[Disclaimer]
Questa storia è parte di un Alternative Universe chiamato “Run” ideato da me ed Andrea (kumiho5); per far sì che comprendiate il contesto, vi lascio di seguito un riassunto veloce della trama. Buona lettura!
Jungkook e Taehyung non sono che il prodotto della società in cui sono cresciuti: poveri in canna, fin dalla più tenera età tentano disperatamente di sopravvivere tra piccoli furti e occasionali lavori per criminali più grandi di loro. È durante uno di questi lavori che conoscono Jimin, un prostituto che non esita a pugnalare alle spalle chiunque gli diventi scomodo avere attorno; una serie di sfortunate coincidenze fa sì che i tre si trovino costretti a dover rapinare assieme una banca. Inizia così un'improbabile collaborazione – e convivenza – tra Jimin, terrorizzato dai legami duraturi, Taehyung, innocente e dal cuore d'oro, e Jungkook, diviso tra l'amore e fiducia che prova per il suo migliore amico e la tesa ostilità nei confronti del nuovo arrivato.
And the arms of the ocean are carrying me
Dallo spiraglio della
porta socchiusa si dirama un raggio di luce dorata, un avvertimento che
Taehyung sa benissimo corrispondere ad un silenzioso “non aprire, non oltrepassare il confine”. Il pavimento sotto la sua pancia,
scoperta a causa della posizione, è nudo e
freddo – niente a che vedere col
comodo tappeto della camera di sua madre, ma Taehyung non osa protestare. Ruota
sulla schiena e si sistema la maglietta tirandola verso il basso, trascinando
con sé il disegno che giace in
mezzo ai pennarelli colorati coi tappi tutti sbagliati.
Osserva
con infantile orgoglio il prodotto del suo duro lavoro, la casa azzurra nel bel
mezzo del prato verde, il sole che propaga le sue rettilinee perfette – raggi solari, nella sua fantasia di
bambino – verso l’abitazione ed illumina i volti serenamente
sorridenti delle due figure che aleggiano fantasmagoriche e sproporzionate nel
prato accanto alla casa. Il bambino tende un braccio troppo corto verso la
madre che ne allunga uno troppo lungo e tiene stretta, in un pasticcio di linee
nere, la sua mano nella propria. La madre ha una gonna che è un triangolo rosso, l’unica punta cremisi e innaturale in
quell’oceano di giallo e verde e
azzurro.
Sta
ripensando a come la maestra dell’asilo
gli ha insegnato a disegnare gli uccellini in volo, due gobbette unite ripetute
in uno stormo di parentesi poste in orizzontale, quando il confine invalicabile
del raggio di luce diventa un vero e proprio fascio che lo investe. Si mette
seduto e osserva l’uomo poggiato allo stipite
della porta, abbastanza in controluce da impedire a Taehyung di distinguerne i
lineamenti.
« Ma che fai, lo tieni
nello sgabuzzino? », domanda a qualcuno alle
proprie spalle, sistemandosi la cravatta. « Ma mandalo fuori a giocare,
no? »
Taehyung
aggrotta la fronte. Quello non è uno
sgabuzzino, ma la sua stanza protettrice: è così che sua madre la definisce. È la stanza in cui deve fare silenzio,
la stanza che lo protegge dai mostri. È già un enorme sacrilegio – per quanto il concetto di sacrilegio
non sia comprensibile ad un bambino di cinque anni – che quell’uomo
abbia aperto la porta. Decide che gli morderà le
caviglie nude se farà un
passo in più; poco importa che mamma gli
ripeta sempre, quasi ossessivamente, che dev’essere
buono coi loro ospiti – o
meglio ancora, non farsi sentire da loro.
Sua
mamma fa capolino da dietro l’uomo e
lo scansa di lato senza troppa gentilezza, mentre il cuore di Taehyung si
rilassa e riprende a battere al proprio normale ritmo. « Taehyungie, Taehyungie… »,
sorride, sollevandolo da terra con un gesto tanto rapido quanto forte. Gli tira
un buffetto sulla guancia e lo rimette a terra, posandosi un dito sulle labbra:
un gesto che Taehyung conosce, e ripete come segno di complicità totale ed assoluta. Con un ultimo
sguardo al disegno ed un sorriso pallido sua madre si rialza, sistemando il
laccio della vestaglia.
« Vieni via. », mormora, il tono duro e rigido – lontano anni luce da quello che
riserva per lui. Preme con la mano sottile sulla spalla dell’uomo e lo spinge fuori, più forte del previsto per lui ma non
per Taehyung, che ridacchia sottovoce. La porta si richiude alle sue spalle,
recidendo dalla sua vista anche l’invalicabile
raggio che viene sostituito, nel giro di un istante, dalla luce sintetica della
lampadina penzolante dal soffitto.
