4.4
Capitolo IV
Hogwarts
1 settembre 1938
I mesi erano passati veloci e tranquilli.
I gelidi artigli
dell'inverno avevano ceduto il passo al tiepido abbraccio della
primavera; i fiori erano sbocciati, riempiendo l'aria dei loro profumi,
colorando il grigio e cupo cortile dell'orfanotrofio di mille sfumature
di verde, di rosa e di giallo.
Le giornate si erano
fatte più lunghe e il sole più caldo, talmente caldo da
ardere l'erba tenera dei prati e far scoppiare i frutti troppo maturi
rimasti sugli alberi.
Londra si era
rapidamente svuotata, ma le fabbriche erano rimaste in funzione; i fumi
neri e densi delle ciminiere avevano ammorbato la torrida e tremula
aria estiva e, lungo il Tamigi, centinaia di persone avevano cercato un
po' di frescura tra quelle acque livide e sporche.
Noi dell'orfanotrofio eravamo andati due giorni in campagna, vicino a un lago.
Non era stato
particolarmente divertente, anche se il sollievo di essere finalmente
evasi dall'opprimente calura urbana era stato palpabile.
E ora, dopo tutti quei mesi, il momento era finalmente arrivato.
La nostra vita, dopo oltre undici anni di piatta e monotona normalità, stava finalmente iniziando.
Erano da poco passate le sei del mattino, ma io ero già completamente sveglia.
Non che avessi dormito granché quella notte, visto ciò che mi avrebbe atteso nelle prossime ore.
Ero nervosa, ma anche eccitata.
Dopo mesi di riflessioni, di congetture, di timori, finalmente era arrivato il giorno di lasciare quel posto.
Avevo una strana sensazione, come di nostalgia.
Non avrei osato farne parola con Tom, perché sapevo che non solo non avrebbe condiviso, ma nemmeno approvato.
Dopotutto, però, quella era la nostra casa da sempre e mi dispiaceva lasciare Amanda, mentendole per giunta.
La cosa positiva era che quello avrebbe potuto essere un nuovo inizio per noi, specialmente per mio fratello.
Nonostante Tom, da
quando aveva saputo della sua vera natura, fosse stato più
tranquillo e si fosse comportato normalmente con gli altri bambini,
restituendo tutti gli oggetti che aveva rubato, proprio come gli aveva
detto di fare il professor Silente, non c'era stata più alcuna
speranza per lui di stringere un qualche rapporto di amicizia. Quindi,
forse, nella nuova scuola, dove nessuno ci conosceva o aveva motivo di
temere o di diffidare di lui, forse lì Tom sarebbe riuscito a
farsi qualche amico.
E anche io, naturalmente.
Sì, mi dissi,
sarebbe stato un nuovo inizio; finalmente avremmo incontrato ragazzi
come noi e avremmo vissuto in un luogo adatto a noi, circondati da
persone che ci capivano, autoritarie, certo, ma competenti e capaci,
proprio come il professor Silente.
Mentre riflettevo su
queste cose, sentii Tom rigirarsi nel letto. Anche lui era sveglio da
un po' e sicuramente aveva riposato ben poco.
«Tom?» lo chiamai, esitante.
«Dimmi» mi rispose lui, con voce perfettamente chiara e limpida.
«Ssei agitato?» gli chiesi in un sibilo quasi simile a un soffio.
Lui non mi rispose subito.
Poi, quasi come se pronunciare quel monosillabo gli costasse una tremenda fatica, disse «Ssì».
«Anche io» mi affrettai ad ammettere.
«Potremmo,» cominciò Tom, ma si interruppe. Io attesi paziente e, dopo un po', mio fratello continuò «Potremmo già andare alla sstazione?»
«Credo di ssì» risposi io.
Sentii mio fratello alzarsi di scatto e mettersi a sedere sul letto; quella volta fu lui a trascinarmi con il suo entusiasmo.
Il sole era già alto nel cielo quando finimmo di vestirci.
