CIPANGO, L’IMPERO
NASCOSTO
Come ti ho raccontato Rustichello, Kubilài Khan[1] mi diede l’opportunità di vivere nel suo
palazzo, di viaggiare come suo ambasciatore in modo da poter visitare
luoghi stupendi del suo impero, mi gratificò nominandomi
governatore di Lin’an, la vecchia capitale della dinastia
Song[2], e mi permise di conversare con lui come fossimo tra pari, ma
ogni volta che certi suoi ambasciatori nominavano il popolo del Cipango[3] il suo umore cambiava drasticamente, i suoi occhi diventavano
feroci e non risparmiava male parole anche verso di me che, in
verità, non conoscevo nulla. Confidando
nell’amicizia, seppur temendo di finire con la testa mozzata,
chiesi a Kubilài di raccontarmi cosa fosse successo proprio
nell’anno in cui arrivai a Cambuluc[4]. Egli, con stizza
crescente, mi narrò anche le vicende precedenti
raccontandomi che nel 1269 d.C. aveva mandato degli ambasciatori nel
Cipango per offrire a quel popolo la possibilità di
sottomettersi senza l’uso delle armi e che il loro capo
militare aveva rifiutato qualsiasi proposta. Deciso e irremovibile, nel
1274 d.C. Kubilài intraprese una spedizione militare per
invadere il Cipango che però fallì miseramente
per colpa di un violento uragano, tanto potente da distruggere circa
600 navi. Nel 1279 d.C. riprovò la stessa tattica
diplomatica e questa volta finì anche peggio
perché il capo militare del Cipango fece decapitare tutti
gli ambasciatori del Catai all’interno della sua capitale.
Ancora oggi non so dire se fosse stato solo un caso, ma proprio mentre
mi raccontava gli avvenimenti il comandante della flotta navale, una
delle persone su cui Kubilài confidava ciecamente, si
presentò nella grande sala annunciando che poteva garantire
un’invasione utilizzando anche la flotta navale del Goryeo[5]. Il viso
del Khan sembrò illuminarsi tanta era la sua contentezza per
quella notizia ed io, emozionato dall’idea di viaggiare verso
un nuovo paese sconosciuto, ne approfittai chiedendogli di poter
affiancare gli ambasciatori che avrebbe mandato per tentare ancora una
volta di trovare un accordo di pace. Lui mi fece capire che riteneva la
mia vita importante e mi disse di essere consapevole che una nuova
ambasceria non avrebbe cambiato la situazione ma io insistetti
convincendolo che tentare un nuovo approccio mandando una persona di un
popolo straniero avrebbe potuto portare dei vantaggi inaspettati e
così, nel febbraio del 1281 d.C., partii a bordo di una nave
insieme con altri ambasciatori che parlavano la lingua del popolo che
avrei incontrato.
Giunti sull’isola notai i volti atterriti dei miei compagni
di quando videro delle grandi mura di pietra, alte circa tre metri, che
erano state costruite tutto intorno alla baia di Hakata[6] e delle quali
non sapevano nulla. Io invece temevo altro perché,
nonostante la nostra nave indicasse chiaramente l’arrivo di
ambasciatori, ad accoglierci trovammo un vero e proprio esercito pronto
a combattere. Uno dei soldati si avvicinò senza impugnare
un’arma, fece un inchino e, in seguito, iniziò a
parlare con gli ambasciatori di Kubilài ed io mi accorsi che
riuscivo a comprendere molte parole che quell’uomo stava
pronunciando perché assomigliavamo molto alla lingua parlata
nel Catai[7], anche se alcune espressioni mi apparivano molto
più articolate. Mi sorprese anche vedere con i miei occhi
che la descrizione fisica che Kubilài mi aveva fatto di
questo popolo, era volutamente errata, forse per il disprezzo che
provava verso questi uomini. Lui disse che quelle persone erano tutte
uguali ma era una bugia; certo il loro viso poteva apparire
più ovale e la carnagione più chiara, erano
sicuramente simili per il colore scuro dei capelli e degli occhi ma,
come ogni essere umano, avevano delle caratteristiche proprie come ad
esempio la forma più o meno grande del naso. Il soldato
smise di parlare, i miei compagni ambasciatori ed io lo seguimmo
attraverso una serie di cunicoli ben nascosti e presidiati da guardie
armate e in quel modo attraversammo il muro raggiungendo, infine, uno
spiazzo nel quale era piazzata una grande tenda al centro e altre
più piccole tutte intorno. Notai la presenza di molte
guardie all’entrata della tenda più grande e
compresi senza chiedere che ci stavamo dirigendo al primo incontro con
il loro capo militare. Dalla tenda, degli uomini uscirono senza indosso
l’armatura e ci guardarono in modo tutt’altro che
amichevole, poi, dopo pochi istanti, apparve il comandante che si
presentò a noi indossando un armatura pulita e che mentre
camminava mostrava un portamento fiero e orgoglioso. Gli ambasciatori
di Kubilài attesero un cenno della mano di
quell’uomo prima di iniziare a spiegare il motivo della loro
presenza ma lui, da subito, sembrò più attirato
da me e non mi tolse gli occhi di dosso fino al momento in cui uno
degli ambasciatori formulò l’offerta di resa.
