Magnetic.

di calamity julianne
(/viewuser.php?uid=470932)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


 

Jamie.

 

Erano passati due giorni dall’ ultima volta che io e Julie ci eravamo scontrati, due giorni che io avevo passato nel mio appartamento, lontano da casa mia dove sapevo che per forza di cose, prima o poi l’avrei incontrata. Me ne stavo seduto sul divano, con una sigaretta tra le labbra e Blaire appoggiata contro il mio petto. Non le prestavo attenzione, fissavo il vuoto perso tra i miei pensieri.
A volte mi odiavo per come mi comportavo, a volte avrei preferito essere diverso, anche solo indifferente ma la verità era che Julie era diventata la mia arma per colpire il mio vero bersaglio: mio padre. Non potevo sopportare l’idea che lui stesse tentando di ricostruirsi una vita, non riuscivo a sopportare l’idea che lui fosse ancora in vita, che avesse passato gli ultimi anni passando da una donna ad un’altra, permettendo a queste donne di dormire nello stesso posto che per anni era stato occupato dall’unica donna che meritasse di essere considerata tale.

Mia madre.

Esattamente come non riuscivo a non incolpare lui per la sua morte. L’aveva lasciata, abbandonata a sé stessa, umiliata, ferita. Le aveva permesso di perdersi in qualcosa di gran lunga più grande di lei e io no, non lo avrei mai perdonato. Come avrei potuto fare, d’altra parte?
Mia madre, la donna più buona e bella del mondo, si era rovinata perché caduta in delle mani che non erano riuscite a sorreggerla, mani che mai l’avevano protetta. Era colpa sua, io lo sapevo. Era colpa sua se mia madre era caduta in depressione, era colpa sua se mia madre aveva preferito togliersi la vita piuttosto che continuare la sua esistenza in quel modo. Era colpa sua, sua e di nessun altro.
Io ero solo un ragazzino, cosa avrei potuto fare per aiutarla? E poi, fino a che punto io avrei potuto fare qualcosa?
Era compito suo prendersi cura di lei, amarla e rispettarla. E invece cosa era stato in grado di fare? Niente. Si era limitato a guardarla, impassibile, del tutto indifferente mentre precipitava lentamente in un buco nero dal quale mai sarebbe stato possibile tirarla fuori.
Aveva iniziato a tradirla, la sera non tornava se non alle prime luci del mattino, con il colletto sporco del rossetto di un’altra donna perché ovviamente era più facile scappare dai problemi e rifugiarsi nel letto della prima sventurata che gli passava davanti.
Come potevo credere in quella specie di nuova famiglia che voleva costruire con Ashley e Julie? Proprio lui, l’uomo che mi aveva privato della mia famiglia.
No, non potevo accettarlo, non lo avrei permesso. Meritava di soffrire tanto quanto avevo sofferto io, se non di più e se l’unico modo per farlo era prendermela con Julie allora così avrei fatto.

Dentro di me però qualcosa era cambiato, iniziavo a sentire il senso di colpa crescere in fondo al mio petto da quando avevo letto come Julie aveva vissuto la morte di suo padre. Mi ero rivisto in quello che scriveva e non lo avevo affatto considerato banale o da bambina, come le avevo detto. Era stata in grado di raccontare un dolore così tanto profondo in maniera semplice, spontanea e diretta. Mi aveva profondamente colpito, ma in quel momento la parte di me che mi sussurrava di usare quel lato debole che avevo scoperto contro di lei ebbe la meglio.
Solo in quel momento iniziavo a rendermi conto di quanto quello fosse stato un colpo basso, colpire nel punto che fa più male di tutti, infilare un ago in una ferita già aperta e non una ferita qualunque ma una di quelle che non si rimarginano, neanche col tempo.
E io lo sapevo bene.
Quello che non sapevo affatto era come comportarmi dopo gli ultimi avvenimenti, mi rendevo conto di averla davvero fatta grossa e sapevo che qualsiasi tentativo di rimediare sarebbe stato se non vano, di sicuro insufficiente.

