Cause it’s right

di Imperfectworld01
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Mi credi?

Dissi a Dylan che sarei andata un attimo in bagno e di aspettarmi in classe. In realtà, attesi che si allontanasse, solo per potermela poi svignare e scappare da quell'edificio infernale denominato anche scuola. Non ce l'avrei fatta a rimanere lì tutto il giorno. Quei venticinque minuti al suo interno mi erano bastati.

Nell'esatto momento in cui varcai la soglia della scuola per andarmene, mi resi conto che non era solo sul piano fisico che non mi riconoscevo, bensì anche su quello caratteriale. 
Che cosa stavo facendo? Stavo davvero bigiando la scuola? Ciò che stavo facendo andava contro i miei princìpi morali. Quella non ero io. Io ero quella ragazza che pure con quaranta di febbre insisteva nel voler andare a scuola per non perdere quel test importante, ero quella ragazza che non si muoveva di casa il pomeriggio se prima non aveva fatto tutti i compiti per il giorno dopo, ero quella ragazza che andava nel panico quando i propri genitori organizzavano una vacanza di più giorni in qualche posto, perché non sapeva come avrebbe fatto a rimettersi in pari con lo studio al suo ritorno. La scuola per me era sempre stato un obbligo che prendevo seriamente, poiché costituiva ciò che mi avrebbe permesso di costruire il futuro che sognavo.

"Sono Megan Sinclair e sono una brava ragazza."

Già, e allora che ne era stato di quella brava ragazza, diligente e studiosa, la Megan Sinclair che conoscevano tutti? In cosa mi stavo trasformando? Se finora ero stata capace di saltare la scuola e mentire alla polizia, cos'altro sarei stata in grado di fare?

Scossi la testa, nella speranza di cacciare quei pensieri. Era solo un periodo così, mi ripetevo, poi sarebbe tornato tutto come prima. Io sarei tornata come prima.
Camminavo con la testa bassa, le cuffie nella testa per isolarmi dal mondo circostante, e il cappuccio sulla testa, nella speranza che nessuno per strada potesse riconoscermi. Era una cittadina piccola: si conoscevano tutti.

Camminai per circa dieci minuti, la durata di tre canzoni, finché non giunsi a destinazione. Dal marciapiede passai al giardino e dopodiché, una volta giunta in veranda, mi tolsi il cappuccio dalla testa e gli auricolari dalle orecchie e suonai al campanello.
Mentre aspettavo che venisse ad aprirmi, mi specchiai alla finestra e diedi una sistemata ai capelli, passando le dita fra le lunghezze, nel tentativo di farli apparire come minimo pettinati. Dopodiché aprii la tasca piccola dello zaino e ne tirai fuori la busta che mi aveva dato mio padre, che avevo recuperato prima di uscire da scuola. 
In quel momento, la porta si aprì. Rimasi a bocca aperta, nell'accorgermi che davanti a me non si trovava Frederick Finnston, bensì suo figlio. Sebbene fossero solo le nove e qualche minuto, era già ben vestito, pettinato e, chiaramente, con le scarpe. Che famiglia di fissati, pensai.

Anche lui sembrava sorpreso di vedermi. «Tu non dovresti essere a scuola?» domandò incrociando le braccia al petto e guardandomi di sottecchi.

Che noioso, mi parve quasi di avere davanti mio padre in quel momento, non un ragazzo poco più grande di me. «Tu non dovresti essere all'università?» rigirai la domanda, assumendo la sua stessa posa e la sua stessa espressione.

«Sono un uomo adulto, non devo spiegazioni a nessuno.»

Alzai un sopracciglio e mi morsi il labbro inferiore, per trattenere le risate dopo aver sentito le parole "sono un uomo adulto". Non che lo conoscessi bene, ma già il fatto che avesse appositamente voluto sottolineare questo suo aspetto, mi fece dubitare che lo fosse davvero.

«Già, be', sarai anche un vecchio, ma non sei mio padre, quindi non è a te che devo spiegazioni.»

«Che caratterino» commentò, emettendo un piccolo ghigno. «Però fai una scelta: o ho diciotto anni, oppure sono un vecchio. Sai, le due cose sono un po' incompatibili.»