L’uomo urlò una frase che non compresi, ma mi
bastò ciò che fecero le guardie per capire che
eravamo nei guai. Fummo legati con delle corde, ci fecero inginocchiare
davanti al loro comandante mentre dietro di noi si disposero dei
soldati con le spade già sguainate. Il terrore dei miei
compagni era visibile e compresi che la mia scelta di visitare questo
paese mi sarebbe costata la vita così iniziai a tremare e mi
sentii paralizzato quando le urla dei miei compagni, colpiti alla
schiena, si spensero in un istante. Attesi la fine pregando e questo
mio gesto istintivo incuriosì il comandante che
fermò il soldato che stava per eseguire la mia condanna.
L’uomo si avvicinò e mi parlò nella
lingua del Catai.
«Che cosa stavi bisbigliando?»
«Stavo pregando il mio Dio» risposi ancora tremante.
«Tu non sei uno di loro; sei forse un prigioniero?»
«No signore, nasco in un luogo chiamato Venezia, sono un
ambasciatore della Serenissima[8] e in nome del Papa visito luoghi
lontani come il Catai e come il vostro che nessuno nel mio paese
conosce».
L’uomo rimase in silenzio qualche istante e poi
domandò con un tono molto sprezzante: «Siete una
spia del Khan?»
Dovevo immaginare ciò che poteva passare nella mente di un
comandante militare ma cercai di mantenere un profilo basso senza
spiegare niente del mio vero ruolo in questo viaggio.
«No signore, sono solo un viaggiatore e voglio soltanto
conoscere il vostro popolo, le vostre usanze e poi ritornare a casa per
raccontare alla mia gente lo splendore dei posti che avrò
visitato».
L’uomo mi fissò a lungo, i suoi occhi scuri
sembravano penetrare dentro la mia mente alla ricerca della bugia che
gli stavo tacendo, ma non gli diedi modo di dubitare poiché,
sotto un certo punto di vista, ciò che dissi era la
realtà così egli fece un segno al suo sottoposto
che immediatamente mi alzò in piedi e mi portò
all’interno di una delle piccole tende, dove rimasi legato in
attesa di conoscere il mio futuro.
Attesi poco tempo in quella tenda perché un soldato, con mia
sorpresa, mi slegò dalle corde e inchinandosi
m’indicò l’uscita. Camminai lentamente
temendo che fosse solo un gesto gentile prima di essere ucciso ma il
soldato, comprendendo la mia paura, si mise davanti a me, mi
scortò fino alla grande tenda e aprì lui stesso
l’entrata. Lì, il comandante mi fece segno di
inginocchiarmi davanti ad un tavolo molto basso sul quale era imbandito
un pranzo a base di pesce crudo e riso in quantità. Egli
fece la stessa cosa, iniziammo a mangiare senza dire una parola ma
notai che i suoi sguardi verso di me erano completamente diversi dal
nostro precedente incontro. Mi sorprese la sua domanda diretta.
«Viaggiatore, come vi chiamate?»
«Marco Polo».
«Raccontatemi della vostra Venezia».
Raccontai tutto della mia repubblica e ogni tanto lui
m’interrompeva facendo delle domande specifiche quando
parlavo di cose che nel Cipango non esistevano come ad esempio le
gondole. Finimmo il pranzo e il comandante, senza che gli avessi fatto
una sola domanda, si presentò.
«Il mio nome è Hōjō Tokimune; sono lo shikken[9]
del principe Koreyasu-shinnō, Shōgun[10] del nostro impero e servitore
dell’Imperatore Go-Uda. In questo momento ricopro le cariche
di primo ministro e di comandante del bakufu[11]».
Tokimune si stava mostrando come persona affabile e disponibile al
dialogo ma capivo che tutti i nostri discorsi erano soltanto
l’antipasto a domande più specifiche e inerenti
alla mia relazione con il Khan del Catai e, infatti, dopo aver
sorseggiato un liquore caldo, espresse direttamente ciò che
stava pensando.
«Sono sincero e non userò frasi inutili;
ciò di cui abbiamo conversato non cambia la vostra
situazione Polo, siete ugualmente sospettato di essere una spia e
ciò mi porta a chiedervi la verità sulla vostra
presenza qui».
