoi? Che facevi allora? Ma te sei ammattito?» si avvicinò ancora a lui, arrivando quasi a sussurrare.
«Finivo in fondo al Tevere. Ma a te che cazzo te ne frega eh? L’ultima volta che se semo visti me l’hai promesso. Hai promesso de ammazzamme. Forse qualcuno lo farà prima de te.» rispose, serio come l’aveva visto poche volte, quasi rassegnato.
Aureliano si girò verso la sua macchina, pronto ad andare alla portiera del guidatore.
«Sali in macchina» ripeté.
«Non posso. C’è…» indicò il locale dietro di sé, ma non concluse la frase.
«La tua puttana?» chiese allora Aureliano con veemenza. Perché gli importava così tanto di quel frocio ossigenato?
Spadino non rispose, ma lo guardò negli occhi.
«Perché non poi fa come fanno tutti l’artri? Te prendi una stanza fori Roma e fai quello che devi fa, invece de mettete in pericolo a sto modo!» esclamò, gesticolando.
«Perché me so rotto er cazzo de nascondeme come un topo de fogna. Io me so rotto il cazzo de tutta sta storia Aurelià. Se uno degli uomini de mi fratello me vole fa fori, forse me fa pure un favore.»
Aureliano lo guardò e lo stomaco gli si strinse in una morsa quando notò i suoi occhi farsi lucidi.
«So solo, Aurelià. So solo come un cane. E me so rotto de vive così.»
Per una volta, forse per la prima volta, sapeva quello che provava Spadino. Erano così diversi, sotto tutti i punti di vista, ed era così bravo a nascondere quello che provava sotto quel sorriso bambinesco e quelle movenze da idiota.
Anche lui si era sentito così. Anche lui si sentiva così. Livia lo aveva tradito e abbandonato e lasciandolo gli aveva anche portato via l’unica cosa buona della sua vita.
«Non dì stronzate. Non lo devi neanche pensà.» disse, sottovoce.
«Daje, entra in macchina.»
Spadino non aveva più la forza di lottare, non contro Aureliano.
Quando l’aveva visto per un attimo era tornato a respirare.
Annuì sommessamente e andò verso la portiera del passeggero.
Salì in macchina e prese uno spinello pronto dalla tasca dei jeans, se l’accese anche se sapeva che Aureliano si sarebbe incazzato. Ma stranamente non disse nulla, mise in moto e partì, lasciandolo fumare in pace.
Poi lo vide prendere il suo telefono e comporre un messaggio.
“Prendi un taxi” diceva.
Dopo pochi secondi arrivò la risposta.
“Stai bene?”
Lo vide fissare lo schermo per un po’, poi mise via il telefono senza rispondere. Probabilmente non era sicuro di stare bene.

Non chiese dove lo stava portando, rimase semplicemente in silenzio, fumando e sputando il fumo fuori dal finestrino. L’odore riempiva la macchina.
Aureliano gli accese la radio, di solito lo rendeva sempre di buon umore, ma neanche questo escamotage sortì l’effetto desiderato.
Non aveva un’idea precisa di verso quale luogo stesse guidando, voleva solo andare in un posto in cui nessuno li avrebbe visti, nessuno li avrebbe disturbati, dove potevano stare tranquilli.
Il bello di Roma è che a tarda notte è come una cittadina di provincia. C’è silenzio e tutte quelle persone che vedi in giro durante il giorno, scompaiono dalle strade durante la notte. Vedi solo in giro qualche studente con nessuna voglia di tornare a casa e senzatetto.
Per strada intravide un parcheggio vuoto e andò a parcheggiare nell’angolo più buio.
«Che famo qua?» chiese finalmente Spadino.
«Niente.»
«Lo sai che non poi nascondeme pe sempre?»
Aureliano non gli rispose, guardava davanti a sé. Lui si voltò a guardare il buio e le fronde degli alberi leggermente illuminati dalla luce della luna.
«Volevo esse capo tanto quanto te. Pensavo che me avrebbe fatto sentì meglio. Pensavo che sarei stato libero. » sospirò «Ma so tutte cazzate. Sto peggio de prima, ogni mio movimento è sotto controllo. Mio fratello è in coma in un cazzo de letto d’ospedale e ha comunque più potere de me sulla mia vita.»
Si voltò verso Aureliano «Te pare modo de vive questo, Aurelià? È evidente che questa vita non fa per me. E c’è solo un modo co cui posso uscirne: pe orizzontale.»
Aureliano sbuffò fuori l’aria con la bocca. Solo sentirgli dire quelle parole lo faceva incazzare. Aveva perso troppe persone nei mesi precedenti e, non sapeva per quale motivo, ma l’idea di perdere anche Spadino lo terrorizzava.
«Non poi esse serio. No dopo tutto quello che abbiamo fatto.»
Spadino sputò fuori il fumo, cercando di centrale lo spiraglio di finestrino aperto.
«Io non so più la persona che hai conosciuto all’inizio de sta storia. Ed è principalmente merito tuo. Quindi adesso nun te poi incazzà perché sto a cercà de vive la vita che me resta.»
Aureliano si girò a guardarlo, non del tutto sorpreso dalle sue parole, ma non sapeva assolutamente come rispondergli. Non si era immaginato di rimanere senza parole, all’inizio di quella serata sapeva benissimo cosa gli avrebbe detto, che era un’idiota, che doveva stare attento…che doveva nascondersi.
Ma non si era domandato cosa sarebbe successo se Spadino non avesse avuto la minima intenzione di nascondersi. Non era stato un errore il suo comportamento, non era stata una leggerezza ma una vera e propria decisione.
«Io non voglio che te fai ammazzà» disse soltanto, lasciandosi scivolare le braccia in grembo, mollando finalmente il volante a cui si stava aggrappando.
«Non puoi farci niente.» rispose l’altro, guardando fuori dal finestrino.
Ed era vero, non aveva potere in tutto questo e ci rimase male, perché era convinto che Spadino gli avrebbe dato retta, che avrebbe fatto esattamente quello che lui diceva, perché era importante per lui. Provò una delle sue solite ondate di rabbia, quelle che credeva di aver imparato a controllare.
«Tutto qui quello che hai da dimme? Non posso fa niente? Quindi io me dovrei solo fa da parte e lascià che te ammazzi?»
Spadino si voltò a guardarlo, scosso da quel limbo di spinello e rassegnazione. Lo guardò senza dire una parola, perché conosceva quella faccia. Aureliano incazzato nero che è meglio non contestare. Il volto era contratto, il viso rosso e gli occhi lucidi di rabbia.
«Non pensavo te importasse.» rispose semplicemente, sottovoce.
Non poteva mentire, sentiva lo stomaco attorcigliato. Succedeva sempre quando era accanto a lui e questo gli aveva anche fatto fare delle cazzate.
Se lui non fosse tornato indietro a prendere quel maledetto cappello perso per strada, forse Aureliano non avrebbe dovuto uccidere il padre di Gabriele, forse tutto sarebbe andato in modo diverso.
Ma non riusciva a ragionare bene quando gli era vicino.
Con Alex (non sapeva neanche se fosse il suo vero nome), il ragazzo ossigenato del locale, aveva cercato di chiudere la pratica Aureliano Adami, ma non c’era davvero mai riuscito.