Sbuffai e roteai gli occhi. Mi dava fastidio quel suo atteggiamento di superiorità e strafottenza. Tuttavia, decisi di rimanere in silenzio, per non far sì che continuasse a mettermi in ridicolo qualsiasi cosa dicessi, considerando che sembrava che l'aspirante avvocato che avevo davanti ai miei occhi avesse sempre ragione e fosse sempre pronto a farmelo notare. Mi faceva sentire una stupida.

«Oggi ho lezione al pomeriggio, per questo sono qui» disse poi, cambiando argomento. «Te invece? Che scusa hai per aver invaso il mio domicilio?»

«Speravo di trovare tuo padre, devo consegnargli questa» risposi, indicando la busta che tenevo in mano.

Gliela passai. Diede una rapida occhiata al contenuto e poi tornò a guardare me, accigliato. «Pensavo che saresti dovuta passare nel pomeriggio per portarli. Per questo mio padre non si è fatto trovare, ti aspettava dopo la scuola.»

Ma perché non poteva semplicemente farsi i fatti suoi?

«Non ci sono andata. Qualche problema a riguardo?» domandai seccata. Era un futuro avvocato oppure un investigatore privato?

«No, nessuno.»

«Perfetto. Buona giornata» feci per voltarmi e andarmene, ma David richiamò nuovamente la mia attenzione.

«Ah, Megan,» disse e io tornai a guardarlo «mi dispiace per la tua amica».

«Già. Anche a me» risposi, volgendo lo sguardo altrove.

«Dev'essere stato orribile scoprirlo durante l'interrogatorio, in un momento in cui eri già nervosa di tuo. Be', in realtà dev'essere terribile scoprirlo e basta, in qualsiasi situazione o circostanza. Se non altro, quando ne hai avuta la conferma, eri già pronta: in fondo lo sapevi già, no?»

Mi immobilizzai sul posto. Lui sapeva che io sapevo? Come aveva fatto a scoprirlo? Forse gliel'aveva detto suo padre, il quale si era confrontato con il procuratore, il quale aveva raccolto già abbastanza prove per potermi incriminare. «E... e tu questo come lo sai?» fu l'unica cosa che riuscii a dire.

Alzò gli occhi al soffitto e si passò una mano sulla fronte, come se fosse deluso, o sconsolato. «Dio, davvero è così semplice farti parlare? Non lo sapevo, prima che tu me ne dessi la conferma in questo esatto momento!»

«Be', ero nel panico! Mi hai colta alla sprovvista e non sapevo cos'altro dire. Non...»

Non mi diede neanche il tempo di finire la frase. «E quindi in tribunale farai così, ti farai prendere dal panico e poi confesserai tutto?»

«N-no, io...»

Mi interruppe una seconda volta. «Veloce, entra dentro!» mi afferrò per un braccio e mi fece entrare in casa sua, portandomi a sedere sul divano, come durante il nostro primo incontro. Si sedette alla mia sinistra anche stavolta.

Che modi. Aveva proprio la stoffa da avvocato: era un emerito stronzo.
Si accorse della mia espressione stralunata e allora sembrò darsi una calmata. «Megan, la falsa testimonianza durante un processo costituisce un reato. Non potrai mentire quando sarai sotto giuramento. E le lacrime non serviranno ad impietosire la giuria. Per favore, dimmi tutta la verità. Per davvero, stavolta.»

Accidenti a me, perché diavolo non sono rimasta a casa?, mi chiesi quando capii che non mi avrebbe lasciata andare finché non gli avessi raccontato tutto ciò che sapevo. Perciò, presi un respiro profondo e mi voltai nella sua direzione, pronta, per quanto possibile, a dirgli tutto: «Non l'ho uccisa io. Dopo la nostra litigata, avevo tentato di chiamarla per scusarmi, così come ho dichiarato alla polizia. Lei non rispose, ma in compenso riuscii a seguire la suoneria del suo cellulare che squillava, fino a trovarla, poco distante dalla casa di Dylan. Era distesa a terra, in una pozza di sangue, con un coltello conficcato sul collo. Cercai di rianimarla effettuando un massaggio cardiaco, ma si rivelò tutto inutile, dal momento che era già morta. E poi... be', non so cosa mi prese, ma pensai che, forse, rimuovendo il coltello dalla ferita, lei sarebbe...»

