Salve a tutti/e,
e
con questo capitolo concludiamo la vicenda del Mondo dell’Amore.
Ringrazio tantissimo tutti cloro che sono passati da queste parti,
che hanno dato un’occhiata o mi hanno messo in qualche lista e
ringrazio con particolare calore tutti quelli che si sono fermati a
lasciarmi il loro parere e a darmi innumerevoli spunti di riflessione
su questo mondo che è sì distopico, ma non poi tanto lontano da
quello che stiamo vivendo adesso.
Capitolo
4
“Pronto?
Sono Nit, la segretaria dell’avvocatessa.”
Come
tutte le volte che riceveva una telefonata dallo studio legale,
Richard sentì il cuore saltargli un battito. Scese dall’autobus su
cui stava tornando a casa e si fermò in un angolo riparato del
marciapiede. “C’è qualcosa di nuovo?” chiese poi con
apprensione.
“L’avvocatessa
rinuncia a difenderti.”
L’uomo
sentì il sangue abbandonargli il volto. “Rinuncia a difendermi?”
ripeté, quasi sperando che la ragazza gli dicesse che aveva capito
male.
“Esatto,”
disse invece lei.
“Ma…
ma perché?”
“L’avvocatessa
non è tenuta a spiegarti il motivo.”
Richard
aggrottò le sopracciglia e in tono duro disse: “Voglio vederla.”
Subito
Nit replicò: “Non cercare di esercitare la tua aggressività
fallica su di me. La telefonata è registrata e se continui con i
tuoi atteggiamenti intimidatori ti denuncio.”
“Posso
sapere almeno perché l’avvocatessa non vuole più seguire il mio
caso?” chiese Richard, nel tono più calmo che riuscì a tirare
fuori.
“Ti
ripeto che non è tenuta a dirtelo.”
L’uomo
emise un sospiro sconfitto, quindi disse: “Va bene. Quando posso
passare a riprendere i soldi e i documenti?”
“I
documenti ti verranno recapitati per posta, l’avvocatessa non ti
vuole in studio.”
“E
i soldi?”
“L’avvocatessa
non ti deve restituire niente, l’anticipo che hai lasciato è
servito per pagare le prime spese.”
“Cosa?
Cinquemila arcobaleni per...”
Si
accorse che dall’altra parte proveniva solo il segnale di linea
libera. Provò a rifare il numero, ma non ebbe alcuna risposta.
Rimase
fermo sul marciapiede, con il telefono in mano e la sensazione che il
mondo gli fosse appena caduto addosso. Si guardò intorno, ma nessuno
faceva caso a lui.
Stavano
calando le prime ombre della sera, la gente camminava rapida e
intenta. Le vetrine dei negozi proiettavano a terra pennellate di
luce multicolore.
Richard
rimase per un po’ fermo a guardare i passanti: avevano tutti l’aria
di voler tornare a casa prima possibile. Immaginò famiglie felici,
pronte a riunirsi intorno al tavolo per il pasto serale. Immaginò
profumi di cucina e suono di risate.
Affondò
le mani nelle tasche e arretrò fino ad appoggiare la schiena al
muro. Rimase fermo un tempo imprecisato, mentre la luce calava sempre
di più e i passanti diventavano sempre più rari.
Quando
si decise a muoversi, la strada era deserta e rischiarata solo dai
lampioni. Gli autobus ormai non passavano più, quindi si rialzò il
bavero del giaccone, ingobbì le spalle per proteggersi dal vento
freddo che spirava e si incamminò verso casa.
Gli
fu chiaro già dal fondo della strada che qualcosa non andava:
c’erano più macchine del solito intorno a casa sua, il vento
portava con sé un vago brusio. Nel buio baluginò il lampo di una
torcia, che delineò per un attimo sagome di corpi.
Si
appiattì in una rientranza del muro e dall’ombra rimase a
osservare in silenzio.
Quando
i suoi occhi si furono maggiormente abituati all’oscurità, egli
riconobbe una squadra di Riduzione
dei Conflitti.
Udì
lo sfrigolare sinistro di un taser ad alto voltaggio.
“Lo
becchiamo mentre dorme,” disse una voce.
“Sei
sicura che sia dentro?” chiese un’altra.
“È
tutto spento. Sarà a letto.”
“Avrà
approfittato della mancanza della moglie per spassarsela, ovviamente.
Beh, becchiamo anche la tizia che c’è con lui.” Pausa. “O il
tizio.”
Alla
frase seguì qualche risatina soffocata.
“È
quello della bandiera?” chiese una terza voce.
“Già.
Essendo un maschio è stupido, quindi non ha pensato che dopo le sue
belle prodezze da fascista l’avremmo tenuto d’occhio. L’altro
l’abbiamo già beccato, adesso tocca a lui.”
“Sciovinista
di merda. Una bella Rieducazione,
di quelle toste, non gliela leva nessuno.”
“Ma
prima gli rieduchiamo
le palle finché non sono come due hamburger, a quello stronzo.”
Qualcuna
ridacchiò.
“Giusto,
non si merita altro,” fu la conclusione.
Richard
rimase immobile. Aspettò che le donne facessero saltare la serratura
di casa sua e aprissero la porta, quindi prese ad arretrare
lentamente. Nel frattempo, cercava di farsi un quadro della propria
situazione: ovviamente non poteva più rientrare in casa, dal momento
che probabilmente sarebbe stata sorvegliata giorno e notte. Aveva
solo i vestiti che indossava, un telefono mezzo scarico del quale
sarebbe stato saggio disfarsi il prima possibile, i documenti, che
avrebbero dovuto fare al più presto la stessa fine, e il po’ di
soldi che aveva messo insieme con i lavori extra della giornata.
Si
chiese cosa sarebbe stato meglio fare. Una persona di buon senso –
il genere di buon senso che veniva insegnato nelle scuole – gli
avrebbe suggerito di costituirsi, ammettere il proprio errore,
affrontare il percorso di consapevolezza che lo avrebbe portato a non
ripeterne in futuro e riprendere infine il suo posto nella società
come uomo nuovo, finalmente libero da idee scioviniste e
fallocratiche.
Sarebbe
stato molto facile: scusate,
sono qui. Ho capito di avere sbagliato, ho capito che il mio assurdo
atteggiamento di prevaricazione patriarcale, dettato da miei
conflitti irrisolti, ha generato solo sofferenza nelle persone che
amavo e ora sono pronto ad assumere un nuovo ruolo, di parità
consapevole e amore rispettoso, nella società.
Gli
tornò in mente il tizio del talk-show di Zelda, quello che si era
tagliato il cazzo.
Prese
ad arretrare lentamente, un passo dopo l’altro, e sentiva che ogni
volta che muoveva il piede all’indietro, un pezzo della sua vecchia
vita si sgretolava e scompariva. Il suo lavoro si volatilizzava, la
sua posizione di marito e padre anche. Le valutazioni dei corsi che
gli avevano imposto scomparivano come neve al sole.
