L'altra a donarci infelicità
L’ALTRA A DONARCI INFELICITA’
“L’amore da una parte
sola non basta, Giò. Le tue sono fantasie da masochista.
Non si regala l’anima a
chi non è disposto a regalare la sua.
Chi non fa i regali,
non apprezza i regali.
Tu cerchi Iddio in
terra, e sei disposta a qualsiasi menzogna pur di inventarlo.
Ma Iddio non si inventa
e neppure l’amore.
L’amore è un dialogo,
non un monologo”.
Oriana Fallaci.
C’erano giorni in cui mi sembrava di volare. La vita era un
prato fiorito da attraversare a piedi scalzi, e quando s’incontrava una collina
essa non era un ostacolo, ma solo il piacere di affrontarla per scoprire ciò
che celava dietro la sua dolce sagoma.
I ritagli delle mie giornate erano mazzi di rose profumate,
la cui fresca fragranza si spargeva divinamente per tutta casa. Quale casa,
però?
Quando realizzavo che abitavo in un monolocale mi rendevo
conto di quanto esso fosse piccolo.
Beh, in fondo bastava non pensarci; è incredibile quanto la
nostra immaginazione possa mutare la realtà dei fatti. D’altronde, io credevo
fermamente che molti dei problemi quotidiani fossero solo fisse imposte da noi
stessi, senza senso.
Basta; doveva prima o poi giungere l’ora di staccare la spina
del proprio cervello, di smetterla di farsi inutili paranoie in grado di
sfociare solo in un senso di velenoso amarognolo.
A farmi volare era l’amore, in effetti; ciò era un po’ la
magia che mi permetteva di accontentarmi di una vita che, altrimenti e senza
fantasia, si sarebbe rivelata ben misera.
Lavoravo in un centro commerciale, come cassiera, e vivevo
appunto in un minuscolo monolocale in affitto. Il mio lavoro non era
particolarmente faticoso a livello fisico, ma di sicuro era mentalmente
asfissiante. E poi non si andava spesso d’accordo con le colleghe, quindi si
finiva ad affrontare turni marginali dagli orari improponibili, quelli che
nessuno voleva.
Tornavo quindi a casa sfinita e mi ritrovavo in una stanza composta
dal puro caos; non avevo tempo per rifare il letto, ed esso era rigorosamente sfatto
(ciò era una costante), libri e materiale sparso ovunque, con i vestiti che
finivano sempre ad ammucchiarsi sull’unica sedia che avevo attorno al tavolo
(che altro non era che una sorta di tavolino da bar).
Pagavo oltre cinquecento euro al mese, e non avevo neppure la
lavatrice funzionante, giacché non partiva più la centrifuga e mi riducevo
all’una di notte a strizzare il bucato nel lavabo, che fungeva anche da lavandino.
Il mattino successivo poi lo mettevo ad asciugare nei lunghi fili comuni, dove
i ragazzi maleducati della vicina di appartamento si divertivano a gettarli a
terra per far spazio alla valanga di panni lavata dalla madre.
Così vivevo come una barbona, in pratica.
In teoria un po’ meno, per fortuna.
Stare alla cassa di un grande centro commerciale poteva
essere snervante, ma permetteva di vedere molti individui. Tanti di essi erano
già pronti a finire direttamente nel dimenticatoio, altri non subito.
Una sera, mentre affrontavo l’ennesimo turno improponibile a
causa di una discussione avuta con una collega più anziana e pure raccomandata,
avevo avuto la fortuna di restare inattiva per qualche istante. Erano le
ventidue e trenta, entro mezz’ora si sarebbero chiusi i battenti e la gente
cominciava a scarseggiare, come sempre a quell’ora.
Fu in quel breve e sporadico momento libero in cui lo vidi
per la prima volta; giunse alla cassa con il fiatone, era tutto in disordine.
“Ha fretta, signore?”, avevo chiesto, cortesemente.
“Un po’, sì”, aveva risposto, consegnandomi l’involucro che
conteneva un mezzo pollo cucinato da poco e ancora caldo.
“Sono tre euro e quaranta centesimi”, tornai a dire, un
attimo dopo. Allora alzai lo sguardo e lo osservai più attentamente.
