Disclaimer
I
personaggi e le ambientazioni sono proprietà di Reiko
Shimizu.
Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
The
truth untold
Aveva fatto arrabbiare
Maki, ancora una volta.
Aoki
sapeva che vi
erano giorni in cui l’umore non sempre promettente del suo
superiore risentiva
in misura maggiore di certe complicazioni in ambito lavorativo; ed era
anche a
conoscenza che soprattutto in quei momenti, i quali lo rendevano una
sentinella
intransigente, il minimo passo falso da parte dei suoi sottoposti
contribuiva a
scemare ogni briciolo di pazienza che ancora riusciva a plasmare il suo
viso
composto ma ugualmente terrificante.
In
più, Aoki doveva
fare i conti con la propria personalità intraprendente e
impulsiva, che lo
portava spesso a non ponderare a sufficienza prima di compiere certe
decisioni o
a dimenticare addirittura certi particolari rilevanti, guadagnandosi di
conseguenza
un rimprovero da parte di Maki.
Quella
volta i
sentimenti erano stati il suo errore fatale, poiché era
bastato un messaggio da
parte di Yukiko Miyoshi, la sua compagna, a fargli perdere ogni
cognizione del
tempo e del dovere. Approfittatosi di uno di quei rari attimi di
libertà nei
quali non era stato incaricato di portare a termine un compito alquanto
pressante, si era diretto nel reparto di anatomia patologica gestito
dall’amata
e aveva eccezionalmente discusso con Yukiko su ogni argomento possibile
fuorché
qualcosa di inerente al loro mestiere, avvalendosi dei momenti in cui
non vi
erano le sue assistenti nei paraggi per scambiarsi tenere effusioni.
L’inizio
della loro
relazione aveva contribuito a temperare il carattere esuberante della
bella
donna dai capelli corti e scuri, e a far smarrire la dedizione di Aoki
in
chissà quale angolo della sua mente.
Per
sfortuna di
quest’ultimo, quell’amore sovrabbondante pareva non
scalfire nemmeno un
centimetro dell’animo di Maki, il quale, venuto a sapere
della prolungata
assenza del suo subordinato dal suo ufficio e ritrovatolo in compagnia
della
dottoressa Miyoshi, non si fece scrupoli a redarguirlo di fronte a lei
con la
sua solita improvvisa esplosione di furia, mettendolo al corrente che
altri
suoi colleghi del Nono l’avevano cercato dappertutto per
informarlo di
improvvise complicazioni sorte durante l’ispezione di un caso
e di inevitabili
incarichi che gli erano stati affidati nelle ultime ore.
Fu
vano il tentativo di
Yukiko di ristabilire la calma e rabbonirlo, rivolgendogli comunque uno
sguardo
– secondo Aoki – torbido, quasi indisposto. Il
sovrintendente ebbe da ridire
anche sul suo conto; azione che servì soltanto ad accentuare
la tensione che
aleggiava nell’aria.
La
questione ebbe a risolversi nel
seguente modo: con il
necessario congedo di Aoki dalla sezione presieduta dalla compagna e il
successivo ordine freddo di Maki di finire il turno per ultimo, di
restare fino
alla chiusura del dipartimento e recuperare la nuova mole di lavoro che
aveva
trascurato.
Il
giovane era, perciò,
rimasto fino alle otto di sera a compilare documenti, visionare
encefali di
malcapitati e segnarsi sul taccuino ogni progresso possibile
dell’indagine.
Non
sapeva, però, se
quella sua mansione sarebbe stata giudicata brillante, sia per la
stanchezza
opprimente, sia perché tormentato da mille pensieri.
Come
poteva restare
indifferente di fronte all’inquieto rapporto sempre crescente
fra il suo capo e
Yukiko? Di certo ciò non lo sorprendeva, ma non riusciva
nemmeno ad
abituarsene.
Erano
state le mani
tremanti di Maki a premere il grilletto e mettere fine alla vita di
Suzuki, il
suo più caro amico, due anni prima per legittima difesa; ma
erano state le
prime ad aver premuto contro il pavimento quando egli si era prostrato
davanti ai
parenti del defunto, in cerca di perdono e comprensione. Esse avevano
anche
soffocato le sue grida di dolore sotto la pioggia di quel giorno
nefasto, la
quale velava le sue lacrime amare.
Suzuki,
però, era anche
l’amante di Yukiko. L’angustia provata ai tempi
dalla donna era analogo; una
pena incommensurabile che non riusciva a scorgere tolleranza e buon
senso, solo
rancore e sconforto.
