contest
Storia partecipante al All
I want for Christmas is... Storie contest indetto da
Arianna.1992 sul forum di EFP.
Note
dell'autrice: Prima di leggere, sappiate che studio
giapponese all’università e che vado pazza per la
cultura giapponese, quindi vi lascio qui il significato di alcune
parole-chiave che troverete nella fanfiction:
● Santa-san
= Babbo Natale. Sarebbe l’abbreviazione di Santa Claus
(più formale) unita all’onorifico -san, usato per le
persone che non si conoscono bene e verso cui si porta un certo
rispetto.
● Otoosan
= papà
● Arigatou gozaimasu
= grazie mille
Infine alcune pietanze giapponesi a base di pesce, tipiche del periodo
natalizio:
● Takosu =
carpaccio di polpo
● Shakeyakidon
= filetto di salmone su letto di riso
● Black Yakimeshi
= riso venere ai frutti di mare, uova e fiocchi di tonno disidratato.
Keep believing
in the magic of Christmas.
La sera della vigilia di
Natale, l’intera casa Nakiri profumava di festa, allegria,
zucchero e cannella.
La signorina Alice e sua madre avevano sfarzosamente addobbato i mobili
della sala da pranzo con ghirlande di fiori, lucine multicolori e
pupazzetti raffiguranti Santa-san con tanto di slitta e renne
galoppanti, ma ciò che attirava maggiormente
l’attenzione era l’enorme abete decorato con
palline rosse, blu e dorate che svettava in un angolo della sala
illuminandosi a intermittenza. Era talmente alto che Ryō aveva dovuto
prendere in braccio la signorina Alice sollevandola in aria quel tanto
che bastava per permetterle di posizionare la stella in cima senza
tirarsi addosso l’intero albero di Natale.
La lunga tavola al centro della sala era stata apparecchiata con una
tovaglia rossa finemente decorata, tovaglioli dello stesso colore,
costosi bicchieri di vetro e posate lucidissime. Come ci si aspetta da
una famiglia di esperti cuochi e gastronomi, per quella serata
così speciale i Nakiri avevano scelto di portare in tavola
solo le pietanze più prelibate e raffinate del loro vasto
repertorio. Anche Ryō poteva vantarsi di aver contribuito alla
preparazione del cenone di Natale servendo del saporito Takosu,
dell’abbondante Shakeyakidon e dello sfizioso Black
Yakimeshi, rispettivamente a base di polpo, salmone e frutti di mare.
Seduto al centro della tavola, il figlio adottivo dei Nakiri aveva una
visuale perfetta dell’intera famiglia. Da un lato il vecchio
Sanzaemon raccontava ambigui aneddoti di Natale, dal lato opposto Sōe
sorrideva serio e composto nel suo elegante completo scuro affiancato
dalla bellissima moglie Leonora. Di fronte a sé, Ryō poteva
osservare la signorina Alice che, con un paio di corna da renna sulla
testa, cercava di addolcire l’impassibile cugina mettendole
sotto il naso uno degli omini di pan di zenzero che lei stessa aveva
appositamente preparato per l’occasione sfruttando tutte le
sue conoscenze nel campo della cucina molecolare. Di fatti non ci volle
molto prima che Erina, attirata dall’odore invitante dei
graziosi biscotti, ne addentasse un pezzetto sentendosi immediatamente
invadere non solo dalla dolcezza dello zucchero ma anche dallo spirito
natalizio: il minuto dopo le due cugine ridevano e scherzavano tra loro
imboccandosi a vicenda con occhi pieni di affetto l’una per
l’altra.
Ryō piegò a sua volta un angolo della bocca in un breve
sorriso compiaciuto. Se poteva cucinare e assaggiare anche lui tutti
quei deliziosi manicaretti, se poteva godere con la famiglia Nakiri di
tutto quel lusso e di tutta quella serenità, era solo merito
della signorina Alice che da bambina l’aveva preso con
sé come suo assistente. Senza di lei, Ryō era certo che in
quel momento si sarebbe trovato ancora nelle sporche cucine del
ristorante in Danimarca a preparare pesce in gran quantità e
in tutte le salse per vecchi e rozzi marinai che non apprezzavano il
gusto raffinato della sua cucina.
Con lo stomaco pieno e il cuore leggero, Ryō pensò che
niente, assolutamente niente avrebbe potuto rovinare quel bel quadretto
familiare di cui lui stesso aveva il privilegio di far parte, ma si
sbagliava, si sbagliava di grosso. Bastò infatti una
semplice domanda rivolta dalla signorina Alice a sua cugina per far
sparire il sorriso dal volto di tutti e far crollare il silenzio
sull’intera tavolata.