Non mi capitava mai di ritrovarmi a quell’ora con clienti
frettolosi, d’altronde tutti iniziavano a essere stanchi e a smettere di essere
pervasi dalla frenesia costante che la nostra società ci impone spesso e
volentieri, quindi ero un po’ curiosa.
Si trattava di un uomo verso la quarantina, con i capelli
corti e neri e un viso ben rasato. Era una bella presenza.
Lui pagò e mi consegnò anche gli spicci, così non dovetti
neppure rovistare nella cassa per trovare il giusto resto, quindi elargii lo
scontrino e rimasi per qualche istante a osservare la sua slanciata figura che
si allontanava. Nel bel mezzo della porta automatica si volse per un secondo
indietro, lanciandomi un’ultima fugace occhiata prima di andarsene.
Non so se la scintilla fosse scattata già quella sera, ma
ricordo bene che egli divenne un cliente piuttosto abituale e lo ritrovavo
spesso alla cassa dove lavoravo.
Era giunto il primo appuntamento.
Lui era stato molto dolce, e una sera mi aveva atteso nel
parcheggio del supermercato, così quando terminai il mio turno me lo ritrovai
lì, impacciato e tremolante, mentre mi passava un foglietto ripiegato. Poi, si
era dileguato in fretta.
Nel foglietto c’era scritto un numero di cellulare e un breve
ma cortese invito a cena. Avevo sorriso, mettendo tutto nella mia borsa.
Il mattino successivo avevo chiamato il numero e il
gentiluomo mi aveva risposto con prontezza, confermandomi in fretta l’invito a
un rinomato ristorante della nostra città, per quella sera stessa. Avevo
accettato con prontezza, anche al costo di chiedere il cambio turno. Il mio
capo me lo doveva, non poteva sfruttarmi all’infinito.
Non avevo mai avuto particolari esperienze con gli uomini,
fino a quel momento; nonostante i miei trentaquattro anni non avevo mai avuto
una relazione seria, solo alcune saltuarie. E non degne di nota, naturalmente.
Non sapevo perché, ma ero molto attratta da quella persona
così cortese, dall’aspetto così bonario e dall’atteggiamento così timido. Tanto
valeva lasciarmi andare, già che vivevo in una situazione precaria e molto
stressante… ma soprattutto solitaria, ecco. Non volevo permettere alla
solitudine di prendere il sopravvento su di me e sulla spensieratezza da
ragazzina che ancora resisteva nella mia mente e nel mio cuore.
Mi presentai in orario all’invito e lui era già lì. Mi venne
incontro, allargò le braccia e mi donò un sorriso così piacevole che mi rimase
impresso a lungo.
“Grazie per essere venuta. Io mi chiamo Carlo, sono felice
che tu sia qui”, affermò, presentandosi a dovere.
“Io mi chiamo Giovanna, piacere mio, e grazie per l’invito”,
mi affrettai a rispondere con cortesia. Ricambiai anche il suo sorriso.
Le nostre mani si strinsero e restarono unite un minuto di
troppo.
“Temevo di avere sbagliato qualcosa. Sai, di essere stato un
po’ frettoloso… mi avrai preso per uno strambo, e mi dispiace…”, borbottò.
Le nostre mani finalmente sciolsero la piacevole stretta.
“Ma che dici? Se ti avessi preso per uno strambo, non sarei
qui”, tornai a precisare, sempre con tono amichevole.
“Grazie”. Mi rivolse un timido ringraziamento.
“Ho prenotato un tavolo a questo ristorantino, spero possa
piacerti”, disse, rompendo il brevissimo silenzio che era sceso tra noi.
“Andrà di certo bene, ho un buon palato”.
Lo seguii. Sapeva come muoversi, era molto spigliato; parlò
con le cameriere e si fece indicare il tavolo. Mi lasciò un’impressione molto
positiva, d’altronde mi erano sempre piaciuti gli uomini in gamba e in grado di
mantenere ogni situazione sotto controllo, anche la più minima e sciocca.
Ci sedemmo, e si affrettò a ordinare acqua, bibite e vino.
“Ehm… ecco… io ho paura di essere un po’ arrugginita…”,
biascicai, lasciandomi andare a un breve momento di imbarazzo, “… è da tempo
che non esco con un uomo, ho paura di non poter essere una buona compagnia”.
“Ma che dici?”. Mi rassicurò con decisione, subito.