Ora
c’erano solo lui e la sua volontà di affermare se stesso.
La
squadra frattanto aveva fatto irruzione in casa sua. Un paio di
finestre si illuminarono, il lampo azzurro di una scarica elettrica
ne accese una terza per un attimo. Anche dalla distanza che aveva
raggiunto udì il rumore di suppellettili infrante.
Si
girò per allontanarsi più velocemente, e a quel punto udì un grido
alle sue spalle: “Eccolo, è lui!”
Spiccò
la corsa, cercando di destreggiarsi tra bidoni dell’immondizia e
macchine parcheggiate. Una donna lo raggiunse, fece per puntargli
contro il taser, ma lui la spedì a terra con una manata. Un altro
paio lo afferrarono per i vestiti, e furono a loro volta proiettate
lontano. La sua fisicità maschile, tanto deprecata nella vita di
tutti i giorni, in quel momento gli conferiva un deciso vantaggio.
Una
donna molto robusta gli si parò davanti e lo affrontò con un calcio
al torso. Richard irrigidì i muscoli, quindi la investì con una
spallata, mandandola a sbattere contro il muro.
Dopo
quello scontro riprese la corsa. Cercò di visualizzare se stesso con
la maglietta della sua squadra di rugby e la strada come un campo
vuoto, che lui avrebbe dovuto attraversare per fare la meta decisiva.
Con
un altro paio di spallate si sbarazzò delle ultime avversarie,
quindi si gettò a capofitto in una strada buia. Corse a perdifiato,
con tutta la forza che aveva nei polmoni e nelle gambe, lasciandosi
alle spalle il quartiere popolare in cui abitava e dirigendosi verso
la periferia.
Si
fermò solo quando fu certo di aver fatto perdere le proprie tracce.
Ansante si rintanò in un androne scuro, mentre fuori sfrecciavano
macchine coi lampeggianti accesi. A un certo punto sentì anche il
battere ritmico delle pale di un elicottero, anche se non era certo
che fosse per lui.
Si
lasciò cadere a terra e rimase per un po’ seduto. Fece qualche
respiro profondo, si passò una mano sul viso per tergersi il velo di
sudore che l’aveva ricoperto.
Fuori
nel frattempo si era ristabilito il silenzio.
Rimase
immobile per un po’, cercando di cogliere eventuali rumori intorno
a sé. Un ratto, protetto dalle recenti leggi che lo equiparavano a
ogni altro animale e proibivano la sua eliminazione, uscì da un buco
nel muro, lo squadrò per un istante e scomparve con un fruscio.
Richard
trasse di tasca il cellulare, lo ruppe in due, quindi infilò i
frammenti nel buco da cui il ratto era uscito.
A
quel punto si alzò e si affacciò sulla strada deserta. Dovevano
essere le due o le tre di notte, non c’era anima viva. Prese a
camminare rasente al muro, ancora indeciso se considerare ciò che
era appena successo la realtà dei fatti o un lungo angosciante
incubo.
Pensò
al da farsi e si rese conto che le opzioni rimaste erano decisamente
poche. Anzi, in realtà ne era rimasta solo una.
Alzò
gli occhi sul cielo nero, quindi si diresse con risolutezza verso la
zona della città in cui si trovava la Casa
per la Tutela delle Donne Abusate.
§
Sullo
schermo alle spalle di Zelda, questa volta fasciata in un sontuoso
abito di paillettes dorate, c’era l’immagine di alcune bandiere
che garrivano al vento, sbarrata da un rosso segno di divieto.
Una
scritta in sovrimpressione recitava: Nazionalismi?
No, grazie.
“E
così,” stava dicendo la conduttrice a un attento pubblico, “alla
triste vicenda della famiglia dominata da un maschio fallocratico e
sciovinista si aggiunge un altro capitolo.”
La
folla fu attraversata da un mormorio di disapprovazione.
“Sembra
difficile da credere,” continuò Zelda, “eppure ci sono ancora
uomini che rimangono tenacemente aggrappati a forme arcaiche di
governo, basate sull’odio e sulla prevaricazione. Abbiamo chiamato
qui in studio varie esperte, per capire meglio come tutto ciò sia
possibile, nonostante l’attenzione che nel Mondo dell’Amore viene
dedicata alla crescita etica e responsabile della persona e al
rifiuto dell’aggressività in ogni sua forma.” Si voltò verso
un’imponente transgender di colore con una cascata di boccoli
azzurri che le arrivava a metà schiena. “Koko ha condotto il
colloquio di analisi personologica sul soggetto.” Fece una studiata
pausa, poi le chiese: “Posso sapere cos’hai provato nel parlare
con quest’uomo? Correggimi se sbaglio, ma credo che ti abbia
trasmesso molta sofferenza, non è vero?”
Koko
annuì grave. “Certo. Non bisogna mai dimenticare che questi
comportamenti sono sempre il frutto di un forte disagio, di una
personalità che si è strutturata in modo anomalo. È come se una
persona si trovasse, magari a causa di un incidente, con una gamba
più corta dell’altra: ovviamente non potrà mai camminare in modo
corretto, giusto?” Sbatté le ciglia lunghissime e incrostate di
mascara blu elettrico.
Dal
pubblico provenne una voce femminile: “Ma anche chi non cammina in
modo perfetto deve essere accettato. Non bisogna farlo sentire
inferiore, perché magari, anche se è motoriamente svantaggiato, può
essere una persona stupenda per tanti altri motivi.”
Scrosciò
un applauso. La telecamera fece un primo piano di una donna magra,
precocemente ingrigita, con le labbra serrate in un’arcigna
espressione di biasimo e una maglietta che recitava: 100%
cruelty free.
La
psicologa annuì di nuovo. “Ma certo. Io dico sempre che bisogna
guardare le persone per come sono dentro,
per com’è la loro anima.”
Partì
un secondo applauso.
Intervenne
a questo punto Zelda, che sollevò una mano per riportare il silenzio
e disse: “Queste belle parole hanno sempre il potere di
commuovermi, ma io credo che i nostri telespettatori saranno curiosi
di sapere qualcosa di più su questo sfortunato cittadino.”
“Ma
certo,” rispose Koko. “Siamo di fronte a un uomo chiaramente
molto debole dal punto di vista psicologico, assediato da insicurezze
che l’hanno fatto vivere per anni aggrappato all’illusoria idea
di protezione da parte di sovranità nazionali ormai superate.”
Fece una pausa, come per dare al pubblico il tempo di assimilare
quanto aveva detto, quindi proseguì: “Io credo che sia a sua volta
una vittima, verosimilmente di una figura paterna tirannica. Credo
che abbia bisogno di molto amore e di molta comprensione.”
Zelda
annuì. “Che cosa suggeriresti per lui?”