Pensai che fosse inutile mentire ma tenni per me le strategie per la
guerra che in modo confidenziale Kubilài Khan, al quale
dovevo la mia fedeltà, mi aveva confidato.
«Il Khan del Catai, considerandomi persona di fiducia, mi ha
soltanto affidato questa missione di accompagnatore degli ambasciatori
in modo che foste convinti delle sue richieste per una resa senza il
bisogno di una guerra. Ho accettato perché non amo la guerra
e credo che solo in pace si possano trovare soluzioni importanti per i
problemi che possono intercorrere tra due paesi diversi, ma allo stesso
tempo vicini».
Ancora una volta Tokimune mi osservò attentamente e
capì che non avrebbe mi estorto molto altro oltre a
ciò che avevo detto fino a quel momento così,
cogliendomi alla sprovvista, disse sorridendo: «Sappiamo che
il vostro viaggio come ambasciatori è stato fatto soltanto
come proforma, dopotutto io avevo già fatto uccidere gli
ambasciatori arrivati in precedenza, così come sono a
conoscenza che il Khan è già pronto a invadere le
nostre terre con due forze armate; una proveniente dal Catai e una dal
Goryeo che si incontreranno in qualche luogo sul mare per poi
raggiungere la baia. Ciò che non sa il Khan è che
le nostre spie ci hanno informato su ogni movimento delle vostre navi
quindi mi chiedo quale sia il vostro ruolo Marco Polo in questa
faccenda perché non credo che la vostra Venezia sia
interessata a una guerra così lontana dalla propria
terra».
Risposi sicuro. «È ciò che ho detto,
niente di più e niente di meno».
«Credo che sappiate molte altre cose ma sono certo che nelle
vostre parole non ci siano menzogne e che voi non siate una spia ma
semplicemente ciò che mi avete detto: un viaggiatore. Ho
deciso di accompagnarvi io stesso alla scoperta del nostro paese
così che possiate compiere il vostro viaggio senza temere la
nostra l’ostilità verso gli stranieri e ho pensato
che il primo luogo che dobbiate vedere sia il palazzo imperiale.
È stata una piacevole conversazione, Marco Polo».
E da quel giorno non fui mai più legato, anche se fui
sorvegliato a ogni mio passo.
Una mattina non tanto fredda iniziai il mio vero viaggio alla scoperta
di questo nuovo paese e compresi immediatamente che non si sviluppava
su un’isola singola ma che il Cipango era formato da quattro
grandi isole, infatti, per raggiungere Kamakura[12] attraversammo il
mare mantenendoci vicino alle coste. Approdati nella baia, iniziammo a
camminare e lungo il percorso, passando attraverso dei piccoli
villaggi, rimasi colpito dalla tranquillità e
dall’armonia che vigeva tra la gente che incrociavamo, ma
notai i popolani irrigidirsi quando incrociavamo la loro strada con
alcune persone che indossavano una specie di pantalone molto largo
sulle gambe e che portavano, legate in vita, due spade di diversa
lunghezza. Questi personaggi, come lo stesso Tokimune, sfoggiavano
un’acconciatura alquanto strana perché la loro
fronte era rasata mentre il resto dei capelli, molto lunghi, erano
uniti e legati a formare una coda che poi si ripiegava sulla
sommità della testa creando uno strano ciuffo. La reverenza
che mostrava l’intero villaggio verso queste persone mi
chiariva che si trattava di personalità importanti, ma,
anch’essi, al passare dello shikken Tokimune, dovevano
inchinarsi in segno di rispetto. Il comandante notò la mia
curiosità e spiegò senza indugio chi fossero
quegli uomini così importanti. Essi erano chiamati saburai[13] e facevano parte della casta più importante dopo di
quella riservata all’imperatore e ai suoi famigliari e dopo
quella dello shikken, Tokimune mi disse che quegli strani pantaloni si
chiamavano “hakama”, il modo di acconciare i
capelli era chiamato “chonmage” e le loro spade
erano la “katana”, quella più lunga, e
“wakizashi” quella più corta. Tokimune
mi fece notare che anche lui vestiva in quel modo quando non indossava
l’armatura di guerra e sorrisi quando mi chiese se trovassi
così strano quell’abbigliamento.
Tutte le persone che incontrammo durante il tragitto erano di
bell’aspetto e molto civili con tutti gli uomini della nostra
carovana e mi interrogai sul motivo per cui i loro imperatori avessero
deciso di chiudere il paese a qualsiasi popolo straniero
però, guardandomi intorno, compresi che il loro timore fosse
giustificato. La presenza di molto oro utilizzato per ricoprire le
statue, la varietà di perle di grande valore, sia di colori
sia di grandezze diverse, e la presenza smisurata di pietre preziose
avrebbe fatto gola a chiunque, soprattutto a Kubilài che,
utilizzando la scusa dell’espansione del suo impero, avrebbe
sicuramente preferito saccheggiare un paese ricco come questo piuttosto
che perdere tempo in commerci nei quali avrebbe dovuto spendere per
regalarsi un qualsiasi oggetto prezioso.
