IO, POSTINO
Sono
le quattro di mattina, la sveglia sta suonando, rivolgo lo sguardo
verso Giada e lei si è addirittura messa il cuscino sulla
testa per non sentirla e, soprattutto, per non spegnerla. Potrebbe
cambiarle la giornata questo fastidio inopportuno. Io invece ho ancora
gli occhi iniettati di sangue per l’ennesima notte tormentata
però, penso, ha ragione lei; sono io quello che si deve
alzare così presto. La luce è spenta; allungo il
braccio verso il comodino e mi accorgo subito di non aver schiacciato
il tasto del timer, ma di averle dato una manata con il solo risultato
di averla fatta cadere. Se la mia intenzione era di rubare qualche
altro minuto di sonno posso dire di avere fallito miseramente. Senza
fare troppo rumore spengo quella bella sveglia regalataci dai miei
suoceri; quell’attrezzo di tortura che non ha un suono
normale, ma ha, al suo posto, un’orchestra che esegue la
“Cavalcata delle Valchirie”, quindi, raggiungo la
cucina e metto sul fornello la caffettiera da due tazze
perché senza l’aiuto quotidiano del
caffè rischio di addormentarmi sull’ascensore.
Mi
gusto il sapore e l’aroma della mia gioia mattutina e,
come sempre, pochi istanti dopo la degustazione, devo correre in bagno.
Mi siedo come se fossi il Re; mi rilasso accendendo una sigaretta,
sfoglio una rivista e quello per cui sono corso fino a qui sta
procedendo nel miglior modo possibile nonostante abbia mangiato cibi
pesanti negli ultimi giorni. Per forza, mi dico, i miei suoceri portano
qui pietanze della loro terra e mi osservano se mangio tutto o se
faccio lo schizzinoso. In pratica mi riempio come una botte e, a volte,
mi pare di portare come Obelix un menhir, però sulla pancia.
Finita la sigaretta, appoggio la rivista sul ripiano con la mano
sinistra e con la destra cerco il dispenser della carta igienica.
Afferro il lembo di carta e lo tiro ma l’azione dura una
frazione di secondo e, mentre sento il rotolo di cartone volteggiare
allegramente, osservo con irritazione crescente il lembo di carta, di
circa due centimetri, che ho in mano. Lei, sempre lei, immancabilmente
lei. Inizio a pensare che lei odia profondamente il ricambio di oggetti
finiti; dopotutto fa lo stesso quando c’è qualche
batteria da sostituire. Vorrei urlare il suo nome ma so che farebbe
finta di non sentire quindi, conscio che come sempre dovrò
sbrigarmela da solo, mi guardo attorno. Gli occhi, ormai abituati,
squadrano subito il cestino della biancheria sporca sul quale
è appoggiata, e ancora chiusa, la nuova confezione da sei
rotoli che, ovviamente, si trova dall’altra parte del bagno.
Mi vergogno ma non posso stare qui in eterno; mi alzo e, camminando
lentamente per colpa delle mutande e dei pantaloni abbassati, raggiungo
finalmente l’oro.
Superato
brillantemente l’esame, tolgo i vestiti e mi butto
nella doccia; il vero momento in cui posso svegliarmi. Sistemo
l’accappatoio, preparo il bagno schiuma, metto il viso sotto
l’erogatore dell’acqua e con la mano destra apro
l’acqua calda e in un nano secondo urlo perché ho
utilizzato ancora una volta quella fredda. Il mio corpo diventa subito
un iceberg; sono completamente pelato così sento sulla testa
crescere una stalagmite e, prima che possa reagire, ho la visione di me
stesso che fa da pupazzo di neve per Natale. Con caparbietà
riesco a saltare fuori dalla doccia e a infilarmi
l’accappatoio e, poco prima che il mio viso torni roseo,
sento la sua voce.
«Ivan,
tutto bene? Tesoro, ti ho sentito gridare, cosa
succede?»
«Tranquilla,
ho risolto», le rispondo battendo
ancora i denti dal freddo.
«Allora
io torno a dormire.»
Le
bastano tre secondi, come i bambini, per addormentarsi di colpo e
mentre lei bofonchia qualche parola in una lingua antica, io continuo a
pensare che la colpa non può essere mia. Io, quando faccio
la doccia, metto la manopola nel punto neutro e se la muovo verso
destra, deve essere per forza l’acqua calda a scendere e non
viceversa. Ora, con fare da ladro, allungo la mano verso la manopola e
la ritraggo immediatamente per non rischiare nuovamente di sentirmi al
polo sud.