“Un
lungo periodo di rieducazione, che lo porti a elaborare finalmente i
suoi conflitti.” Emise un sospiro e aggiunse: “Io non voglio
pensare a quanto deve aver sofferto finora. Perché l’aggressività
espressa, vedi, viene sempre da aggressività subita in un contesto
di debolezza psicologica.”
Un
lungo applauso salutò la premurosa affermazione.
La
conduttrice si rivolse a quel punto a una donna di mezz’età con
capelli scuri e venati di grigio sciolti sulle spalle e abiti di
fibra vegetale che avevano i colori spenti delle tinture naturali.
“Adorinda, giusto?” le chiese.
La
donna annuì.
“Vuoi
parlarci di te, Adorinda?”
“Certo.
Gestisco una Comunità
per l’Infanzia Negata
a indirizzo steineriano, rigorosamente vegana e improntata al rifiuto
di ogni violenza.”
“Vuoi
dirci come sei venuta in contatto con il nostro soggetto, cara?”
“Abbiamo
accolto suo figlio qualche settimana fa.”
“Che
cosa puoi dirci di lui?”
“Oh,
è un bambino sfortunato. Cresciuto nell’odio, intossicato da cibi
carichi di aggressività e dolore. Ogni suo gesto è una straziante
richiesta d’aiuto.”
Zelda
annuì, comunque precisò: “Parlavo del padre, cara. Cosa puoi
dirci di lui?”
Adorinda
riunì le mani in grembo e per un po’ parve incerta su cosa dire.
Infine, rialzò bruscamente la testa come chi ha appena preso una
risoluzione dolorosa ma necessaria, quindi cominciò: “Ecco… io
per prima cosa desidero scusarmi con la bellissima e bravissima Koko.
Vorrei che fosse chiaro che quanto sto per dire non è assolutamente
una critica alle sue capacità professionali, né vuole in alcun modo
sminuirla, né come professionista né come donna. È piuttosto un
vissuto personale, diciamo. È quello che ho sentito quando mi sono
trovata a interagire con quell’uomo.”
“Che
cos’hai sentito, cara?” le chiese Zelda in tono soave.
“Violenza,”
proferì la donna in tono cupo, abbassando la voce. “Una terribile,
ancestrale violenza, che mi ha investita con una tale forza che ho
avuto bisogno di ascoltare per un’ora le vibrazioni positive, prima
di ritrovare l’equilibrio interiore.”
“Hai
parlato con lui?”
“Tramite
monitor, ma è riuscito comunque a trasmettermi la sua violenza, la
sua intolleranza, la sua aggressività e la sua rabbia.” Fece una
pausa, che utilizzò per inspirare ed espirare profondamente a occhi
chiusi, stringendosi tra pollice e indice la radice del naso. “Nel
momento in cui ho cercato di stimolare una conoscenza empatica nel
figlio, lui mi ha aggredita con una violenza che mi ha lasciata
sconvolta.” Tacque di nuovo, quindi in tono cupo concluse: “Io ho
paura
di quell’uomo.”
La
frase si lasciò dietro un silenzio carico di oscura minaccia.
Prese
di nuovo la parola Koko: “Anch’io mi sono sentita aggredita da
lui. È stato come se millenni di prevaricazione patriarcale mi
fossero stati rovesciati addosso tutti in una volta. Ho letteralmente
sentito il grido di dolore dei milioni di donne oppresse dagli uomini
nel corso della Storia.” Tirò fuori dalla borsetta un fazzoletto e
si tamponò una lacrima.
Scrosciò
un applauso che fece tremare lo studio. Fioccarono i Brava!
e i Bene!.
Nessun pudico biiip
coprì le numerose invettive che vennero lanciate contro l’oggetto
della discussione, per il quale vennero proposte, fra un insulto e
l’altro, la rieducazione forzata, la castrazione chimica e
addirittura l’eutanasia per
il suo stesso bene.
“E
ora, pubblicità!” annunciò Zelda.
§
Rintanato
in un folto cespuglio, Richard scrutava il giardino, che pian piano
emergeva dal chiarore dell’alba. Sui prati aleggiava una leggera
foschia, dalle foglie degli alberi stillavano rare gocce di rugiada.
Qua e là si udiva il cinguettio dei primi uccelli.
Il
disegno sul pavimento era una macchia colorata d’insolita crudezza,
in quei toni soffusi.
L’uomo
cercò di non pensare alle membra irrigidite dalla lunga immobilità
e mantenne lo sguardo fisso sull’edificio. Erano comparse delle
luci alle finestre del piano terra, segno che la Prigione mascherata
da Comune si stava svegliando.
Si
chiese cosa gli avrebbero fatto se l’avessero trovato lì.
Probabilmente, un periodo di Consapevolezza
e Impegno Fisico Volto al Bene della Comunità,
ovvero un modo elegante per chiamare lavori forzati associati a corsi
di rieducazione, non gliel’avrebbe tolto nessuno.
Dovette
attendere un’altra mezz’ora, poi si aprì una porta e le ospiti
uscirono tutte in fila, scalze e vestite con una semplice tunica
bianca, si disposero in cerchio e cominciarono a fare dei movimenti
che dovevano essere yoga. Senza spostarsi cercò con lo sguardo
Paula.
Ci
mise un po’ a trovarla, perché si era tinta i capelli di nero.
Notò che aveva mani e braccia coperte di ghirigori marroni. Abbassò
lo sguardo e si accorse che aveva gli stessi disegni anche sui piedi.
Pur
essendo distante, cercò di leggere la sua espressione: non vi trovò
nulla di quello che ricordava. Aveva uno strano sguardo remoto, che
sembrava perso nella contemplazione di chissà cosa. Si chiese se in
qualche modo le ospiti venissero drogate.
In
quel momento, forse attirata da un fruscio, una delle donne volse lo
sguardo nella sua direzione: egli si rannicchiò sotto le foglie e
rimase immobile fino a che tutte non ebbero finito la loro ginnastica
mattutina e tornarono nell’edificio.
Pensò
al da farsi: per prima cosa doveva parlare con lei, per sapere se
c’era un modo di portarla via che non comportasse l’attivazione
dei sistemi di allarme. Lui era riuscito a entrare scalando il muro,
una prodezza che aveva richiesto tutte le sue doti fisiche e anche
così gli era quasi costata la vita, ma come avrebbe fatto a portare
con sé Paula attraverso la stessa via? C’erano alberi da scalare,
tratti da percorrere reggendosi solo a forza di braccia, salti che
richiedevano una muscolatura potente e allenata.
Guardò
di nuovo verso lo spiazzo in cui le ospiti avevano appena fatto
ginnastica: gli erano parse tutte flosce, tutte spente. Chi di loro
poteva vantare una muscolatura abbastanza potente e allenata da
scalare il muro di cinta?
Rimase
ad attendere in giardino, spostandosi cauto da un cespuglio all’altro
per studiare i movimenti delle ospiti. Ogni tanto individuava la
lunga chioma ormai nera di Paula, ma non riusciva ad avvicinarla,
perché non era mai da sola.