“Guarda, a me piacciono le persone come te. Avevo notato
infatti che eri molto stressata, e ho creduto che organizzare un’uscita potesse
fare bene a entrambi, non credi? Tanto siamo in amicizia, non devi avere paura
di niente”.
Mostrai un mezzo sorriso.
“Come se ci fossimo sempre conosciuti, va bene?”.
“Va bene”, asserii.
In realtà, la nostra non era amicizia, bensì un feeling
innato. Quella sera non tornammo a casa, ma ci rintanammo in un albergo poco
distante dal ristorante dove avevamo splendidamente cenato, chiacchierando del
più e del meno. Come se ci fossimo sempre conosciuti, in effetti.
Infine eravamo finiti a letto assieme.
Io avevo fame, non lo negavo affatto; erano anni che sognavo
un partner, qualcuno che potesse possedermi con calore. E Carlo era amorevole,
molto.
Gli piaceva abbracciare e allungare lievi bacetti sulle
guance. La sua sicurezza era qualcosa di spiazzante per me, eterna barbona
indecisa.
Non ricordo i dettagli di come finimmo in quel letto, tuttavia
trascorremmo una notte intensa fatta di carezze, effusioni affettuose e gesti
dolcissimi. Mi piaceva la sua stretta e il contatto delle sue mani, scoprendo
anche in fretta che adoravo il suo odore e accarezzare la sua pelle. Dormimmo
poco, ma tenendoci per mano.
La mattina successiva ci separammo a malincuore, però con la
vaga consapevolezza che quella nottata non l’avremmo dimenticata tanto in
fretta.
Così era cominciata una frequentazione piuttosto assidua, che
portavamo avanti nei ritagli di tempo che restavano liberi dai nostri impegni
individuali. Io lavoravo con orari impegnativi, lui anche. Sapevo che era un
architetto e che aveva un suo studio, per il resto non mi aveva mai accennato
nulla a riguardo della vita più intima, comunque immaginavo e davo per scontato
che non avesse alcun legame vincolante.
Mi fidavo di Carlo, mi fidavo molto, e questo forse fu uno
dei più gravi errori che commisi all’inizio della nostra relazione.
Il nostro rapporto così idilliaco, sovrastato dal cielo più
limpido che potesse esserci, cominciò a rendersi un po’ meno dolce quando feci
qualche scoperta importante. Erano già sei sere che c’incontravamo e finivamo a
letto assieme, e durante tutte quelle serate Carlo si era visto costretto a
spegnere il cellulare, poiché squillava in continuazione.
“Rispondi”, lo invitai io, “magari qualcuno ti cerca e ha
bisogno…”.
“No, nessuno ha bisogno, non devi preoccuparti”, mi rispose,
sorridendomi. Capivo però che qualcosa non andava.
Andammo a letto e facemmo l’amore tra mille effusioni e
carezze, poi, quando fummo stanchi e non riuscimmo più a fare altro, parlammo.
“Vorrei incontrarti più spesso”, affermò.
“Io anche”.
“Solo che… uff… che palle, questa vita…”.
“Concordo. Potremmo però anche cominciare a pensare a una
prova di convivenza…”, buttai lì. In realtà avevo cominciato a pensarci molto
presto, poiché la nostra relazione mi stava veramente conquistando.
Avrei tanto voluto averlo sempre con me, e non essere
costretta a tutte quelle uscite serali e notturne per condividere un po’ di
tempo con lui. Inoltre ero stufa del mio esagerato disordine, che non faceva
altro che aumentare nel mio piccolo monolocale… ero stanca di non poterlo
incontrare in un ambiente che non ci fosse familiare, bensì solo in camere
d’albergo sempre differenti.
Lui però scosse il capo.
“Al momento non posso”.
“In che senso?”, tentennai di fronte alla sua risposta
risoluta.
“Ecco, non è facile da spiegare…”.
“A me puoi, anzi, devi”, lo invitai a proseguire, mentre il
mio cuore batteva sempre più forte nel petto. Avevo già la vaga sensazione che
stava per dirmi qualcosa che non mi sarebbe piaciuto.
“Io al momento convivo con un’altra donna”, sancì, infine. Lo
disse con un tono di voce statico, che mi dette decisamente fastidio.