«Allora, Erina, cos’hai chiesto a Santa-san
quest’anno?».
Ryō sospirò. Sempre
la solita storia, ogni singolo anno, da quando era
arrivato a casa Nakiri.
Prima che Erina potesse aprire la bocca, fu Sōe a parlare:
«Andiamo, tesoro, non crederai ancora a...?».
«Otoosan!», esclamò Alice gonfiando le
guance stizzita. «Santa-san esiste, io
l’ho visto!».
Quello che Alice non sapeva era che da bambina non aveva visto
Santa-san, ma suo nonno
con un costume bianco e rosso che trasportava tra le braccia un sacco
di regali per le sue adorate nipotine. E tra l’altro Alice
era l’unica persona in quella stanza ad essere
all’oscuro di tutto. Perfino Ryō lo sapeva, dato che
Sanzaemon glielo aveva spifferato già ai tempi del suo primo
Natale in casa Nakiri.
«Alice», proruppe Erina con aria di chi la sa
lunga. «Non credi di essere un po’ troppo grande
per credere ancora che un vecchio decrepito possa andarsene in giro con
una slitta trainata da renne volanti – volanti!
– e distribuire milioni, anzi miliardi di regali
in una notte sola a tutti – e dico tutti – i
bambini del mondo, calandosi giù dal camino senza rompersi
la schiena o bruciarsela?».
«Certo che no», rispose Alice incrociando le
braccia con sguardo risoluto. «Per distribuire tutti i regali
Santa-san si fa aiutare dai suoi numerosi elfi e ovviamente non si cala
giù dal camino ma entra dalla porta di casa usando quasi
sicuramente una chiave speciale in grado di far scattare tutte le
serrature. E per tua informazione le renne non volano, ma corrono come
qualsiasi altro animale!».
Fu allora che Ryō, rimasto fino a quel momento in silenzio, si
sentì in dovere di intromettersi. E andava bene credere a
Santa-san a sette anni, andava bene a dieci e forse anche a tredici, ma
superati i sedici la cosa cominciava a farsi preoccupante.
«Signorina Alice». Ryō poggiò i gomiti
sul tavolo sporgendosi con il busto in avanti. «Sei
seria?».
«Serissima!», esclamò Alice fulminandolo
con lo sguardo per poi spostare gli occhi su ogni altra persona seduta
al tavolo. «E stanotte rimarrò sveglia per
dimostrarlo a tutti quanti voi!». Mettendo il broncio come
una bambina, scattò in piedi e abbandonò la
tavola a passo di marcia con i pugni stretti lungo i fianchi per la
rabbia.
«Alice!», la richiamò Leonora
dispiaciuta, ma ormai la giovane Nakiri era già scomparsa
nel corridoio.
Ryō non si sorprese della reazione di Alice – sapeva
benissimo quanto fosse testarda e facilmente suscettibile –
tuttavia aveva sperato ugualmente che alla fine della conversazione si
mettesse il cuore in pace, non perché ci fosse qualcosa di
sbagliato nel credere ancora a Santa-san, ma per il semplice fatto che
Alice aveva davvero raggiunto l’età giusta per
mettere da parte le certezze infantili e aprirsi al mondo vero.
Evidentemente, però, in cuor suo Alice non era ancora pronta
per tutto questo.
«Stanotte, quando non vedrà nessun Santa-san in
giro per casa, sono certo che capirà», disse Sōe
con convinzione.
«No!», obiettò Leonora categorica.
«Sarebbe un trauma per lei scoprire la verità in
questo modo! Le rovineremmo la notte più bella
dell’anno! Quindi...». Il suo sguardo
saettò verso il suocero che, dall’altra
estremità del tavolo, sussultò sorpreso.
«...qualcuno dovrà travestirsi da Santa-san per
lei».
«Non se ne parla», rispose prontamente Sanzaemon
mettendo le mani avanti. «L’ultima volta ho quasi
rischiato di finire nel fuoco! “Santa-san,
Santa-san! Fammi vedere come entri dal camino...”».
Se la situazione non fosse stata alquanto seria, probabilmente
sarebbero scoppiati tutti a ridere, Ryō compreso.
«Caro?», disse allora Leonora spostando gli occhi
sul marito.
«Scordatelo», rispose Sōe perentorio.
«Non mi va di prendere in giro mia figlia».
Leonora sbuffò esasperata. «Ma sarebbe solo per
questa notte! L’anno prossimo, con calma, le diremo la
verità».
