Disclaimer
I
personaggi e le ambientazioni sono proprietà di Yoshihiro
Togashi.
Questa
storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Inori
Un
verecondo fascio di luce – sussulto dell’alba,
messaggero di un nuovo giorno –
tradì il roseo incarnato di due corpi nuovamente reduci dal
fomento di
un’unione passionale, dall’ebbrezza di due anime
lese che non cessavano mai di
desiderarsi.
Stretti
in un placido
abbraccio, avvolti dalle lenzuola candide e stropicciate, cullati dal
calore
scaturito dal loro contatto, esalavano lievi respiri e ascoltavano la
ritmica
cadenza dei loro cuori, consapevoli della monotona realtà
che stava incombendo,
della fine di una magia che solo il cobalto di un cielo stellato poteva
scatenare.
L’inarrestabile
voce
del silenzio regnava nella loro stanza durante quella mattina
contemplante,
intima, complice.
Quello
stesso giorno di
quattro anni prima, la tragedia del clan Kuruta era stata resa
pubblica;
l’antica purezza di quella terra violata dal feroce massacro.
Quel
giorno, Kurapika
ne era venuto a conoscenza.
Quel
giorno, il sapore
salato delle lacrime si era mescolato a quello metallico del sangue
sulle sue
stesse labbra martoriate per la collera, la disperazione.
Quel
giorno, il peso di
una fatale responsabilità aveva iniziato a gravare sulle sue
spalle.
Quel
giorno era morto
per poi risorgere sotto una nuova luce, in veste di mietitore di anime
dannate.
Entrambi
erano svegli,
ma Leorio assecondava la quiete dell’amante e
l’aggravata tensione aleggiante
in quell’atmosfera solenne. Egli era difatti a conoscenza di
quella verità, ma
non aveva mai avuto l’occasione di parteciparvi
spiritualmente insieme
all’interessato.
E
sapeva, sapeva che in
momenti come quelli non poteva fare niente per estirpargli quel senso
di vuoto
accentuato dalla lontananza del suo cuore da coloro che lo amavano.
Un
senso di
compassionevole impotenza lo pervase; con flebile audacia
passò una mano sul
collo niveo di Kurapika, lambì alcune bionde ciocche di
capelli, carezzò le sue
spalle.
E
d’improvviso,
interpretando forse quei gesti come un’esortazione, Kurapika
spezzò la quiete
con il mormorio della sua voce.
«Sole al cielo, verde alla terra»
«Il mio corpo è nato dalla terra, la mia
anima è nata dal cielo»
«Le mie membra sono inondate dalla luce del
sole e dalla pallida luce della luna»
Lo
stupore iniziale di
Leorio svanì presto. Riconobbe che la mente del compagno non
era più
intrappolata fra quelle mura, ma vagava per chissà quale
dimensione, ricordo;
riconobbe che stava levando una preghiera, come probabilmente era sua
tradizione fare alle idi di quel giorno.
«Il mio corpo è dissetato dal verde. Io
lo
affido al vento che attraversa questa terra»
Le
dita affusolate di
Kurapika raggiunsero quelle di Leorio, sfiorandole con dolcezza e una
certa
timidezza, non incrociandole però con esse.
«Ringrazio i Kuruta del miracolo di essere
qui»
Le
sue spalle divennero
rigide. Trascorsero vari secondi di silenzio, percepiti uno ad uno.
«Un giorno, col cuore in pace, dividerò
gioia
e tristezza con loro»
«E ne canterò le lodi»
La
sua voce si fece più
roca.
«E poi…»
Un
sospiro, poi un
sussulto.
«I miei occhi rossi e la mia vita diverranno,
con i peccati che ho commesso, l’ultima goccia di sangue
degli amati Kuruta»
I
raggi che filtravano
dalla finestra si espansero, inondando di luce il pallido corpo del
più
giovane, spazzando via le tenebre restanti che rendevano quasi lugubre
quella
semplice dimora. Con uno scatto involontario, come se volesse
proteggerlo dalla
veglia indiscreta del sole, Leorio strinse Kurapika ancora
più forte mentre si
lasciava illuminare il viso mesto; volse poi lo sguardo verso il cielo
terso che
stonava con i tormenti del suo animo.