«Oh vaffanculo Spadì, so du giorni che faccio le poste davanti a quel locale demmerda pe trovatte, quindi si, direi che me importa. E tu stai qua a dimme che voi fatte ammazzà, beh, scusa se me fai rosicà. » esclamò, infastidito dal fatto che Spadino non avesse capito nulla.
«Non poi cambiamme. Non puoi cambiare quello che sò. Nessuno può.»
«Non è quello che voglio fa.» rispose, girandosi verso di lui per guardarlo. Davvero non si vedeva?
«E allora che cos’è che voi? »
Aureliano allungò il braccio destro e appoggiò la mano sulla sua guancia, con gli pollice gli accarezzò un sopracciglio. Non aveva mai creduto di essere il tipo di persona in grado di fare dei gesti del genere
«Voglio che rimani vivo.»
Al contatto il cuore di Spadino impazzì nel petto, gli mancò quasi l’aria dai polmoni, era nel panico.
Sapeva benissimo però che cosa avrebbe voluto fare, allungarsi in quella macchina e baciarlo, ma lo aveva già fatto e non era finita bene. Non avrebbe rischiato nuovamente di vedere quell’espressione di puro disgusto sul suo viso, non avrebbe retto un altro rifiuto, certo non da Aureliano.
Incapace di tenere ancora lo sguardo di Aureliano si allontanò, mettendo fine al contatto e questo lasciò l’altro ragazzo piuttosto interdetto.
«Che c’hai?» gli disse, ma il resto della frase rimase taciuta. Forse avrebbe dovuto arrivarci da solo, no? Ora Spadino aveva qualcuno che, probabilmente, non si era comportato come uno stronzo quando si era fatto avanti.
«Me porti alla prima fermata de metro, Aurelià? Me ne vojo tornà a casa.»
«No»
Spadino soffiò fuori l’aria dal naso, guardando il muro buio davanti a lui. Certo, cosa poteva aspettarsi da quel burino egoista de Ostia?
«No, nun te porto da nessuna parte finché non ‘emo chiarito!» continuò Aureliano.
«Che voi chiarì eh? Io so stato chiarissimo in ‘sta storia del cazzo. Sei tu invece che nun se capisce che cazzo voi da me!»
Aureliano non rispose, lo guardava a bocca socchiusa, ma non ne uscì nulla.
«Io lo che cosa vuoi» sorrise Spadino «Voi avè tutto sotto controllo, come al solito. Voi che faccia quello che dici te e che continui a sta al mio posto, non lontano da te ma neanche troppo vicino.»
«Io te posso dì solo una cosa: lasciame perde. Abbiamo avuto la nostra avventura da cazzoni, tu hai perso Isabelle e tu sorella, io ne so uscito fori in mille pezzi. Io e te insieme…è na condanna.» abbassò gli occhi, scuotendo la testa mentre parlava.
Aureliano rimase scosso da quelle parole, non aveva mai capito nulla di Spadino. Non era mai stato in grado di leggere sul suo viso cosa gli passava per la testa, non era mai stato in grado di capire la sua vita e i suoi sentimenti perché lui era sempre così…allegro. Allegro, spensierato e incosciente.
Era bello averlo accanto, sempre solare e divertito, con i suoi balletti del cazzo e i capelli da deficiente. Ma dietro tutta quella messa in scena, c’era un ragazzetto spaventato e innamorato.
«Non poi dì sul serio. Io…nun vojo controllatte. E quello che è successo ad Isabelle è solo corpa mia, so stato io. Tutto quanto, è stata solo colpa mia. Tu…sei l’unica cosa che m’è rimasta.» l’ultima frase gli uscì quasi a fatica, senza fiato, sotto gli occhi del ragazzo.
«Ed è pe questo che sto qua. Perché non vojo perde pure te perché pensi de esse più furbo dell’artri. Io ho fatto sto errore e l’ho pagato caro.»
« E io lo so che ce credi sul serio quando dici che non voi più vive così, ma fattelo dì, stai a crede alle favole, perché quando la vita nun ce l’hai più, nessuno te fà n’applauso. Sei morto da cojone come tutti l’artri su sta terra der cazzo»
Spadino si prese la testa fra le mani, poggiando i gomiti sulle sue ginocchia. Era certo che quelle erano le ultime parole che avrebbe mai voluto sentirsi dire.
«E io so pure che pensi de capì quello che me passa pe la testa, e se è così dimmelo, perché io non lo so che me passa pe la testa.» sospirò, lasciandosi cadere sullo schienale del sedile, ma guardando il passeggero con la coda dell’occhio.
«Io non lo so, non l’ho mai saputo. Io so solo quello che passa nella mia. Devo allontanamme da te, quindi portame alla metro, per favore. Giuro che cercherò di nun famme ammazzà.» quanto gli era costato, ad Alberto Anacleti, dire quelle parole? Non lo guardava negli occhi, non ci sarebbe mai riuscito altrimenti, ma forse era l’unico modo per togliersi da quella situazione. Non riusciva più, fisicamente, a condividere quello spazio con Aureliano. Stava soffrendo, come aveva sofferto quando era stato rifiutato, come aveva continuato a soffrire per quei mesi.
Quanto poteva stare male se preferiva tornare nella tana del lupo che era la sua casa di famiglia?
Aureliano scuoteva piano la testa, senza guardarlo. Non poteva finire così, sapeva benissimo che se lo avesse lasciato andare non lo avrebbe più visto.
«Passa la notte co me» buttò fuori, senza pensarci troppo.
«Che?» si lasciò sfuggire l’altro, ma aveva capito perfettamente le parole appena pronunciate.
«Stamo insieme stanotte. Famo quello che te pare e domani te riporto a casa. Da tu madre, dalla puttana, da chi te pare» era quello che stava chiedendo davvero? Un’ultima notte insieme?
Spadino gli rise in faccia, scuotendo la testa. «Che fai, me prendi pure per il culo? Te sei per caso dimenticato de quanno te so saltato addosso e t’ho baciato? No perché me pare che stai a fa proprio er vago a…»
Non ebbe davvero la possibilità di completare la frase perché, improvvisamente, si trovò addosso il corpo veloce e possente di Aureliano. Lo sovrastò completamente, afferrandolo dalla nuca e tirandolo verso di sé. La mano aveva quasi completamente circondato il suo collo.
Lo baciò, come aveva fatto Spadino mesi prima, in modo impacciato ma liberatorio.
Non era bravo con le parole Aureliano, non lo era mai stato, nessuno glielo aveva insegnato. Ogni parola poteva essere usata contro di lui, ogni gentilezza poteva essere considerata una debolezza, ogni esitazione una breccia da cui attaccare. Era così che era cresciuto, costantemente sotto attacco, e lasciarsi andare, abbassare gli scudi, era una cosa che doveva ancora imparare a fare.
Ma da qualche parte doveva pur iniziare no?
Quindi iniziò da quel ragazzino spezzato che si trovava davanti che, con una naturalezza che Aureliano non aveva mai assaggiato, si era fatto avanti e con un coraggio di cui ancora non riusciva a capacitarsi, aveva detto: “Eccomi, io sono così e sono qui per te, puoi dirmi di sì o di no, non mi importa più” con la consapevolezza che non aveva possibilità di ricevere un sì e che si, gli importava eccome.