“Cosa vuol dire?”, borbottai, confusa, poi provai a sottrarmi
al suo abbraccio.
“Che sto già convivendo da anni con un’altra donna, hai
capito perfettamente”, tornò a ribadire, “ma non devi prenderla così, perché
tra me e lei è tutto giunto al capolinea, va bene? È te che voglio per sempre a
mio fianco”.
Sospirai.
“Non mi è piaciuto quello che mi hai detto”, provai a
spiegarmi, e mi passai nervosamente la mano destra tra i capelli, come mio
solito quando in nervosismo prendeva piede dentro di me.
“Vorrà dire che ti piacerà di più il mio caldo abbraccio”, mi
disse, per poi avvolgermi di nuovo tra le sue braccia.
Dopo un mio iniziale tentennamento, mi cinse con maggior
vigore e lo lasciai fare. Cosa avevo da perdere, d’altronde? Io lo amavo, e
Carlo era il primo uomo che mi donava così tanto affetto, quindi non volevo che
la nostra parentesi avesse una fine. Avevo tutto da guadagnarci, forse e in
teoria.
Accudita dalla sua sicurezza, dalle sue dolci parole e dalle
sue coccole, lasciai che quel primo nuvolone cupo transitasse sopra di noi
senza lasciarsi alle spalle un diluvio universale che avrebbe potuto spazzarci
via.
Io e Carlo ci amavamo. Punto.
Ogni momento libero era tutto un amplesso.
Il suo tempo libero però dopo qualche mese cominciò a
diminuire, a causa di quell’altra;
lei aveva notato che era cambiato e gli stava seriamente alle calcagna.
Controllava il suo cellulare e cercava di non mollarlo mai, ma soprattutto non
credeva più alle scuse che le propinava per stare via di casa durante la notte,
quindi non poteva più farlo.
Si limitava a passarmi a prendere quando uscivo da lavoro e a
scortarmi a casa, poi mi baciava e mi stringeva le mani tra le sue. A quel
punto me ne tornavo nel mio tugurio, nell’attesa che tutto migliorasse.
Me l’aveva promesso; mi aveva raccontato che conviveva con
una tizia che era una sorta di fidanzata storia per lui, erano vent’anni che
stavano assieme. Non voleva lasciarla così, in punto in bianco, voleva fosse
lei a capire che non potevano più andare avanti in quel modo, poiché il fuoco
della passione che li aveva uniti si era spento.
Carlo amava me, e fine. Era me che voleva, quindi avrebbe
risolto tutto molto in fretta.
Eppure, le settimane passavano e la situazione peggiorava
soltanto. Avevo sempre più bisogno di lui, e anche maggior desiderio fisico;
volevo confrontarmi, parlargli, chiedergli consigli, amarlo, baciarlo,
stringerlo.
Avevo bisogno di dialogo, di sapere che era tutto a posto.
Una sera rincasai piangendo, dopo l’ennesimo addio sempre più
freddo, e la portinaia del palazzo mi vide in quello stato pietoso, per questo
mi si avvicinò e mi accompagnò a braccetto alla porta del mio monolocale, al
terzo piano del palazzone. Era un donnone maturo, forte e robusto, di quelle
che sembrano di ferro, ma aveva anche lei un cuore.
Mentre mi riportava al mio miserissimo rifugio notturno, mi
venne spontaneo parlarle e narrarle tutto; fu come togliermi un peso dallo
stomaco. Mi conosceva da quando avevo diciannove anni, per me era quasi una
seconda mamma.
“Tutto questo ti farà solo male, cara”, mi disse, quando
conclusi la mia narrazione. “Comportandosi così non ama né te, né l’altra. Vi sta prendendo in giro
entrambe, altrimenti spigliato com’è avrebbe già preso una sua decisione
precisa, non credi? Metti il cuore in pace e lascialo perdere, vedrai che un
giorno troverai chi ti apprezza veramente e ti merita”.
M’imbronciai ancora di più, al cospetto di quelle parole
profonde.
“Ma io lo amo, capisci?”, le ripetei.
Lei mi donò un sorriso amaro.
