CAVALLO
SELVAGGIO
Capitolo 1
Spirava un vento gelido, che
faceva increspare la superficie delle pozzanghere e piegava i rami
spogli. Il cielo grigio prometteva neve.
Elmo e cotta di maglia, il fodero
della spada che gli sbatteva contro la coscia a ogni falcata, un
ragazzo stava correndo sul campo di manovra. Ansava pesantemente, il
sudore gli infradiciava l’uniforme non meno dell’acqua gelida.
“Non battere la fiacca!”
giunse dal limitare del campo.
Il ragazzo si girò fugace: il
maresciallo Tenhar, noto con il nomignolo di ‘Cinghiale’, non gli
staccava gli occhi di dosso. “Credi che sia già stanco?” ringhiò
fra sé e sé. Strinse i denti e aumentò l’andatura.
Raggiunse il primo degli
ostacoli, ovvero una parete di legno alta più di lui. Senza
rallentare si raccolse, spiccò un balzo e si issò sulla sommità
della barriera, poi la superò e si lasciò cadere dall’altra
parte.
“Più in fretta!” gli giunse
la rampogna del maresciallo, “Non stai facendo una passeggiata!
Muoviti!”
Il ragazzo riprese a correre.
Affrontò il Ponte, ovvero un tronco posto di traverso su una fossa
piena d’acqua. Il fango che aveva sotto gli stivali gli fece
perdere la presa e con un tonfo piombò giù. Annaspò appesantito
dalla cotta di maglia, raggiunse la sponda, si issò di nuovo sulla
terraferma.
Scrollò la testa per togliersi
il fango dal viso.
“Muoviti!” lo incalzò il
maresciallo.
I muscoli che bruciavano, un
nugolo di farfalle bianche davanti agli occhi, il ragazzo scattò
verso l’ostacolo successivo, ovvero un tratto di sentiero tagliato
trasversalmente da corde tese, che obbligavano a strisciare sui
gomiti e sulle ginocchia. A ogni fune erano assicurati dei
campanelli, che suonavano se essa veniva toccata.
Si buttò a terra. Il pantano lo
accolse con un abbraccio gelido, il fango gli si infilò nello scollo
dell’uniforme e nei polsi, si insinuò in ogni anello dell’usbergo,
lo costrinse a serrare le labbra per non farselo finire in bocca.
Il ragazzo strinse i denti e
continuò caparbiamente a strisciare. Si rialzò alla fine del
reticolo di corde e nell’aria si udì il suono fesso di uno dei
campanelli.
“Rifallo da capo!” tuonò il
maresciallo, “E tieni giù quella dannata testa, questa volta!”
Il giovane tornò all’inizio
dell’ostacolo e si lasciò cadere a terra, affondando così
profondamente nel fango da essere costretto a voltare la testa di
lato per respirare. Riprese ad avanzare, attraversò tutta la
struttura e quando ne fu uscito rimase a indugiare qualche istante
prima di rialzarsi.
“Muoviti!” lo incalzò
immediatamente Tenhar. “In piedi! Se in battaglia finisci per terra
come un idiota, credi che il nemico ti dia il tempo di rialzarti?”
Il ragazzo riprese a correre,
inseguito dalle rampogne di Cinghiale. Raggiunse un’altra parete di
legno, si raccolse e saltò, ma perse la presa e crollò
all’indietro, sollevando uno spruzzo di fango. Si rialzò
barcollando, saltò di nuovo, riuscì a issarsi e a far passare la
gamba dall’altra parte.
Si lasciò cadere e continuò la
corsa.
“Allora, ne hai avuto
abbastanza?” La voce di Tenhar, stranamente vicina, lo fece quasi
sussultare. Sbatté gli occhi: l’uomo era in piedi di fronte a lui,
con i pugni puntati sui fianchi e il cipiglio cupo.
Il ragazzo tremava così forte
che quasi non riusciva a rimanere fermo sull’attenti, era talmente
coperto di fango che il nero dell’uniforme si intravedeva solo dove
era arrivata l’acqua di qualche pozzanghera e si sentiva così
esausto che si sarebbe buttato a dormire anche su una fascina di
Spine di Orrin, tuttavia indurì lo sguardo, si costrinse a un ghigno
sprezzante e cercando di mantenere la voce ferma nonostante i
brividi, rispose: “Abbastanza, maresciallo? Mi hai scambiato per un
vecchio sottufficiale bolso?”