Spostai il braccio e mi scrollai di dosso Blaire che stava quasi per addormentarsi e protestò a bassa voce. Mi guardò confusa mentre mi alzavo dal divano, mi sistemai i pantaloni e le dissi: «Dovresti andare».
«Perché?», bofonchiò. Ogni tanto mi chiedevo perché continuassi a frequentarla, sapevo che era una passatempo ma negli ultimi tempi stava diventando abbastanza noiosa tutta quella situazione.
«Perché adesso vado a casa di mio padre. Ti chiamo un taxi».
«E perché non posso venire con te?», mi chiese mentre stavo già componendo il numero del taxi.
«Non è il caso».
«Cos’è, hai paura che la ragazzina ci veda?», sputò avvelenata.
Roteai gli occhi al cielo non dandole troppa importanza, Blaire non era mai stata particolarmente sveglia e non aveva neanche la capacità di capire quando la sua presenza era tutt’altro che gradita. Iniziava a stancarmi, non ero in grado di passare troppo tempo con lei senza essere assalito da un’irrefrenabile voglia di scappare via per mettere in salvo i miei neuroni. Non risposi alla sua ultima frase e indossai il giubbotto in pelle dirigendomi verso la porta. La aprii e la guardai aspettando che varcasse la soglia.
Sbuffò e uscimmo di casa insieme. «Quando passi a prendermi?», mi chiese prima di aprire la porta del taxi.
«Non lo so, vedremo». Mi stampò un bacio sulle labbra e sparì dentro al taxi. Col dorso della mano ripulii i residui del rossetto rosso che metteva sempre e andai verso la moto.
 