Eseguita
la seconda missione di sopravvivenza torno in camera, mi
vesto, ed è il momento di uscire e andare a lavorare. Sono
un postino su scooter e questo impiego mi da infinite soddisfazioni
anche se a volte le persone che incontro sono tutt’altro che
gentili e cortesi. Di certo non mi lamento; mi piace lavorare
all’aria aperta e non mi disturba neppure la pioggia.
***
Oggi
c’è un bel sole, sono in divisa estiva e mi
appresto a fare le ultime consegne prima della pausa. Ho trascorso la
mattinata macinando molti chilometri insieme al mio vecchio scooter;
amico di mille battaglie sulle strade della grande città
dove devi prestare molta attenzione a tutte le cose che si muovono e
che ti circondano perché basta una svista per finire a
terra. Mi sto divertendo anche questa mattina nonostante lo scooter
abbia deciso di non reggere il “minimo” da fermo;
la cosa non mi disturba e, quando succede, ne approfitto per fare una
passeggiata mentre consegno le lettere nelle piccole strade senza
uscita. In una di queste vie mi fermo e inizio a cercare nella mia
borsa le prime buste da consegnare.
«Buongiorno
capo, anche oggi ci si vede», esclama
il portinaio del civico numero uno.
«Tutti
i giorni ho posta per voi», rispondo mentre
con una mano scannerizzo le buste e con l’altra faccio gli
scongiuri.
Consegno
velocemente al civico tre mi dirigo verso il civico cinque e
inizio ad avvertire la presenza di qualcuno alle mie spalle anche se so
benissimo che non c’è nessuno vicino a me. Volgo
lo sguardo indietro e lei è lì; la signora Pina
del civico sei, il palazzo posto dall’altra parte della
piccola strada che sto percorrendo. Una delle poche cose che non
sopporto è che qualcuno mi stia fissando mentre sto
lavorando e, lei, per me, è quasi diventata una presenza
demoniaca perché sento la presenza dei suoi occhi anche a
distanza.
«Signor
postino, da me viene dopo?» mi chiede come
tutti i giorni, ed io le rispondo con gentilezza, come tutti i giorni,
«No signora, prima i dispari e poi i pari.»
«Ah,
ho capito; allora la aspetto, tanto non ho
fretta.»
Signora
lei non ha mai fretta perché mi deve dare la caccia
fino all’ultimo; mi dico da solo senza mostrare il mio
sorriso deformato in una smorfia di dolore. Procedo spedito
perché per alcuni palazzi non ho nulla e ritorno indietro
iniziando dal civico numero otto. Prendo le buste dalla mia sacca e mi
dirigo verso il portone, dove due persone anziane stanno parlando tra
loro.
«Ieri
sera hai visto il telegiornale? Quello là ci
vuole tagliare ancora le pensioni!»
«No,
ieri mi sono addormentato presto perché la
mattina sono stato al lavoro.»
«E
com’è andata?»
«Non
sono capaci. Glielo detto al capo cantiere che il tubo
andava messo da sinistra, ma niente, hanno fatto quello che
volevano.»
Sorrido
per i loro discorsi ricordando che mio nonno faceva e diceva le
stesse cose al suo amico vicino di casa, poi, ritorno in me e mi
avvicino per entrare. Devo svolgere il mio lavoro cercando di non
disturbarli così alzo la mano in segno di saluto, ma
accorgendomi che non mi guardano neppure, dico: «Buongiorno,
io dovrei…» I due contraccambiano il saluto senza
guardarmi e continuano a parlare delle loro cose come se fossi
invisibile. Mi trattengo dall’uso di parole inadeguate ma mi
avvicino loro in modo che capiscano che devono spostarsi e invece uno
dei due, sempre senza guardarmi, esclama: «Questi giovani,
non hanno rispetto per nessuno, ancora un poco e mi spinge per
terra.» Ma come? Ho bisogno di passare perché sto
lavorando per voi. Sto per dire quello che penso quando
l’altro anziano mi guarda per la prima volta e dice:
«Ecco il postino. Lo sa che oggi è in ritardo? Su,
faccia in fretta a smistare la posta che dentro
c’è la mia pensione». Io rimango
interdetto e riesco solo a rispondere: «Scusatemi,
c’era traffico», prendendomi pure la colpa senza
avere fatto niente di male. Loro, non solo non mi guardano, ma salgono
le scale perché si sono accorti che oggi non è
giorno di pensione.