A quella provocazione, l’altro
rimase impassibile. Annuì grave, quindi in tono asciutto rispose:
“Molto bene, vedo che ti piace fare il duro. Ripeti tutto da capo e
vedi di correre davvero, questa volta.”
§
Il capitano Hyvardus, un colosso
anche per i criteri di Kjarr, si strinse il mantello nero
dell’uniforme intorno al collo e piegò leggermente la testa per
sfuggire alle raffiche gelide del maestrale. “Quest’anno la
primavera non vuole arrivare,” borbottò, seguendo con lo sguardo
l’unica foglia che svolazzava sull’immacolato piazzale della
caserma.
Il capitano Vadian, che camminava
al suo fianco, rispose: “Forse Hengrist non vuole farci sudare
troppo durante i Giochi.”
“E invece io voglio sudare,”
replicò l’altro con un sorriso compiaciuto. “Sudare e
sanguinare. Io e i miei ragazzi non saremmo arrivati qui dopo aver
sbaragliato ogni guarnigione della Marca di Wors, se avessimo solo
voluto fare qualche passeggiata per i viali della Capitale.”
“Non credo proprio che ci sarà
da passeggiare, quest’anno,” osservò Vadian, sistemandosi a sua
volta il pesante mantello sulle spalle, “e io sarò il primo che ti
darà filo da torcere, caro mio.”
Hyvardus si voltò a fissarlo.
“Tu?”
“Puoi scommetterci. I miei
ragazzi sono i migliori della Marca di Arhusk.”
L’altro alzò le spalle e
ghignò: “Quindi vuoi dirmi che sono più o meno delle fanciulle
dell’Amlinntal, giusto? Intrecciano anche ghirlande di fiori?”
“Prega che i tuoi uomini non si
trovino a gareggiare contro le mie fanciulle, o se ne torneranno
nella Marca di Wors con la coda tra le gambe!”
I due fecero una risata, si
scambiarono un paio di pacche sulle spalle, poi continuarono a
camminare in silenzio e per un po' gli unici rumori che si udirono a
parte il sibilo del vento furono i passi cadenzati degli stivali
militari e il tinnire delle cotte di maglia.
Alla fine, Vadian disse: “Voglio
controllare come hanno sistemato i nostri cavalli. Sono animali
abituati al contesto operativo.” Si guardò intorno, facendo
scorrere lo sguardo su edifici di pietra grigia, dall’architettura
rigorosa e solida, disposti lungo larghi viali alberati, dal lastrico
liscio come una tavola. “In questa calma si innervosiscono,”
soggiunse poi.
“Non è che vuoi solo passare
una mezz'oretta al calduccio nelle scuderie?” lo schernì Hyvardus.
“Parla quello che continua a
stringersi nel mantello come se fossimo in mezzo alle nevi del
Heiswegen.”
“A proposito di Heiswegen,”
replicò l'altro, ignorando la provocazione, “il comandante di
quella squadra è uno nuovo, vero?”
“Un verginello. Scommetto che
sarà nervoso come una recluta all'assegnazione del mentore.”
Passò un plotone di ragazzini
così giovani che avevano ancora l'uniforme chiara. Essi procedevano
inquadrati per quattro, comandati da un bambino un po’ più grande
con le insegne di caposquadra.
Quando si accorse di loro, questi
ordinò il saluto e gli altri lo eseguirono all’unisono.
Hyvardus e Vadian risposero
esattamente come avrebbero fatto con un plotone di adulti.
“Crescono bene,” considerò
il secondo quando il reparto si fu allontanato.
“Stavamo parlando del
verginello del Heiswegen,” gli ricordò Hyvardus.
Vadian si voltò a fissarlo.
“Sì?”
“Non è poi così verginello,
stando a quanto dicono. Pare che sul campo di battaglia sappia il
fatto suo.”
“Davvero?”
“È più giovane di noi ed è
già Luogotenente.”
Vadian alzò le spalle. “Potrebbe
essere anche Sovrintendente, poco importa. Conosci il proverbio:
durante i Giochi, i gradi non contano.” Fece una pausa, poi
soggiunse: “Comanda la squadra chi è più bravo, e fine.”