Avevamo ricontrollato i nostri bauli, accertandoci di aver preso tutto, quindi li avevamo trasportati di sotto.
La signora Cole era già lì ad aspettarci.
Con lei c'erano sono
Colin Smith e Brian Cox, già vestiti di tutto punto, dato che
anche loro quel giorno avrebbero iniziato la scuola, Babbana, si
intende.
Terence Smith, che non
era il fratello di Colin, doveva già essere uscito, visto che
lavorava come garzone da un panettiere.
Alla fine, la sua famiglia non era venuta a prenderlo, anche se aveva promesso di farlo almeno una mezza dozzina di volte.
«Siete tutti pronti?» chiese la signora Cole e noi quattro annuimmo.
«Molto bene,
allora voi due» disse, indicando i due ragazzini Babbani
«Andrete con Martha, mentre voi,» continuò,
rivolgendosi a mio fratello e a me «Sarete accompagnati a Londra
dal signor Peterson»
«Non ci serve una balia» commentò Tom, acido.
«Avete così tanti bagagli, credo che-»
«Andiamo da soli» decise Tom, interrompendo la signora Cole, che sembrava piuttosto irritata.
Colin e Brian osservarono lo scambio in silenzio, ma con evidente interesse.
La signora Cole mi
guardò, ma, con un cenno, io le feci capire che concordavo con
mio fratello, così a lei non restò altro da dire che
«Molto bene, buon viaggio allora».
«Addio»
salutai, mentre mio fratello aveva già varcato l'ingresso e
stava percorrendo il vialetto che portava al cancello.
Mi affrettai a seguirlo e in breve prendemmo a camminare per le vie polverose della periferia di Londra.
Era una bella giornata, mite e serena.
Ben presto, ci trovammo nel mezzo della folla che, come ogni mattina, si avviava alle proprie faccende.
Raggiungemmo la stazione
della metropolitana di Whitechapel e da lì, in poco meno di
un'ora scendemmo nelle vicinanze di King's Cross, precisamente a London
St Pancras. Erano da poco passate le nove, così decidemmo di
prendercela con comodo.
Percorremmo il breve
tragitto e, proprio di fronte alla stazione, scorgemmo un piccolo
caffè, gremito di pendolari che trangugiavano uova e pancetta
prima di prendere il treno. Con un po' di fatica riuscimmo a
conquistarci un minuscolo tavolino nell'angolo più estremo del
locale.
Dopo pochi minuti, una cameriera dall'aria nervosa ci raggiunse e prese le nostre ordinazioni.
Né mio fratello, né io avevamo fame, così chiedemmo solo due tazze di the.
Tom estrasse dalla tasca
gli ultimi penny Babbani che ci rimanevano; in fondo, dove stavamo
andando, quelli non ci sarebbero serviti.
Restammo a lungo in silenzio e alla fine fu Tom a parlare per primo.
«Ssarà grandiosso» affermò.
Il suo viso affilato, così simile al mio, non era mai stato tanto tirato; era talmente felice da star male.
Io annuii e mi sentii estremamente fortunata ad avere lui.
Se fossi stata da sola, ragionai, probabilmente non avrei mai accettato l'offerta del professor Silente.
Di nuovo, rimanemmo in silenzio, quel silenzio che tra noi non era mai pesante o ingombrante.
Dopo un po', senza che nessuno dei due avesse detto niente, ci alzammo all'unisono: era ora di andare.
Uscimmo dal caffè, con al seguito i nostri bauli, che caricammo su grossi carrelli.
Non ero mai stata a King's Cross.
Non era una delle stazioni più grandi di Londra, anche se a me sembrava comunque immensa.
Tom tirò fuori il suo biglietto.
«Binario 9 e ¾ » lesse pensieroso.
Nella lettera, il
professor Silente ci aveva avvertiti che non avremmo trovato alcun
cartello con quel numero; il binario, infatti, era invisibile ai
Babbani e per raggiungerlo bisognava oltrepassare la barriera che stava
tra i binari nove e dieci.