Julie.
Avevo passato gli ultimi giorni cercando di ammazzare il tempo, leggendo un po’ e disegnando tanto. È proprio vero che quando si è feriti si riesce a far uscire la propria vena creativa, forse per il semplice fatto che quando sei felice o sereno non hai neanche il tempo di pensare ad altro se non alla tua felicità. In quel periodo però io ero tutto fuorchè serena e il mio povero quadernetto era diventata la mia unica valvola di sfogo.
Abbozzavo disegni che perlopiù finivano per essere scarabocchiati, passando con le dita sui fogli riuscivo a sentire i solchi che avevo creato quando usavo le matite come fossero pugnali. Un giorno, sovrappensiero, mi ritrovai a disegnare un paio d’occhi che però mi ricordavano troppo il ghiaccio dentro quelli di Jamie. Inutile dire che tempo venti secondi ed erano già stati ricoperti da scarabocchi a volte tanto forti da bucare le pagine.
Che diavolo gli avevo fatto di male? Perché doveva per forza essere così velenoso con me? Ero comunque una sconosciuta, o quasi.
Perché non era in grado di accettare quel matrimonio imminente che avrebbe reso felice suo padre? Insomma, era suo padre! Il motivo per cui non ero ancora scappata a gambe levate da quella casa era proprio vedere mia madre serena e felice e sia chiaro, non era stato facilissimo per me accettare una figura maschile accanto a mia madre che non fosse mio padre.
In quei momenti sentivo la sua mancanza come amplificata, non riuscivo quasi a sopportarla. Mio padre era uno degli uomini, se non l’uomo più buono e altruista dell’intero pianeta. Un angelo che il cielo ti manda una sola volta nella vita e che non troverai da nessun’altra parte, ecco cos’era mio padre. Un uomo che nella sua vita aveva dovuto sopportare le peggiori sofferenze e che da queste era riuscito a trarne solo cose positive, cosa tutt’altro che semplice.
Jamie non era decisamente riuscito a fare la stessa cosa. Sicuramente dietro i suoi modi di fare si nascondeva tanta sofferenza, ma non per questo i suoi atteggiamenti erano giustificabili, men che meno nel momento in cui andava a toccare il dolore di un’altra persona.
Sospirai mentre mi fasciavo la testa con tutti quei pensieri e mi alzai dal divanetto in libreria, diretta verso il giardino.
Mi rifugiai sotto il gazebo situato in giardino e presi posto in una delle sedie attorno al tavolo. Tirai fuori una sigaretta dal pacchetto quasi vuoto e la presi tra le labbra. In quel momento lo vidi arrivare, sfrecciando per il vialetto con la sua moto e con le ciocche biondissime e ondulate che spuntavano dal casco.
Lasciò la moto alla fine del vialetto e quando mi vide mi venne incontro.
«Ciao», si limitò a dirmi un attimo prima di sfilarmi la sigaretta dalle labbra e prenderla tra le sue. La accese con un accendino che prese dalla tasca del suo giubbotto e piantò gli occhi nei miei.
«Molto simpatico», dissi riferendomi al suo gesto e prendendo un’altra sigaretta che stavolta mi affrettai ad accendere. «Come mai da queste parti?».
Sorrise come divertito. «Beh è casa mia, ricordi?».
Prese posto sul tavolinetto davanti al divano sul quale ero seduta e continuò a guardarmi. Non riuscivo davvero a decifrare i suoi occhi, troppo glaciali per permettermi di entrare. «Ti sono mancato?».
Feci una smorfia. «Se sei venuto qua per fare questi giochetti puoi anche andartene, non ho voglia di combattere con una delle tue tante personalità al momento».
«In realtà sono venuto per concludere quel discorso che abbiamo lasciato in sospeso qualche giorno fa, a casa mia».
«A me è sembrato che l’avessimo chiuso».
«Per me no», disse con fare autoritario. Serrò per un momento la mascella come se facesse fatica a parlare. «Mi sono reso conto di aver sbagliato, quando ti ho parlato in quei termini di ciò che scrivevi di tuo padre, in fondo non lo pensavo davvero e per questo ti chiedo scusa», marcò quell’ultima parola come se davvero pronunciarla gli costasse una parte del suo orgoglio. Mi sembrò sincero ma le sue scuse dopotutto non significavano che avrebbe smesso di tormentarmi. «Io non riesco a esserti amico».
«Non devi essermi amico, basterebbe che mi trattassi con un minimo di rispetto».
Scosse il capo tra sé. «Ma non mi riesce neanche quello. In tutta onestà tutta questa faccenda del matrimonio non mi entusiasma particolarmente», ammise.
«Questo lo avevo notato… solo che non capisco perché, ci conosci appena».
«Sì, è vero vi conosco appena ma lui no, lui lo conosco bene», notai che non riuscisse a chiamarlo “papà” e la cosa mi fece abbastanza strano.
Seguirono istanti di silenzio in cui io lo osservavo e lui era intento a guardare un punto qualsiasi alla sua sinistra, i muscoli del collo contratti e una vena in rilievo che pulsava.
«Non andate molto d’accordo, vero?».
Si lasciò andare ad una risata amara. «No, direi proprio di no ma francamente non è un argomento che amo affrontare».
Feci un passo indietro perché mi resi conto che era forse una delle pochissime volte che stavamo riuscendo ad avere un confronto civile senza risposte velenose o battutine.
Aspirai del fumo dalla sigaretta e lo buttai fuori un momento prima di parlare. «Okay, allora non lo affronteremo. Per quanto mi riguarda non pretendo di esserti amica, né di piacerti o robe del genere, vorrei solo vivere il pace questi giorni senza il terrore perenne di vederti arrivare con una delle tue battute infelici e di basso livello. Non ti chiedo tanto, puoi anche ignorarmi, lo preferirei a certe esternazioni».
Si girò a guardarmi mentre parlavo e fece un cenno col capo. «Non posso prometterti niente, anche perché non è che tu abbia un carattere tanto facile da permettermi chissà quanta pazienza, ma si può provare».
«Quindi è una tregua?».
«Non so se definirla proprio tregua, la mia idea sul matrimonio rimane la stessa. Magari cercherò di essere meno…».
«Stronzo», sentenziai io dato che sembrava non trovare il termine adatto. Accennò una risata e annuì, notai una scintilla diversa nei suoi occhi, sembrava genuina.
«Forse è il termine più appropriato, sì».
 