«Prego di non morire finché…
il mio desiderio
non si sarà avverato»
Desiderio
nato dalla
sete di vendetta.
Desiderio
fatto di
sacrifici etici, morali, e dolore fisico.
Desiderio
egoistico, in
cui non vi era spazio per sentimenti, buon senso e ausili; non vi era
sufficiente spazio nemmeno per la persona con la quale aveva condiviso
fino a
quel momento l’intimità, perché
Kurapika aveva già preso la tragica decisione
di andare incontro al suo destino.
E Leorio
lo
sapeva bene.
Sapeva
ciò che Kurapika
stava cercando di fargli comprendere.
Sapeva
che ben presto
le loro strade si sarebbero divise; che non bastavano le effimere
rassicurazioni, i “ti amo” sussurrati, il piacere
carnale per appagare il fuoco
dilaniante che condizionava la sua psiche come un morbo.
Sapeva
che non gli
sarebbe stata per sempre concessa la beatitudine di stargli accanto, di
godere
della sua mite presenza, perché i demoni nella testa del
Kuruta, le urla e i
lamenti della sua gente risuonavano più forti del nome di
Leorio da lui
invocato durante le loro notti trascorse insieme.
Sapeva
che le lacrime,
che avevano iniziato a rigare le sue guance, non avrebbero potuto
sortire alcun
effetto contro quelle di cieca rabbia e amarezza di Kurapika.
“Leorio,
non puoi salvarmi”,
esprimevano queste ultime.
“Devi
fartene una ragione”.
“Dimenticami,
finché sei in tempo”.
Come
poteva
assecondarlo? E come poteva, allo stesso tempo, maledirsi per aver
donato il
cuore a una persona che non sarebbe mai stata pronta ad offrirgli il
proprio?
Amare
qualcuno
significava anche trattenerlo contro la sua volontà dal
prendere certe decisioni
o lasciargli la libertà di scegliere, non essendo padroni
della sua vita?
Il
suo istinto lo portò
a celare il suo disappunto, a continuare ad assecondare il suo
silenzio,
impotente.
Perché
le timide
carezze di Kurapika, accoccolatosi al suo petto, erano
un’implicita ricerca di
comprensione, sicurezza, perdono, per una travagliata scelta dettata da
un
impulso che non poteva controllare.
E
Leorio, per tutta
quella mattina, non riuscì a scorgere il suo viso, a
baciarlo, ad ammirare
l’acquamarina di quegli occhi così preziosi.
Kurapika non osò voltarsi; celò la
sua tristezza, o forse una sconcertante freddezza.
Il
suo sguardo puntava
già oltre; oltre la loro relazione, oltre quella stanza,
oltre il presente.
Aspettava di abbracciare un futuro sempre più prossimo,
macchiato di peccati,
intriso di sangue vermiglio al sapore di redenzione.
©
Alyss Liebert
•••
{Note e curiosità}
Questa fanfiction non è
recente. La scrissi l’anno scorso prima di prendermi
l’ennesima pausa da
quest’attività (Togashi e le sue cattive
influenze). L’ispirazione provenne
da una fanart trovata su Tumblr, raffigurante Kurapika e Leorio - che
mi è
impossibile smettere di amare, abbiate pazienza - sdraiati a letto,
abbracciati, e Kurapika che recitava la sua preghiera con volto triste.
Non
ricordo l’autrice. Da lì mi venne in mente
quest’idea semplice, che ambientai
prima della saga di York Shin (supponendo, quindi, che i due avessero
cominciato una relazione durante il periodo dell’esame
Hunter) e che poi segregai in una
cartella per tutto questo tempo. Da poco mi sono detta “Non
può andare perduta:
devo trovarle un posto nel mio profilo”; così
l’ho revisionata, riscritta
totalmente in alcuni punti, prima di postarla. Ed eccola qua.
Che dire? Spero ci sia
ancora qualcuno che bazzica questa sezione ormai quasi abbandonata. Io
tornerò
sicuramente. Non so quando, perché altri fandom mi chiamano;
ma HxH è – come
alcuni sapranno – un’opera speciale per me, e ho
intenzione di portarci nuovi
progetti/focus.
Vi ringrazio per aver
letto questa breve storia; spero vi sia piaciuta. Come sempre, ogni
eventuale
commento non può che farmi piacere.
Jā
ne,
Alyss
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