«Quindi, ci passsiamo in mezzo?» chiese Tom.
Io mi limitai a stringermi nelle spalle; era mio fratello quello che sapeva tutto di magia.
«Facciamo di corssa» propose e aggiunse, percependo il mio nervosismo «Vado prima io e tu sseguimi ssubito».
Io gli sorrisi, riconoscente per il suo coraggio.
«Andiamo»
sibilò lui in un sussurro, prima di lanciarsi contro il solido
muro di mattoni che, proprio come per magia, lo lasciò passare.
Io strinsi più forte la presa sul carrello e spiccai una corsa.
Un attimo prima di
scontrarmi contro la compatta barriera, chiusi gli occhi; quando li
riaprii, King's Cross era sparita, e al suo posto c'era un unico, lungo
binario fumoso.
Una locomotiva rossa sbuffava vapore biancastro, invadendo tutta la banchina.
Appeso a un pilone,
accanto all'orologio che segnava le 10 e 25, c'era una grossa targa che
indicava il numero del binario: 9 e ¾.
Tom mi venne incontro sorridendo.
«Ssaliamo?» mi chiese e io annuii.
Percorremmo il binario, non particolarmente affollato e scegliemmo uno dei vagoni di coda.
Ci impiegammo parecchio
a caricare i nostri bauli sul treno e a trasportarli fino a uno
scompartimento, infilandoli poi nelle rastrelliere.
Quando terminammo la faticosa operazione, la banchina era ormai gremita di persone.
Il treno si riempì velocemente e, poco dopo, la porta del nostro scompartimento venne aperta.
«Dico solo che
sarebbe un vero peccato, Randolph» stava dicendo una ragazza,
molto bella, con lunghi capelli neri e profondi occhi scuri.
«Se lo dici
tu» rispose il ragazzo chiamato Randolph, prima di accomodarsi
sul sedile accanto a mio fratello. Altri due ragazzi, probabilmente
della nostra stessa età, lo imitarono, mentre la ragazza fece un
gesto di saluto con la mano e scomparve nel corridoio.
«Nervoso, Lestrange?» chiese uno.
Aveva i capelli biondi, lunghi fino alle spalle e una voce particolare, strascicata, come annoiata.
Il ragazzo Lestrange lo ignorò, mentre gli altri due si lasciarono sfuggire una risatina di scherno.
Nessuno di loro sembrava essersi accorto della nostra presenza.
Osservai Tom e rimasi
sorpresa nel constatare che non vi era traccia di fastidio sul suo
volto; stava studiando i nuovi arrivati con interesse, con lo stesso
cipiglio avido che assumeva quando notava qualcosa di potenzialmente
utile.
Uno dei ragazzi, quello
con la voce strascicata, si accorse dello sguardo insistente di mio
fratello su di sé e, subito dopo, anche gli altri due ci
prestarono attenzione.
«E voi sareste?» chiese, con lo stesso tono annoiato di prima.
«Tom Riddle e lei è mia sorella Ophelia» rispose mio fratello.
«Riddle?»
ripeté quello chiamato Lestrange «Non mi pare di conoscere
nessun Riddle» «Saranno Babbani» commentò
l'altro che, fino a quel momento, non aveva ancora parlato.
Il tono con cui aveva
detto “Babbani” mi fece capire che per lui quella parola
era un insulto, ma, evidentemente, non gli importava di offenderci
dicendolo davanti a noi.
Vidi Tom reprimere un moto di rabbia.
Cominciamo bene, pensai tra me.
«Non saprei, siamo orfani» rispose Tom dopo qualche secondo.
«Capisco, mi
dispiace» disse il biondo, senza però una nota di
dispiacere in quella sua voce monotona e quasi atona.
Sentii il fischio del treno che, subito dopo, iniziò a muoversi.
Ma ora, tutta l'eccitazione della partenza era svanita.
«Ci siamo
finalmente» disse il ragazzo ancora sconosciuto e un ghigno gli
distorse i lineamenti già non proprio gradevoli.