Ryō, al pari di Sōe, pensò che quella di Leonora non era
propriamente una buona idea – o almeno, non era il modo
giusto di trattare una giovane donna che si avviava ormai verso la
maggiore età – ma allo stesso tempo non trovava
nessun’altra alternativa per spiattellare la
verità in faccia ad Alice in maniera rapida e indolore.
Mentre rifletteva, Ryō si rese conto che Leonora aveva preso a fissarlo
con una certa curiosità e non gli fu difficile intuire cosa
stesse per dirgli. Ormai conosceva la signorina Alice e sua madre
così bene e da così tanto tempo che capiva
perfettamente quali fossero i loro pensieri solo guardandole negli
occhi, così estremamente simili gli uni agli altri.
«Potresti farlo tu, Ryō».
Come previsto.
L’espressione di Kurokiba non fece una piega.
«Perché proprio io?». Era sicuro di non
essere né abbastanza vecchio né abbastanza alto e
grosso per poter impersonare il ruolo di Santa-san. Alice se ne sarebbe
sicuramente accorta, lo avrebbe picchiato di santa ragione e poi gli
avrebbe tenuto il broncio per almeno una settimana. Un modo decisamente
poco divertente di trascorrere il Natale.
«Ti prego, ti prego, ti prego!». Leonora giunse le
mani al petto con fare teatrale estremamente simile a quello della
figlia. «Fallo per Alice, per la tua signorina».
Colpito e affondato.
D’improvviso Ryō immaginò come il cuore della sua signorina si
sarebbe inevitabilmente spezzato
se l’indomani non fosse riuscita a ottenere nessuna prova
dell’esistenza del suo adorato beniamino. Pensò ai
suoi occhi tristi e alla sua piccola bocca piegata
all’ingiù. No, non lo avrebbe sopportato. Certo,
avrebbe preferito di gran lunga lasciare l’arduo compito ai
due uomini più anziani di casa Nakiri, ma dal momento che
nessuno dei due sembrava disposto ad accettare, la
responsabilità ricadeva inesorabilmente su di lui.
Ryō si passò una mano tra i capelli lasciandosi sfuggire un
sospiro. Forse, evitando di parlare e di farsi guardare in volto da
Alice mentre depositava i regali sotto l’albero, quel piano
assurdo avrebbe anche potuto funzionare. Solo per una notte, solo per
quel Natale, solo per vedere sul volto della signorina quel bel sorriso
che illuminava sempre le sue giornate.
«Il costume ce l’avete ancora?».
Contento che qualcun altro lo indossasse al posto suo, Sanzaemon aveva
ceduto il suo vecchio costume da Santa-san piuttosto volentieri ed era
sparito da casa Nakiri augurando all’intera famiglia non solo
“buon Natale”, ma anche “buona
fortuna”, perché per darla a bere ad Alice Nakiri
senza conseguenze negative per l’intera famiglia era di
fortuna che avevano bisogno.
Guardandosi allo specchio con il costume addosso, Ryō non
potè che trovarsi d’accordo. Il cappello rosso con
tanto di batuffolo bianco che pendeva dalla punta era così
largo rispetto alla circonferenza della sua testa che gli scendeva
continuamente sul viso e, se da una parte contribuiva positivamente a
coprire i lunghi capelli neri, dall’altra parte gli
ostacolava la vista. In più la lunga barba bianca gli
procurava un fastidiosissimo prurito alla mandibola e al collo e
minacciava di staccarsi ad ogni minimo movimento. Il costume, al
contrario, non era affatto male – un tripudio perfetto di
bianco e rosso con tanto di cintura nera per mantenere il pancione
– ma il problema era che Ryō, confrontato a Santa-san, era
magro come un manico di scopa. Su suggerimento di Leonora, quindi, si
era infilato sotto la giacca un grosso cuscino ripiegato su se stesso
all’altezza dello stomaco, nella speranza che non cascasse
giù proprio sul più bello rovinando
l’intero piano.
Il risultato, nel complesso, non era granché soddisfacente
ma Ryō non aveva altra scelta. Distolse lo sguardo dallo specchio
– era certo che se si fosse guardato un altro po’,
avrebbe mandato tutto all’aria – quindi
afferrò il sacco con i regali preparato appositamente da
Leonora e uscì dalla sua stanza diretto verso la sala da
pranzo. L’orologio appeso al muro segnava quasi le due di
notte, di certo Alice si era già nascosta da qualche parte
in attesa dell’arrivo di Santa-san.
Ryō entrò nella sala da pranzo con passo felpato.