Esco
da quel palazzo e in mano adesso ho le ultime lettere da
recapitare proprio al palazzo della signora Pina. Mi faccio coraggio,
raggiungo il portone e lei lo apre senza che io suoni al citofono
perché è lì dietro alla vetrata. Entro
deciso e mi pongo davanti alle cassette porta lettere e lei
è al mio fianco, osserva i nomi sulle buste, non per
impicciarsi ma per essere sicura che non sbaglio e in alcuni momenti in
cui devo leggere i cognomi sulle caselle, la sua frase è la
stessa ogni volta: «Vuole darle a me che
l’aiuto?» La mia risposta è ogni volta
la stessa. «Signora Pina, sono buste personali ed io solo
sono autorizzato a consegnarle al destinatario.»
«Ahm,»
dice lei, «tanto lo so
già che a quello del primo piano gli hanno dato la multa e
quella del quarto piano se non paga l’affitto la mandano
via».
Io
completo la consegna, mi dirigo all’uscita e mi accorgo
che la signora Pina mi sta seguendo così, per cortesia, le
apro il portone e lei lo attraversa senza proferire parola. Mosso da un
insano fastidio, le dico con sarcasmo: «Grazie signora
Pina», e lei imperturbabile, prima di allontanarsi, mi
risponde: «Di cosa, non mi ha fatto fare niente».
***
La
pausa pranzo per noi postini è di solito di un quarto
d’ora perché durante la giornata abbiamo
l’opportunità, in base al carico di buste, di
fermarci a bere un caffè o di rilassarci quando si passa da
una zona a un'altra della città. Io preferisco portare a
termine il lavoro e mi fermo ogni tanto a bere dell’acqua
dalle fontanelle disseminate in città; oggi ho raggiungo il
piazzale dello stadio, dove c’è un distributore
automatico e dove, spesso, incontro dei miei colleghi. Mi guardo
intorno e non c’è nessuno; posteggiato lo scooter
e raggiunto il distributore automatico e inizio a fissare i vari snack
disponibili. Cerco la moneta del valore giusto ma non l’ho
quindi ne inserisco una di taglio più grande, pigio i numeri
del distributore osservando il movimento rotatorio della molla che
butterà nel raccoglitore la mia merenda. Osservo e quello
snack decide di impigliarsi tra la molla è il dispenser. Mi
guardo intorno e non c’è anima viva
così, senza temere di fare figure imbarazzanti, inizio a
scuotere il distributore, prima lentamente, poi sempre più
forte. Niente da fare; oggi mi tocca lasciare lì quella
gustosa merendina al cioccolato poi, scatta anche a me una molla. No,
non esiste; deve uscire da lì il mio dolce quindi torno
faccia a faccia con quel marchingegno e, preso dalla foga crescente,
inizio pure a parlargli. «Dai amico, perché tieni
tutte quelle cose per te, ti ho pure pagato; forza, ti scuoto e tu mi
dai da mangiare!» Applico una leggera spinta al distributore
ma lui non ne vuole sapere. Ora la mia insistenza diventa
ossessiva e non risparmio brutte parole. «Brutto pezzo di
beep, chi ti credi di essere? Dammi subito ciò che ho
chiesto o te ne pentirai», urlo mentre lo prendo a calci e lo
scuoto forsennatamente con tutta la forza che ho. Niente; ho una rabbia
quasi disumana e cerco intorno a me qualche bastone da usare contro
questo marchingegno diabolico per farmi dare la mia merenda. Mi
strapperei i capelli, se li avessi, tanto sono furente ma poi, dopo
l’ennesimo calcione, subentra nel mio animo il senso
fastidioso dell’accettazione. Mi calmo perché
tanto non posso fare niente e poi se per caso spacco il vetro, finisco
pure per avere torto; scrollo le spalle e mi dirigo verso lo scooter
quando mi torna in mente la moneta. Torno indietro, mi abbasso, metto
le dita nella fessura da cui esce il resto e non
c’è niente. Penso subito di tornare
all’attacco quando mi accorgo che nel piazzale sta girando
l’auto della polizia. Ormai è una battaglia persa,
inutile perdere anche la guerra. Decido di scrivere un messaggio a
Giada per dirle di preparare molta pasta per questa sera,
così coprirò anche la voragine che ho ora nello
stomaco. Nell’attesa di una celere risposta,
perché so che l’ha appena visualizzato, mi bevo un
po’ d’acqua dalla fontanella, poi mi siedo sullo
scooter e prima di mettere il casco controllo cosa mi ha risposto.
Succede spesso ma io, imperterrito, continuo a credere che sia solo una
svista, che forse non si sia accorta, ma alla fine devo accettare anche
l’inutilità dell’attesa
perché tanto risponderà il più tardi
possibile, se si ricorda, oppure farò prima io a dirle che
cosa avevo scritto quando sarà a casa.