Il biondo intanto si era alzato in piedi per prendere il suo baule, dal quale estrasse una scacchiera.
Mio fratello e io non
impiegammo molto a capire che quelli non erano scacchi normali: i
pezzi, infatti, si muovevano da soli e, quando il Cavallo di Lestrange
fece per mangiare un Pedone, quello davvero galoppò alla carica,
distruggendo il mal capitato avversario.
La partita andò
avanti per qualche minuto, entrambi i giocatori concentrati, immersi in
un profondo silenzio, rotto all'improvviso da Lestrange, che disse
«Hai barato, Abe» protestò, quando la Regina
avversaria mise sotto scacco il suo Re.
Il ragazzo biondo, Abe, scoppiò a ridere e Lestrange scagliò con forza la scacchiera per terra, rompendola.
«Era un regalo di mio padre» lo informò il biondo «Mi devi una scacchiera nuova».
Con mia enorme sorpresa, Tom si rivolse ad Abe e, con voce tranquilla, asserì «Non credo».
Quindi, estratta la
bacchetta, con voce sicura ordinò «Reparo» e la
scacchiera, un attimo prima tranciata a metà, ritornò
perfettamente integra.
«Wow!» mormorò Lestrange.
Anche gli altri due erano visibilmente impressionati.
«Sai fare altri
incantesimi?» chiese il biondo; il suo tono era sempre
strascicato, ma si distingueva una nota di autentico interesse nella
sua domanda.
«Qualcuno» rispose Tom, con noncuranza.
«Io sono Randolph
Lestrange» si presentò uno, e anche gli altri due lo
imitarono, rivelandosi come Abraxas Malfoy e Antonin Dolohov.
«Spero finiate con noi a Serpeverde» disse Randolph, dopo averci chiesto di ripetergli i nostri nomi.
«Non c'è Casa più nobile a Hogwarts» concordò Abraxas.
«I Tassorosso sono
semplicemente inutili» continuò Randolph «Credo mi
ucciderei se finissi in quella casa».
«O in Corvonero» aggiunse Antonin, con un ghigno.
«Mia zia era Corvonero» ribatté Abraxas, infastidito.
«Comunque la
peggiore sarebbe Grifondoro, la mia famiglia mi farebbe
diseredare» riprese Raldolph, scatenando mormorii di assenso
negli altri due.
Io ascoltavo in silenzio, chiedendomi che cosa sarebbe accaduto se fossimo finiti in una di quelle case tanto disprezzate.
Comunque, ben presto,
cambiammo argomento e passammo il resto del viaggio a parlare di
Quidditch, lo sport dei maghi, e delle attività che avremmo
iniziato a Hogwarts.
L'antipatia iniziale era
completamente svanita e, quando le ombre del crepuscolo si insinuarono
fin dentro il nostro scompartimento, l'aria che si respirava era di
assoluta cordialità e reciproco rispetto.
A un tratto, un ragazzo,
di circa quindici o sedici anni, bussò al nostro scomparto e ci
informò che mancavano poco meno di venti minuti all'arrivo.
Seguimmo il consiglio di Abe e indossammo le nostre divise scolastiche; io, naturalmente, preferii cambiarmi in bagno.
Il treno cominciò a rallentare e finalmente si arrestò.
Quando raggiungemmo il
binario, l'aria notturna, notevolmente più fredda rispetto a
quella della mattina, mi punse il viso, lievemente arrossato per
l'eccitazione.
Ci siamo davvero, pensai emozionata.
«Primo anno, da questa parte» chiamò una voce.
«Di qua»
disse Randolph e tutti e quattro ci affrettammo a seguirlo, radunandoci
poi intorno all'uomo che continuava a chiamare i ritardatari; aveva
circa sessant'anni, o forse molti di più, considerando quello
che aveva detto Abe, ovvero che i maghi vivevano più a lungo dei
Babbani e dimostravano sempre qualche anno di meno.