«Non dirmi che l'hai fatto davvero» si passò nuovamente una mano sulla fronte e scosse la testa. «Rimuovere l'arma da taglio da una ferita così profonda può causare una forte emorragia, quindi se ci fosse stata anche solo una possibilità secondo la quale Emily era ancora viva, tu...»

«Non l'ho fatto apposta... Non lo sapevo» lo interruppi, mentre le lacrime cominciavano ad accumularsi nei miei occhi, per l'ennesima volta.

«Già, a proposito di questo, hai mai sentito parlare di manslaughter involontario?» domandò e io scossi la testa. «Omicidio colposo? È un tipo di omicidio che si verifica a causa di negligenza, imperizia e imprudenza. Per esempio, quando un automobilista ubriaco investe qualcuno, oppure, nel tuo caso, quando una persona, disinformata e inesperta nel campo medico, aggrava la situazione già critica di qualcun altro, causandone la morte.»

In quel momento, mi sentii mancare il respiro. E se fossi stata davvero io? Se avessi ucciso io Emily? Non riuscivo a pensarci, non riuscivo a crederci. Le mani iniziarono a tremarmi, mentre le lacrime sgorgavano dai miei occhi arrossati e stanchi, dopo giorni di sofferenza. «Q-quindi andrò in prigione?» chiesi, con la voce spezzata.

«Non è detto che l'abbia uccisa tu. Magari avevi ragione ed era già morta. Bisogna aspettare i risultati dell'autopsia per saperlo.»
Fece una pausa, come se stesse riflettendo su qualcosa che non gli tornava. «A pochi metri da casa di Walker, hai detto?» domandò e io feci cenno di sì con la testa. «È strano: il corpo è stato ritrovato al Lake End Park, vicino alla riva. Perché l'assassino non se n'è disfatto subito? Deve essere stato per forza qualcuno che era alla festa. E il coltello, che fine ha fatto?»

Mi asciugai le lacrime e feci due o tre respiri prima di rispondere, cercando di tornare lucida e smetterla di piagnucolare come una bambina. Non sarei andata da nessuna parte con quell'atteggiamento, dovevo passarci sopra. David aveva ragione: alla giuria non importava nulla delle mie lacrime, a loro importava la verità su quella notte. «Non ne ho idea... Quando ho lasciato la festa, il corpo di Emily era ancora lì, così come il coltello... Per questo sono rimasta sorpresa quando sul giornale ho letto che Emily era scomparsa, e non morta. Così come era scomparsa l'arma del delitto. Ma ora la polizia ha trovato tutto, non è vero? È in possesso del coltello con le mie impronte sopra e sono fregata, giusto?»

«No, Megan. L'arma del delitto non è mai stata ritrovata, il che potrebbe essere pure peggio, dal momento che non sappiamo chi potrebbe esserne in possesso e cosa potrebbe farci» disse, passandosi una mano sui capelli, come se si sentisse frustrato, come se la cosa lo toccasse personalmente. Pensai che fosse tipico degli avvocati: amavano le sfide, specialmente se complesse e quasi impossibili, ma detestavano perderle.

Mi si contorse lo stomaco. Detestavo quello stato in cui versavo da giorni: ansia, incertezza, paura. Ero piena di dubbi, domande, a cui nessuno avrebbe potuto rispondere. «Sono nei guai fino al collo, non è così?»

Rimase a lungo a fissarmi, senza rispondere. Non mi sembrava una domanda difficile. In fondo, era evidente. Io avevo ucciso Emily, o forse no, ma la polizia avrebbe trovato prove sufficienti a incriminarmi e così, in un caso o nell'altro, sarei finita ugualmente in prigione.

«Non è così che si dice? "Innocente fino a prova contraria". Sebbene non sia stata realmente io, tutto riconduce a me» aggiunsi. In fondo anche Olivia me ne aveva dato conferma pochi attimi prima. Suo padre era un agente di polizia che stava lavorando al caso Walsh, e le loro indagini sembravano indirizzate principalmente nell'individuare me, come colpevole. «Che dici, secondo te mi donerebbe l'arancione?» dissi, per sdrammatizzare. Avevo letto che l'ironia poteva servire a superare momenti difficili, a renderli meno tragici. Tuttavia, non funzionò nel mio caso, anzi, mi sentii ancora peggio, sebbene non lo diedi a vedere. Io ero più forte di così. Dovevo esserlo. Quel piagnisteo doveva finire.