Calò
il tramonto. Ormai aveva male dappertutto e non toccava cibo dalla
sera prima. Lo stomaco gli brontolava talmente forte che temeva di
farsi scoprire solo per quello.
Stava
quasi per rinunciare quando vide uscire Paula. Era da sola e aveva in
mano un secchio dal quale spuntavano cascami di verdura.
Seguendo
un percorso che evidentemente conosceva già molto bene, la donna
aggirò l’edificio e raggiunse uno spiazzo illuminato in cui si
trovavano bidoni dell’immondizia di vari colori e compostiere. Andò
a una di esse, sollevò il coperchio e vi buttò dentro il contenuto
del secchio, poi si apprestò a rientrare.
Richard
si spostò fino a raggiungere il margine dell’alone di luce, quindi
sottovoce chiamò: “Schatzi.”
Paula
si guardò intorno con aria spaesata. Sembrava che avesse sentito un
rumore al quale non riusciva a dare un significato.
“Schatzi,
sono Rick.”
Finalmente
la donna si voltò verso di lui. “Oh, Rick,” lo salutò con
pacata gentilezza. Il tono era quello di una banale conversazione,
come se si stessero ritrovando alla fine di una normalissima giornata
lavorativa. “Che ci fai qui?”
L’uomo
si sentì percorrere da un brivido gelido. “Sono venuto per
portarti via, tesoro.”
Paula
fece tanto d’occhi. “Per portarmi via?” Aggrottò le
sopracciglia con l’aria di non capire.
“Sì,
ce ne andiamo. Ho un amico che conosce un posto libero, dove potremo
vivere in pace lontano da tutte queste stronzate.”
Paula
inclinò la testa da una parte, come faceva sempre quando qualcosa le
sfuggiva. “Ma io vivo già in pace,” obiettò.
“Dio,
Paula, non puoi parlare sul serio!” ansimò mentre il cuore gli si
serrava in una morsa di ghiaccio.
“Non
nominare il dio del patriarcato!” lo rimbeccò lei. “È un dio
malvagio. È per colpa sua che le donne sono state oppresse in tutti
questi secoli.”
“Schatzi,
ma… ma ti rendi conto di quello che stai dicendo?” boccheggiò
Richard.
“Mi
hanno detto che se ti lascio potrò vivere in pace con Leo. Avremo
una casa tutta nostra e quando avrò finito la psicoterapia potrò
occuparmi della sua educazione. Lo crescerò di mentalità aperta,
libero da misoginia e sciovinismo e rispettoso. Non gli darò veleno
da mangiare.” Fece una pausa, poi in tono più basso soggiunse:
“Però tu sei stato giudicato irrecuperabile. Faresti male a me, ma
soprattutto a lui.”
Richard
trasecolò. “Io fare del male a te o a Leo? Ma dico, sei
impazzita?”
“Ecco,
lo vedi che cominci già ad aggredirmi verbalmente? Sei un maschio
prevaricatore, non voglio che Leo cresca come te.”
L’uomo
stava per replicare quando dall’edificio provenne una voce: “Paula?
Con chi stai parlando?”
Si
irrigidì. La moglie gli rivolse un’occhiata, quindi a voce alta
disse: “Con nessuno, Efemena. Stavo solo canticchiando fra me e
me.”
Gli
rivolse un ultimo lungo sguardo, quindi gli girò le spalle e prese
ad allontanarsi in direzione dell’edificio.
Richard
rimase a guardarla con le lacrime che gli pungevano gli occhi. Per un
po’ fu semplicemente incapace di muoversi: come pietrificato
guardava il palazzo che man mano veniva inghiottito dal buio. Prese
in considerazione l’idea di tornare e in qualche modo portarla via
con la forza, ma abbandonò subito il pensiero. Qual è la madre che
tra il figlio e il compagno sceglie il secondo? Probabilmente le
avevano promesso quello che lei stessa gli aveva riferito, e lei
aveva accettato pur di potersi tenere Leo.
Aveva
sacrificato lui per salvare il bambino.
O
forse le avevano semplicemente fatto il lavaggio del cervello, o
l’avevano imbottita di droghe o farmaci. Probabilmente non
l’avrebbe mai saputo.
Il
rumore di una porta che si apriva lo convinse a tornare rapidamente
sui suoi passi. Strada facendo si voltò indietro un paio di volte,
ma nel buio ormai non si vedeva più niente, se non qualche fioca
lampadina che illuminava le soglie dell’edificio.
§
“Brunn!
Ehi, Brunn!”
L’uomo, che stava apprestandosi
a entrare nel bar di Lonnie, si voltò e per un po’ scrutò
indeciso nel buio. Infine, a bassa voce chiese: “Rick? Sei proprio
tu?” Aggrottò le sopracciglia, poi aggiunse: “Ma come accidenti
sei ridotto?”
Fece un passo verso di lui.
Richard arretrò fino a scomparire di nuovo nell’ombra, quindi
rispose: “Sto vivendo all’addiaccio. A casa non posso più
andare, qualche giorno fa hanno cercato di arrestarmi.” Si passò
una mano sul mento, ormai ispido di barba.
Brunn si aggiustò la visiera
dell’onnipresente berretto, quindi disse: “Beh, vieni da Lon,
almeno mangi qualcosa e stai al caldo per un po’.”
“Non
posso rischiare che mi vedano. Piuttosto...”
“Sì?”
“Quel
posto di cui parlavi...”
“Quale
posto?”
“Quello
libero.” Richard si fece di nuovo avanti, scrutò negli occhi
Brunn, “Esiste davvero?”
L’altro annuì grave. “Esiste,”
confermò.
“Dov’è?”
“Perché
vuoi saperlo?”
“Mio
figlio. Non voglio condannarlo a questa vita di merda, voglio
portarlo in un posto dove possa crescere libero. Un posto dove non si
debba vergognare di essere un maschio.”
Brunn annuì di nuovo. “Ti
capisco,” rispose.
Richard fece un pallido sorriso,
poi chiese: “Come ci arrivo, in questo posto?”
“Tu
in nessun modo. Devo accompagnarti io.”
“Dov’è?”
“Lo
saprai quando ci arriveremo.”
“Brunn,
senti...”
“Sì?”
“C’è
davvero
questo posto? Non è che arriviamo da qualche parte dove non c’è
un cazzo e tu mi molli in mano a quelle che adesso mi vogliono
tagliare le palle con le forbici da giardino?”
L’altro fece una breve risata.
“Sai come si dice, no? Non chiedere a un oste se il suo vino è
buono.”
Richard chinò la testa. “Mi sa
che hai ragione,” sospirò.