Giunti finalmente al grande palazzo imperiale rimasi affascinato
dall’architettura semplice, ma allo stesso tempo sfarzosa,
utilizzata per la costruzione di quest’abitazione che aveva
l’intero tetto ricoperto d’oro. Le grandi camere
che attraversammo erano anch’esse rivestite con oro spesso
due dita e con lo stesso metallo prezioso erano ricoperte anche le
finestre, le mura e ogni oggetto su cui posavo gli occhi. Chiesi a
Tokimune di incontrare l’imperatore ma non me lo permise
senza spiegarne il motivo invece mi portò in una sala,
anch’essa stracolma d’oro e pietre preziose, dove
feci la conoscenza del principe Koreyasu-Shinnō. Egli era lo Shōgun ma
compresi che si trattava di un ragazzino ancora troppo giovane e
inesperto per comandare l’esercito ed era, di fatto, il
motivo per cui Tokimune lo rappresentava come shikken sul campo di
battaglia. Il principe ascoltò il suo ministro con molta
attenzione mentre io, per ordine dello stesso Tokimune, rimasi
inginocchiato davanti a Koreyasu senza poter alzare lo sguardo verso di
lui. Cercai di comprendere di cosa stessero parlando ma era troppo poco
tempo che frequentavo le persone del Cipango per capire pienamente un
discorso complesso, così attesi che fosse Tokimune a
parlarmi.
«Il nostro venerato Shōgun comprende che voi non siete un
portatore di morte come gli ambasciatori del Khan e vi permette di
soggiornare nella grande città di Kamakura fino a quando
l’esercito invasore non sarà definitivamente
sconfitto».
«Dite al principe che sono onorato che mi abbia concesso
questo privilegio ma non posso abusare della vostra
ospitalità».
Tokimune si avvicinò a me chiarendo la mia situazione.
«Marco Polo, un rifiuto in questo momento equivale a essere
ucciso come una spia. Fino a che la guerra con il Catai non
sarà conclusa, dovrete rimanere qui e dimostrare che siete
nel nostro paese proprio per il motivo che mi avete detto in privato:
viaggiare per conoscere nuovi popoli e nuove
città».
«Ho compreso che sarò libero di muovermi ma non di
partire».
«Esattamente; personalmente vi garantisco che nessun saburai
avrà per voi un atteggiamento ostile o parole inadeguate.
Ora alzatevi mantenendo lo sguardo fisso a terra, inchinatevi e
rimanendo in questa posizione indietreggiate senza voltarvi fino alla
porta della sala» disse Tokimune con tono pacato ma molto
deciso.
Nel mese seguente, rassegnato a questa mia libertà
condizionata al rimanere chiuso in una delle stanze del palazzo,
iniziai a raccogliere informazioni riguardo alle gerarchie nel Cipango
e scoprii quanto la loro struttura sociale assomigliasse fortemente
all’impostazione feudale dei Paesi governati da
regnanti in Occidente. In teoria era semplicissima la scala del potere:
all’apice vi era l’imperatore che consultava per
primo lo Shōgun, in altre parole, il capo militare, e in seguito, lo
shikken, capo del governo e poi, poiché la sua parola aveva
maggior valore di tutte le altre, si sarebbe comportato come meglio
credeva seppur consigliato in altro modo. In realtà la
situazione in quel momento era ben diversa. Scoprii che
l’Imperatore Go-Uda aveva soltanto sette anni e che quindi
era più che altro un sostituto di suo padre, Kameyama,
imperatore che lo aveva preceduto, che per pura convenienza, e non per
spirito religioso, si era trasferito in un monastero Buddhista da dove
manteneva il controllo del paese nella forma chiamata
“governo del chiostro”[14] e nello stesso istante,
anche il principe Koreyasu, ancora giovane, era sostituito dallo
shikken Hōjō Tokimune che gestiva lo shogunato come reggente
provvisorio. In pratica Go-Uda e suo fratello Koreyasu erano soltanto
seduti in posti importanti senza avere nessuna possibilità
di gestire il governo. In un certo mi ricordarono la situazione in cui
si trovava la Serenissima, meno complicata, ma allo stesso tempo
intricata dove il Doge Lorenzo Tiepolo doveva fare i conti con il
Cancellier Grande Corrado Ducato[15].