Metà della stanza era immersa nel buio, l’altra
metà era illuminata dalle lucine dell’albero di
Natale. Si guardò intorno con circospezione spostando gli
occhi dal divano al tavolo, dalla tenda della finestra allo stipite
della porta, ma non captò alcun movimento o fruscio
sospetto. Era tutto talmente silenzioso e immobile che sembrava quasi
che Alice avesse abbandonato l’impresa di beccare Santa-san
con le mani nel sacco (letteralmente) e in cuor suo Ryō se ne
rallegrò: voleva sì far felice la sua signorina,
ma se possibile avrebbe evitato volentieri figuracce e piagnistei.
«Santa-san!».
Come non detto. Ryō
sobbalzò sul posto rischiando quasi di farsi scivolare via
la finta pancia che si era creato con tanta cura: Alice, in pigiama,
era sbucata da dietro l’albero con un meraviglioso sorriso
stampato sul volto e gli occhi che brillavano d’entusiasmo,
puntando contemporaneamente un dito verso di lui.
«Tu esisti, lo sapevo!».
Ryō prese un respiro profondo e cercò di camuffare la
propria voce rendendola più grossa e cavernosa.
«Che ci fai ancora sveglia, Alice?».
La ragazza sorrise imbarazzata. «Be’, volevo
vederti!». Subito dopo inarcò un sopracciglio con
fare sospettoso. «Ehi! Come fai a sapere il mio
nome?».
Ryō si maledisse mentalmente per l’errore appena commesso, ma
cercò di riparare sfruttando
l’ingenuità di Alice. «Santa-san conosce
il nome di tutti
i suoi bambini!».
«Ma smettila, non è affatto
possibile...». Alice ridacchiò sventolando una
mano. «L’avrai sicuramente letto da qualche parte
qui in casa. E comunque io non sono più una
bambina!», si affrettò a precisare con sguardo
furbo.
“E allora
perché credi di parlare con Santa-san?”,
avrebbe voluto risponderle Ryō con una certa enfasi. Cominciava
già a perdere la pazienza e avrebbe preferito di gran lunga
lasciare i regali sotto l’albero e sparire immediatamente da
lì per togliersi quel fastidiosissimo costume di dosso, ma
Alice non sembrava affatto intenzionata a lasciarlo andare.
«Possiamo fare una foto insieme?», chiese infatti
la ragazza tirando fuori il cellulare dalla tasca del pigiama.
«Sai, è per mostrarla ai miei
parenti...».
Lì per lì, Ryō pensò che
l’idea di fare una foto con Alice per tenerla contenta fosse
del tutto innocua, ma poi si rese conto che, guardando con attenzione
la foto, Alice avrebbe potuto notare una certa somiglianza tra il suo
eroe e il suo assistente. No, non era affatto una buona idea.
«Santa-san non rilascia foto», affermò
allora Kurokiba con tono solenne.
«Ti prego, ti prego, ti prego!»,
cantilenò Alice con le mani giunte sotto il mento, nello
stesso modo in cui poche ore prima sua madre aveva tentato di
convincerlo a travestirsi da Santa-san. «La farò
vedere a pochissime persone, promesso!».
E proprio come aveva acconsentito alla volontà di Leonora,
così Ryō si ritrovò a cedere di fronte alle
preghiere della signorina. «Oh... e va bene».
Tutta soddisfatta, Alice gli si avvicinò, impostò
la telecamera frontale e sullo schermo del cellulare apparvero entrambe
le loro facce. Ryō si calò il cappello sulla fronte per
cercare di nascondere il più possibile il proprio viso, ma
fu un tentativo inutile.
«Oh, che occhiaie! Non le avevo proprio notate»,
commentò infatti Alice guardando il viso di Ryō raffigurato
in piccolo sullo schermo del cellulare. «In effetti ti
immaginavo un po’ diverso, più alto e
più grosso a dire la verità»,
continuò spostando lo sguardo sulla versione in carne ed
ossa che le stava accanto. Infine Alice si sporse verso di lui con gli
occhi ridotti a due fessure per guardarlo meglio in volto. «E
ti credevo anche un po’ più vecchiotto. Non hai
nemmeno una ruga!».
Ryō ingoiò a vuoto. Alice lo stava osservando da una
distanza così ridotta e con un’attenzione
così maniacale che avrebbe potuto riconoscerlo da un momento
all’altro. «Non volevi fare una foto?»,
tentò allora con voce flebile nel tentativo di distrarla.