E strano ma vero, in seguito quella sorta di tregua ci fu davvero. Io e Jamie non riuscivamo  a vederci spesso avendo orari ed abitudini parallele, ma quelle poche volte che riuscivamo ad incrociarci notavo sempre quanto lui sembrasse, anche se in minima parte, diverso. Certo, le sue battutine c’erano ancora, non perdeva occasione per ricordarmi quanto io fossi piccola rispetto a lui, mi prendeva di tanto in tanto in giro per i miei disegni e per i miei modi di essere un po’ svampita ma si teneva ben lontano dall’essere cattivo, maligno e aveva smesso di entrare nel merito di questioni personali che proprio non gli competevano.
Che fosse veramente la svolta?
Quella mattina, mentre ero intenta a sorseggiare il mio cappuccino squillò il telefono. «Pronto?».
«Julie, ciao! Sono Chris, ti ricordi?».
Ma chi è Chris?
Solo qualche istante dopo mi ricordai di lui, di quella volta che ci eravamo incontrati sulle scalinate del National Gallery. Mi ero del tutto dimenticata di avergli lasciato il mio numero. «Chris, come no, ciao».
«Ehm, senti volevo chiederti… stasera mia cugina da una festa a casa sua e mi ha detto che potevo invitare qualcuno se volevo, ti va di venire?».
In tutta onestà, non ero mai stata un tipo da feste ma non avendo alternative, decisi di accettare. Concordammo un orario in cui venirmi a prendere e un attimo dopo aver riagganciato me ne pentii. Le feste nella maggior parte dei casi mi imbarazzavano, non ballavo mai – tranne in situazioni alquanto alcoliche – perché somigliavo più o meno ad un palo della luce intento ad oscillare. Non ero proprio capace e pensai che magari Chris mi avrebbe trovata noiosa per questo.
Sbuffai e in quel momento Jamie arrivò in cucina con i capelli scompigliati e indosso solo un paio di pantaloncini da basket. «Cos’è quella faccia?», mi chiese.
«Chris mi ha invitata ad una festa stasera».
«Il tipo con cui parlavi sulle scalinate? E hai accettato?», chiese con le sopracciglia sollevate come se fosse la cosa più assurda del mondo.
«E quindi?».
«Ti facevo un pelino più intelligente, sorellina. Non lo sai che in teoria bisognerebbe stare alla larga dagli sconosciuti?», avvertivo un pelo di acidità nella sua voce.
«Molto premuroso da parte tua, davvero. Apprezzo il tuo essere così protettivo, fratellino ma so badare a me stessa, non preoccuparti», lo stavo palesemente prendendo in giro, il tono era chiaro.
«Lo spero per te».
«Potresti sempre venire a controllarmi, sai con un binocolo ed un impermeabile scuro».
«Credimi, se non fosse che sono un ragazzo molto impegnato e richiesto, sarei già lì ma ahimè stasera ho altro da fare», disse con tono malizioso mentre si sedeva sul posto di fronte al mio.
«E con questo parli di quella bella moretta dell’altra sera…come si chiamava? Becca, Barbara, Belinda…», finsi di non ricordare il nome di quella ragazza mettendomi una mano sotto al mento con fare teatrale.
«Blaire», rispose lui. «Non fare così, potrei quasi pensare che tu sia gelosa».
«Oh sì, muoio dalla gelosia!», arrossii appena e pensai fosse il momento di andare, anche perché lui notò le mie guance incandescenti e rise tra sé e sé, nascondendosi dietro la tazza di caffè.
 