Deciso a ottenere più libertà per vedere altri
luoghi di Kamakura mantenni sempre un comportamento adeguato alle norme
che mi erano state imposte e questo mio fare fu compreso dal principe
Koreyasu che ordinò di lasciarmi camminare tra la
popolazione e mi permise di visitare luoghi sconosciuti. Ovviamente non
potevo stare da solo così mi fu messa a disposizione, per
meglio dire mi fu imposta, una guardia personale di due saburai ma non
reclamai mai per questa sorveglianza e, anzi, la trovai anche
interessante perché potevo conversare con loro, mi rendevano
la vita tranquilla e accontentavano ogni mia richiesta. Fui libero di
visitare l’intera capitale ma in giugno qualcosa
cambiò e capii che Kubilài aveva iniziato
l’invasione. Dovetti cambiare la mia dimora perché
non mi erra permesso vivere in una delle lussuose stanze del palazzo
reale durante una guerra, ma mi diedero comunque altro agio facendomi
soggiornare proprio nella casa dello shikken. Adachi, moglie di
Tokimune, era molto cordiale e il piccolo figlio di dieci anni,
Sadatoki, mostrò molta curiosità verso di me
facendomi anche partecipe dei suoi studi. Le persone comuni mantennero
con me un rapporto di reciproca gentilezza ma le mie camminate verso la
montagna posta dietro alla città furono vietate, i miei due
“custodi” saburai, pur con rispetto,
m’impartivano ordini precisi su cosa fare e dove andare ma,
nonostante queste piccole privazioni, continuavo a essere un
privilegiato e, addirittura, mi raccontarono cosa stava succedendo
nella guerra.
In due mesi il Cipango subì grosse perdite nello stretto di
Tsushima[16] combattendo solo contro l’esercito proveniente
da Goryeo, il quale aveva scansato l’ostacolo della barriera di
Hakata utilizzando l’unico varco non fortificato posto lungo
la penisola di Shiga. Le staffette militari riportavano quasi ogni
giorno la successione delle battaglie. I soldati del Cipango
affrontarono i mongoli a viso aperto sulle spiagge nonostante gli
invasori fossero numericamente superiori e con attacchi notturni, nei
quali piccole imbarcazioni si agganciavano alle lunghe navi mongole,
pochi saburai salivano a bordo dei vascelli nemici, uccidevano
più soldati possibili senza timore della morte che li
avrebbe quasi sicuramente colti in quelle azioni. Ascoltavo con
ammirazione le gesta di questo popolo così fiero della
propria nazionalità ma sapevo che la guerra era soltanto
all’inizio perché nessuno parlò di navi
provenienti dal Catai fino al 12 agosto. Quel giorno a Kamakura giunse
la notizia che la flotta proveniente dallo Yangtze aveva raggiunto le
navi del Goryeo e solo in quel momento vidi una certa rassegnazione
alla sconfitta tra la popolazione ma nessuno si lasciò
travolgere dalla disperazione, ma anzi, tutti insieme rivolsero delle
preghiere ancora più accorate ai loro dèi ai
quali chiedevano un aiuto divino.
L’improvvisa mancanza di notizie fece temere il peggio ma il
17 agosto, con un ritardo di due giorni, ci fu raccontato cosa accadde
il 15 agosto 1281 d.C. Poche ore dopo che le flotte del Catai e del
Goryeo si congiunsero, apparve una piccola nube all’orizzonte
che, nelle ore seguenti, crebbe fino a provocare un violento uragano
che investì, con tutta la sua potenza, lo stretto di
Tsushima per due giorni. Gran parte della flotta mongola
naufragò con tutti i soldati ancora sui ponti, altre navi si
arenarono scaraventate a riva dalla tempesta mentre i pochi soldati
mongoli già sbarcati furono uccisi sulle spiagge dai saburai
che, senza nessun timore, affrontarono la forza dei venti. Quel
terribile uragano, com’era già successo anni
prima, salvò il Cipango dall’orda di
Kubilài Khan e la popolazione diede un nome a quella forza
elementare che li aveva protetti: “kamikaze” che
significava “vento divino” perché ogni
persona si convinse che gli dèi avessero partecipato alla
guerra insieme ai soldati in modo da distruggere la grande armata
mongola.
La guerra era definitivamente finita quando Tōhō Tokimune ritorno al
palazzo reale e pensai che mi avrebbero fatto partire, ma lui disse che
non poteva garantirmi un viaggio di ritorno rischiando una loro nave e
neanche mi consigliava di navigare con un’imbarcazione
mercantile perché in quei mari sarei stato preda dei pirati.
Mi chiese di attendere perché era certo che il Khan, alla
fine, avrebbe sferrato qualche attacco per invadere dei paesi vicini al
Catai e che in quel momento sarei stato quasi al sicuro da qualsiasi
spiacevole incontro sul mare.