Taehyung
chiude gli occhi, premendo la schiena contro la parete più vicina. Non ama quella soluzione,
anche se temporanea: preferisce quando la porta rimane aperta, anche se poco, e
le voci si allontanano in un’altra
stanza. Ne ha parlato a sua mamma, con non poca vergogna – d’altronde
perché dovrebbe avere paura di
alcune voci, soprattutto chiuso nella sua stanza protettrice? – ma lei, magnanima, invece che
rimproverarlo ha trovato una soluzione immediata.
Le
manine tozze di Taehyung cercano a tentoni le cuffie attaccate alla radiolina
portatile, le cuffie troppo grandi che deve stringere sulle orecchie perché i suoni esterni scompaiano del
tutto; un tasto, la pressione di un dito, e la voce dell’uomo che rimprovera sua madre dicendole quanto sia stato
stupida la sua decisione di tenere quel peso inutile – non sa di cosa parli, non vuole saperlo – scompare, sostituita dalle note
forti e decise di uno strumento che ha scoperto chiamarsi “sassofono”, una delle parole più
difficili che conosce.
John
Coltrane suona il suo sassofono, le voci si spengono, la lampadina trema la
propria luce pallida sullo sgabuzzino e il bambino chiamato Taehyung fissa con
forza quasi folle il disegno della casa azzurra, sperando che il suo sguardo
basti a renderla reale.
*
« Taehyungie,
Taehyungie… »
Taehyung
annaspa, madido di sudore. Non c’è mai
stata una volta, da che ha ricordi, che si sia svegliato di soprassalto,
gettando per esempio di lato le coperte o urlando nel mettersi seduto. Per
quanto brusco sia il risveglio, il suo primo istinto è sempre quello di irrigidirsi, rimanere paralizzato in
qualunque posizione si trovi. Non muoverti; non fare rumore.
Il suo
volto affonda nel cuscino morbido, quasi azzurro nella luce della luna filtrata
dalle tende. «
Taehyungie… », sente ripetere una terza volta; la voce è morbida quasi quanto le labbra che
sfiorano la sua schiena per lasciarvi sopra un’infinità di baci – non sa quando ne inizi uno, o dove finisca l’altro. Chiude gli occhi e si rilassa
sotto quell’umido tocco amorevole,
lasciandosi cullare dal suono rauco e dolce della litania di Jimin che ripete
il suo nome.
« Che ore sono? », domanda, la voce appesantita dal
sonno.
« Quasi le quattro. »
Taehyung
annuisce, come se quell’affermazione
necessiti la sua approvazione. «
Jungkook? », domanda; nessuna specifica.
« È uscito a prendere da mangiare. »
Taehyung
emette una risata breve. « Jimin,
sono le quattro del mattino. »
« Avevamo fame. », si giustifica lui; Taehyung sente
il suo sorriso contro la propria pelle. « Dovrebbe essere già di ritorno. »
Un dito
si posa sulla sua schiena, pallido sostituto delle labbra di Jimin; traccia la
linea invisibile dalla base della sua nuca al fondoschiena, e poi di nuovo su.
Gli concilia il sonno meglio di qualunque ninnananna, nonostante quello non sia
evidente essere l’obiettivo di Jimin – che si interrompe, lasciandolo sull’orlo dell’unico precipizio in cui Taehyung desidera crollare. La
frase che pronuncia lo sveglia ancor più di prima.
« Stavi chiamando tua
mamma, nel sonno. Per questo ti ho svegliato. »
Taehyung
apre gli occhi, ora completamente privato del dolce rifugio del sonno. Non ha
paura, né sente il panico
attanagliargli il petto – solo
un sordo, lento intercedere del peso della realtà, di un
segreto più che intuibile, di un passato
di cui non parla e a cui non pensa. Da sdraiato su un fianco com’è, Jimin ricade dolcemente contro di
lui, una nuvola di soffice conforto. Io sono qui, sembra dirgli. Taehyung lo sa
già, ma è dolce
ricordarlo.
« Scusami. »
« Non devi scusarti.
Non mi stavi spiando. »
« Mi dispiace di
avertene parlato. »
« A me dispiace di non
avertene parlato prima. »
« Non devi farlo, se
non vuoi. »
Taehyung
si muove per la prima volta da quando ha ripreso conoscenza, voltandosi sulla schiena
per poter guardare Jimin negli occhi. Le sue braccia muscolose sono ben
piantate ai lati del suo corpo, uno scudo dal mondo esterno che non rappresenta
un pericolo – non più di quanto lo rappresenti la sua
espressione affranta, in quel momento. Taehyung sorride dolcemente e solleva
una mano per posarla contro il suo viso, coprendo un’intera guancia.