L’altro gli diede una delle sue
pacche sulle spalle, costringendolo come ogni volta a fare un passo
di lato per mantenere l'equilibrio, quindi gli disse: “Facciamo una
cosa: ora vieni da me, così mangi qualcosa, ti lavi e dormi in un
letto decente, poi domani vediamo come recuperare tuo figlio, va
bene?”
“Grazie,
Brunn.”
“Ah,
non ringraziarmi. Se non ci si aiuta tra uomini...”
La casa di Brunn era come Richard
l’aveva immaginata: piccola, pochi mobili scalcagnati, niente
quadri e niente soprammobili. La cucina aveva da una parte
frigorifero e fornello, al centro un tavolo con un paio di sedie una
diversa dall’altra e lungo la parete opposta agli elettrodomestici
un divano coperto da un telo. “Tu puoi prendere quello,” lo
informò l’uomo. “Se vuoi lavarti, il bagno è dietro quella
porta, se vuoi dei vestiti, va’ in camera mia e prendi dall’armadio
quello che ti serve. Ti vanno degli hot dog?”
Richard lo guardò con tanto
d’occhi. “Di carne?”
“Si
capisce. Io non mangio la merda vegana.”
“E
come fai? Voglio dire, con la Tessera e tutto quanto? Te li contano
uno per uno.”
Brunn ghignò. “Basta sapersi
arrangiare,” rispose in tono sibillino. Gli mostrò il portafogli,
nel quale c’erano almeno dieci Tessere della Salute Armoniosa.
Di nuovo, Richard trasecolò.
“Ma...” cominciò.
“Va’
a farti la doccia,” lo interruppe Brunn, “ne parliamo dopo.”
Il primo non se lo fece ripetere.
Entrò nel bagno, si liberò con sollievo degli abiti sporchi e si
buttò sotto il getto.
Ci rimase a lungo, le mani
appoggiate alle piastrelle, l'acqua che gli scorreva sul dorso. La
carezza tiepida del vapore stemperava la sensazione di gelo che negli
ultimi giorni non lo aveva mai abbandonato.
Rimase a guardare l'acqua che
scendeva turbinando nello scarico ed ebbe la sensazione che con essa
scorresse via anche la vita che fino a quel momento aveva vissuto.
Quella del bravo ragazzo, che diceva sempre sì, che non creava
problemi e che piegava la schiena.
Chiuse il rubinetto con un gesto
secco, scrollò la testa lanciando intorno una raggiera di gocce.
Andò al lavandino e lucidò lo specchio appannato con un lembo
dell'asciugamano, quindi si cosparse di schiuma la metà inferiore
del volto e si fece con cura la barba. Gli parve che emergesse un
uomo nuovo, dalla rasatura. Più deciso, forte di una vera
consapevolezza di sé, non più gravato dalla penosa sensazione di
inadeguatezza che fino a quel momento gli era stata inculcata.
Uscì con un asciugamano intorno
ai fianchi e il profumo delle salsicce che sfrigolavano in padella
gli fece venire l'acquolina in bocca.
“Birra?”
gli propose Brunn senza nemmeno voltarsi.
Ormai Richard aveva smesso di
stupirsi. “Sì, grazie,” si limitò a rispondere, quindi andò in
camera a cercare qualche vestito che fosse della sua taglia.
Brunn gli rivolse uno sguardo
divertito. “Quella la portavo quando avevo... uhm... vent'anni.”
Richard abbassò gli occhi sulla
tuta da lavoro che si era infilato: aveva dovuto fare un risvolto ai
pantaloni e alle maniche e di spalle gli stava un po' larga.
Il primo spinse verso di lui
l'ennesima lattina e disse: “Tu mi ricordi me. Con qualche chilo di
meno, naturalmente.”
“Perché?”
“Anch'io
ero convinto che, se avessi fatto il bravo, alla fine le cose si
sarebbero sistemate per il meglio.”
“E
non è stato così?”
“No,”
si limitò a rispondere Brunn. Alzò fugacemente lo sguardo verso una
parete. Richard guardò a sua volta e vide il riquadro più chiaro di
qualcosa che era stato tirato via. “Avevi famiglia?” gli chiese.
L'uomo alzò le spalle. “Acqua
passata. Adesso aiuto gli altri.”
“Aiuti
gli altri?”
“Ad
andare di là. A pensare con la loro testa, a decidere.”
“Ma
di là dove,
Brunn?”
“Lo
saprai.” Si alzò lentamente. Richard pensò che gli ricordava un
grosso orso, di quelli un po' goffi e grassi, che però sono in grado
di staccare la testa di un alce con una zampata.
“Beh,
io me ne vado a dormire,” disse. Fece una tappa in bagno, quindi si
infilò in camera. Dopo poco provenne dalla porta socchiusa un
poderoso russare.
Richard si voltò in quella
direzione, poi tornò ad abbassare gli occhi sulla lattina, la cui
metà inferiore era ancora appannata dalla condensa. La vuotò con un
unico lungo sorso, poi la accartocciò e la lanciò nel bidone
dell'immondizia.
Andò a sua volta in bagno,
quindi si distese sul divano, si tirò addosso una coperta e per un
po' rimase semplicemente a contemplare il soffitto incapace di
dormire. Dal basso proveniva la luce dei lampioni, che disegnava
tremolanti sagome sulle pareti. Tolti il russare del suo ospite e una
vaga eco del traffico in strada, c'era un silenzio desolato, come se
a parte loro lo stabile fosse vuoto. Si rigirò su un fianco, quasi
nell'esigenza di produrre lui stesso un rumore, di avere un riscontro
della propria fisicità.
Per la prima volta da quando
tutto era cominciato, il suo pensiero non corse a Paula. Si fermò su
Leo, invece, e subito dopo scivolò verso il fantomatico luogo
libero, che nella sua mente assunse le connotazioni della Baviera,
ovvero montagne e boschi, cervi maestosi e rapaci dalle acute strida.
Chiuse gli occhi con il sorriso
sulle labbra.
§
“Sveglia,
bello. È ora di andare.”
Richard sussultò e si trovò di
fronte Brunn già vestito di tutto punto.
“C'è
del caffè, se vuoi,” lo informò l'uomo.
Il cielo era ancora buio, anche
se il nero cupo della notte andava sbiadendo in un'alba grigiastra. I
rumori della strada si erano fatti più intensi e anche nel palazzo
si percepivano movimenti o fiochi scambi di parole. Da qualche parte,
qualcosa cadde tintinnando e fu seguito da quella che parve come una
debole risata.
“Qual
è il piano?” chiese Richard. Abbandonò il giaciglio, piegò la
coperta e la mise dove l'aveva trovata. Si passò la mano sulla
guancia, di nuovo irruvidita da un principio di barba, poi si ravviò
i capelli tirandoseli all'indietro.
Brunn riempì una tazza e gliela
passò attraverso il tavolo. “Zucchero? Latte?” s'informò.
“Va
bene così.” Richard si sedette. Prese il recipiente fra le mani
come per assorbirne il calore, quindi ripeté: “Qual è il piano?”