David roteò gli occhi. «Smettila. Non andrai in prigione. Non lo permet... Voglio dire, mio padre non lo permetterà. Ti potrà anche sembrare una persona tranquilla, forse lo reputi inadatto a fare un lavoro come questo, ma lo pensi solo perché non hai mai visto come si trasforma all'interno di un aula di tribunale.»

«Non ho detto che penso che tuo padre sia...»

«Ma è così. Sono sicuro che ti sarà sembrato una persona gentile e magari di buon cuore,  forse troppo per fare un lavoro del genere» mi interruppe. «E poi, ho capito benissimo che sottovaluti il potenziale degli avvocati. Credi forse che il tuo sia il caso più difficile che gli sia mai capitato? Adesso si trova in tribunale per far assolvere una donna che lavora in un supermercato e che è stata ripresa dalle telecamere di sicurezza mentre uccideva il suo capo, colpendolo con una scopa in testa fino a fracassargli il cranio. Che cosa ha in mente per riuscire a farla assolvere? Sindrome premestruale. E buttandoci dentro anche qualche altra scusante, come ripetute molestie sessuali sul lavoro, sono sicuro che vincerà il processo. La donna sarà condannata con la condizionale e, non so, magari dovrà sottoporsi a qualche cura con qualche farmaco per tenere sotto controllo la sindrome, ma per il resto, continuerà con la sua vita come prima.»

Le sue parole, da una parte, ebbero su di me un effetto rassicurante, mi diedero speranza; dall'altra, tuttavia, mi fecero sentire in colpa. Io avrei continuato a vivere la mia vita senza dover scontare nessuna pena, ma Emily invece? Lei era morta. E non avrebbe avuto giustizia, finché non si sarebbe scoperta tutta la verità su quella notte. Così io l'avrei scampata, e il suo assassino? Se anche lui o lei avesse ricevuto un'abile difesa, riuscendo ad evitare la condanna? 
Poi pensai a quanto fegato e sangue freddo dovessero avere gli avvocati per riuscire a sopportare tali ingiustizie ogni giorno, solo per poter ricevere un compenso. Non ce l'avevano un cuore? Delle emozioni?

«Che lavoro di merda» dissi, prima di portarmi le mani alla bocca. Mi era uscito involontariamente. «Scusami» aggiunsi.

«Ah, però, che Francese. E io che pensavo che fossi la cocca di mamma e papà e non conoscessi queste belle parole» disse, trattenendo una risata.

«Potrei aver ucciso la mia migliore amica e l'unica cosa per cui ti sorprendi, è una parolaccia che esce dalla mia bocca?»

«Già, proprio così. E comunque, devo dissentire: fare l'avvocato ha tanti aspetti positivi, primo fra questi il fatto di poter aiutare le persone a ricevere una degna difesa.»

«Già, ma quante di queste persone se lo meritano davvero? Quanti assassini, pedofili, ladri, spacciatori o stupratori sono stati assolti, senza ricevere la condanna che gli spettava? E quante probabilità ci sono che ripetano il crimine commesso una volta scagionati? E quante persone innocenti sono state accusate ingiustamente solo perché non potevano permettersi un buon avvocato? Negli Stati Uniti, una persona su venticinque fra quelle condannate, è innocente. Tutto questo è... profondamente sbagliato. E poi ho letto che sono molti gli avvocati che si lamentano ogni giorno del loro lavoro, definendolo demotivante e insoddisfacente. Inoltre, hanno il 3,6% di possibilità in più di cadere in depressione o di divorziare.»

Emise un piccolo ghigno, che non fui in grado di interpretare: era un ghigno di scherno, di divertimento o cos'altro? Se se ne fosse uscito con un'altra sua presa in giro, non so come avrei reagito. Quella statuetta con la bilancia morale non ce la vedevo male sulla sua fronte.