In realtà, l’obbligo di rimanere a Kamakura non
m’infastidì perché dopo la vittoria del
Cipango mi diedero nuovamente la possibilità di muovermi in
tutta la città e nei paesi vicini senza essere neanche
essere scortato così colsi quest’occasione e
chiesi di incontrare i personaggi più importanti. Fui
ammesso alla corte dell’imperatore Go-Uda e scoprii che
nessun essere vivente, che non fosse un servitore autorizzato dalla
famiglia imperiale, aveva la possibilità di vedere il volto,
ma anche solo di sentire la voce dell’imperatore. Mi
accontentai di sentire ciò che il suo rappresentante mi
traduceva, anche se cercai di sbirciare attraverso le fessure dei
paramenti che nascondevano l’imperatore bambino.
Tōhō Tokimune, nonostante tutti gli impegni, continuò a
frequentarmi e divenne un amico e fu lui stesso a organizzarmi
l’incontro con quello che, a tutti gli effetti, governava
l’impero: Kameyama. Andammo nel monastero buddhista e notai i
tanti saburai che chiedevano consigli e ordini al vero imperatore poi,
attesi il momento di poter parlare con lui. Kameyama ci accolse con
spirito soave, rimase con noi qualche ora e poi si dedicò
alle faccende da monaco credente e ammetto che non riuscì a
convincermi della sua aspirazione da prelato neppure dopo aver parlato
con lui.
Viaggiai per molti giorni scoprendo altre meraviglie di questo luogo,
vidi grandi statue ricoperte d’oro poste
all’interno di templi altrettanto sfarzosi e continuavo a
chiedermi se fosse vero che questo popolo aveva chiuso le porte agli
stranieri perché in ogni luogo apparivano statue buddhiste.
Anche le ceramiche assomigliavano molto allo stile Chien dei Song e
all’esterno di una piccola città vidi alcune
statue molto somiglianti a quelle viste descritte da altri viaggiatori
occidentali che avevano visitato le regioni che furono un tempo
dominate dall’impero Gupta[17]. Troppe cose, modificate
leggermente, assomigliavano a oggetti conosciuti in altri luoghi,
così, passai del tempo studiando la lingua scritta del
Cipango poi chiesi a Tokimune di poter visionare gli scritti degli
storici del suo paese. Presi in mano alcuni testi e notai
immediatamente che la scrittura in ideogrammi era identica ai
“kanji” scritti nel Catai, imparai a leggere anche
gli ideogrammi autoctoni come
“l’harakana” e il
“katakana” e finalmente scoprii, attraverso la
lettura di alcuni testi, che secoli prima del mio arrivo questo popolo
aveva avuto un commercio totale con il Catai.
In epoche antiche il Cipango era chiamato Regno Yamato[18] e sotto la
guida della regina Himiko, tramite commerci e scambi intellettuali,
assorbì ogni conoscenza della cultura del Regno Wei[19], tra
le quali la scrittura con i “kanji” e la religione
buddhista[20] proveniente dal Catai attraverso il Goryeo. Gli scambi
culturali tra il Cipango e il Catai, attraverso la Dinastia Tang e la
Dinastia Nara, continuarono per seicento anni[21] fino a quando,
nell’anno 894 d.C., il cinquantanovesimo Imperatore del
Cipango Uda chiuse le relazioni diplomatiche di reciproca assistenza.
Compreso che non stavo sognando iniziai a concentrare la mia attenzione
verso quelle arti che mostravano segni indicativi della
civiltà del Cipango. Le sculture quindi, oltre a mostrare
una rilevante influenza del Catai, presentavano lo sfarzo riconducibile
alla Dinastia Heian[22] che aveva preceduto proprio la Dinastia di
Kamakura. Visitai anche luoghi nei quali lo stile pittorico della
dinastia Tang, proveniente dal Catai, era ancora visibile come
concezione, ma era anche stato modificato dal popolo del Cipango
attraverso una scuola chiamata “yamato-e” nella
quale si evidenziava la maggiore attenzione per le linee del disegno,
per il colore, per la narrazione e per i dettagli.
Nel mio viaggio di ritorno a Kamakura scoprii anche cose che soltanto
nel Cipango erano state create con abnegazione e grande stile. Tra
tutte emergevano due arti specifiche: la cura nella creazione del
vestiario attraverso una produzione tessile impeccabile che donava agli
indumenti una profonda eleganza di stile e di colori, come ad esempio
il “kimono” che ogni persona dei ceti
più agiati indossava non solo nella propria casa ma anche
passeggiando nei centri urbani più piccoli; la dedizione e
la fatica che ogni armaiolo promulgava nella produzione delle armi da
combattimento utilizzate dai saburai, come per quelle spade che si
portavano sempre appresso e che avevano delle lame tanto affilate da
staccare la testa dal corpo umano con un taglio netto e preciso.