Dopo un primo attimo di sorpresa e di emozione pura Spadino si aggrappò alle sue spalle, ricambiando il bacio in stato di semi confusione. Il cuore gli batteva forte nelle orecchie e l’odore di Aureliano gli stava facendo venire le vertigini.
Non aveva nulla a che fare con il loro primo bacio, il bacio rubato in un attimo di pazzia assoluta, quando solo per un secondo era sembrata una buona idea, che Aureliano non lo avrebbe odiato. Ovviamente si sbagliava, ma se non avesse avuto quel momento di assoluta verità forse ora non si troverebbe lì, abbracciato all’uomo che gli aveva cambiato la vita.

Quando si separarono erano entrambi a corto di fiato. Aureliano lo guardava, perché non poteva fare altrimenti, perché si stava rendendo conto che era successo, era successo davvero e non poteva fare nulla per tirarsi indietro. Aveva preso una decisione, o qualcos’altro l’aveva presa per lui.
Non ricordava il momento in cui aveva deciso di baciarlo, era semplicemente successo ed era stato il momento più puro della sua vita.
Esattamente così aveva immaginato la sua nascita, nato per essere messo nelle braccia della donna che lo avrebbe amato dal primo secondo di vita.
Ma poi tutto era cambiato, tutto era crollato, ed aveva paura che la storia si sarebbe ripetuta inesorabile.
«Ehi» la voce di Spadino lo riscosse dai suoi pensieri e finalmente incatenarono gli sguardi.
Fu troppo per Aureliano che si allontanò velocemente e tornò al suo posto, prendendosi i capelli tra le mani. Le emozioni lo assalivano da ogni angolo e si sentiva sotto attacco, ancora una volta. Il momento era già passato?
Spadino allungò una mano, gli toccò il viso, per tranquillizzarlo e per dirgli che andava tutto bene che sapeva come si sentiva, ma non ne ebbe il tempo. Aureliano lo scostò bruscamente, aprendo poi la portiera della macchina ed uscire fuori.
«Aurelià non…» non finì la frase, nessuna parola lo avrebbe fatto tornare indietro, per questo uscì anche lui dalla macchina e lo seguì. Aureliano stava camminando verso il buio, senza una chiara direzione, solo con l’idea di allontanarsi da quel posto.
Spadinò lo fermò, correndogli dietro, circondando la sua vita con le mani. Era come cercare di fermare un leone abbracciandolo, c’era un’alta possibilità di finire dilaniati.
«Nun lo fa ancora» gli disse soltanto, stringendo, in attesa di una reazione violenta, e appoggiando la guancia alla sua schiena.
Aureliano si congelò. Fermo al suo posto, gli occhi spalancati verso il parcheggio buio e desolato.
Lo stava facendo di nuovo, era vero. Lo stava rifiutando ancora.
Posò le mani su quelle del ragazzo, strette sulla sua pancia.
Quello fu il segnale di “Okay, non ti farò male” che convinse Spadino a lasciare la presa in modo che Aureliano potesse fronteggiarlo. «Io non posso…» disse soltanto e Spadino capì che non era solo paura quella che provava.
Non era la solita stronzata di aver troppo paura di un sentimento, né di quello che sarebbe potuto succedere, era una considerazione pensata. Lui non poteva, non poteva seriamente.
Fece un passo indietro e sorrise «Fai bene. Chi vorrebbe sta nella situazione mia?»
Aveva il diritto di chiedere ad Aureliano di essere coraggioso? Di prendere la giusta decisione, che era giusta solo per lui?
Se avesse avuto la possibilità di scegliere, come quella che aveva adesso Aureliano, non avrebbe scelto di tornare a casa da Angelica e farle da marito, invece di quella vita?
Non poteva davvero biasimarlo, anche se sentiva un dolore lancinante al petto.
«Ci vediamo in giro» disse soltanto, prima di girare le spalle e dirigersi verso le luci della strada.
Aureliano sapeva di doverlo fermare, sapeva che era la sua unica occasione, sapeva che se ne sarebbe pentito e sapeva di averlo perso. Ora era completamente solo.


Spadino era tornato a casa a notte fonda. Era l’unico momento della giornata in cui la sua casa era vuota dalla sua famiglia esageratamene numerosa, fatta eccezione per i due uomini di guardia nel giardino.
Tutti erano nelle loro stanze, non c’erano bambini che urlavano, uomini che discutevano e donne che cucinavano.
C’era il silenzio.
Salì al piano di sopra in punta di piedi ed entrò nella sua stanza, chiudendosi poi a chiave all’interno.
Angelica stava dormendo nella sua parte del letto e non sembrò sentirlo rientrare. Lui la guardò per un attimo sotto le coperte, poi andò verso il bagno.
Si spogliò, guardando la sua espressione nello specchio con la cornice dorata, sopra al lavandino anch’esso dorato. Aprì l’acqua del lavandino e quella della vasca con acqua bollente, e in pochi minuti il bagno si riempì di vapore caldo. Lui continuava a guardarsi allo specchio. Guardava la sua espressione vuota, apatica e si chiedeva come fosse possibile dissimulare quello che provava dentro di sé.
Come facevano le persone ad andare avanti, a fare finta di nulla, quando dentro avevano una guerra?
Si sgranchì il collo e la schiena, prima di immergersi nell’acqua calda. Provò dolore, in quell’acqua bollente e la sua pelle chiara prese fuoco, ma ancora, sul suo viso non c’era segno di nulla.
Si era sempre allenato a dissimulare il dolore, doveva farlo per sopravvivenza.
Si lasciò andare sotto l’acqua e il calore gli bruciò le palpebre chiuse. Si bagnò i capelli e tornò su, guardando davanti a sé tramite le ciglia bagnate.
Non riusciva ancora a capacitarsi di quello che era successo. Aureliano, la scenata, il bacio.
“Passa la notte con me”. Ebbe un crampo allo stomaco.
Si era fatto fregare, ancora una volta. Ma non era arrabbiato, non davvero, non avrebbe fatto anche lui la stessa cosa se fosse stato al suo posto?
Sentì due colpi leggeri alla porta e, senza attendere risposta, Angelica entrò nel bagno.
«Albè, che stai a fa?»
Spadino la guardò un attimo, bellissima con la sua vestaglia da notte bianca.
«Quello che sembra. Che me prenderesti uno spinello, pe favore? Nella tasca dei pantaloni.» le indicò i suoi jeans abbandonati a terra. Lei li prese, trovò lo spinello e l’accendino e glieli porse.
«Stai bene? è successo qualcosa co lavoro?»
Spadino scosse la testa, mentre si accendeva la sigaretta.
«No, so stato fori co alcuni amici. Chiuso qualche altro accordo. È annato tutto liscio.»
Angelica sapeva che stava mentendo, ormai lo aveva imparato a capire, ma non la disturbava.
All’inizio aveva pensato a loro due come marito e moglie, aveva sperato che dopo un po’ di tempo di assestamento sarebbero diventati come i suoi genitori, ma ora non era così.