«Be', per essere una che sembra detestare questa professione, hai fatto molte ricerche a riguardo» disse. «Comunque, per quanto mi riguarda, gli aspetti negativi che hai descritto, non possono competere con la sensazione di gratificazione e soddisfazione che si deve provare nel momento in cui si vince una causa. Non si tratta soltanto di impararsi a memoria dei libri, ma di servirsi del loro contenuto, insieme alle proprie capacità intellettive, per riuscire ad aiutare qualcuno e migliorargli la vita. La legge è quella, non si può cambiare. Ma un avvocato, soltanto grazie all'utilizzo delle sue parole, della sua astuzia e del suo ingegno, riesce a fare l'impossibile e a ribaltare il risultato di un processo, ridando la speranza a qualcuno che credeva di essere ormai perso.»

Mi piaceva starlo ad ascoltare. Prima di tutto, perché non stavamo parlando di cose di materia giuridica riguardanti Emily e il possibile processo penale che avrei potuto dover affrontare. E poi, era sempre bello sentir parlare qualcuno di qualcosa di cui era fortemente appassionato. Inoltre, avevo sempre creduto che chi intraprendeva la stessa carriera dei genitori, lo facesse non per sua scelta, ma per l'influenza e la pressione subita da parte di essi, ma nel caso di David questo mia ideologia mi parve una sciocchezza. Si leggeva nei suoi occhi e si capiva dal modo entusiastico in cui parlava, che era fermamente convinto di quello che diceva e che amava il lavoro che il percorso di studi che seguiva gli avrebbe permesso di svolgere.

«Be', i miei complimenti: se qualcuno potesse farmi cambiare idea su questo lavoro, allora saresti sicuramente tu, dopo questo appassionato discorso.»

«Ah sì?» domandò sorpreso.

«Ho detto "se". Mi dispiace, ma continuo a pensare che gli avvocati siano solo dei bugiardi imbroglioni.»

«Io la definirei persuasione, l'arte di convincere le persone» ribatté.

«Mi sembra più giusto il termine "manipolazione". Ora comunque è meglio se tolgo il disturbo» dissi, dopo aver guardato l'orologio appeso al muro ed aver constatato che era il caso di andare.

Mi rivolse un altro dei suoi ghigni indecifrabili, prima di annuire e alzarsi dal divano. Mi alzai a mia volta e mi diressi verso la porta. David me la aprì per lasciarmi uscire e successivamente si appoggiò allo stipite, pronto a richiuderla nel momento in cui me ne sarei andata. «Mi raccomando, non saltare più la scuola» mi disse, e non seppi se prenderlo sul serio oppure se era soltanto una delle sue prese per i fondelli.

«Mi raccomando, non diventare depresso, o non divorziare.»

Mi sorrise e poi io mi voltai e mi allontanai. Tirai fuori il cellulare e, come temevo, avevo ricevuto numerose chiamate e messaggi da parte di Dylan, in cui mi chiedeva che fine avessi fatto. Per non farlo preoccupare per la mia misteriosa scomparsa, gli risposi che avevo preferito tornare a casa. 
Controllando meglio fra i vari messaggi, mi accorsi che ce n'era uno anche da parte di Tracey: "Puoi passare da me dopo scuola?".

"Non ci sono andata. Se vuoi fra dieci minuti sono da te."

"D'accordo, ma fai attenzione quando sei per strada: i miei sono appena usciti per andare a lavoro."

Mi infilai nuovamente il cappuccio in testa e presi a camminare verso la casa di Tracey. Forse tutto ciò che stavo facendo in quella giornata, non corrispondeva perfettamente alla mia idea iniziale di mantenere un profilo basso. Eppure, non mi sentivo più di tanto in colpa. Non avevo mai bigiato la scuola in sedici anni di vita e, ora che lo stavo facendo, avevo comunque delle buone motivazioni.

Arrivai a casa di Tracey dopo pochi minuti e, dopo avermi fatto togliere la felpa e le scarpe, mi condusse in cucina. «Stavo per fare colazione. Te vuoi qualcosa?» domandò.

Scossi la testa. «No, grazie. Sono a posto.»

«Stai scherzando? Spero che tu non stia per diventare pelle e ossa, Megan. Stai mangiando qualcosa in questi giorni?»

Erano le stesse parole che mi ripetevano i miei genitori da giorni. Come potevo fargli capire che non avevo fame? Mi rendevo conto che non fosse una cosa normale e che se avessi continuato in quel modo, mi sarei avviata verso la terribile e pericolosa strada dei disturbi dell'alimentazione, ma non potevo farci niente: avevo lo stomaco chiuso, costantemente.
Ma forse il mio era soltanto un blocco mentale, più che fisico. Come ero riuscita a smettere di scoppiare a piangere ogni dieci minuti, forse sarei riuscita anche a farmi tornare l'appetito. «Sai che ti dico? Forse un panino con la marmellata non mi dispiacerebbe» dissi, fingendo un sorriso.