“Se tu lo amassi, ti saresti sfogata con lui, non credi? Ti
sei resa conto anche te che parlargli è come affrontare un muro; non ti ama
veramente, non ti ascolta e ti dona solo quel minimo che gli serve per tenerti
ancora unita a lui. Tu gli hai donato amore puro, lui ti dona solo sprazzi di
tempo libero rubati a un’altra. Capisci? Ti nutre di avanzi”.
Sospirai e lasciai perdere, rientrando nel mio caotico e
sporco monolocale. Forse era vero; dovevo trovare un modo per uscire da quella
spiacevole situazione.
Il momento di deciso sconforto si era concluso con uno
splendido invito a una gita fuori porta. Inutile chiarire che ero euforica.
Finalmente, dopo tante promesse, ecco quell’evento che
preannunciava un cambiamento deciso, poiché trascorrere un’intera giornata
assieme era stato qualcosa di tanto desiderato da me, ma non permesso dall’altra, sempre alle nostre calcagna.
Mi parve un sogno, fin da subito. Mi condusse, a seguito di
un lungo e lieto viaggio sulla sua lussuosa automobile, nella sua casa di
montagna; là il cielo era limpido e l’inverno da poco sopraggiunto aveva già
lasciato il suo marchio indelebile, grazie al ridotto accumulo di neve che
rendeva il paesaggio ancora più affascinante.
Giocammo per almeno un’ora a lanciarci le palle di neve,
ridendo come ragazzini, poi andammo a pranzare in una vicina locanda, dove mi
pagò un pasto in grado di riscaldarmi.
Al pomeriggio visitai la casetta e lui se ne approfittò per
spingermi a fare l’amore… io avevo una gran voglia di finire a letto, essendo
da tempo che non soddisfacevo il mio desiderio.
Scattarono poi tante effusioni, dolci carezze, parole
splendide… eppure, l’ultima sua carta la giocò verso sera, prima di cena,
quando ormai mi sembrava che il nostro rapporto fosse più stabile che mai. Era
come se fossimo riusciti a riallacciare e a distruggere la distanza che si era
creata tra noi nell’ultimo e doloroso periodo.
“Giò, ti devo dire una cosa importante”, affermò, per la prima
volta con tono truce. Ed ecco che i nuvoloni tornavano all’improvviso ad
aleggiare su di noi, pesanti e grigi come pachidermi.
“Sai che puoi dirmi ciò che vuoi”, sospirai, tesa. Avevo
ancora in bocca il suo sapore, e nel ventre ciò che mi aveva donato grazie alla
passione di soli pochi istanti prima.
“Mi sposo”. Due sole parole.
Rimasi basita, a bocca aperta per metà.
“Mi… mi stai chiedendo di sposarmi?”, borbottai, sperando in
una remota risposta alternativa. D’altronde, se era lì con me poteva solo
significare che infine mi aveva scelto, no? Meglio tardi che mai.
“Non con te, ma con l’altra”,
ammise, tornando a guardarmi.
“Che cazzo stai dicendo, Carlo?”, domandai, la mia voce
all’improvviso si era resa squillante. Scostai le nostre coperte e smisi di
abbracciarlo; pareva stessi per avventarmi su di lui. Speravo solo che quello
fosse uno scherzo.
“Lei è incinta. Tra qualche mese sarò padre…”.
“Cristo Santo”, mormorai, sgranando gli occhi.
“… ed è giusto che mi prenda le dovute responsabilità. I
nostri genitori ormai sono anziani, e anche noi due non siamo più ragazzini,
quindi è meglio così”, concluse di spiegare, con quella solita risolutezza che
lo caratterizzava.
Per la prima volta odiai quel suo atteggiamento, proprio
quello che mi aveva portato a invaghirmi di lui.
“Quindi, mi stai dicendo che mi stai lasciando? Che tutto
questo non è altro che una messinscena per dirmi addio per sempre?”.
Ero nervosissima, non sapevo cosa aspettarmi.
Fu il suo turno di sospirare.
“No, solo che questo è un nostro nuovo inizio. Il bambino e
mia moglie mi porteranno via molto tempo, ma ti assicuro che in quel poco che
resterà libero potremo appartarci qua, se ti piace il posto, e…”.
“Lei dov’è, oggi? Perché tu sei qui con me?”, lo interruppi
bruscamente, andando al punto.
“E’ dai suoi genitori, loro abitano a Padova e preferiva
andare da sola a dar loro la buona notizia”.