Ora pensava a loro due come a dei compagni di vita, tenuti insieme dalla sorte e dall’affetto.
Angelica gli voleva bene, e da quando Spadino era venuto a patti con quello che era, si era dato la possibilità di farsi avvicinare.
«Viè qua, fuma co me.» le disse, facendole segno con la mano, e Angelica si sedette nell’angolo esterno della vasca, con la spalla sul marmo freddo. Le passò lo spinello.
«Stai bene, Albè? Te vedo strano.»
Lui annuì, spargendo un po’ di bagnoschiuma nell’acqua e guardando il crearsi delle bolle.
«Sto bene, stavo solo a pensà.»
«A che cosa?»
«A come sarebbe la vita mia se c’avessi la possibilità de sceje.» appoggiò la testa al muro e la guardò fumare con la coda dell’occhio.
«Che te sarebbe piaciuto fa se fossi nata in un’altra famija?» le chiese.
Lei si prese un attimo per pensare.
«Non lo so. Probabilmente avrei studiato un po’ de più, magari qualcosa riguardo l’arte, la storia, roba così. Poi me sarei trovata un lavoro, qualcosa pe uscì de casa tutti i giorni, qualcosa co la gente. Non lo so, forse sto a dì un sacco de fregnacce.» si girò verso di lui con un sorriso e gli passò di nuovo lo spinello.
«Te invece?»
«Avrei girato il mondo. Sai, come i nostri antenati, sempre in giro, mai radici, solo pe strada.»
Era solo un pezzo della verità, ovviamente.
Angelica rise «Seee, te piacciono troppo i sordi e la comodità. Duravi du giorni!» lo prese in giro e Spadino si trovò a sorridere.
«Guarda che stronza» le disse, scherzoso.
Poi si fece immediatamente serio e, facendo un tiro dallo spinello, la guardò.
«Me dispiace che te so capitato io. Almeno tu potevi avè na possibilità de sta bene.» le disse, ed era serio e sincero. Non era mai stato sincero in vita sua, e da quando aveva iniziato ad esserlo almeno con se stesso era diventato un po’ più facile.
Angelica lo guardò sorpresa e preoccupata, per un attimo, poi fece spallucce e sorrise.
«Non siamo fortunati, io e te. Ma…hai visto le persone che ce circondano Albè? Me poteva capità molto peggio, potevo finì a fa la serva co l’unico scopo de sfornà ragazzini.» rubò lo spinello dalle mani di Spadino.
«Lo so che non è quello che vorremmo fa, ma io e te potemo diventa Re e Regina de sta famija. Potemo fa andà le cose come ce va a noi, e gli altri staranno sotto de noi. Lo so che hai i cazzi tuoi e qualsiasi cosa fai de notte, a me nun me ne frega, su de me ce poi sempre conta. Finché io posso contà su de te.»
Spadino la guardò per un attimo, ragionando sulle sue parole, poi allungò la mano bagnata, gocciolando acqua sulla sua vestaglia da notte, e le prese il mento tra le dita.
L’avvicinò a sé e le stampò un bacio bagnato sulle labbra

Aureliano passò qualche giorno in solitudine allo stabilimento, dormendo su quel letto scomodo e facendo il bagno a mare la mattina presto, insensibile alle temperature d’aprile. Pensava che l’acqua del mare lo avrebbe ripulito, avrebbe rinfrescato i suoi pensieri e avrebbe cancellato via ogni dubbio.
Sapeva di aver fatto la scelta giusta. Lo sapeva che era solo, ne era consapevole, ma forse sulla strada che stava percorrendo avrebbe trovato un'altra persona con cui stare bene, con cui sentirsi meno solo.
E quella persona non poteva essere Spadino, nel modo più assoluto, Alberto Anacleti non era una possibilità.
Ma allora perché si sentiva così vuoto?
Tornò a lavoro, perché richiamato con la forza e riprese a fare i suoi conti, a gestire i suoi affari nella totale apatia. Una cosa positiva c’era però: non aveva la forza per lasciar uscire la sua rabbia incontrollata, quindi stava facendo meno danni del solito. Sua sorella sarebbe stata fiera di lui, se solo fosse stata lì insieme a lui.


Stava bevendo uno schotch davanti al mare, una sera, quando sentì mormorii e movimento tra i suoi uomini che erano con lui al ristorante. Si guardò intorno, cercando l’uomo alla porta.
«Che cazzo sta succedendo?»
L’uomo non sapeva la risposta, quindi si congedò per andarlo a scoprire.
Invece tornò indietro Romoletto, anticipando il passo di qualcun altro alle sue spalle. Quando Aureliano vide Spadino varcare la soglia lo stomaco gli si strinse in una morsa dolorosa.
Dietro Spadino c’erano altri tre uomini, era evidente che non si fidavano di lui nonostante lo avessero perquisito all’ingresso.
«Aurelià…» Romoletto non ebbe il tempo di finire la frase.
«Andate fuori! Tutti quanti! E chiudete la porta!» urlò Aureliano, lasciando il suo bicchiere sul tavolo e andando verso l’entrata. Aveva occhi solo per Spadino e gli altri non li vide neanche lasciare la sala e chiuderli dentro.
«Ciao» disse poi, con un tono di voce più leggero.
«Ciao. Scusa se me so autoinvitato» disse Spadino, andando verso di lui. «Ma ho bisogno del tuo aiuto. Tu sei l’unico a cui potevo chiede.»
Aureliano era deluso. Così, dritto al sodo?
Annuì e lo invitò a parlare.
«Alex…è scomparso. Non riesco più a trovarlo. E non so come cercarlo da solo. Non posso chiede a nessuno de aiutamme. Solo tu sai…»
Aureliano sbatté le palpebre e aggrottò le sopracciglia. Alex? Chi era Alex?
Spadino lo intuì «È il ragazzo…del club.» disse esitante.
L’altro annuì ma non disse nient’altro.
Avrebbe voluto fargli delle domande. Anzi, una domanda principalmente. “È il tuo ragazzo?”
«Quando l’hai visto l’ultima volta?» chiese invece, tornando al bancone del bar a prendere un altro bicchiere per l’ospite.
«Circa ‘na settimana fa. Era tutto normale, nun m’ha detto de volè anda via. Ho cercato al punto dove se mette, ma nessuno l’ha visto. Magari coi tuoi contatti poi fallo cercà negli ospedali o ar gabbio»
Aureliano annuì. «Lo posso fa.»
Spadino rimase in silenzio, studiando la sua frase. Avrebbe potuto, ma non voleva farlo?
«Lo farai?»
Aureliano si girò a guardarlo, il ragazzo aveva lasciato uno spazio esorbitante tra i loro corpi per due persone che stavano avendo una conversazione così segreta.
Esitò. Gli dava fastidio quella richiesta? Assolutamente si. Ma non poteva non farlo. Spadino c’era sempre stato per lui quando aveva avuto bisogno.
«Lo farò. Ma immagino che Alex non sia il suo vero nome…»
Spadino scosse la testa «No. Ma io nun lo so il suo vero nome. Nun te posso aiutà co questo»
«Magari tu me poi dì se ha qualche segno particolare. Quello secondo me me lo sapresti dì.»