Poco dopo, ci mettemmo
in cammino e raggiungemmo la riva di un lago, dalle acque nere e
limpide, sulle quali si specchiava, maestoso, il castello di Hogwarts.
Là accanto, ormeggiate ad un piccolo molo, ci attendevano alcune barche, da tre o quattro posti al massimo.
Tom, Abraxas ed io
salimmo insieme a un altro ragazzo, dall'aria un po' smunta e spaurita,
mentre e Randolph e Antonin si imbarcarono insieme a due ragazzine,
molto simili tra loro, che sfoggiavano ciascuna un'elaborata treccia
bionda.
L'attraversamento non
durò molto e, in breve, ci ritrovammo in quella che assomigliava
a una galleria, leggermente in salita, probabilmente scavata nel cuore
stesso del colle su cui sorgeva il castello.
Finalmente, approdammo e salimmo alcuni umidi scalini di pietra, sbucando poi in un ampio parco.
Da lì, sempre
seguendo la guida dell'anziano mago, raggiungemmo il grande portone
d'ingresso del castello e in fretta sciamammo tutti all'interno.
Ad accoglierci, c'era il
più grande atrio che io avessi visto; era immenso, quasi
minaccioso nelle sue proporzioni decisamente esagerate, semplicemente
troppo per una ragazzina di undici anni.
Seguimmo la nostra guida
fino a una scalinata di marmo, finemente lavorata, e venimmo condotti
in una piccola stanza, dove ci venne chiesto di aspettare.
Poco dopo, niente meno
che il professor Silente ci venne incontro e ci informò che lo
Smistamento avrebbe avuto luogo tra poco.
Elencò poi i nomi
e le caratteristiche delle quattro Case di Hogwarts, ma Tom ed io
sapevamo già tutto grazie ai nostri nuovi amici.
Quindi, lo seguimmo fuori dalla stanza, lungo un corridoio, fino ad un grande portale di bronzo che si spalancò per noi.
La Sala Grande, con il
suo alto soffitto incantato, era semplicemente maestosa, molto
più strabiliante di quanto avrei mai potuto immaginarla solo
leggendo il libro “Storia di Hogwarts”.
Centinaia di studenti,
seduti intorno a quattro lunghi tavoli, ci osservarono curiosi mentre
percorremmo quella che mi sembrò essere la navata centrale di
una cattedrale, fino in fondo, dove, a un altro tavolo, disposto
orizzontalmente, come un altare, erano gentilmente accomodati gli
insegnanti e il Preside.
Alle loro spalle, una grande vetrata istoriata si affacciava sulle tenebre.
Ci disponemmo in fila
davanti alla scolaresca, riuniti attorno a uno sgabello su cui giaceva
un vecchio cappello di stoffa scura.
«Ora
chiamerò ciascuno di voi» ci informò Silente
«Quando sentirete il vostro nome, verrete avanti e prenderete
posto su questo sgabello. Io vi porrò il Cappello Parlante sulla
testa e verrete così smistati nelle vostre Case. Ma prima, la
parola al nostro saggio Cappello» concluse, con un luccichio
divertito nei limpidi occhi azzurri.
Per un attimo, non
accadde niente, poi, all'improvviso, il Cappello si animò e, da
uno squarcio, come una bocca, con voce squillante, quello iniziò
a cantare.
«Un applauso per
il nostro ottimo Cappello» esclamò Silente, quando il
copricapo terminò la sua canzone, decisamente banale, e
tornò ad essere silenzioso e inerte.
«Anderson, Micheal» chiamò Silente.
Il ragazzino che era con noi sulla barca si fece avanti, titubante.
Silente gli calcò
il Cappello sulla testa e quello, troppo largo, gli calò ben al
di sotto delle orecchie, coprendogli gli occhi.
Dopo qualche istante, lo squarcio nella stoffa si spalancò di nuovo e il Cappello esclamò «CORVONERO!»