«Oh sì, è vero!». Alice
riportò l’attenzione sul cellulare,
inquadrò nuovamente i loro volti e scattò la foto
senza esitazione. Nello stesso momento Ryō, preso da
un’illuminazione improvvisa, mosse repentinamente la testa da
un lato in modo che la foto venisse un po’ sfocata. Ed
effettivamente funzionò: ciò che la telecamera
del cellulare aveva catturato somigliava più ad una macchia
indistinta di bianco e rosso che al volto di Santa-san – o
Ryō Kurokiba, che dir si voglia. Riconoscerne la vera
identità sarebbe stato certamente impossibile.
«Mmh, non è il massimo della qualità,
ma non fa niente. Erina morirà comunque di
invidia!», esclamò Alice entusiasta.
Mentre la signorina si godeva la sua personale prova
dell’esistenza di Santa-san, il Santa-san in questione ne
approfittò per svuotare velocemente il sacco di regali ai
piedi dell’albero: ne uscirono pacchetti di varie dimensioni
e vari colori, tutti appositamente incartati da Leonora.
Alice dietro di lui si lanciò in un urletto di gioia
accompagnato da un piccolo applauso. «Arigatou
gozaimasu!».
Ryō si limitò ad un cenno del capo e poi passò i
successivi minuti a tentare di districarsi dalle grinfie di Alice che
voleva a tutti i costi trattenerlo lì con lei per fargli
assaggiare uno dei suoi biscotti preparati con la cucina molecolare.
«Non per vantarmi, ma ci so fare», gli
spiegò gonfiando il petto inorgoglita.
«Non ho dubbi». Ryō si rimise il sacco vuoto in
spalla. «Ma ora devo proprio andare. Ho ancora molto lavoro
da sbrigare».
Dopo un attimo di incertezza, Alice sorrise comprensiva.
«Certo, vai pure! Ci vediamo l’anno prossimo
allora».
Ryō si voltò tirando un sospiro di sollievo e, mentre si
dirigeva fuori dalla sala da pranzo, non potè fare a meno di
congratularsi con se stesso per aver portato a termine il piano senza
intoppi. Ce l’aveva fatta, Alice se l’era bevuta e
tutto sarebbe andato per il meglio, proprio come aveva predetto
Leonora. Niente figuracce e piagnistei per quel Natale, solo regali e
tanto buon cibo. Poteva desiderare di meglio?
«Buon Natale, Santa-san!».
La voce squillante di Alice risuonò alle spalle di Ryō
mentre attraversava il corridoio in direzione dell’ingresso.
Sorrise tra sé e sé. «Buon Natale,
signorina», rispose a bassa voce, più rivolto a se
stesso che a lei. Evidentemente, però, quelle parole erano
arrivate forti e chiare alle orecchie di Alice perché la sua
reazione non tardò ad arrivare.
D’improvviso Ryō sentì dietro di sé i
passi veloci della ragazza e, quando si voltò a
fronteggiarla, se la ritrovò di fronte con le braccia rigide
lungo i fianchi e gli occhi spalancati. Sembrava terrorizzata e
arrabbiata allo stesso tempo. Che diamine le era preso tutto
d’un tratto?
«Come mi hai chiamata?».
Quelle parole uscirono dalla bocca di Alice in un sussurro appena
udibile, quasi avesse avuto paura a pronunciarle.
Ryō sgranò impercettibilmente gli occhi.
Buon Natale, signorina.
Non aveva detto “Alice”, come la chiamavano i suoi
genitori e le sue amiche, ma “signorina”, come la
chiamava Ryō Kurokiba.
Di colpo Ryō avvertì il respiro mozzato e la salivazione a
zero. Cosa diamine
aveva combinato?
«Ti ho chiesto come mi hai chiamata», insistette
Alice con una calma a dir poco spaventosa.
Ryō non trovò la forza di opporsi in nessun modo. Cercare di
convincere Alice di aver sentito male sarebbe stato totalmente inutile,
anzi forse avrebbe solo peggiorato la situazione. La verità
era che si era cacciato nei guai con le sue stesse mani e a quel punto
uscirne illeso sarebbe stato impossibile.
Ingoiò a vuoto, ma il groppo che aveva in gola rimase fermo
lì dov’era.
«Signorina»,
rispose arrendendosi all’evidenza. «Ti ho chiamata signorina».
Un lampo attraversò gli occhi rossi Alice, già
lucidi di lacrime. Con uno slancio la ragazza si sporse verso di lui e
gli strappò via la barba finta rivelando il volto giovane e
spigoloso che si celava dietro di essa, niente a che vedere con quello
roseo e rotondo del presunto Santa-san. Ryō non si mosse, limitandosi a
fissare in silenzio il modo lento e graduale in cui la delusione e la
rabbia si impossessavano dello sguardo di Alice.
