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Qui con te
.
Und hier mit dir
das ist der beste Ort
der Welt
Und hier mit dir
das ist die beste Zeit
der Welt
(Hier mit dir - Wincent Weiss)
.
Piove.
Grandi
gocce gelide si abbattono implacabili sul selciato
grigio del marciapiede che la tettoia non arriva a coprire e sulle
rotaie
davanti a lui, tra le conche create dal ghiaino disomogeneo, si sono
formate
già un paio di pozze scure in cui si riflettono le tremule
luci dei lampioni.
Il
treno è in ritardo – ritardissimo. Ma sai che
novità.
Leo
freme di impazienza, si solleva sulle punte dei piedi e
si sposta sui talloni un paio di volte, le mani affondate nei tasconi
dei jeans
di una taglia più grande e il naso intirizzito immerso nella
calda lana della
sciarpa rossa. Scuote le spalle per provare a liberarsi della
fastidiosa
sensazione di gelo che gli attanaglia le ossa, ma non ci riesce;
è un freddo
umido e insidioso, questo, ed è difficile trovare un modo
per riscaldarsi.
Il
cellulare nel giubbotto vibra.
Muovendo
la mano a tentoni, lo ripesca dalla tasca – quasi si
sbaglia e tira fuori quell’altra
cosa
– e controlla svogliato le notifiche sullo schermo: non
è nulla di importante,
solo Jason e Percy che hanno condiviso su Whatsapp delle foto idiote di
Grover
appisolato e dei commenti divertiti di Annabeth. Leo sbuffa, mette in
fila
quattro emoji che ridono, invia la sua risposta e fa precipitare il
dispositivo
dove l’ha recuperato.
Sperava
ci fosse qualcosa da parte di un altro contatto, ma
evidentemente l’universo si diverte a dargli false speranze.
L’ispanoamericano
si stringe nelle spalle e di nuovo si
agita sul posto. Tra lo scrosciare della pioggia, in lontananza, giunge
il
suono del clacson di un autobus appena partito dal terminal di
Indianapolis, l’area
dietro alla stazione ferroviaria in cui lui attualmente si trova.
È il ventesimo
che conta, da quando lui è arrivato lì.
Sta
iniziando a innervosirsi. L’altoparlante non ha ancora
annunciato niente, nulla di nulla, neppure il più minuscolo
ritardo. E intanto
lui sta scoprendo come si sentono i surgelati dentro al freezer di casa.
L’orologio
della stazione è un po’ avanti, segna le cinque e
quaranta quando in realtà sono appena scoccate le mezza, ma
il treno avrebbe comunque
dovuto apparire sul binario già trenta minuti fa.
Leo
sbuffa. Oltretutto, di questo passo il tempo limite per
il ticket del parcheggio finirà per scadere e
perciò dovrà scendere di nuovo la
scalinata della stazione, farsi i chilometri per tornare fino alla
macchina e
beccare il primo parchimetro funzionante per rinnovare il biglietto.
Non è nemmeno
certo di avere abbastanza monetine, avrà cinquanta centesimi
in tutto se l’allineamento
astrale è favorevole.
È
talmente perso nelle proprie riflessioni personali che la
comunicazione dell’altoparlante rimane solo un suono ovattato
e l’unico
spezzone che le sue orecchie riescono a captare è
“…al binario sette”. Se
avesse un paio di antenne, quelle sarebbero già drizzate per
ascoltare con
attenzione; peccato che l’avviso sia già terminato.
Il
ragazzo mugugna un’imprecazione tra i denti e forse non
lo fa nemmeno poi così a bassa voce, vista
l’occhiata scandalizzata che gli
rivolge la signora con il variopinto giubbetto a pois poco distante da
lui.
Pensava di chiedere informazioni a lei, ma, dopo quello sguardo,
è sicuro che se
le si avvicinasse, finirebbe per essere preso a borsate.
Non
sa quanto altro tempo passi di preciso. Controlla due
volte l’orologio appeso al muro, ma in entrambi i casi la
lancetta più lunga
sembra essersi incollata alla tacchetta dei quarantacinque minuti,
quindi Leo
se ne stufa ben presto e decide di contare gli infiniti sassolini tra i
binari.
È
al numero cinquecentosessantuno quando il fischio del
treno che entra in stazione richiama l’attenzione di tutti.
La
pioggia si è calmata un pochino, ma la temperatura
è
scesa ancora più in basso – tanti saluti alla
sensibilità delle sue dita – e
l’umidità persistente gli ha bloccato gli arti
come se fossero le giunture
arrugginite di un automa.
Le
sue iridi si abbassano a guardare il pavimento per
calmare il giramento di testa che gli sorge quando i vagoni del mezzo
sfilano
in rapida successione davanti ai suoi occhi. I freni bloccano le ruote
sulle
rotaie e il fischio del metallo che stride contro altro metallo
è così insopportabilmente
acuto che Leo è costretto a proteggersi i timpani.
Una
volta che il convoglio è fermo, le porte ci impiegano un
secolo per aprirsi e il ragazzo si ritrova a fremere sul posto come se
si
trovasse su una superficie di carboni ardenti; la testa che nel
frattempo
guarda a destra e sinistra incessantemente. Da quale parte
uscirà lei? Non sa
nemmeno in quale vagone viaggiava, dannazione.