Entrambi
avevano ottime
ragioni per sentirsi così, ma Aoki desiderava tanto farli
riavvicinare in
qualche modo, soprattutto perché riteneva avessero molte
cose in comune, come
la personalità austera e dominante per la quale egli si era
reso conto di avere
una particolare fissazione.
Lui
amava entrambi, con sfumature
differenti
che non riusciva al momento ad interpretare.
Finito
il suo turno,
mise a posto ogni oggetto e scartoffia. Certo di non aver dimenticato
nulla,
uscì dal suo ufficio, chiudendo la porta a chiave.
Voltatosi
in seguito,
sobbalzò dallo spavento non appena scorse Maki seduto sul
suo divanetto
personale; aveva il naso su un quotidiano e un’aria vagamente
spossata.
«Maki»,
lo chiamò Aoki
avvicinandosi a lui, «Perché sei ancora
qui?»
Pensò
subito che il suo
superiore avesse cordialmente
deciso
di attenderlo fino a quell’ora; gli rivolse,
perciò, un sorriso alquanto
strambo.
Sorriso
che Maki notò
quando sollevò il capo per incontrare quello sguardo
magnanimo, quel volto di ometto che
era ormai abituato a vedere
regolarmente. Studiò il suo sottoposto per diversi secondi
con la massima
inespressività, com’era solito fare; poi chiuse il
giornale e controllò il suo
orologio da polso.
«Sono
le otto e cinque
minuti», constatò, «Puoi
andare».
L’espressione
gioiosa
di Aoki si assottigliò di poco.
«Ehm…
temevi che me la
svignassi prima di quanto stabilito?», azzardò,
«Sai che non ne sono capace.
Prendo seriamente ogni compito».
«Come
hai fatto
stamattina?»
Il
respiro gli si smorzò
in gola. Poté giurare di essere arrossito fino alle
orecchie. Tentò di
camuffare l’imbarazzo sistemandosi gli occhiali.
Non
voleva ricominciare
quella discussione: era stanco e sapeva
di essere nel torto. Era certo che ciò che stizziva Maki non
era tanto il tempo
che era riuscito a ritagliarsi con Yukiko – sebbene eccessivo
–, bensì il
disinteresse provato per quell’indagine sì meno
astrusa ma ugualmente
importante.
Non
esitò a chinarsi
nella sua direzione e dire: «Mi dispiace molto. Sono stato
irrispettoso nei
confronti di tutti voi, scaricandovi tutte le ricerche. Ti prego di
perdonarmi».
Sentì
Maki alzarsi dal
divano e dirigersi verso l’attaccapanni. Lo vide indossare il
suo cappotto
beige e mantenere un’espressione pensierosa.
«In
quanto capo di
questa sezione, è sempre
mio dovere
accertarmi che il luogo venga lasciato come lo si trova la mattina, e
quindi
restare qui fino alla fine della giornata»,
proferì poi.
Aoki
sgranò gli occhi.
Non era al corrente di questo ulteriore dovere di Maki, già
abbastanza oberato
di lavoro.
«E
comunque…», proseguì
il suo superiore, «… fuori sta piovendo molto e
non ho l’ombrello. Okabe ha
alcuni impegni con la famiglia e non mi può scortare. La mia
auto ha un guasto
all’impianto frenante. Saresti, per favore, disponibile a
concedermi un
passaggio fino a una determinata via?»
Ci
volle qualche
secondo prima che Aoki assimilasse tutte quelle informazioni
sciorinategli
senza giri di parole.
Curvate
le labbra in un
timido sorriso, grattandosi la nuca con una mano non esitò a
rispondere: «È un
bel guaio per entrambi, perché anche la mia auto
è dal meccanico».
Maki
lo osservò
stupito, poi i tratti del suo volto si contrassero in
un’espressione turbata.
Tirò fuori da una tasca il suo cellulare, sbloccando la
schermata iniziale e
restando a contemplarla, come se non sapesse cosa fare.
«Se
posso permettermi,
avresti un meeting?»,
domandò il più
giovane, sentendosi in colpa.
«…
Sì», fu la replica
dopo qualche attimo.
«In
che via dovresti
dirigerti?»
«Via
Nagasaki».
«Ah,
ma allora non è
lontana!», esclamò Aoki risollevato, «Io
ho l’ombrello e possiamo benissimo
andarci a piedi, se non ti dà fastidio camminare sotto la
pioggia».
«A
me no, ma ti creerei
un inconveniente perché da lì dovresti poi
tornare a casa tua da solo, e
faresti il doppio del normale tragitto», ribatté
Maki ostentando una certa
premura, «Ti ringrazio per la disponibilità, ma a
questo punto mi conviene
contattare altre persone o rimandare tutto».