«Ryō-kun...», sussurrò la ragazza mentre
la barba si accasciava sul pavimento con un fruscio.
«Posso spiegarti». Ryō allungò una mano
verso di lei ma Alice gliela schiaffeggiò. E fu proprio in
quel momento, guardando la signorina negli occhi, che Ryō si rese conto
di quanto quel piano fosse stato stupido e insensato. Aveva preso
quella storia con fin troppa leggerezza e aveva sorriso più
volte pensando a quanto Alice, in alcune occasioni, potesse risultare
infantile e credulona. Non si era fermato a riflettere nemmeno per un
momento a quanto avrebbe potuto soffrire non solo scoprendo che la sua
più grande certezza era in realtà una menzogna,
ma soprattutto realizzando di essere stata ingannata dalle persone a
cui teneva di più al mondo.
«Non avresti dovuto, Ryō», fu l’ultima
cosa che Kurokiba udì prima di vedere Alice voltarsi e
correre via in lacrime.
Totalmente spiazzato da quella reazione decisamente meno vistosa di come
l’aveva immaginata, Ryō rimase fermo nel corridoio anche
quando la figura di Alice svanì dalla sua vista. In uno
scatto di rabbia si tolse il cappello e lo gettò per terra. Che idiota, si
disse fissando quel pezzo di stoffa rossa con tanto di pomello bianco
accasciato sul pavimento. Che
illuso ad aver davvero creduto di poterla passare liscia.
A quel punto comparve Leonora al suo fianco in vestaglia da notte.
«Non è andata bene, vero?», chiese con
tono rammaricato. Evidentemente aveva ascoltato tutto.
Ryō scosse la testa in segno di no.
«Mi dispiace tanto... È stata davvero una pessima,
pessima idea. Ma vedrai che le passerà presto»,
concluse la donna stringendogli la spalla con un sorriso amorevole.
Ryō sospirò. L’unica cosa a cui riusciva a pensare
in quel momento era il fatto che Alice, nel pronunciare il suo nome,
non aveva usato il -kun.
Per un momento, ai suoi occhi era stato semplicemente Ryō, senza la
solita nota affettuosa con cui la signorina gli si rivolgeva di solito,
senza quel sentimento di complicità reciproca che li legava
fin da bambini.
Non Ryō-kun, suo fedele assistente, amico e compagno di vita, ma Ryō e
basta.
Ryō che era stato capace di farla soffrire perfino la notte di Natale.
Più tardi, dopo essersi disfatto di quel costume che gli
aveva causato solo guai, Ryō bussò ripetutamente alla porta
della stanza di Alice con l’intenzione di scusarsi. Tuttavia,
quando udì un «Va’ via!» pieno
di rancore seguito da una serie di piccoli singhiozzi sconnessi, decise
di abbandonare l’impresa e si mise a letto. Fu la notte di
Natale più brutta di sempre: Ryō non chiuse occhio e infatti
il mattino dopo si alzò dal letto con un paio di occhiaie
ancora più profonde del solito.
A colazione, Alice non lo degnò nemmeno di uno sguardo e a
nulla valsero i tentativi di Leonora e Sōe di farle spiccicare mezza
parola. Incurante dei regali che giacevano sotto l’albero in
attesa di essere scartati, Alice lasciò la sala da pranzo e
andò a chiudersi nuovamente nella sua stanza dove
passò l’intera mattinata. Anche a pranzo rimase
muta come un pesce ma, quando accennò
all’intenzione di volersene nuovamente rimanere da sola, Ryō
si sentì in dovere di intervenire.
«Facciamo un giro», disse bruscamente e, per
evitare che lei gli sfuggisse un’altra volta, la
afferrò per un polso trascinandola fuori casa.
Erano le tre del pomeriggio e il sole invernale illuminava debolmente
le vie deserte della città. Ryō camminava a passo lento e
cadenzato con Alice al suo fianco. Le aveva abbandonato il polso, ma
non aveva smesso nemmeno per un momento di guardarla con la coda
dell’occhio.
Alice, invece, faceva finta di passeggiare da sola. La fronte
aggrottata, le guance gonfie per la stizza e gli occhi continuamente
rivolti alle vetrine illuminate dei negozi lasciavano intendere che era
ancora parecchio arrabbiata per quel che era successo la sera prima.
Era da circa mezz’ora che Ryō, approfittando
dell’imbarazzante silenzio che si era venuto a creare,
cercava le parole giuste da rivolgere ad Alice nel tentativo di
addolcirla, quando fu lei stessa a cedere per prima lasciandolo a bocca
aperta.