Non
sa per quanto rimanga così, a fissare la gente che
scende dal treno con occhi impazienti, forse passano solo cinque
secondi o
forse sono cinque minuti: dopo tutto questo aspettare, Leo ormai ha
perso la
cognizione del tempo.
Alla
fine, è una visione spettrale. Quasi un sogno.
Sta
scendendo la ripida scaletta del vagone a fatica, mentre
si trascina dietro un borsone viola grande il doppio di lei e una
valigia rossa
che potrebbe contenerne due, di quei borsoni.
Svelto, l’ispanoamericano si precipita ad
aiutarla, prima che il
bentornato le venga dato dal selciato della banchina ferroviaria contro
il suo
stupendo nasino.
Lei
è bellissima come sempre, intabarrata nel suo pesante
cappotto color avorio, seminascosta dall’enorme sciarpa verde
scuro, coperta
dal floscio berretto grigio e con ciocche disordinate che sfuggono
dalla
treccia color del caramello.
Posato
l’ingombrante bagaglio carminio, Leo è affannato
–
cosa ci ha messo lì dentro, un morto? – ma non si
concede il lusso di
riprendere fiato. Subito agguanta Calypso per i fianchi, non le lascia
neanche
il tempo di aprir bocca, perché viene catturata dalle sue
labbra in un bacio
avido di passione.
Se
ne infischia degli altri passanti che sono ancora sul
marciapiede, che li guardino pure. Sei mesi a decine di migliaia di
chilometri
di distanza sono stati per Leo un inferno; quanto gli è
mancato il suo calore,
il suo profumo – che anche se il loro appartamento ne
è impregnato, della sua
essenza, non è mica lo stesso –, la sua voce
delicata e allegra.
Cal
gli accarezza le guance con i pollici avvolti dalla lana
e sorride contro la sua bocca, il fiato che si condensa in una piccola
nuvoletta fugace quando entra in contatto con la gelida aria esterna.
Le mani
si spostano lentamente, con delicatezza si posano sulle spalle del
latinoamericano e stringono tra le dita il freddo tessuto della giacca
blu di
lui.
A
nessuno dei due importa che siano nel bel mezzo di una
banchina ferroviaria, che faccia un dannatissimo freddo cane o che
metà degli
sguardi siano puntati su di loro. L’unica cosa che conta
è il calore della
persona che stanno stringendo tra le braccia, la persona che finalmente
riempie
il vuoto con cui hanno convissuto per interminabili mesi. La persona
che amano.
Leo
se ne frega di dove sono; potrebbero essere alle Hawaii,
nel deserto, sulla Luna o nel bel mezzo di un’eruzione
vulcanica e per lui ogni
luogo e ogni tempo sarebbero come ogni altro se si trova con Calypso.
Perciò
non ci pensa due volte quando si inginocchia sul
selciato gelido e pungente di fronte agli occhi di
un’esterrefatta Cal che lo
osserva confusa non capendo cosa sia stia combinando. La realizzazione,
però,
la colpisce come un treno non appena i suoi occhi da cerbiatta si
posano sulla
scatolina che le dita intirizzite e callose hanno appena estratto dalla
gigantesca tasca.
L’ispanoamericano
ignora i fischi emozionati della gente,
deve concentrarsi o le sue mani tremanti rischiano di mandare a monte
ogni
cosa. Il suo sguardo si focalizza solo sulle iridi commosse della
ragazza
davanti a lui. Con lentezza apre la scatolina nera, rivelando una
sottile
striscia argentea tempestata di brillanti nella parte superiore.
Calypso
ha portato le mani alla bocca, sta piangendo, è
andata già in iperventilazione e la testa continua ad
annuire in assenso a una
domanda che Leo non ha ancora formulato.
La
voce gli esce un po’ rauca, tremante, ma riesce comunque
ad usare un tono che sia vagamente udibile.
–
Calypso Nightshade, vuoi sposarmi?
.
.
Hola gente
Volevo buttare
giù qualcosa su questo fandom perché non ci
scrivevo da un po' e boh, mi è uscita questa Caleo un po'
(molto) senza capo né coda che ha preso una piega totalmente
diversa dall'abbozzo che ho scritto a random a scuola
Lo
dico, lo ripeto, lo scriverò nelle note fino alla mia morte,
i titoli che do alle storie non hanno mai un cazzo di senso e le
conclusioni ne hanno ancora meno: spero che questa fine non risulti
troppo melensa o rindondante o buttato lì a caso,
perchè erano le mie preoccupazioni maggiori
finché scrivevo
Per descrivere la
stazione di Indianapolis mi sono basata sulla stazione di Verona, che
davanti all'ingresso principale della stazione ferroviaria ha due
spiazzi: uno per il parcheggio e l'altro che è la stazione
di tutti gli autobus (ho molta inventiva per i luoghi, I know *inserire
ironia*)
Ringrazio chi
lascerà una recensione e anche chi leggerà e basta
Alla prossima gente
Adios
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