*
 
La scelta dell’abito fu meno impegnativa del previsto, d’altra parte quando non hai poi tanti vestiti tra cui scegliere deve per forza essere così. Così optai per un tubino nero in velluto, lungo fino al ginocchio e con uno scollo a V alquanto profondo sul seno. Ai piedi un paio di tacchi neri e un filo di trucco sul volto.
Scesi al piano inferiore con il telefono in mano, Chris mi aveva appena inviato un messaggio dicendomi di uscire perché era arrivato e non notai neanche Jamie, bello come il sole, accanto alla porta di ingresso. Era elegante, non lo avevo mai visto vestito così. Indossava una camicia nera aderente e con i bottoncini aperti sul petto, un paio di pantaloni neri e i suoi soliti stivaletti. I capelli perennemente scompigliati e uno sguardo strano.
«Però», mormorò guardandomi dalla testa ai piedi. Arrossii di nuovo, ancor di più di quella mattina.
«Vado bene?», chiesi timidamente, a bassa voce come se mi vergognassi di chiederlo.
«Stai molto più che bene».
Non riuscii a nascondere un sorriso. «Mi stai davvero facendo un complimento? Hai per caso sbattuto la testa?».
«Non farci l’abitudine», quello lì non poteva essere lo stesso che fino a pochi giorni prima mi diceva di tutto.
Mi fermai a guardarlo anch’io per qualche istante e poi mi ricordai che Chris mi aspettava fuori dalla porta. «Dovrei andare».
«Aspetta ahm, ho una cosa per te».
Mi diede un piccolo spray e non capii cosa fosse finche non lessi “spray al peperoncino”. Sollevai le sopracciglia e lo guardai ancora, tra il divertito e l’allibito. «Fai sul serio?».
«Non vedo come altro potresti difenderti, piccolina come sei», disse come se fosse ovvio.
In ogni caso, non riuscii a non vederci qualcosa di premuroso in quel gesto quindi mi limitai ringraziarlo. «Stai attenta», fu l’ultima cosa che mi disse prima che uscissi di casa.

Appena entrai in macchina, Chris mi riempì di complimenti che mi affrettai a ricambiare, stava davvero bene quella sera. Quando fece retromarcia per il vialetto non riuscii a fare a meno di notare due occhi azzurrissimi che ci spiavano da una delle grandi finestre, era come un déja-vu, come quella sera che lo guardavo andar via con Blaire da camera mia.
Appena arrivati alla festa non riuscii a fare a meno di notare quanta gente ci fosse in quella villetta, era davvero pienissima. Fummo costretti a sgomitare tra la gente per riuscire ad arrivare al bancone dentro casa, la musica alta poi non rendeva semplicissimo comunicare.
Riuscimmo a prendere due cocktail e chiesi – urlando – a Chris di andare un po’ fuori dato che dentro non si riusciva a respirare. Lui annuì e aggiunse: «Aspetta però, ti faccio conoscere mia cugina!».
Mi prese per mano e mi guidò verso il centro del salotto, dove una ragazza era intenta a ballare con almeno cinque ragazzi tutti intorno a lei, sembrava già abbastanza ubriaca. Non riuscii a riconoscerla subito, con quel suo rossetto rosso, gli abiti succinti a fasciare un corpo statuario.
«Blaire, ti presento Julie», urlò Chris all’orecchio della cugina.
Sì, Blaire esattamente quella Blaire.
Mi riconobbe probabilmente perché il suo sguardo cambiò quando mi vide. «Ma guarda, non solo vuoi rubarmi il fidanzato ma anche mio cugino!», urlò in preda all’alcol e io rimasi ferma a guardare la scena di lei che veniva sorretta da altri ragazzi perché troppo ubriaca per stare in piedi da sola.
«Ma di che parla?», chiese Chris. Mi limitai a scuotere il capo e gli dissi che non ne avevo idea e dopotutto era la verità.
Indietreggiai involontariamente per allontanarmi da quella situazione ma come previsto andai a sbattere contro qualcuno. «E tu che ci fai qui?», la voce di Jamie mi fece sussultare.

Oddio anche tu no, ti prego.