“Conosco
quel posto,” rispose l'uomo. “Se facciamo le cose in fretta, ce
ne andremo prima ancora che riescano ad alzare il telefono per
chiamare una squadra di Riduzione
dei Conflitti.”
“Sei
sicuro? Quando sono andato a trovarlo, non me l'hanno nemmeno fatto
vedere di persona. Ci ho parlato attraverso una televisione a
circuito chiuso.”
“Sì,
visto che il problema è sempre con i padri, fanno così perché
hanno paura che uno si incazzi e cerchi di portarsi via il figlio con
la forza.”
“Davvero?”
Brunn
lo fissò sornione. “Secondo te, se tu fossi bestialmente
incazzato, quante educatrici, psicologhe e assistenti sociali ci
vorrebbero, per fermarti fisicamente?”
Richard fece mente locale. “Non
poche,” convenne.
“Ma
questo oggi non sarà un problema,” concluse l'altro dopo aver
vuotato la sua tazza. “Ora bevi, va' a pisciare e fatti la barba,
poi andiamo. Ti va anche una ciambella, con quel caffè?” Prese una
scatola di cartone e l'appoggiò sul tavolo.
“Vere
ciambelle? Con il burro, le uova e gli zuccheri raffinati? Fritte?”
“Te
l'ho detto, io la loro merda non la mangio.” Alzò il coperchio,
rivelando invitanti, soffici anelli di pasta, dorati al punto giusto
e coperti di glassa colorata. “Non saranno di giornata, ma sono
sempre meglio del tofu.”
La
Comunità per
l’Infanzia Negata
sorgeva al centro di un parco pieno di alberi. Per non traumatizzare
i bambini con la visione di barriere invalicabili, non c'erano muri
di cinta, ma solo una bassa recinzione, appena sufficiente a
scongiurare la fuga di persone alte in media un metro e venti.
In un avvallamento del terreno si
trovava uno stagno, debitamente recintato per la tutela dei piccoli
ospiti. Anche intorno a ogni tronco dalla corteccia ruvida c'era una
graziosa barriera di plastica colorata, per evitare che i bambini si
graffiassero.
La costruzione sembrava ancora
immersa nel sonno, le finestre erano tutte buie.
“Tra
un po' escono,” disse Brunn, seduto al posto di guida di un
furgone, scrutando il parco ancora velato della foschia del primo
mattino. “Vanno a fare la passeggiata nella natura. Tieniti
pronto.”
Passarono alcuni minuti, poi una
finestra si illuminò, una seconda si aprì e una bracciata di
lenzuola venne sistemata a cavallo del davanzale. Subito dopo, altre
finestre si illuminarono. Si cominciarono a percepire gli strilli di
voci infantili.
Brunn mise in moto e disse:
“Andiamo.”
Il veicolo prese a muoversi
lentamente.
“Ora
ci avviciniamo il più possibile,” continuò l'uomo, “tu scendi,
lo prendi, corri qui e partiamo a tavoletta. Se ti trovi davanti
qualcuna di quelle galline, sbattila per terra prima che abbia il
tempo di rendersene conto.”
“Va
bene.”
Richard si rese conto di avere la
bocca secca e il cuore che gli batteva come se avesse voluto uscirgli
dal petto. Sentiva un curioso alternarsi di caldo e freddo mentre
osservava la frotta di bambini dilagare vociando sui prati.
Strinse gli occhi, obbligandosi a
elaborare una strategia come quelle che a suo tempo usava per fare
meta. Individuò gli ostacoli e il percorso che lo avrebbe condotto
ad aggirarli.
“Tranquillo,”
gli giunse la voce di Brunn. “Non faranno nemmeno in tempo ad
accorgersi di quello che è successo e saremo già lontano.”
“Lo
spero ,” mormorò Richard senza smettere di cercare con lo sguardo
suo figlio.
“Lo
vedi?”
Strinse
i denti: non riusciva a vederlo. Cercò di non farsi prendere
dall'ansia: Leo doveva
essere lì.
“E
se è malato?” buttò lì dopo un po'. “E se l'hanno spostato da
un'altra parte? Se per qualche motivo oggi non esce?”
Brunn gli diede una pacca sulla
spalla. Impegnato a scrutare ansiosamente ogni centimetro di parco,
l'altro non la sentì neppure.
Infine comparve una testolina
bionda.
“Eccolo!”
esclamò Richard, alzandosi per metà dal sedile.
L'ansia scomparve come neve al
sole, lasciandogli solo una determinazione adamantina: quello era suo
figlio e lui se lo sarebbe ripreso, punto e basta.
Scese dal veicolo, spiccò la
corsa. Tutto si confuse intorno al bambino, divenne indistinto mentre
il suo sguardo si focalizzava su di lui come il mirino di un'arma.
Con la visione periferica percepì un'ombra farglisi incontro: la
allontanò con una manata, accelerò la corsa. Registrò un altro
ostacolo, forse qualcuno che lo aveva afferrato per i vestiti. Se ne
liberò quasi senza sforzo.
Il bambino alzò lo sguardo nella
sua direzione, lo riconobbe. Il suo viso cambiò colore. “Papà!”
gridò.
Richard lo afferrò a mezzo corpo
e continuò a correre pancia a terra inseguito dalle urla delle
educatrici. Saltò il recinto senza rallentare, raggiunse il furgone
e salì a bordo.
“Andiamo!”
esclamò.
§
Con un acuto stridore di gomme il
furgone bruciò un semaforo rosso, invase l'incrocio, urtò
un'utilitaria mandandola a fare una serie di furiosi testacoda e
proseguì senza nemmeno rallentare. Nel cassone cadde una scatola di
pezzi metallici, rovesciando sul pavimento tutto il suo contenuto.
Ciò che era appeso alle pareti tremava e vibrava.
Il motore ruggiva mentre la
lancetta del tachimetro sussultava all'estrema destra del quadrante.
Da una laterale sbucarono due
auto di un sinistro viola scuro, con la sirena che ululava e barre
lampeggianti sul tetto.
“Merda!”
imprecò Brunn. Cercò di dare gas, ma l'acceleratore era già a
tavoletta.
Sterzò per abbandonare la strada
su cui stava procedendo, le gomme stridettero, il veicolo si inclinò
come se stesse per rovesciarsi, tanto che il bambino emise uno
strillo spaventato e si aggrappò al collo di Richard. “Attento!”
urlò questi rivolto a Brunn, più per istinto di protezione che per
altro.
Si piegò a guardare lo
specchietto laterale e vide le macchine che li seguivano. La più
avanzata era guidata da una donna con i capelli neri tagliati corti e
un paio di occhiali da sole a specchio. La vedeva mordersi il labbro
inferiore, concentrata nel compito di non farsi lasciare indietro.