Dal tavolo della Casa
nominata si sollevarono applausi e grida di esultanza, che si
quietarono non appena il professor Silente chiamò il secondo
nome «Avery, Jerald» che poco dopo viene smistato in
Serpeverde.
Il professore
continuò a scorrere a lista e, dopo un altro paio di nomi,
Antonin venne chiamato e subito assegnato a Sepreverde; lo stesso
accadde per Randolph e, dopo un Tassorosso e due Grifondoro, per
Abraxas.
Finalmente, arrivammo
alla R e, dopo «Richardson, Claire» smistata in Tassorosso,
Silente chiamò «Riddle, Ophelia».
Con passo incerto, raggiunsi lo sgabello e il Cappello mi venne gentilmente posato sul capo, finendomi poi davanti agli occhi.
Improvvisamente, tutti i
suoni e le luci della Sala scomparvero e una vocetta si insinuò
nella mia mente; apparteneva al Cappello Parlante, capii subito dopo.
«Mmm,» lo sentii mormorare «Difficile, davvero difficile».
«Perché
difficile?» mi chiesi, preoccupata, e il Cappello sembrò
percepire la mia domanda, come se l'avessi pronunciata ad alta voce.
«Non preoccuparti,
cara» mi rassicurò «Capita a volte, ma riesco sempre
a collocare tutti al proprio posto. Dunque vediamo … C'è
talento, questo lo vedo, ma anche una forte insicurezza. Forse
Tassorosso, dove il tuo impegno sarebbe premiato, anche se …
» «Non voglio finire tra i Tassorosso!» esclamai
nella mia mente, memore delle parole di Randolph, che aveva definito
quella Casa “inutile”.
«Non dovresti
farti influenzare dalle opinioni degli altri, sai?» mi
suggerì il Cappello, al che percepii le mie guance tingersi di
rosso.
«Ma forse non
sarebbe la scelta più giusta… Sicuramente, Corvonero ti
aiuterebbe a coltivare la tua individualità… Mmm»
Potevo cogliere i
pensieri frenetici del Cappello, mentre anche io riflettevo: tutti
quelli con cui avevamo fatto amicizia erano tra i Serpeverde e
sembravano forti, sicuri di sé.
Esattamente come Tom, mi ritrovai a considerare.
Un pensiero, che fino a
quel momento non mi aveva neppure sfiorata, mi folgorò
all'istante e un panico crescente minacciò di farmi perdere
totalmente il controllo.
«Non voglio essere divisa da Tom, non posso!» urlai nella mia mente, interrompendo i ragionamenti del Cappello.
«Ma potrebbe essere un bene, non credi?» mi chiese lui, ma io protestai con convinzione.
«Mmm, sì,
certo, noto una certa ambizione… Rimango della mia idea,
però; Corvonero potrebbe essere il posto più indicato per
te» dichiarò infine il copricapo «Ma, dopotutto, non
posso non tener conto di quello che mi hai detto, o del tuo desiderio
di emergere, né della tua determinazione inaspettata, che
troverebbero una facile collocazione in … »
considerò, prima di gridare ad alta voce
«SERPEVERDE!»
Il Cappello mi venne
tolto dalla testa e vidi il tavolo di Serpeverde esplodere in applausi;
Abe, Randolph e Antonin erano fra quelli che battevano le mani con
più intensità.
«Riddle,
Tom» chiamò Silente, mentre io mi accomodavo al tavolo
della mia nuova Casa. Mio fratello, al contrario di me, avanzò
con sicurezza e, dopo neanche un minuto, il Cappello ruggì di
nuovo «SERPEVERDE!»
Un nuovo tumulto di
applausi e grida di benvenuto si levò dal nostro tavolo e
finalmente tutti i timori svanirono dalla mia mente.
“Siamo insieme, di nuovo e per sempre”, pensai, sollevata.
Fu solo dopo qualche
anno, però, quando il nostro legame, già intenso, si
rafforzò ancora di più, che Tom mi confessò quello
che il Cappello Parlante gli aveva sussurrato quella sera.
* * *
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