Mi sentivo in una specie di film horror, dove tutti i tuoi incubi saltano fuori uno ad uno. «Credimi, me lo chiedo anch’io», ammisi.
Chris seguì con gli occhi tutta la situazione e quasi scocciato dal fatto che io e il mio futuro fratellastro ci fossimo incontrati anche lì, mi prese per mano e mi portò fuori dalla casa. Fu un sollievo, sia perché non ero più vicina a Blaire che in tutta onestà mi metteva anche un po’ d’ansia in quelle condizioni e poi non ero neanche in mezzo a tutti quei corpi sudati.
Presi una boccata d’aria e mi accesi un attimo dopo una sigaretta. «Tuo fratello ha dei problemi seri se arriva addirittura a seguirti ovunque tu vada», sentenziò.
«In realtà lui e Blaire hanno una relazione, credo».
«Davvero? Oh, allora è lui il famoso ragazzo. Me ne ha parlato spesso».
«Siete molto uniti?», chiesi guardandomi intorno di tanto in tanto per controllare se arrivasse qualcuno.
«Siamo cresciuti insieme, negli ultimi anni ci siamo un po’ allontanati ma sì, credo sia normale crescendo».
Annuii e sorseggiai il mio drink e alla fine finimmo per cambiare discorso. Fortunatamente non rientrammo dentro e lui non sembrava neanche troppo dispiaciuto, forse il siparietto con la cugina non gli era piaciuto poi tanto, ovviamente.
La compagnia di Chris era piacevole, scoprii che studiava Scienze politiche ed era al primo anno di università, sognava di diventare qualcuno di importante per cambiare le cose, voleva essere ricordato. Mi chiese di me, delle mie passioni, di cosa mi piacesse fare e proprio quando iniziai a raccontargli della mia passione l’arte e per la scrittura, ecco che me lo rubarono via.
Incontrò un suo vecchio amico, anche lui non troppo lucido e Chris mi disse: «Dammi un secondo e sono da te, ti giuro, non muoverti».
Gli sorrisi e annuii. Dove altro sarei potuta andare poi?
Così rimasi seduta su quella panchina, da sola. Il giardino era ugualmente popolato come la casa ma quantomeno si respirava e non ero obbligata a stare incollata ad altra gente.
Dopo dieci minuti di Chris nessuna traccia, al suo posto arrivò un biondo di mia conoscenza ad occupare il posto libero accanto a me.
«Il tuo ragazzo ti ha scaricata?», chiese Jamie accendendosi una sigaretta.
«Non è il mio ragazzo, la tua piuttosto che fine ha fatto».
«Non è la mia ragazza», rispose imitando la mia frase.
Annuii e continuai a giocare con la cannuccia del mio drink ormai finito. Probabilmente la mia espressione doveva essere buffa perché Jamie scoppiò a ridere tutto ad un tratto. «Che hai da ridere?», chiesi con la fronte aggrottata come una bambina.
«Tu sei proprio un tipo da feste eh», disse ridendo ancora. Come dargli torto.
«Beh, neanche tu sei messo tanto meglio dato che sei qua con me».
«Touché», pochi istanti dopo aggiunse: «E se andassimo via?».
L’idea in realtà non mi dispiaceva affatto, ma sapevo di non poterlo fare. «Non posso, Chris ci rimarrebbe male se me ne andassi senza dirgli nulla».
«Stai parlando della stessa persona che ti ha lasciata qui da sola?».
«Touché».
Mi guardava con gli occhi divertiti e si morse il labbro inferiore, sorridendo. «Allora?», mi sventolò le chiavi della moto davanti agli occhi.
Fissai per qualche istante il portachiavi che oscillava davanti ai miei occhi, come se stesse tentando di ipnotizzarmi, così mi voltai
verso di lui e incontrai forse l’unica arma con cui avrebbe potuto ipnotizzarmi davvero: i suoi occhi.
Magnetici.
Non ci pensai troppo, risposi istintivamente.
«Andiamo».





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3803938