Carne Morta

di fotone
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Non c'è niente di cui parlare, se non delle gocce pioggia che battono violentemente sull'asfalto. Non c'è niente da spiegare, se non il senso di vuoto. Ed esso è banale, proprio perché è vuoto. È la semplice assenza di passioni, di sofferenza; lo si potrebbe descrivere come una rabbia troppo debole per rivelarsi, come un desiderio troppo vago e senza un oggetto preciso, ma non riesce neanche ad essere tutto questo. È troppo flebile, incapace di giungere a una definizione sufficiente per esistere davvero. Vorrei poter dire che gli occhi che vedo riflessi nella vetrina di questo negozio mi parlano di cieli grigi, di termosifoni freddi, del ronzio degli elettrodomestici in una stanza vuota, della debole luce grigia emanata da un televisore che non prende nessun canale; ma anche questo è troppo per essere vero, troppo per essere contenuto nei miei occhi: non c'è ne bianco né nero, né luce né buio, né estate né autunno. C'è solo un vuoto indifferente, privo di malvagità, privo di intenzione. Attraverso le mie iridi riesco a scorgere l'anima di un manichino e la forza di un albero spoglio. Spostando il mio sguardo sul resto del mio viso, mi sembra di non vedere niente di umano, solo materia molle e informe, priva di colore. Questo triste spettacolo mi fa venire in mente una parola: desolazione. È curioso, perché non è la parola che più descrive il mio viso inespressivo, eppure esso la suggerisce. La innesca, quasi. Come se questo mio riflesso, pur non mostrando alcuna desolazione, la raccontasse. Passo molti, molti istanti bloccata davanti al mio riflesso sbiadito su quel vetro sporco e ho l'insolita esperienza di trascorrere questo breve momento senza pensare assolutamente a niente. Me ne rendo conto quando mi scuoto, ma la cosa mi lascia indifferente. Mi volto alla mia destra e continuo a camminare, mentre l'ombrello marrone che impugno mi rimbalza leggermente sulla spalla ad ogni passo. Osservo questa piccola fetta di umanità che mi scorre intorno sul marciapiede con insolente abbandono. Noto con una punta di piacere che i vestiti di tutti, i loro visi addirittura, si mantengono su un'unica tonalità neutra, discostandosi raramente dalla scala di grigi e creando una piacevole armonia estetica con l'ambiente circostante, come se scomparissero in esso, come se vi si lasciassero assorbire, come se esistessero solo e unicamente in quanto parte integrante della nebbia che li avvolge. Questo pensiero mi dona una piacevole sensazione di calma. Mi immagino di poter vivere come una creatura della nebbia, silenziosa, priva di scopo. Mi immagino di essere la nebbia stessa, e camminando piano piano riesco quasi a dimenticarmi di esistere. Mi immagino di non essere nulla, di non essere semplicemente. Di raggiungere l'annullamento totale; facendo ciò, mi rendo conto che è proprio questo che ho tentato di fare per tutti questi anni, che mi ha spinto a iscrivermi ad una facoltà che non mi appassiona, a fidanzarmi con un uomo per il quale non provo il minimo sentimento, a sorridere e circondarmi di persone misurando ogni azione per essere esattamente ciò che vogliono che io sia, un riflesso di loro stessi in cui potersi ammirare. Non sono mai stata spinta da altro obiettivo se non quello di sopprimere la mia anima, di annientare me stessa. Ho ricavato uno smisurato piacere nel rendere me stessa un essere vacuo, un meraviglioso cadavere dalla pelle liscia come plastica e gli occhi più vuoti di un buco nero; e devo esserci riuscita, perché comprendere questo non mi fa sentire niente. Sono un automa cosciente di ciò che lo rende diverso dagli altri esseri viventi, ma nonostante ciò non invidio chi mi passa accanto con un cuore che pulsa di speranze e aspettative e falsa rassegnazione. Io mi sono davvero rassegnata, e ho fatto di questa rassegnazione la mia religione. Non desidero niente, non credo in niente, mutilo ogni singolo barlume di vita fino al punto di rendere me stessa un essere privo di volontà propria, privo di reazione al suo stesso riflesso, privo di odio.




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