«Assolutamente
no»,
s’incaponì Aoki, «Ti prego, lascia che
ti accompagni. Non crei il minimo
disturbo; anzi, è un piacere. Tra l’altro sarebbe
l’occasione per farmi
perdonare, perciò…»
Sguainò
l’ombrello dall’apposita cesta accanto alla porta
d’ingresso con fare
vittorioso. «… non rimandi proprio
niente».
I
due non discussero
molto, forse per la stanchezza, e la solita testardaggine di Aoki ebbe
il
sopravvento.
Una
volta fuori
dall’edificio, sul marciapiede di una delle tante strade
inglobate dalla
placida notte e bagnate dall’acqua piovana, Aoki
aprì l’ombrello mentre erano
riparati sotto una tettoia.
L’aria
di quella sera
di novembre arrossò i loro visi scoperti, facendo persino
lacrimare gli occhi
del più giovane; respirarla era alquanto faticoso,
poiché gelida e pungente
alla minima percezione tattile.
Notarono
la mancanza
quasi totale di persone che vagavano per quelle vie; il vacuo silenzio
era
colmato dai ticchettii rasserenanti delle gocce che si depositavano
sulla
strada circostante, sulla tela che li copriva, talvolta sui loro abiti.
Difatti,
la seconda
cosa che Aoki osservò fu: «Accidenti, non ci
ripara abbastanza! È troppo
piccolo!»
«Mi
basta non bagnarmi
la testa», rispose Maki.
«No,
non va bene!». Con
un certo imbarazzo propose: «Dovremmo… stringerci
un po’».
Senza
attendere una
reazione da parte dell’interessato, ripiegò il
braccio destro, protendendolo
verso il suo superiore in cerca di contatto da parte sua.
Maki
tornò a scrutare
il viso del collega, e quest’ultimo ricambiò lo
sguardo.
Aoki
studiò i suoi
lineamenti quantomeno distesi, delicati. Ogni volta il ragazzo non
poteva fare
a meno di riconfermare a se stesso quanto chi gli stava accanto fosse
gradevole, armonioso; oserebbe dire quasi attraente.
Il
suo volto non
rispecchiava per niente la sua età, camuffava tutti i
patimenti incassati in
quegli anni. I suoi occhi mettevano chiunque in soggezione, ma
effondevano
miriadi di pensieri ed emozioni; le sue labbra rosee esprimevano parole
tanto
ricercate ed incisive quanto mordaci; aveva i capelli sottili e fluenti.
Molte
cose di lui gli
ricordavano Yukiko; vi erano attimi in cui temeva che ciò
non fosse una cosa
tanto normale.
Maki
fece passare la
mano più vicina ad Aoki sotto il suo braccio, poggiandovi
poi le dita sopra con
una certa discrezione.
«Proseguiamo,
sennò si
fa tardi», non tardò poi ad esprimersi, osservando
davanti a sé.
Si
era lievemente
irrigidito. Aoki lo constatò per via della sua stretta
timida ma ferma, la mandibola
serrata che egli scorse in lui non appena gli lanciò
un’occhiata furtiva, la
maniera alquanto differente con la quale aveva ripreso a camminare. Non
poté
fare a meno di sorridere, notando per di più quanto fosse
basso di statura ed
esile, nonostante sapesse incutere terrore persino ad un gigante
come Okabe.
Quel
maggiore contatto
fisico non dispiacque a nessuno dei due, poiché si
riscaldavano a vicenda, si
proteggevano dalla pioggia scrosciante, dalle intemperie esterne.
Il
tragitto durò circa
venti minuti, ma per Aoki il tempo parve volato via.
Ad
interrompere quell’idillio
fu Maki. Separatosi dal collega, una volta raggiunto un portico della
via
Nagasaki, disse: «Puoi lasciarmi qui».
«Oh…
siamo arrivati?»,
chiese l’altro un po’ stranito, vedendo che intorno
a loro non vi era nessun
locale o persona ad attendere l’interessato.
«Ora
vorrei proseguire
da solo», chiarì il suo capo con
un’espressione che trasudava la frase “Fai come ti dico ed evita altre domande”.
Perlomeno,
era ciò che
Aoki intese; pensò subito che chi dovesse incontrare fossero
individui
peculiari con i quali magari potevano interagire soltanto persone di un
certo
rilievo. Inoltre, quando Maki deliberava una cosa, così
doveva essere.
«Va
bene, ma permettimi
di lasciartelo», rispose quindi, porgendogli
l’ombrello, «Se devi fare un altro
pezzo di strada per conto tuo, allora devi tenerlo».