Ora si stava comportando come uno stronzo, e lo sapeva. ‘No stronzo geloso.
Lo sguardo di Spadino si indurì, provò un’ondata di rabbia nei suoi confronti, ma poi sgranchì il collo e rilassò il viso. Non gli avrebbe dato questa soddisfazione.
«Te lascio er numero mio.» disse e si avvicinò a lui, tendendo la mano. Voleva il cellulare di Aureliano.
Quando l’altro glielo porse le loro mani si sfiorarono per un attimo. Per Aureliano fu una scossa, Spadino invece fece finta di nulla e prese a scrivere il suo numero sulla tastiera.
«Grazie Aurelià. Ci sentiamo.»
Girò le spalle e se ne andò, e ancora una volta Aureliano lo lasciò andare.

Aureliano rimase un po’ a guardare il mare, in piedi davanti alle ampie vetrate, a riempirsi ancora ed ancora il bicchiere. Doveva farlo, doveva aiutare Spadino a trovare quel ragazzo anche se era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare al mondo. Da quando era diventato così infantile?
Quando fu abbastanza ubriaco chiamò Romoletto e gli diede istruzioni. Avevano qualche medico sulla lista, alcuni in busta paga, altri sotto scacco a causa di qualche vizietto di droga, gioco o puttane.
Lo stesso valeva per alcune guardie, che potevano aiutarlo a cercare il ragazzo per le prigioni di Roma.
Gli fece una breve descrizione, quello che ricordava di quella sera, i capelli biondi ossigenati come i suoi, il corpo esile e slanciato, le labbra carnose ma i tratti del viso spigolosi.
Non era molto da cui partire, ma meglio di niente.

Notizie consistenti arrivarono solo 24 ore dopo. Un ragazzo che rispondeva vagamente alla descrizione era stato ricoverato al pronto soccorso del S.Eugenio, zona Eur.
Mandò la soffiata a Spadino e si videro nel parcheggio davanti all’ospedale.
«Non c’era bisogno che venivi pure te» gli disse Spadino, quando lo vide scendere dal suo jeep nero.
«Devo allungà du mazzette se è davvero lui» rispose. Non era vero, ovviamente, non si occupava mai lui personalmente dei pagamenti.
Spadino annuì e si diresse verso l’ospedale. Erano le nove di sera e certamente non era orario di visita, ma non era un problema che li riguardava.
Il medico che aveva avvertito Aureliano aveva un piccolo problema di cocaina, nessun grande debito, ma faceva qualche favore in cambio di dosi gratis. Un medico faceva sempre comodo, soprattutto a loro.
Li stava aspettando davanti all’ingresso da cui arrivavano i furgoni che portavano via i rifiuti speciali e li fece entrare senza attirare troppo l’attenzione. Li indirizzò verso la stanza di degenza e se ne andò.
Spadino vide chiaramente che non c’erano stati passaggi di soldi.
Arrivarono velocemente davanti alla stanza, dopo aver preso l’ascensore ed essere saliti di un piano e videro il ragazzo steso sul letto. Era lui.
Aveva il viso completamente tumefatto e un braccio fasciato stretto al petto, probabilmente una spalla lussata, ma Spadino lo riconobbe senza problemi. Anche Aureliano, quei capelli erano impossibili da non riconoscere. Il biondo ossigenato sparava moltissimo sul bianco del cuscino.
Aureliano rimase sulla porta mentre Spadino entrò dentro e si accostò al letto. Aveva un espressione preoccupata.
«Alex» lo chiamò. Il ragazzo stava sonnecchiando, quindi quando si sentì chiamare aprì immediatamente gli occhi.
«Alberto»
Quello fu un colpo duro per Aureliano. Alberto. Lo aveva appena chiamato con il suo nome e non Spadino, come lo chiamavano tutti. Fu una cosa che lo prese allo stomaco, come un pugno ben assestato.
«Come hai fatto a trovarmi?» chiese il ragazzo. Aveva un leggero accento, ma un italiano perfetto.
«Mi ha dato ‘na mano st’amico mio.» indicò con il pollice Aureliano appoggiato allo stipite della porta.
Alex lo guardò per un attimo, poi sorrise a fatica tra i lividi e il labbro gonfio.
«Il pazzo del pub. Me lo ricordo.»
Guarda te ‘sto stronzo.
«Chi t’ha ridotto così, eh?»
Il ragazzo si fece serio «Non ti preoccupare. Sto bene. Sono i rischi del mestiere, no?» disse infine, ridendo.
«Io nun sto a scherzà però. Me devi dì chi è stato.» Spadino era mortalmente serio
«Nun possiamo sta qua pe sempre Spadì, datte na mossa» si intromise a quel punto Aureliano, dando un’occhiata veloce ai corridoi.
Spadino lo ignorò.
«Me lo devì dì, prima che rosico» avvicinò il viso a quello del ragazzo che, sconfitto, gli sussurrò qualcosa all’orecchio. «Non fare niente però, per favore. Lasciamo chiudere la faccenda.»
Spadino si alzò e fece un passo indietro, guardò Aureliano per un attimo e ignorò volutamente l’ultima frase detta dal ragazzo. «C’hai bisogno de qualcosa? Vestiti? Soldi?»
Alex scosse la testa «No Albè, ti ringrazio» gli sorrise e gli prese una mano, stringendola per un attimo.
Spadino non diede segno né di ritirarsi da quel contatto, né di incoraggiarlo.
«Riprendite, eh? Se posso te ripasso a trovà» disse, ma non sapeva se lo avrebbe fatto davvero.

Appena uscirono di nuovo all’aria aperta Spadino si accese uno spinello.
«Alberto, eh?» gli chiese allora, piccato.
«È er nome mio» gli rispose l’altro, molto semplicemente.
«Si, lo so che è er nome tuo!» Aureliano era visibilmente nervoso, Spadino lo capì immediatamente e si girò a guardarlo. Cercò in tutti i modi di non sorridere di soddisfazione. Aureliano era geloso e si vedeva così palesemente sul suo viso che era quasi imbarazzante.
Lo volle far cuocere nel suo brodo, quindi tagliò la conversazione.
«Conosci un certo Maurizio De Luca?» gli chiese invece.
Aureliano ci pensò un attimo, poi scosse la testa «Nun me dice niente. È il tizio che l’ha conciato in quel modo?»
«Si. Dice che è in politica. A quanto pare je piace menà.»
«Nun me stupisce. Me informo, se vuoi.»
Spadino scosse la testa «È de zona mia, credo de potello trovà facilmente. Hai fatto abbastanza Aurelià, te ringrazio.» disse poi, andando verso la sua macchina dorata, con una mano in tasca e lo spinello in bocca.
«E che fai se lo trovi?» gli chiese Aureliano, prima che potesse entrare in macchina.
«Je faccio passà la voglia de menà la gente.»
Spadino se ne andò via sgommando e lui si trovò da solo come un coglione in un parcheggio mezzo vuoto.
Un’idea gli balenò nel cervello, e cercò di combatterla per qualche minuto, dicendosi quanto fosse infantile e da stronzi e che se Spadino lo avesse scoperto non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Ma la parte non razionale vinse ancora una volta, quella parte di sé che lo metteva sempre nei guai.