Scossi il capo, poi scoppiai a piangere. Ora avevo tutto più
chiaro.
“Come…”, cominciai a balbettare, “come… come puoi parlarmi
così? Come puoi… dirmi queste cose in questo… in questo modo? Sei il più grande
mostro… mostro che io abbia mai visto”.
Non fece una piega, al cospetto della mia sofferenza, dei
miei balbettii e delle mie lacrime.
“Faccio solo ciò che la società mi chiede. Questo però mi permette
di avere comunque una seconda vita…”.
“… e una seconda scelta!”, conclusi io, strillando.
“Non ti capisco”, borbottò, piano.
“Ma io sì! Io capisco che non voglio essere la seconda donna,
quella che vive alle spalle di una moglie e di una mamma! Capisci, adesso? Io
non sarò mai il tuo svago, il tuo giocattolo!”, mi sfogai. Poi, mi ritrassi dal
letto e cominciai a vestirmi di nuovo e con grande foga.
“E adesso portami via da qui, intesi? Riportami a casa, e
fingiamo di non esserci mai conosciuti”, espressi il mio doloroso desiderio.
Ero innamorata, ma avevo ancora un minimo di dignità. Come avrei potuto vivere
serenamente sapendo di rendere cornuta una donna e di allontanare un padre da
un neonato innocente?
Aveva ragione la mia amica portinaia; Carlo non mi aveva mai
amato, né me né la sua donna. Tanto valeva che io mi levassi di torno, almeno
da lasciare spazio alla piccola vita innocente in arrivo.
Quello che avevo considerato l’amore della mia vita non fece
una piega, anzi, accettò mestamente la mia repentina decisione e le mie parole,
probabilmente si aspettava che sarebbe finita così. D’altronde, prendere due
piccioni con una fava era davvero difficile in certi casi.
Con il suo modo di fare sicuro mi attese in macchina, e dopo
che ebbi raccattato le mie poche cose lasciai che mi riportasse a casa.
La neve attorno a noi all’improvviso non aveva più nulla di
magico e di romantico.
Il seguito fu solo un paio di giorni frenetici.
Carlo mi lasciò di fronte a casa mia di domenica sera, e il
mattino successivo avevo già stilato e portato a destinazione la lettera di
licenziamento, che mi avrebbe svincolato per sempre dal lavoro che mi teneva
incollata a quella realtà improvvisamente claustrofobica.
Tornai poi al mio monolocale, dopo aver detto addio a soprusi
e litigi con le colleghe, ma soprattutto al luogo ove l’avevo visto per la
prima volta, e mi misi a fare i bagagli. O, meglio, il bagaglio; sarei partita
con una sola valigia, pure poco pesante.
Il resto, e cioè oltre dieci anni di accumulo seriale, non
poteva seguirmi.
Presi solo un paio di vestiti che più mi piacevano e che mi
stavano meglio, i restanti li compressi in grandi sacchi della spazzatura e
riempii il cassonetto grigio che sostava di fronte al palazzo.
Consegnai le chiavi dell’appartamento minuscolo alla
portinaia, che salutai con le lacrime agli occhi, poi me ne andai. Sarei
tornata a casa dai miei, dopo un lungo periodo di sudata indipendenza.
Quella era l’unica scelta che mi avrebbe permesso di
ritrovare un po’ di pace interiore, allontanandomi da quei luoghi che ormai mi
procuravano troppo malessere e troppi ricordi scomodi. Volevo dimenticare.
Alla stazione, pochi istanti prima di salire sul treno che mi
avrebbe per sempre portato lontano da quella grande città maledetta, Carlo si
presentò e fece per venirmi incontro, ma io finsi di non averlo visto e mi
mischiai tra i passeggeri che si stavano accingendo ad affrontare il mio
medesimo tragitto. Non sarei tornata indietro… no, non sui miei passi. Avevo
imparato la lezione.