« Non c’è nulla da dire. », ammette con un sospiro. « Prima era lì e poi non c’era più.
Vorrei poter dire che è stato
veloce o indolore ma la verità è che non lo è stato affatto. »
Jimin
indulge nel tocco; abbassa le palpebre e stringe le labbra per un momento, una
mano che sale ad afferrare quella di Taehyung, a stringere le dita con
familiare forza sovrumana.
« Non è nemmeno una storia così originale. », prosegue, ridacchiando. « Di bambini con una madre
costretta a prostituirsi per sopravvivere ne ho conosciuti a decine, nel mio
quartiere. I genitori di Jungkook fingevano che non esistesse neppure, ci siamo
incontrati in un negozio mentre entrambi cercavamo di rubare da mangiare. Non è la fine del mondo, Jiminie. »
« Ma le volevi bene. », mormora, un sussurro dolce; per un
attimo Taehyung lo guarda e basta, stordito dal radicale cambiamento – è
sorprendente, quasi magico, scoprire quanta gentilezza ed altruismo si
nascondano sotto il manto di spine di cui Jimin si ricopre per difendersi. La
mano sulla sua guancia scivola dietro la nuca, Taehyung lo abbassa verso sé e lascia che le sue labbra morbide
trovino, per istinto e congiunzione, le sue. Inerme, lascia che Jimin lo baci e
che quella forma astrale di empatia e conforto passi da un’anima all’altra sotto la volgare forma fisica delle labbra che
premono una contro l’altra,
delle lingue che cercano rifugio nella bocca altrui.
Non
vuole più parlarne, ma nell’aria aleggia qualcosa di non detto
che rende l’aria soffocante; attende che
il bacio termini e Jimin sia soddisfatto prima di proseguire. « Da bambino mi faceva nascondere
nello sgabuzzino quando c’erano dei
clienti in casa. Mi faceva disegnare e ascoltare John Coltrane e spesso mi
addormentavo, e mi svegliavo solo quando tutto era finito ed era lei a
prendermi in braccio e a portarmi con sé. »
Lo sconforto
negli occhi di Jimin si manifesta sotto forma di un piccolo, personale sfogo:
tira un pugno debole contro il suo petto, soffocandovi contro il viso in un
tentativo debole di mascherare quel sentimento improvviso. Taehyung non vuole
che sia triste, ma vuole anche che lo sappia –
carezza la sua schiena nuda, affonda le dita nei capelli neri. Vuole che Jimin
sappia di come ha brancolato nel buio per anni dopo la morte di sua madre,
aggrappato alla mano di Jungkook per non perdersi del tutto, e di come abbia
ritrovato il calore dell’abbraccio
che lo sollevava da terra e lo portava a letto, carezzandolo per tutto il
tragitto, solo una volta che lui si è unito
a loro.
« Jiminie. »
« Sì? »
Taehyung
sorride. « Domani… dipingiamo l’esterno del camper di azzurro? »
Jimin
ridacchia. « Non
si è mai vista una banda di ladri con un
camper azzurro. Sarebbe come dipingerci un bersaglio sulla schiena, Taehyungie. »
Taehyung
chiude gli occhi. Ha un sorriso sulle labbra che non vuole saperne di
andarsene. « No.
», mormora. « No, non ci troveranno mai. »
Da
qualche parte, suonato al massimo nell’altoparlante
di qualche bar, John Coltrane suona ancora il suo sassofono. Le voci si
spengono, la luna trema la propria luce pallida sul camper che presto sarà dipinto di azzurro. Il suono della
macchina di Jungkook si fa sempre più forte
e vicino, le braccia di Jimin si stringono attorno a lui, e il ragazzo chiamato
Taehyung sorride, al sicuro.
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Terza one-shot pubblicata ambientata in questo universo, e
mi sono resa conto che è la
seconda in cui un elemento della natura (mare per Jimin, luce per Taehyung)
gioca un ruolo “fondamentale” all’interno
di quella che alla fine è più una prova di introspezione per
altro. Ma non c’è due senza tre e ciò significa che prima o poi la
trilogia potrebbe chiudersi con un’introspezione
su Guk???
Amo scrivere di quest’AU. Nonostante
non sia in grado di scriverla da cima a fondo, penso che uno di questi giorni
potrei mettermi a scrivere qualcuno dei punti chiavi della storia sviluppati
con Andrea.
Also qualcosa sui namjin perché i namjin in questa AU mi fanno piangere da morire.
Grazie per aver letto e grazie un’altra volta se deciderete di commentare!
Alla prossima!
-Joice