Si sistemò la giacca, girò i tacchi e rientrò nell’ospedale.
Tornò nella stanza del ragazzo che lo accolse con uno sguardo sorpreso.
«Alberto ha dimenticato qualcosa?» gli chiese, innocentemente. Ad Aureliano diede il voltastomaco.
«No, so io che te devo parlà.» gli disse. Prese una sedia di legno chiaro dall’angolo della stanza, la sistemò a ridosso del letto, in modo che potesse guardare il ragazzo in faccia, e vi si sedette a cavalcioni.
«C’ho na proposta da fatte» iniziò «Che ne dici de lascià sto lavoro demmerda e inizià na vita nuova, da n’altra parte, che ne so, Milano, Bologna, un posto de questi che a voi froci piacciono tanto?»
Quell’espressione che aveva messo su era quella che tutti temevano, quella davanti a cui tutti rimanevano in silenzio ad osservare terrorizzati. Ed era così che lo guardava Alex, assolutamente terrorizzato, come quella sera al pub.
Aureliano non attese una risposta, non gli interessava davvero. «Famo che tu, quando esci da qua dentro, nun contatti più Alberto, ma prendi baracca e burattini e te ne vai in silenzio.»
Alex aggrottò le sopracciglia, ora più confuso che spaventato. «Io non capisco. Alberto ti ha chiesto questo?»
«So io che te lo dico, lascia perde Spadino. Se tu me assicuri sta cosa, io te preparo ‘na bella borsetta de contanti e ce puoi andò do te pare, basta che lasci Roma. Che me dici, te piace come programma?»
Alex rimase in silenzio, confuso e spaventato. Quella di quel pazzo non sembrava una vera e propria proposta, era più che altro un ordine e lui ne aveva le palle piene di essere alla mercé di quei malati di mente. Ne aveva abbastanza di essere abusato, picchiato e stordito. Avrebbe volentieri lasciato quel lavoro, si, gli sarebbe piaciuto vivere a Bologna, o a Milano. Ma Alberto? Era sempre stato gentile con lui, probabilmente perché era così danneggiato.
Alex aveva imparato a riconoscerle, le anime buone e quelle cattive, era necessario per il lavoro che faceva. A volte sbagliava, ma con Alberto ci aveva visto giusto e gli aveva dato più confidenza di quella che dava solitamente ai clienti abituali. Erano usciti insieme, anche senza fare sesso, perché gradiva la sua presenza.
Ma la possibilità (obbligo?) che gli si era presentata era davvero ghiotta.
«Di quanto stiamo parlando?» chiese, sottovoce.
«Abbastanza pe trovatte una strada diversa.» Aureliano sapeva già di averlo convinto.
«Signore, cosa ci fa qui? L’orario di visite è finito ore fa!» si girarono di scatto, interrotti da una voce di donna. C’era un’infermiera sulla porta, confusa e irritata.
Fu Alex a prendere la parola «Ci scusi, infermiera, mio cugino ha appena staccato da lavoro e voleva solo farmi un saluto» disse, con una dolcezza tale da fargli venire il vomito.
L’infermiera si rilassò in un attimo. «Va bene, altri cinque minuti e poi fuori, eh?»
Alex si rivolse a lui immediatamente, dopo che l’infermiera se ne fu andata.
«Alberto mi ha parlato di te» gli disse, a bruciapelo «Non mi ha detto il tuo nome, ma ho capito che parlava di te appena ti ho visto al locale»
«Ah si? E che t’ha detto?» Aureliano faceva il superiore, con un sorriso accondiscendente.
«Mi ha raccontato qualche vostra avventura. Io da solo ho capito che è innamorato di te.»
Aureliano sbuffò e si alzò di scatto dalla sedia «Me pari un romanzo rosa quanno parli. Se siamo d’accordo in settimana ti faccio portà i sordi, ma t’avverto: se me prendi per il culo rimpiangerai il servizietto che t’hanno fatto a sto giro.» rimise a posto la sedia e fece per andarsene, la voce di Alex lo raggiunse.
«Se non prendi una decisione in fretta, dopo di me ci sarà qualcun altro.»
Non si girò più indietro, imboccò il corridoio, riprese l’ascensore ed uscì dall’ospedale.

Avrebbe mentito se avesse detto di non aver ripensato e ripensato a quel giorno. Sapeva assolutamente di aver preso la decisione sbagliata, non era mai stato bravo manipolare le persone, ma era sempre stato molto bravo a minacciarle.
Cosa aveva ottenuto, liberandosi di Alex? Aveva preso una decisione senza un obiettivo finale chiaro e, in fin dei conti, il risultato era stato solo quello di ferire Spadino.
Ma se tutto andava secondo i piani Spadino non lo avrebbe mai saputo, Alex sarebbe andato via nella notte e tutto sarebbe tornato alla normalità. Per quanto loro non sapessero cosa fosse la normalità.

Per qualche settimana Aureliano visse in attesa. Ebbe la possibilità di ritirare la proposta fatta ad Alex ma non lo fece, era andato troppo in là. Gli fece recapitare i soldi e poi non ebbe più sue notizie. Sapeva che probabilmente avrebbe dovuto farlo tenere sotto controllo ma non voleva che l’attenzione dei suoi uomini si concentrasse su questo ragazzo mai visto.
Non vide neanche Spadino, né ebbe sue notizie. Venne solo a sapere di un aggressione ad un politico, spacciata alla tv come un tentativo di rapina. Ovviamente non era niente del genere, Spadino aveva semplicemente mantenuto la sua parola e aveva fatto dare una lezione alla persona responsabile dell’attacco ad Alex, o forse lo aveva fatto di persona.

Fu tutto tranquillo per qualche altro giorno, tanto che Aureliano riuscì a tornare alla sua solita vita e a chiudere la pratica Alex. Il ragazzo era andato via in silenzio, come si era raccomandato?
Le certezze crollarono quando, verso le sette di sera, arrivò un messaggio sms sul suo cellulare. Era Spadino.
“Sto venendo ad Ostia. Ci vediamo allo stabilimento.”
Si trovò bloccato sulla sua sedia a leggere e rileggere quel messaggio, con lo stomaco attorcigliato.

Quando arrivò allo stabilimento Spadino era già arrivato, aveva decisamente passato troppo tempo ad esitare seduto su quella sedia.
Se ne stava appoggiato alla sua macchina con le braccia incrociate, con gli occhi verso il mare e verso il sole che calava.
Parcheggiò la jeep accanto lì accanto e lo raggiunse. «Allora? De che me devi parlà?» disse, cercando di essere più naturale possibile.
Molto lentamente Spadino distolse gli occhi dal tramonto e li puntò su di lui.
Aureliano capì in quel momento che lui sapeva.
«Secondo me sei più tu che me devi parlà.» disse, lo sguardo duro, i muscoli contratti, le braccia incrociate strette.
«Nun so a che te stai a riferì.» gli conveniva davvero continuare con quella sceneggiata?
Spadino fece una risata allibita «Ma che fai me prendi anche per il culo? Alex se n’è andato. Mi ha mandato un messaggio e mi ha detto quello che hai fatto» gli disse, allontanandosi dalla macchina e avvicinandosi a lui. Aureliano aveva lasciato un paio di metri tra di loro.