Alcuni saburai pronunciavano spesso la parola
“bushido”[23] ma non avevo ancora chiesto
spiegazioni attirato più dalla cultura e dai paesaggi che
incontravo nel mio viaggio fino a quando, in un bosco, situato in
prossimità di un grande villaggio, assistetti a un fatto che
in qualche modo mi sconvolse. Un saburai, vestito con un kimono
elegante, era inginocchiato su una specie di tappeto mentre un altro,
vestito nello stesso modo, era alle sue spalle con la katana sguainata.
Chiesi a Tokimune se quello che stavamo vedendo era
l’esecuzione di una condanna a morte; lui mi
spiegò che l’uomo inginocchiato aveva la colpa di
aver abbandonato, per paura dell’uragano, i suoi
compagni durante l’ultima battaglia svolta sulle spiagge di
Tsushima poi, con calma assoluta, aggiunse che era stato proprio lui a
rammentare a quella persona che il suo gesto aveva disonorato la
propria famiglia e che per salvare in propri consanguinei
dall’espropriazione di ogni bene aveva una sola
possibilità. A quel punto, l’uomo inginocchiato
poteva scegliere la morte per mano di un soldato oppure eseguire il
seppuku[24]. Ancora non capivo bene questa motivazione ma rimasi a
osservare ciò che stava accadendo in silenzio.
L’uomo inginocchiato impugnò un coltello che i
saburai chiamavano “tantō” e lo spinse nel proprio
corpo trapassando gli intestini da sinistra verso destra mentre la
persona dietro di lui, pochi secondi dopo, sferrò un colpo
preciso con la katana in modo da staccargli la testa senza dolore.
Rabbrividii e chiusi gli occhi ritenendo macabra questo tipo di
giustizia nella quale un uomo sfregiava il corpo di un altro
già morente ma Tokimune mi spiegò che il taglio
della testa era fornito da una persona che fosse intima
all’uomo che si era suicidato la quale, colpendo con
precisione, non permetteva che il volto del defunto si deformasse per
colpa del dolore della ferita all’addome. Tokimune scese dal
cavallo e s’inchinò in direzione
dell’uomo decapitato poi, guardandomi negli occhi, mi disse
con massima tranquillità che l’uomo con la katana
era il figlio maggiore dell’uomo inginocchiato.
Arrivammo a Kamakura e Tokimune mi disse che l’imperatore
Go-Uda aveva accordato il permesso per farmi finalmente vedere
l’unico tempio Buddhista nel quale non potevo mettere piede.
Arrivammo al Kōtoku-in[25], l’unico tempio in cui
l’oro e lo sfarzo non erano contemplati tanto che era stato
costruito con del semplice legno. Capii, appena entrato,
perché quel posto era riservato a poche persone, quando vidi
un’enorme statua di bronzo di Amitabha Buddha. Era alta circa
quattordici metri e larga qualcosa più di due metri, i suoi
occhi, seppur socchiusi, incutevano timore reverenziale, e nonostante
per me si trattasse soltanto di un altro idolo, ne rimasi folgorato
tanto da dovermi sedere a terra. Stravolto dalla bellezza di quel
monumento, rimasi in silenzio e solo quando uscimmo dal tempio Tokimune
mi raccontò che quella stata era stata costruita nel 1252
per volere del fratello maggiore di Kameyama, imperatore prima di lui.
Per tre anni, viaggiai in tutto il paese scoprendo grandi meraviglie
che nessun uomo proveniente da ovest aveva mai potuto vedere. Un giorno
di febbraio Tōhō Tokimune, che si era ammalato gravemente durante i
nostri viaggi, mi disse che Kubilài Khan stava iniziando una
guerra con il regno indipendente del Vietnam e che quindi, sfruttando
quest’avvenimento, avrebbe potuto prepararmi
un’imbarcazione veloce, sequestrata a dei pirati di Goryeo,
in modo da farmi raggiungere il Catai senza il rischio di imbattermi in
altri vascelli pirata che, durante una guerra, non si sarebbero mai
avventurati in mare, ma prima di salutarmi, mi fece una domanda.
«Marco Polo, ho continuato a viaggiare con te e mi sono
sempre chiesto che cosa sia il Cipango. Vuoi spiegarmelo prima di
partire?»
Lo guardai sorpreso. «Come che cosa è!
È il vostro impero!»
Nonostante il dolore al petto Tokimune scoppiò in una grande
risata e, cercando di smettere, disse più allegro che mai:
«Sei qui da tre anni, hai letto tutto quello che potevi, hai
visto grande parte del nostro paese e ancora non hai imparato che il
nostro impero si chiama Nippon!»