«Credi che ieri notte, mentre parlavamo, non mi sia venuto
nessun dubbio?». Alice voltò la testa per
guardarlo e Ryō fece altrettanto, impaziente di ascoltare cosa lei
avesse da dirgli. «Credi davvero che io non abbia
riconosciuto subito i tuoi occhi?».
Ryō sussultò sentendosi squadrare dallo sguardo indagatore
di Alice. «I miei occhi?».
«Sì», sussurrò Alice.
«Tu hai le fiamme negli occhi, Ryō-kun. Li avrei riconosciuti
anche in mezzo ad un’intera folla».
Nonostante si sentisse disperatamente in colpa per ciò che
aveva combinato, Ryō non potè fare a meno di sorridere
impercettibilmente per ben due motivi: in primo luogo Alice aveva usato
il -kun,
di conseguenza non era così
tanto arrabbiata con lui come cercava di apparire, e in
secondo luogo aveva appena dato prova di conoscerlo meglio di chiunque
altro.
Sì, era proprio così. Alice conosceva il suo
passato, il suo modo di cucinare, i suoi pregi e i suoi difetti, le sue
paure, le sue ambizioni. Conosceva ogni sfaccettatura del suo carattere
e perfino ogni sfumatura dei suoi occhi che a chiunque altro potevano
sembrare spenti, stanchi o annoiati, ma non a lei. Alice sapeva
perfettamente cosa si celava davvero negli occhi rossi di Ryō, quale
forza interiore li animava fuoriuscendo solo nei momenti di forte
emozione o tensione.
Ryō, ancora una volta, si diede dello stupido. Come aveva solo potuto
pensare che la signorina Alice potesse scambiarlo per
un’altra persona?
«E poi sentivo il tuo profumo, Ryō-kun»,
continuò Alice con un’inaspettata nota di
dolcezza. «E ho cercato disperatamente di convincermi che mi
stessi sbagliando, ma poi l’hai fatto, mi hai chiamato
“signorina”, e non c’è nessun
altro che lo fa all’infuori di te. Nessun altro,
capisci?».
Alice si era fermata all’improvviso con i pugni stretti lungo
i fianchi e gli occhi lucidi. «Perché
l’hai fatto, Ryō-kun?». La rabbia sembrava sparita
dal suo volto e dalla sua voce, sostituita da un’insolita
malinconia che non le si addiceva per nulla.
Nel vedere Alice così piccola e indifesa, Ryō
avvertì forte e chiaro l’impulso di abbracciarla.
In realtà non lo faceva spesso – il più
delle volte si limitava a darle piccole pacche scherzose sulle testa,
ricevendo in cambio un affettuoso pizzicotto sul braccio – ma
in quel momento Ryō sentiva proprio il bisogno di stringere Alice tra
le braccia, farle poggiare la testa contro il proprio petto e
sussurrarle che gli dispiaceva, che era mortificato e che se avesse
potuto tornare indietro non avrebbe commesso lo stesso errore. Tuttavia
sapeva che Alice aveva bisogno prima di una valida spiegazione e quindi
decise che avrebbe rimandato l’abbraccio a dopo.
«Ci tenevi così tanto a incontrare
Santa-san», spiegò con un sospiro. «Io e
tua madre non volevamo vederti in lacrime proprio la notte di Natale.
Allora mi sono fatto convincere a mettermi quello stupido
costume...».
«Già, era davvero davvero
stupido», proseguì Alice con sguardo eloquente.
«E poco credibile».
Ryō si trattenne dal dirle che quello stesso costume, stupido e poco
credibile, lo aveva indossato anche il suo caro nonnino anni prima e
che a quel tempo lei ci era cascata in pieno, ma non era certamente il
caso di infrangere anche
i suoi sogni di bambina.
«Comunque non volevamo affatto prenderti in giro. Il piano
era di farti credere nella magia del Natale solo per un altro anno e dopo dirti
la verità».
Alice sbatté le palpebre perplessa. «Quale
verità?».
A quel punto Ryō si chiese se Alice stesse facendo sul serio o no.
Possibile che non avesse ancora capito nulla? Possibile che quel
maledettissimo piano, nonostante l’esito disastroso, non le
avesse insegnato proprio nulla?
Ryō osservò attentamente il volto confuso di Alice e quando
si rese conto che no, non stava affatto scherzando, si impose di
mantenere la calma. Fece quindi un passo avanti, strinse le spalle di
Alice con entrambe le mani e le riversò dritta in faccia la
fatidica verità che lei si ostinava ad ignorare.