***
Giada,
senza mai rispondere al messaggio che le avevo scritto, aveva
già organizzato un’uscita con dei nostri cari
amici e devo darle merito per questa sua iniziativa perché
ci siamo divertiti, abbiamo mangiato bene e poi, sfruttando il fatto
che domani non lavoro, siamo andati a ballare rientrando a notte fonda.
Apro la porta e lei, come un gatto, entra senza accendere la luce, come
se avesse memorizzato l’intera pianta del nostro appartamento
al dettaglio; corre verso il bagno e accende l’acqua della
doccia. Io, a quest’ora, non ricordo neppure dove si trova il
tasto della luce; entro in casa, tolgo le scarpe, mi dirigo verso il
divano, dove poter riposare un poco la schiena ma, il tutto, senza
ricordare quel maledetto spigolo di legno massiccio che fa da piedino.
Quando ci sbatto contro il piede il mio grido di dolore è
come un ululato di un lupo alla luna piena; sento il mignolo del mio
piede come paralizzato tanto è il dolore che si sta
propagando per dall’intera gamba per raggiungere anche i
centri nervosi delle mani. Mi siedo tenendomi tra le mani il piede,
soffoco un secondo urlo e mentre le lacrime mi scendono copiose sul
viso Giada esce dalla doccia, schiva con abile mossa il legno massiccio
e mi regala un bacio dicendo: «Fai in fretta, ti aspetto a
letto.»
Il
mio dolore svanisce come d’incanto, salto in piedi dal
divano come una molla e corro verso la doccia nonostante senta
chiaramente che il mio mignolo si sta gonfiando come un canotto e, alla
luce del bagno, osservo quel piccolo dito che è diventato
più grosso dell’alluce. Non m’importa,
mi spoglio più veloce di Superman, non bado a dettagli,
metto il viso sotto l’erogatore dell’acqua e con la
mano destra apro l’acqua fredda per rinfrescare il corpo e
quel mignolo che ora è di colore viola ma, in un nano
secondo, urlo perché ho aperto l’acqua calda. Il
mio corpo diventa una brace ardente e il mignolo del piede ora appare
un wurstel abbrustolito; sono completamente pelato così
sento sulla testa l’effetto dell’eruzione di un
vulcano e il magma che scende verso il viso mi sembrare una delle
scogliere ardenti delle Hawaii. Con caparbietà riesco a
saltare fuori dalla doccia per sentire l’effetto piacevole
che fa l’aria fresca della sera ma, in un’estate
torrida come questa, non trovo pace. A questo punto ho il dubbio che
non sia colpa di Giada ma mia, così inizio a pensare che
confonda la destra con la sinistra e che sono io stesso a muovere la
manopola in tutti i modi errati che la mia mente può
concepire. Smetto di pensare perché il messaggio chiaro che
mi ha dato Giada pochi minuti fa cambia le mie priorità
quindi, con fare da ladro, allungo la mano verso la manopola e la
ritraggo immediatamente per non rischiare nuovamente di essere
incenerito. L’effetto ormonale si fa sentire forte; mi lavo
con la supervelocità di Flash, salto fuori dalla doccia
pronto a prendermi il premio, corro verso la stanza da letto e sbatto
anche il mignolo del piede sinistro contro quel maledetto legno
massiccio ma non urlo più perché la mia
attenzione è rivolta a cose ben più interessanti.
Entro in stanza facendo scivolare l’accappatoio come fossi
uno spogliarellista e mentre mi avvicino al nostro nido
d’amore, sento lei che sta russando sonoramente. Potrei fare
la parte del lamentoso ma, nonostante i difetti di entrambi, sorrido
perché tra noi c’è un grande amore,
così, delicatamente le accarezzo il viso e le bacio la
fronte mentre lei, bofonchiando, mi dice: «Buonanotte amore
mio».
M’infilo
sotto le coperte e, anche se ha ricominciato a
russare come un orso di Yellowstone, mi sdraio accanto a lei tenendola
tra le braccia pensando a quanto sono fortunato ad averla accanto a me
per tutta la vita. Certo, se russasse meno, sarebbe meglio,
così non mi costringerebbe a fare tutti quei versi strani
che si usano per far smettere questo rumore, simile a quello di un orso
in letargo.
***
Che
strano, guardo la sveglia e sono solo le sette del sabato mattina.
Giada si è spostata, durante la notte, nella posizione in
cui riesce a dormire meglio senza russare, quindi, per quale motivo
sono già sveglio? Sento la testa bruciare, mi volto verso la
finestra e il fascio di luce proveniente dal Sole quasi mi acceca. Vuoi
vedere che questa notte si è svegliata per alzare la
tapparella? «Noooooooo!!!»