Nell’anno 1284 d.C. raggiunsi Cambuluc e Kubilài,
che ormai mi credeva morto, mi accolse con tutti gli onori ringraziando
i suoi dèi per avermi riportato salvo alla sua corte.
Note.
- Uso il nome Kubilài perché
l’ho trovato scritto più spesso come nome
dell’imperatore che come Kubilài o con le forme in
lingua originale.
- La dinastia Song regnò in Cina dal 960 d.C. al
1276 d.C. quando la capitale Lin’an, l’odierna
Hangzhou, fu conquistata da Kubilài Khan. I Song
resistettero fino al 1279 d.C. quando subirono la sconfitta definitiva
nella battaglia di Yamen.
- Cipango è uno dei nomi utilizzati da Marco Polo
(insieme a Zipangu) per riferirsi all’isola giapponese.
- Cambuluc è uno dei nomi utilizzati da Marco Polo
(insieme a Khanbaliq) per riferirsi alla capitale dell’impero
mongolo/cinese (l’odierna Pechino).
- Goryeo (o Koryŏ) era l’antico nome del Regno di
Corea fondato nell’anno 918 e diventato vassallo
dell’impero mongolo/cinese nell’anno 1270.
- La baia di Hakata è situata nella parte
nordoccidentale della città di Fukuoka.
- Il Catai (o Ch’itan in trascrizione cinese) era
l’impero costruito da Kubilài Khan e Marco Polo lo
indicava per rappresentare l’intera superficie cinese mentre
nella realtà si trattava della regione settentrionale della
Cina.
- Appellativo con cui veniva indicata la Repubblica di
Venezia.
- Lo Shikken era il ruolo del primo ministro (e capo del
governo) che nel Periodo Kamakura era monopolizzato dal clan Hōjō.
- Lo Shōgun, letteralmente “comandante
dell’esercito” era un titolo ereditario conferito
ai dittatori militari che governarono il Giappone (1192 - 1868 d.C.).
- Il bakufu (shogunato) o “governo della
tenda” indicava il governo militare dello Shōgun in omaggio
alle tende in cui vivevano i samurai durante le campagne militari.
- Kamakura era il nome della capitale durante il Periodo
storico omonimo (1185-1333 d.C.). La città esiste tuttora.
- Saburai era il nome con cui erano chiamati i samurai fino
circa al 1600 d.C.
- Il governo del chiostro (o sistema Isei) era una specifica
forma di governo nella quale l’imperatore, pur abdicando,
manteneva il proprio potere che però creava una divisione
nella popolazione tra i fedeli al potere ordinario e il potere del
regnante.
- Seguendo l’ucronìa Marco Polo nomina
il Doge e il Cancellier Grande Tiepolo e Ducato perché sono
i due uomini in carica nella Repubblica di Venezia quando inizia il suo
viaggio verso il Catai (1271 d.C.) e quindi non può sapere
che Tiepolo è deceduto mentre Ducato è stato
sostituito proprio nel 1281 d.C.
- Lo stretto di Tsushima è la parte orientale e
più ampia del canale a est dell’isola omonima che
è di fatto uno stretto canale che divide il Giappone dalla
Corea.
- L’impero Gupta è stato un impero
politico dell’antica India governato tra il 240 e il 550 d.c.
dalla dinastia omonima fino all’invasione degli Unni.
- Regno Yamato (250 - 710 d.C.).
- Regno Wei (antica Cina settentrionale, 220 - 265 d.C.).
- Probabilmente nel 587 d.C. il Buddhismo divenne la
religione ufficiale.
- Storicamente sembra accertata la commistione tra la cultura
giapponese e quelle cinesi della Dinastia Tang seguita dalla Dinastia
Nara che sviluppò un sistema amministrativo, una scrittura,
una religione e delle arti specifiche. Questo
“codice”, in alcune sue parti, è stato
mantenuto attivo in Giappone fino l’anno 1185 d.C.
- Il periodo Heian durò dal 794 al 1185 d.C. e la
capitale, Heian-kyo, è l’attuale Kyōto.
- Nel Periodo Kamakura, il bushido (via del guerriero)
indicava ai saburai una condotta precisa ma non fu codificato fino al
Periodo Edo dei Tokugawa (1603-1867 d.C.).
- Il seppuku era la pratica di darsi la morte come espiazione
di una colpa commessa in modo da sfuggire al disonore.
- Oggi il Kōtoku-in non esiste più
perché è stato spazzato via da uno tsunami a
seguito del terremoto di Nankai avvenuto nel 1498 d.C. La statua di
bronzo che vi era contenuta, da quel momento, è rimasta
sempre all’aperto.
N.d.A.
- Ringrazio mystery_koopa che mi ha dato
l’opportunità di sistemare, a livello
grammaticale, questa storia.
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