Lui si avvicinò al finestrino del treno e pugnò contro i
vetri, fintando che non fu annunciata la partenza e un funzionario della
stazione non sopraggiunse a trascinarlo oltre la linea gialla che segnava il
nuovo confine tra me e la mia vecchia vita, sempre più distante. Ed io mi
limitavo a imbrattare il mio fazzoletto bianco con le mie lucide lacrime…
Passai mesi a chiedermi chi dei due avesse sbagliato, e
soprattutto se avevo fatto la scelta giusta. Se fossi rimasta, invece di
lasciare Carlo in stazione, evidentemente disperato, avrei mai avuto un vero
significato nella sua vita? Mi ritrovavo poi a riconoscere che ciò non sarebbe
mai accaduto, o almeno non mentre si organizzava un matrimonio e si era in
dolce attesa di un bimbo.
La vergogna era quindi tutta mia, che avevo idealizzato
quell’uomo sicuro di sé e dal quale probabilmente avevo rischiato di pretendere
troppo. Concludevo i miei incessanti ragionamenti con la certezza che la mia
era stata la scelta più appropriata.
Il ritorno dai miei era stato veramente ottimale, ero
riuscita a ritagliarmi uno spazio per me e loro erano stati felici di riaccogliermi
nella loro lieta campagna, lontani dai lampioni delle spietate città. Non
raccontai mai la mia parentesi con Carlo.
Mio padre, settantenne e ormai in età avanzata, mi aveva
offerto il suo posto da imprenditore agricolo; la sua azienda altrimenti avrebbe
rischiato di chiudere i battenti, non avendo altri in famiglia interessati a
tale ruolo. Inoltre, avevo specificato che non me ne sarei andata tanto in
fretta, così scelsi di affrontare la sfida con serenità, mentre dentro di me
ancora provavo a sopprimere le recenti ferite del mio cuore.
Mi ambientai in fretta e il lavoro non mi dispiaceva.
Bastava conoscere i periodi dell’anno e i lavori da svolgere
durante tali mesi, poi c’era da dirigere gli operai, da tenere la contabilità e
da affrontare qualche breve corso. Andò tutto alla grande, ero felice e più
serena.
Ancora provavo una discreta tristezza quando conobbi Mario,
colui che poi sarebbe diventato mio marito. Con lui non ci fu il feeling
ottimale che era scattato subito con Carlo, uomo deciso e di città, d’altronde
Mario era un uomo di campagna ed era timido e riservato.
Ci volle il giusto tempo, e qualche chiacchierata in più,
prima che mi invitasse a casa sua a cena. Era anche un cuoco provetto.
Da quarantenne single sapeva cavarsela bene in tutti i lavori
domestici, al contrario di me, che ero una frana. Insomma, nonostante fossimo
un po’ diversi, alla fine ci eravamo innamorati alla follia. Fu così che mi
sposai, e fu così che divenni madre e smisi di essere la caotica disordinata
che ero stata per anni.
Ora sono mamma, vivo felice con i miei due bambini e mio
marito, che è sempre e solo stato mio; mi ama, di sera torna a casa dai campi e
viene a coccolarmi in camera, dove già l’attendo per fare l’amore. Non siamo
più giovanissimi, ma sappiamo che abbiamo ancora tanto tempo davanti a noi, e
tante soddisfazioni che ci attendono.
Non mi sono mai più pentita di aver lasciato Carlo alle mie
spalle, anche se a volte mi capita di pensare a come sarà adesso. Se si è
rasserenato da quando io sono sparita ed è rimasto solo con la donna in attesa
di suo figlio, oppure se tra loro due è andato comunque tutto a rotoli,
d’altronde mi è sempre sembrato di capire che a unirli fosse solo la
quotidianità e il tempo trascorso assieme in un passato ormai irreparabilmente
remoto.
Ora in fondo Carlo è solo il passato, non ha importanza per
me sapere com’è andato a finire con le sue vicissitudini… adesso mi sento amata
e benvoluta, ho trovato la mia dimensione e posso finalmente affermare che non
è necessario avere a fianco un uomo che incarni l’ideale più mascolino, poiché
anche dalla semplicità e dall’umiltà possono nascere grandi cose, spesso più imperiture
rispetto ad altre.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie alla giudice per aver indetto un Contest così interessante,
e grazie a tutti voi per esser giunti fin qui ^^
La citazione iniziale è quella che ho scelto fin da quando mi
sono iscritto, e… ho provato a scrivere un racconto romantico su di essa. L’ho
trovata struggente nella sua semplicità, eppure allo stesso tempo così
profonda… mi ha colpito molto. Spero solo di aver fatto un discreto lavoro.
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