«Non doveva dirtelo. Doveva andar via in silenzio.»
Lo studiò un secondo, scuotendo la testa «Davvero è l’unica cosa che c’hai da dimme?» rimase in silenzio per un attimo. «Me voi spiegà?» si era fatto serio e si era calmato, ora voleva solo sapere la verità.
«L’ho fatto pe te. Lo fatto pe fatte capì che è pur sempre na puttana. Che coi soldi giusti te avrebbe mannato bevuto. Je stavi a da troppa fiducia.»
Spadino alzò le sopracciglia e gli venne da ridere «Ah, l’hai fatto pe me? Davero? Nun te immaginavo così altruista» lo prese in giro, velenoso, e fece qualche passo ancora verso di lui. Aureliano non indietreggiò.
Nel frattempo il sole calava definitivamente dietro di loro e il parcheggio rimase illuminato solo dalla luce proveniente dai lampione della strada.
«Lo sai che penso invece? Che te eri geloso e che hai fatto quello che dovevi pe levattelo dai cojoni.»
«Stai a dì cazzate» lo interrupe bruscamente Aureliano.
«Me devi ‘na spiegazione Aurelià, nun te poi salvà così.»
«T’ho già detto perché l’ho fatto. Sapeva troppo.»
Spadino scosse la testa, indurendo la mascella. Dio, quanto avrebbe voluto avere la forza per rompergli quella faccia da cazzo. Sentiva la rabbia montargli dentro.
Annuì «È vero. Alex sapeva cose de me. Perché era l’unica cazzo de persona con cui potevo parlà, Aurelià! L’unica persona che conoscono ad essece passata. E tu…» si interruppe, prendendo fiato. Aureliano aveva quell’espressione da menefreghista che aveva imparato a conoscere e semplicemente non ce la fece.
«Lo sai che c’è? Lascia perde. Tu non poi capì. Sei solo un pezzo de merda.» gli girò le spalle e fece per andare verso la sua macchina, mentre il cuore batteva forte in petto per la rabbia e lo stomaco gli si chiudeva per la frustrazione.
Certamente non si aspettava una piena confessione, anche se era evidente che la gelosia aveva mosso le sue azioni, ma non si sarebbe immaginato tale menefreghismo.
Forse non era gelosia, forse Aureliano lo aveva fatto solo per ferirlo. E niente di più di questo.


«Hai ragione» le parole lo raggiunsero quando stava per afferrare la maniglia dello sportello e si girò di scatto per guardare la sua faccia. Aureliano era in imbarazzo, le guance erano rosse e gli occhi spiritati.
«Hai ragione. » ripeté Aureliano, avvicinandosi a lui per guardarlo negli occhi.
«L’ho fatto perché volevo farlo, perché volevo fallo andà via. Odio il fatto che sappia così tanto di te, e che te chiama cor nome tuo.» era inutile continuare a mentire, anche se avesse continuato con la sua sceneggiata, Spadino gli vedeva attraverso.
«E che dovrebbe significà, adesso? Che non voi esse tu, ma non po esse nessun altro?» Aureliano non rispose, messo davanti alla domanda secca.
Non aveva il coraggio di essere Alex per lui.
«Me poi pure chiamà Alberto se te fa sentì meglio, ma Alberto non è diverso da Spadino per te.» continuò. «Quando sto co te so sempre Alberto, poi tu me poi chiamà come cazzo te pare.» si lasciò andare contro la macchina, cercando di rilassare i muscoli. Era così teso che avevano iniziato a fargli male le spalle.
Abbassò gli occhi, fissandoli sulle scarpe. Eccoli lì, un’altra volta ad un'impasse.
Stava pensando a quello che aveva perso, stava pensando che ora era di nuovo solo come un cane e avrebbe dovuto essere incazzato nero con quell’uomo egoista davanti a sé. Si sentì inutile e patetico perché non riusciva a provare odio nei suoi confronti, ma era così che funzionava, Aureliano gli aveva dato tutto e poi tolto tutto. Era così che il cerchio si chiudeva.
Aureliano lo guardava e più lo guardava più si concretizzava quello che aveva fatto. Lo aveva ferito, ancora una volta.
«Mi dispiace.» gli disse allora, prendendogli la mano abbandonata contro il suo corpo. Voleva un contatto con lui e risvegliarlo dalla sua tristezza.
Spadino scosse la testa, ma si fece toccare, anzi Aureliano lo sentì stringergli la mano con le dita. Aveva finito le parole, non sapeva più cosa dirgli a quel testa di cazzo davanti, ma ogni volta che lo toccava, ogni volta che lo aveva vicino, niente contava più. E si sentiva uno schifo per questo.
«Dì qualcosa. Nun te riesco a legge nella mente»
Spadino sorrise «Non c’ho più niente da ditte Aurelià. Stavolta m’hai lasciato senza parole.»
Aureliano sospirò, probabilmente quella era risposta più brutta che non era riuscito a prevedere.
Lo abbracciò.
Lo strinse tra le braccia e Spadino, Alberto, sembrava ancora più piccolo. Pensò per un attimo che lo avrebbe mandato via, invece il ragazzo lo strinse a sua volta, cingendogli la schiena e serrando le mani all’altezza dei fianchi.
Lo sentì rilassarsi tra le sua braccia, come se fosse stato ingessato per tutto quel tempo. Essere lì senza sapere cosa diavolo gli passasse per la testa lo faceva uscire matto. Spadino aveva la fronte appoggiata alla sua spalla e gli respirava contro la giacca di pelle e piano piano iniziò a sentire il calore irradiarsi da quel punto. Cercò di concentrarsi sul suo respiro, chiudendo gli occhi e dandosi un attimo di tregua.
Senza pensarci troppo lo spinse con le testa e cercò le sue labbra, le accarezzò con le sue, con gli occhi chiusi, senza farsi troppe domande, senza pensare a quello che sarebbe successo il secondo dopo, e quello dopo ancora. Diede per scontato che avrebbe continuato a baciarlo.
E non si riconosceva, doveva essere sincero, a baciarlo c’era un'altra persona, non certo il solito Aureliano testardo, arrabbiato e sicuro di sé.
Spadino si stava godendo quel momento, ma con una concezione totalmente diversa. Si stava godendo quel momento perché sarebbe finito tra qualche istante, e poi tutto sarebbe tornato come prima. Non avrebbe lasciato segni, quel bacio. Tutti quanti tendevano a dare un significato troppo profondo a labbra che si toccano, lingue che si intrecciano, respiri rotti per qualche attimo. Un bacio non significava nulla.
Non riuscì a stare fermo comunque, perché era sempre Aureliano quello che aveva davanti, e si era ormai abituato all’effetto che gli faceva.
Si mosse contro di lui, mettendosi pateticamente sulle punte dei piedi per raggiungerlo facilmente, approfondì il bacio. Aureliano sussultò per un attimo, ma si adattò quasi subito, riappropriandosi della sua superiorità fisica. Lo stringeva forte, e i corpi aderivano quasi completamente e questo mandò Alberto completamente in panico. Il suo corpo stava reagendo, e l’ultima cosa che voleva era spingere la sua erezione sulla gamba di Aureliano, l’imbarazzo l’avrebbe potuto uccidere.