«Santa Claus non esiste».
Alice, stranamente poco turbata da quelle parole, sembrò
rifletterci tra sé e sé. «E
perché non me l’avete detto e basta?»,
chiese poi con tutta la spontaneità del mondo.
Ryō si sentì rinvigorire tutto d’un tratto proprio
come durante le gare di cucina: l’occhio sinistro gli cadde
in preda ad un fastidioso tic nervoso e la vena sulla tempia
cominciò a pulsargli violentemente.
«Sono anni che cerchiamo di fartelo capire,
Alice!», sbottò esasperato. «Certo, dire
che Santa Claus non esiste non è una bella notizia. Anzi,
è una brutta notizia. Ma d’altra parte che diavolo
si dovrebbe dire? Che ci sono le prove scientifiche
dell’esistenza di Santa Claus? E che esistono le
testimonianze di milioni di persone che hanno trovato giocattoli sotto
il camino o sotto l’albero?».
Alice si tirò istintivamente indietro colpita da quel fiume
di parole puramente ironiche, ma Ryō la teneva ancora stretta per le
spalle e tutto ciò che potè fare fu abbassare lo
sguardo mortificata e sussurrare un «Mi
dispiace...» pieno di vergogna per essersi comportata come
una bambina.
Ryō si rese conto che i ruoli si erano improvvisamente capovolti: non
era più lui a chiedere scusa, ma lei. Intenerito,
lasciò le spalle di Alice e le sfiorò con una
mano la ciocca più lunga che le ricadeva lungo il volto fino
a stringerle il mento con l’indice e il pollice.
«Tranquilla, va tutto bene». Quando le
sollevò il viso, infine, notò una nuova
consapevolezza nel suo sguardo: quella di essere diventata grande, di non aver
bisogno di prove dell’esistenza di Santa-san
perché la vera magia del Natale, superata
l’infanzia, non è più trovare i regali
sotto l’albero ma trascorrere momenti preziosi con i propri
cari.
Ryō si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo. Forse, in
fin dei conti, indossare una barba e una pancia finta non era stato poi
così inutile come pensava.
«Allora», proruppe accennando un sorriso.
«Sei ancora arrabbiata con me?».
Alice voltò la testa di lato fingendo un cipiglio offeso, ma
Ryō non si lasciò sfuggire l’attimo in cui anche
le sue labbra si erano piegate in un breve sorriso malcelato.
«Certo che sono ancora arrabbiata con te! E dovrai faticare
enormemente prima di ottenere il mio perdon−».
Ryō non ci pensò due volte: allargò le braccia
sporgendosi in avanti e strinse Alice in un caldo abbraccio senza darle
il tempo di terminare la frase. Infine socchiuse gli occhi e le
accarezzò il caschetto bianco con una mano godendo di quel
contatto che aveva desiderato fino da quando lei aveva ripreso a
guardarlo negli occhi e a parlargli come faceva sempre.
«E ora, signorina?», proseguì Ryō
marcando l’ultima parola. «Perdonato?».
Un «Forse» appena udibile giunse alle orecchie
attente di Ryō. Non poteva vedere Alice in volto, ma era piuttosto
sicuro che fosse arrossita.
«E se ti dicessi che quel pacco enorme, con tanto di fiocco,
che c’era stamattina sotto l’albero...»,
accennò Ryō con tono enigmatico, «...è
il mio regalo per te?».
Di colpo Alice si staccò dal suo petto per guardarlo in
volto: gli occhi le brillavano e le labbra erano piegate in un sorriso
a trentadue denti. Ah, quanto gli era mancato quel
sorriso...
«Dici davvero, Ryō-kun?».
«Certo».
Senza attendere oltre, Alice gli afferrò la mano e prese a
correre in direzione di casa, impaziente di poter scartare il regalo.
“Un giorno o
l’altro la signorina Alice mi farà
impazzire” pensò Ryō lasciandosi
trascinare senza alcuna opposizione – l’avrebbe
seguita anche in capo al mondo se lei glielo avesse chiesto. Poi Alice
ruotò la testa verso di lui e Ryō, specchiandosi in quei
grandi occhi cremisi capaci di stregarlo, non potè fare a
meno di correggersi: “O
forse ci è già riuscita”.
«Comunque
io Santa-san l’ho visto quand’ero
piccola...».
«Era
il nonno, Alice, fattene una ragione».
Un
coro di voci risuonò nella sala da pranzo:
«ERINA!».
Alice
spalancò gli occhi.
Erina
si tappò la bocca con una mano.
«Ops...».
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