«D'accordo. Vuoi anche un po' di tè? Lo sto preparando adesso.»

«Sì, per favore» risposi, mentre in cuor mio speravo di non vomitare dopo aver ingerito tutte quelle robe. Il giorno prima avevo mangiato solo un pacchetto di cracker e delle carote.

Dopodiché, mi avviai verso il bancone dove erano appoggiate le diverse marmellate e confetture. Scelsi quella all'albicocca e poi, mentre stavo per prendere il coltello per spalmarla sul pane, per poco il barattolo di vetro non cadde dalle mie mani. Cominciai a tremare e gli occhi mi si fecero lucidi. «C-che diavolo è quello?» chiesi a Tracey.

Immediatamente mi tornarono alla mente le immagini di venerdì sera. Io che trovavo il corpo di Emily, che tentavo di rianimarla, che toglievo il coltello dalla sua gola. E poi arrivava Tracey. Cercava di calmarmi, di convincermi ad allontanarmi e ad andare via, di lasciare tutto com'era e scappare. Il corpo di Emily poi era stato spostato e lanciato nel lago, ma il coltello con cui era stata uccisa invece era scomparso. L'arma del delitto non era stata più vista da nessuno, ad eccezione di me in questo momento. Che cosa ci faceva l'arma con cui era stata uccisa Emily, in casa di Tracey? Perché l'aveva rubata? E se...

«L'ho presa quando ce ne stavamo andando. Tu eri sotto shock e non te ne sei neanche accorta. Pensavo di fare la cosa giusta: c'erano le tue impronte sopra. Non potevo rischiare che la polizia la trovasse, così l'ho rubata» rispose Tracey con tono pacato, scrollando le spalle.

«E l'hai portato in casa tua?»

«Be', chi diamine verrebbe qui a cercarlo? E poi, ormai l'ho ripulito. Nessuno potrà mai capire che è lo stesso coltello usato per... be', lo sai.»

Rimasi in silenzio per un po'. Era davvero così oppure mi stava mentendo?

«Megan, perché non dici niente? Credi forse che sia stata io? Io mi sono fidata ciecamente di te, quando mi hai chiamata in lacrime e ti ho vista ricoperta del sangue di Emily. Non ho dubitato di te neanche per un secondo, perché sei la mia migliore amica e so che non faresti mai una cosa del genere. Quindi adesso ho bisogno che tu mi dia la stessa fiducia che hai ricevuto tu, Megan: mi credi?»

•••

Ecco a voi il quarto capitolo! Come potete vedere, Megan continua la lotta con se stessa. Sta scoprendo un nuovo lato di sé, un lato che non le piace e nel quale non si identifica, ma che, dopo un trauma del genere, era inevitabile che fuoriuscisse. È spaventata, e sta soltanto cercando di difendersi.
Allo stesso tempo, sta compiendo un percorso che la aiuterà a crescere e maturare: capisce che continuare a piangere, a disperarsi e a fare lo sciopero della fame, non riporterà la sua migliore amica indietro.

Grazie a David, l'ambizioso e presuntuoso futuro avvocato, riesce anche ad allontanarsi, seppur per poco tempo, dai suoi problemi e pensare ad altro. Inoltre, nonostante le sue paure e la sua diffidenza, riesce a raccontargli la l'autentica verità su quella sera e lui si mostra comprensivo e la rassicura: suo padre avrebbe fatto di tutto per farla assolvere.

Infine, Megan arriva a casa di Tracey e trova una terribile sorpresa: l'arma del delitto, infatti, non era mai stato ritrovata, poiché presa da Tracey prima che se ne andassero dalla festa. La ragazza si difende dalle accuse, dicendo che l'aveva fatto per proteggere Megan, dal momento che vi erano le sue impronte sopra il coltello. Dopodiché, implora l'amica di crederle, così come lei a sua volte le aveva creduto. Voi che pensate? Tracey dice la verità oppure nasconde qualcosa?

 




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