A un tratto, Brunn inchiodò: in
fondo alla strada era stato approntato uno sbarramento, una fascia
irta di punte era stesa di traverso. Il furgone piegò bruscamente a
sinistra, si infilò in un senso unico e cominciò una furiosa
gimkana, strombazzando fra le macchine che procedevano in senso
opposto. Urtò qualche veicolo, si vide lo spruzzo iridescente di un
cristallo che andava in frantumi, sul parabrezza si allargò una
ragnatela di crepe.
Un autobus rosa nuovo e lucido,
con fiori colorati dipinti sulle fiancate, perse il controllo al suo
passaggio, si inclinò e crollò di traverso sulla strada,
ostruendola quasi completamente.
Richard scrutò di nuovo il
retrovisore: una delle macchine inseguitrici sgusciò tra la mole
fumante del veicolo e il muro di un palazzo, evitò di stretta misura
il crollo di un palo della luce, diede gas e si mise di nuovo sulla
scia del furgone, sbandando a destra e a sinistra nel tentativo di
superarlo.
Alla guida c'era la donna con gli
occhiali a specchio.
Procedettero attraverso la
periferia, si lasciarono la città alle spalle.
Altre macchine si erano unite
alla prima e il furgone procedeva zigzagando inseguito da un codazzo
ululante e lampeggiante.
Richard si voltò verso Brunn.
“Che facciamo?” chiese concitato.
“Conosco
qualche trucco,” rispose l'altro, senza distogliere lo sguardo
dalla strada. “Basta che le seminiamo, tanto hanno solo i taser,
non possono colpirci da questa distanza. Va' dietro, apri il
portellone e molla giù quello che trovi.”
Il primo assicurò il bambino al
sedile con la cintura di sicurezza, quindi lo oltrepassò e si mosse
cauto nel cassone. Trovò dei contenitori di frammenti metallici,
scarti di officina, chiodi e altro. Aprì il portellone e si trovò
praticamente faccia a faccia con la donna dagli occhiali a specchio.
Quella lo vide e immediatamente sterzò, spostandosi dalla scia del
furgone. Il lancio di taglienti mise fuori combattimento altre due
macchine, che finirono la loro corsa sul bordo della strada con le
gomme squarciate.
Richard prese un secondo
contenitore e attese che la prima macchina riprendesse il suo posto,
ma di nuovo la donna sembrò intuire le sue intenzioni con un secondo
di anticipo, perché al momento del lancio letteralmente si
volatilizzò.
Poi la macchina ricomparve, diede
gas e speronò col muso il furgone. Richard perse l'equilibrio e
rotolò sul pavimento del cassone, finendo pericolosamente vicino al
portellone posteriore spalancato.
Di nuovo la macchina colpì il
furgone, che sbandò con un acuto stridore di gomme. L'uomo si
aggrappò, ma finì comunque con mezzo corpo fuori dal veicolo. Ebbe
una fugace visione dell'asfalto, che data la velocità dei mezzi era
solo un indistinto magma grigio.
Si tirò su a forza di braccia,
cercò di chiudere il portellone, ma di nuovo la macchina speronò.
Dal posto di guida provenne l'imprecazione di Brunn.
Il furgone si inclinò su due
ruote laterali, Richard all'interno rotolò come una palla di
stracci. Vide il magma grigio mutarsi in un magma marrone e poi verde
e comprese che stavano uscendo di strada. Fece appena in tempo a
saltare davanti e abbracciare il figlio, poi il furgone si piegò e
con un fracasso da fine del mondo prese a rotolare giù per una
scarpata.
§
“Papà!”
gridò il bambino, sgusciando via dalla cintura di sicurezza. “Papà,
papà!” Si mise a piangere. “Papà, dove sei?”
Richard aprì gli occhi e si rese
conto di essere disteso faccia in giù su un terreno sassoso, con
chiazze di muschio qua e là. Percepiva il calore del sole su un lato
del viso, sentiva il gorgogliare di un torrente.
Si alzò a fatica. Era
indolenzito, qua e là graffiato, ma non gli pareva di avere danni
gravi. “Leo?” chiamò per prima cosa.
“Papà!”
Fece scorrere lo sguardo
tutt'intorno.
La macchina viola era a ruote in
su, schiacciata come se fosse passata sotto una pressa.
Il furgone era disteso sul lato
del guidatore. Il parabrezza era saltato e sembrava che una mano
enorme avesse accartocciato il cassone come un pacchetto di sigarette
vuoto. Lo sportello dal lato passeggero mancava.
“Papà,
vieni!”
Richard raggiunse zoppicando il
veicolo: il bambino era accucciato sul sedile e a parte le lacrime di
paura non sembrava avere danni. Quello che invece giaceva immobile,
con gli occhi chiusi e un rivolo di sangue che gli inzuppava la
barba, era Brunn. Gli si chinò accanto. “Ehi, amico,” lo chiamò
con voce sommessa.
Egli sollevò a fatica le
palpebre e con voce debole disse: “Te l'avevo detto che sapevo
qualche trucco.”
“Dove
sei ferito, Brunn?”
“Forse
farei prima a dirti dove non
sono ferito.” Cercò di fare una risata, che subito si spense in un
doloroso colpo di tosse. Altro sangue gli colò giù per il mento.
“Mi sa che da qui in poi dovrai andare avanti da solo,” disse.
Richard scosse la testa. “Stai
scherzando? Io non ti lascio qui.”
“Stronzate.
Devi andare prima che quelle là ritornino in forze.”
“E
tu, amico?”
Brunn fece un pallido sorriso.
“Presto quelle là non saranno più un mio problema.” Cercò di
ghignare, ma di nuovo un accesso di tosse glielo impedì.
“Piuttosto... “
“Sì...?”
“È
meglio che ti spieghi la strada prima di...”
“Brunn!”
“Ah,
lascia. Dovrebbe esserci un po' di bourbon nella tasca del mio
giubbotto, ti spiacerebbe prenderlo? Vorrei farmi un goccio, almeno,
prima di tirare le cuoia.”
Richard frugò fino a che non
trovò la fiaschetta, quindi la stappò e gliela avvicinò alle
labbra. Nonostante le sue condizioni, Brunn riuscì a berne un lungo
sorso, poi emise un sospiro di soddisfazione e disse: “Ora
ascoltami, Rick, non ho molto tempo. C'è un torrente qui vicino?”
“Sì,
scorre a venti metri da qui.”
“Risali
la corrente.”
“È
lontano il posto?”
“A
piedi saranno un paio d'ore.”
“Come
lo trovo?”
“Saranno
loro a trovare te. Prendi il mio cappello da baseball e mettitelo in
testa. Verranno da te quando lo vedranno.” Fece una pausa, poi con
voce ormai debole, mormorò: “Dammi un altro goccio, Rick.”
Bevve un sorso, quindi soggiunse:
“Ti ricordi quella frase che ti dissi sulla libertà?”
“Certo.”