Punto le mani sul suo stomaco e lo allontanò bruscamente, tanto che Aureliano si trovò a sbattere gli occhi per la confusione, come quando si veniva svegliati all’improvviso durante un sogno. Aveva la testa vuota.
Spadino evitava il suo sguardo e sospirava profondamente, assicurandosi di avere un po’ di spazio tra i loro corpi. Con la mano ancora sulla sua pancia sentiva che Aureliano aveva l’affanno e i suoi muscoli erano tirati.
«C’hai fatto?» gli chiese allora Aureliano, ancora non completamente con i piedi per terra.
«Niente. Non ho fatto niente. Solo che…» prese un attimo di respiro e sgusciò via, allontanandosi da lui.
«è meglio fermasse prima che…» non sapeva assolutamente come mettere in parole quello che stava provando, quello che temeva, quello che voleva.
Prese un profondo respiro «Io nun la so gestì ‘sta cosa Aurelià. E manco tu. Quindi fermiamoci qui, salutiamoci qui e ognuno pe la sua strada»
Aureliano boccheggiò «Ma…ma che cazzo stai a dì? Che vordì “salutiamoci”? Voi fa er difficile adesso?»
Spadino sbuffò, a volte non ci credeva che si era innamorato di un tale deficiente.
«No, cazzo, nun sto a fa er difficile. Voglio solo fatte capì che l’ultima cosa che voglio al mondo e tiratte dalla mia parte. Fatte diventà come me. L’ultima cosa.» si avvicinò a lui e gli afferrò il polso.
«Tu c’hai la possibilità de esse normale. Lo so che è partito tutto da me, e te chiedo scusa, ma te sei ancora in tempo.»
Credeva davvero alle parole che stava pronunciando?
Probabilmente no. L’ultima cosa che voleva, al mondo, era perdere Aureliano. E Dio solo sapeva quanto volesse portarlo dalla sua parte. Ma avanti, che futuro potevano avere?
Nella migliore delle possibilità avrebbero scopato e Aureliano si sarebbe scoperto disgustato da lui e lo avrebbe mollato in tronco.
Nella peggiore, finivano entrambi nel Tevere con gentile concessione della famiglia Anacleti e gli sciacalli avrebbero banchettato su Ostia.
Aureliano non sembrava convinto, lo guardava e sembrava quasi ferito. Decise di parlare ancora, per convincerlo.
«Pensace n’attimo, okay? Che cosa accadrebbe se ci scoprissero? Te lo…»
Aureliano lo interruppe bruscamente. «Nessuno ci scoprirà. Staremo attenti.»
«E se lo scoprisse er Samurai? Lo sai che quel pezzo de merda c’ha occhi ovunque. Che famo poi?»
«Cosa cazzo vuoi che me ne freghi der Samurai! Je tajo la gola da orecchio a orecchio se me pare!»
Eccolo il caro e vecchio Aureliano, quello che aveva ormai imparato a conoscere, quello a cui era riuscito a vedere attraverso.
Alberto sospirò e scosse la testa, sconfitto «Tu non voi ragionà…»
«No, nun me va de ragionà proprio ora. Perché anche ragionandoce non ce capirei un cazzo de tutta sta storia.» Aureliano si avvicinò a lui fronteggiandolo «Poi, col frocetto ce andavi in giro tanto che lo so venuto a sapé pure io, mo te stai a fa tutti sti scrupoli?»
«Lui sapeva quello che voleva.» sputò fuori Spadino «Lui sapeva chi era. Come lo so io. E nessuno dei due aveva scelta.»
«Tu poi dì lo stesso? Io...io penso che te stai aggrappà a me perché te senti solo. Perché Isabelle non c’è più e tuo padre, e tua sorella. E io…ce sto sotto come un treno, te lo giuro. Ma…non posso pensà che te sto a rovinà la vita.»
Aureliano rimase a guardarlo, completamente inerme. Si prese un attimo, un attimo per ascoltare, per sentire, per percepire quello che Alberto gli stava dicendo.
Stava davvero ragionando sulle conseguenze delle sue azioni? O stava solo andando di istinto come faceva di solito?
La sua irascibilità, la sua aggressività e la sua sfrontatezza dove lo aveva portato, se non a perdere tutto quello a cui teneva?
Forse era vero quello che diceva? Si stava aggrappando a lui per non rimanere solo? Era possibile che tutto quello che stava provando nel petto e nei pantaloni in quel momento fosse un’illusione e una menzogna del suo cervello?
Poteva dire di essere come Alberto? O come Alex? Forse no. Ma significava davvero qualcosa essere come Alberto?
«Io nun so come te. E sicuramente nun so come l’amico tuo.» gli disse, con un filo di voce, ma con l’aggressività di fondo che lo distingueva.
Non fece neanche finta di non notare Spadino mentre incassava il colpo.
I muscoli del suo viso, contratti nell’imbarazzo e nella frustrazione qualche secondo prima, si irrigidirono dalla rabbia. Ma aveva davvero il diritto di infuriarsi? Non era forse vero?
«Credi che la sto a prende sottogamba sta cosa? Credi che me sto a fa ‘na passeggiata de salute? Credi che non so consapevole de avè un casino qua dentro?» esclamò, indicandosi la tempia.
«Fidate, ne so consapevole da quanno so nato. Io non c’ho mai capito un cazzo, ma de una cosa so sicuro…con Isabelle ho sentito altro oltre alla rabbia. Ed è lo stesso con te. Ho perso lei e non ho intenzione de perde anche te.»
Alberto rimase senza parole, c’era qualcosa nel tono che aveva usato Aureliano che semplicemente non lasciava spazio per altre parole. Qualsiasi cosa avesse detto sarebbe sembrata patetica, inutile, anche un insulto forse.
Aureliano sembrò improvvisamente scosso da quello che aveva detto, dalla pesantezza dell’intera situazione, dal blocco che sentiva nel petto.
Fece un profondo respiro e scosse la testa «Famo ‘na cosa…» iniziò.
«Ho delle cose da sistemà a Roma ancora. Ma sto weekend se ne annamo da qualche parte. Come quanno semo annati a riacchiappà er prete.» cercò di coprire quei metri che Alberto aveva messo tra di loro.
«Che ne dici?»
Alberto strinse le braccia al petto, abbassando lo sguardo. Stava riflettendo.
«Su dai, nun fa sempre er difficile» Aureliano gli fece un mezzo sorriso, qualcosa che difficilmente gli vedeva fare.
Non poteva mentire, Alberto sentiva una sensazione di fretta in fondo allo stomaco, qualcosa che gli diceva che il suo tempo stava scadendo, ma ricacciò il pensiero nei meandri della sua mente perché in nessun modo se la sentiva di forzare quella situazione.
A volte doveva trovare degli obiettivi, piccoli obiettivi, per darsi forza, per tirare avanti. Da qualche tempo a quella parte, da quando tutta quella storia era iniziata, il suo obiettivo era aspettare la prossima volta in cui avrebbe visto Aureliano Adami e sarebbe stato così ancora un’ultima volta.




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