«E
tu? Come ti
riparerai durante il tuo ritorno a casa?»
«La
pioggia non è fitta
come prima: posso arrangiarmi con il cappuccio del mio
giubbotto».
«No,
Aoki, non se ne
parla».
«Insisto».
«Non
fare il testardo!»
Frattanto
che
discutevano, sembrò che le condizioni del tempo avessero
deciso di agevolarli,
perché le gocce d’acqua divennero nel giro di
pochi minuti sempre più rarefatte,
fino a che non smisero quasi totalmente di cadere.
Dopo
un istante di
stupore da parte di entrambi, Maki proruppe: «Approfittane e
incamminati». Chinò
di poco la testa. «Grazie per avermi accompagnato».
«Ah,
ehm… figurati!»
Maki
aveva già fatto
dietrofront prima ancora che potesse notare Aoki agitare la mano;
quest’ultimo
rimase a contemplare la sua figura minuta allontanarsi e divenire
sempre meno
nitida nella foschia notturna.
In
quel momento gli si
strinse il cuore; un brusco senso di vuoto o nostalgia
cominciò a tormentarlo.
Il suo istinto lo volle mettere al corrente di qualcosa che non seppe
definire,
qualcosa di non propriamente positivo.
Ogni
buon proposito di
non immischiarsi negli affari privati di Maki andò in fumo
in un baleno. Aveva
anch’egli cominciato ad avanzare in quella direzione, spinto
dalla volontà di
seguirlo.
Si
mosse con
circospezione, imprecando contro se stesso per essere stato vinto
ancora una
volta dalla sua caparbietà. Il pensiero che quello spionaggio avrebbe potuto fargli
rischiare il posto di lavoro, se
colto in flagrante da Maki, martellava la sua coscienza; tuttavia,
ciò non lo
frenò.
Fece
estrema attenzione
a mantenere una dedita distanza da colui che non aveva perso di vista,
muovendosi con passo felpato, riparandosi di tanto in tanto
all’interno di
qualche vicolo perpendicolare alla strada principale qualora gli
paresse che il
suo superiore si voltasse indietro.
Il
luogo dove Maki
entrò era una sorta di piano-bar; non proprio, dunque,
ciò che Aoki si
aspettava.
Il
ragazzo decise di
appropinquarsi ulteriormente al locale.
Non
cercò più di
comprendere perché gli interessasse sapere che accidenti ci
facesse lì dentro
il suo capo. Dopotutto, sebbene Maki indossasse sempre una maschera di
austerità al lavoro, e tutti fossero abituati a considerarlo
un uomo tutto d’un
pezzo, era quantomeno plausibile che nel resto delle sue giornate
potesse
dedicarsi a certi altri tipi di svaghi e
interessi, a coltivare rapporti dalle molteplici sfumature.
Per una persona
che aveva da tempo superato l’età adolescenziale e
che non si era sposato, era
più che comprensibile.
Passato
dopo diversi
minuti al lato dell’ingresso con circospezione,
osservò per un attimo
quell’ambiente elegante e illuminato da luci soffuse, nel
quale vi era poca
gente. Dalle finestre esterne figurò che vi erano
probabilmente due piani:
quello superiore, decorato all’interno con tende di seta, e
il piano terra dove
si poteva bere, mangiare, riposare seduti su comode poltrone che
s’intravedevano
dall’enorme vetrata che dava al marciapiede.
E
Aoki, oltrepassata
quest’ultima per gettarvi rapidi sguardi, lo vide.
Adagiato
su un sofà in
pelle accanto a un tavolino.
Privo
del cappotto, con
la cravatta allentata e la camicia sbottonata in corrispondenza delle
clavicole.
Insieme
a un individuo lievemente
più alto. L’unico assieme a lui in
quell’area.
Con
le labbra su quelle
di quest’ultimo in un bacio approfondito, passionale.
E
fu proprio quella
visione ad interrompere definitivamente ogni contatto stabile con la
realtà che
circondava Aoki.
Nulla.
Nella mente
svuotata, sconvolta del giovane vi era il nulla cosmico;
così fu per i primi
due minuti dopo la conturbante
scoperta.
La
sua coscienza lo
fece poi riscoprire con le gambe vacillanti, il cuore che batteva
freneticamente, il respiro celere e un improvviso calore che divampava
nel
viso, nel collo già accaldato, nelle mani sudate.
Non
guardò di nuovo per
avere qualsiasi ulteriore conferma; non ne ebbe il coraggio,
né la voglia.
«Non
è possibile», mormorò
ad un tratto, fra un ansito e l’altro, «Non era
lui».