“Ora
non hai più paura, Richard. Va' libero con tuo figlio.”
“E
tu, Brunn?”
“Lasciami
qui. Se il mio corpo nutrirà un orso o un lupo, io continuerò a
vivere.” Chiuse gli occhi, la testa gli cadde lentamente da una
parte. Un ultimo lungo respiro gli sollevò l'ampio petto, poi il
silenzio calò sulla scena.
“Brunn!”
esclamò Richard, ma l'uomo non rispose più.
Allora raccolse il vecchio
berretto consunto e se lo calcò in testa, quindi si alzò e si voltò
fino a incontrare lo sguardo attonito del bambino. Si fissarono per
lunghi secondi, poi lo prese per mano e disse: “Vieni, è ora di
andare.”
“Dove
andiamo, papà?”
“A
casa.”
§
L’aria delle vette, già
frizzante della prima neve, fece turbinare i trucioli che coprivano
il suolo, il cielo terso vibrò del grido acuto e modulato di un
nibbio.
Richard sollevò la testa e si
guardò intorno alla ricerca del rapace, lo seguì brevemente con lo
sguardo, quindi riprese lo scalpello e tornò al suo lavoro. Trucioli
di frassino ricominciarono a imbiancare il terreno, mentre un motivo
decorativo a foglie di quercia prendeva lentamente forma. Di tanto in
tanto, l’uomo si voltava verso la costruzione che si trovava alle
sue spalle, una casa di tronchi con il tetto spiovente, la fissava
soddisfatto e riprendeva a intagliare.
Si udirono dei passi,
sopraggiunse un altro uomo, in pantaloni mimetici e giaccone di
pelle.
“Ciao,
Karl,” lo salutò Richard.
L’altro si fermò e si pose i
pugni sui fianchi, quindi contemplò a sua volta l’abitazione e
disse: “È quasi finita, eh?”
“Già,
i ragazzi mi hanno dato una mano. Volevano che fosse pronta prima
dell’inverno.” Passò una mano sul pannello che stava intagliando
e aggiunse: “Sto finendo le finestre. Appena sono pronte, direi che
io e Leo possiamo trasferirci.”
Karl si guardò intorno. “Dov’è
Leo?”
“A
caccia.”
“È
proprio appassionato, eh?”
“Già.”
Si udì un festoso abbaiare e
poco dopo arrivarono di corsa quattro grossi cani dall’aria
vigorosa e robusta, con folte pellicce e occhi vispi. “Ehilà,
ragazzi!” li salutò Richard.
Gli animali gli si avvicinarono
scodinzolando e uggiolando. “Dov’è Leo?” chiese l’uomo, come
rivolgendosi alle bestie.
“Sono
qui, papà!” rispose una voce.
Si fece avanti un giovanotto
snello e solido, con i capelli biondi lunghi fin sotto le orecchie e
due luminosi occhi azzurri. Aveva abiti mimetici e un fucile sulla
spalla. “Ciao, papà.” salutò. “Ciao, Karl.”
“Preso
qualcosa?” chiese quest’ultimo.
Il ragazzo alzò le spalle.
“Niente di che, un paio di conigli selvatici. Li mangiamo stasera.”
Richard annuì. “Ok, che hai
fatto al braccio?”
Il ragazzo si toccò una
fasciatura di fortuna macchiata di sangue in un paio di punti. “Un
graffio,” rispose.
“Va’
a lavartelo nel torrente. Nel caso chiedi a Miller di darti
un’occhiata.”
“Va
bene.” Il ragazzo appese a un ramo il carniere, poi aprì
l’otturatore del fucile e controllò che fosse scarico. Solo dopo
lo porse al padre.
Fatto questo si tolse anche la
giacca e si diresse al corso d’acqua. I cani lo seguirono latrando.
“Un
bravo ragazzo,” commentò Karl.
Richard annuì con gesto sobrio.
“Venite
alla sala, stasera?”
“Certo.
Qui non ci sono ancora le finestre, sarebbe un po’ freddo.”
Al centro della sala comune
ardeva un bel fuoco alimentato da ceppi di quercia. Tutt’intorno
sedeva la gente. Uomini, perlopiù, ma anche donne stanche del Mondo
dell’Amore.
Leo, i cani accucciati ai suoi
piedi, stava pulendo uno dei suoi fucili. Accanto a lui, Richard
sorseggiava un bicchiere di bourbon e lasciava scorrere lo sguardo
sull’ambiente.
Era decisamente soddisfatto: nel
pomeriggio aveva terminato gli intagli delle finestre e aveva già
pronti i barattoli di vernice bianca e azzurra per pitturare gli
infissi. Ripensò alla Baviera, che non aveva mai visto, e più che
mai gli parve che dovesse essere simile al luogo nel quale aveva
scelto di vivere.
La Baviera in realtà era più
che altro un luogo dello spirito, dove nel corso degli anni aveva
collocato ogni cosa bella e buona.
Si voltò verso il figlio, che
aveva finito di pulire l’arma e ora sedeva assorto, grattando
distrattamente la schiena di uno dei suoi cani. “Tu te la ricordi
la mamma?” chiese il ragazzo senza staccare gli occhi dalle lingue
di fuoco che danzavano nel braciere.
Richard emise un sospiro. “Sì.”
Poi, dopo una pausa: “E tu?”
“Sì.”
I due tacquero, ognuno assorto
nei propri pensieri. Il brusio della sala era un sottofondo ipnotico,
che invitava alla meditazione.
Alla fine il ragazzo disse: “Mi
piacerebbe sapere cosa sta facendo.” Fece una pausa, si chinò a
baciare tra le orecchie uno dei suoi cani, poi chiese: “Tu credi
che sia felice?”
“No,
io credo di no,” rispose Richard. “Il Mondo dell’Amore dovrebbe
chiamarsi in realtà Mondo dell’Odio, Mondo dell’Oppressione, o
magari anche Mondo dell’Aggressione Contro Chi Non La Pensa nel
Modo Giusto. Credono di rispettare, invece opprimono. Credono di
amare, invece impongono un’odiosa prigionia, in gabbie anguste come
le loro menti. Credono di essere aperte, empatiche e prive di
pregiudizi, invece sono grette, violente e cariche di disprezzo per
chiunque abbia idee diverse dalle loro. Dicono di comprendere, invece
giudicano, dall’alto di una superiorità morale che è solo nelle
loro teste. Parlano di uguaglianza, ma l’uguaglianza in quel mondo
esiste solo sottoterra.”
Di nuovo fra i due calò il
silenzio.
Alla fine Leo annuì grave, poi
si tirò indietro i capelli che gli erano scivolati sugli occhi,
raddrizzò la schiena e in tono risoluto disse: “Un giorno andremo
a riprendercela. Che ne dici, papà?”
Richard scosse la testa e
rispose: “Arriverà da sola, quando come noi avrà imparato davvero
il valore del rispetto e della libertà.”
|