Faticava
a credere alle
sue stesse parole, poiché avrebbe riconosciuto il suo caro
Maki ovunque, in
ogni circostanza, da ogni distanza; ma in quell’istante aveva
bisogno di
autoconvincersene, di illudersi, di raggirare una verità che
il suo cuore non
era ancora pronto ad accogliere.
Il
rumore di un clacson
lo fece distrarre di poco dallo shock. Gli si fermò davanti
un’auto che
conosceva molto bene, guidata dalla persona che meno voleva vedere in
quel lasso
di tempo.
«Chiudi
la bocca prima
che ti entrino le mosche», esordì Yukiko quando
abbassò il finestrino.
Aoki
realizzò di averla
effettivamente spalancata.
«Che
ci fai qui da
solo? Non dovresti essere a casa?», domandò lei.
«…
Sì, infatti. Mi ci
stavo dirigendo», parlò egli, abbozzando un
sorriso e cercando in tutti i modi
di placare la sua tempesta interiore.
«Tesoro,
questa non è
la strada giusta: stai andando nel senso opposto»,
spiegò lei con espressione
preoccupata, «Ti vedo stremato. Tsuyoshi deve averti fatto
sgobbare. Ah, come
fai ad essere così paziente con lui!?»
Aoki
s’irrigidì non
appena ella pronunciò il vero nome di Maki.
«Che
sbadato…», riuscì
a dire.
«Sali
in macchina: ti
ci accompagno io. Fortuna che ho finito il mio turno adesso e sono
passata per
questa strada», propose Yukiko.
E
il ragazzo, per
quanto desiderasse restare da solo per assimilare, riflettere,
deliberare cose
meno sconclusionate, non se lo fece ripetere due volte. Raggiunse a
passo lesto
la sua donna, senza voltarsi verso quel locale un’ultima
volta.
«Sì,
ti prego», gli
sfuggì sentendo un inspiegabile
nodo
alla gola, un’amarezza incredibile, «Portami
via».
©
Alyss Liebert
•••
{Note e
curiosità}
Riuscirò
ad aprire la sezione di Himitsu su EFP.
Lotterò con tutta me stessa.
Questo
manga è sbalorditivo.
Da quando l’ho scoperto, è entrato di prepotenza
nella mia personale Top 3
degli anime/manga che più ho amato finora. Non sapete quanto
mi rende triste
sapere che non è conosciuto qui in Occidente come dovrebbe.
Ho
deciso di scrivere qualcosa sulla ship che amo, la
AoMaki, sperando di intrigare molte più persone. Questa
one-shot è, ovviamente,
parecchio disimpegnata rispetto al guazzabuglio di intrighi,
sentimentalismi,
introspezione psicologica e soprattutto sofferenza
che caratterizza l’intricata trama di quest’opera.
Ho colto l’occasione per
calare i personaggi principali in un’atmosfera lievemente
più serena (perché vi
posso assicurare che, in genere, non hanno un attimo di pace),
scegliendo la
parola Aiaigasa,
“ombrello
condiviso”, dalla challenge alla quale partecipo per la
seconda volta.
Si
tratta, inoltre, di una “What if?”. Diciamo che
nella storia originale si intuiscono
certe cose riguardanti la vita privata di Maki, e ovviamente
quell’ingenuo di
Aoki non le comprende (almeno per ora). Così ho pensato:
“Perché non inscenare
un momento in cui becca il suo capo in una situazione compromettente?
Quale sarebbe la sua reazione?”. Ed ecco la
one-shot! Come dovrebbe proseguire? Mah, vi lascio libera
interpretazione.
Sono
consapevole che molti aspetti della trama e del
carattere dei personaggi non possono essere ben compresi solamente
leggendo
questa storia (sebbene abbia comunque provato a inserirvi quanti
più elementi
possibili); infatti, per chi vuole saperne di più, vi lascio
il collegamento
alla favolosa recensione che mi ha fatto addentrare in
quest’universo, scritta
da una ragazza che mi ha gentilmente concesso di linkarla e gestisce un
blog
che personalmente adoro e vi
straconsiglio. Cliccate qui.
Infine,
il titolo da me scelto racchiude l’essenza del
racconto: ciascun personaggio è oppresso da segreti,
responsabilità, incomprensioni,
verità non dette.
Perdonatemi
se mi sono dilungata, ma era necessario
chiarire certe cose per chi non conosce il manga.
Grazie
mille per aver letto questa one.shot. Se vi va,
lasciatemi i vostri pareri; li apprezzo sempre tantissimo,
indistintamente.
Buon
Natale e – in anticipo – buon anno nuovo (non
posterò altro prima di Gennaio).
Jā ne,
Alyss
|