Di nuovo procedettero per un po’
in silenzio, poi Vadian chiese: “Sai per caso come si chiama?”
“Ehrenold.”
Il primo sollevò stupito le
sopracciglia. “Ehrenold? Ma allora è quello che è stato a
Yesgarion.”
Hyvardus aggrottò le
sopracciglia. “A Yesgarion?” ripeté.
“Assegnazione punitiva, lui e
un capitano di nome Rowden, che adesso fa parte della sua squadra.”
Entrarono in scuderia. L’edificio
era talmente grande che all’ingresso vi era una mappa su cui erano
riprodotti i diversi corridoi con le poste e i reparti cui erano
state assegnate. Ampie finestre dai vetri immacolati illuminavano
l’ambiente, l’aria era tiepida per la presenza di innumerevoli
cavalli. A parte il rumore degli animali che masticavano la biada o
si spostavano sulla lettiera, regnava un perfetto silenzio. Una
squadra di soldati in uniforme da fatica stava pulendo uno dei
corridoi. Uno di essi stava imbiancando una posta vuota, gli altri
lavavano il pavimento con secchi e spazzoloni. Quando si accorsero di
loro, interruppero ciò che stavano facendo per mettersi sull’attenti
e salutare.
Gli ufficiali risposero al
saluto, quindi Vadian ne approfittò per chiedere: “Dove sono i
cavalli di Arhusk?”
Subito un soldato rispose:
“Corridoio tre, poste dal sedici al venti, capitano.”
“Grazie.”
“Dovere, capitano.”
I due ufficiali salutarono e si
mossero nella direzione indicata. Dopo un po’, Hyvardus riprese:
“Mi parlavi di un’assegnazione punitiva.”
“Lui e quel Rowden,” confermò
Vadian.
“Si sono fatti sorprendere
mentre facevano le cose private?”
“No, non stanno insieme, sono
solo amici.”
Hyvardus fece una risatina e
replicò: “Sai bene che per fare le cose private non è necessario
stare ufficialmente insieme. L’importante è che rimangano private,
lo dice la parola stessa.”
“Lo so come funzionano, ma non
ti mandano a Yesgarion solo perché ti sei fatto beccare mentre
scopavi da qualche parte.”
Di nuovo tra i due calò il
silenzio. Solo dopo un po’, Hyvardus disse: “Certo che è strano:
prima finisce a Yesgarion per aver fatto non si sa cosa col suo amico
e poi diventa Luogotenente a… quanti? Venticinque anni?”
“Così pare,” fu la cauta
risposta di Vadian, che dopo qualche secondo aggiunse: “Dicono che
laggiù abbia anche ucciso un illdin da solo, con un coltello.”
“Un illdin? Da solo?”
“Con un coltello,” precisò
Vadian.
§
Il capitano Wardan salì le scale
che conducevano alla tribuna d’onore, attraversò il colonnato di
pietra bianca che la delimitava, percorse la larga terrazza e si
spinse fino al limitare di essa. A quel punto si pose i pugni sui
fianchi e rimase immobile, il vento che gli agitava appena il manto
nero. Strinse gli occhi chiari e fece scorrere lo sguardo sull’arena:
una costruzione poderosa, immensa, talmente solida e possente che
sembrava sorta dalla terra, più che fabbricata dall’uomo:
contrafforti squadrati, come fatti per resistere a onde immani,
gradinate altissime, che sembravano perdersi all’orizzonte e solo
lontano si piegavano a delimitare un perfetto ovale. Erano già state
issate le bandiere delle Dodici Marche, che schioccavano al vento
intorno al vessillo dell’Imperatore.
Wardan cercò con lo sguardo
quella della Marca di Gunefort, un guanto d’arme chiuso a pugno,
argento in campo nero, e le labbra gli si stirarono in un lieve
sorriso. Subito dopo il suo sguardo si spostò verso il vessillo
della Marca di Heiswegen, una chiave, sempre argento in campo nero. A
quel punto l’ufficiale aggrottò le sopracciglia e sibilò
un’imprecazione.
Udì dei passi alle proprie
spalle e si voltò bruscamente, la mano già posata sul pomo della
spada.
“Sono io, capitano,” disse un
maresciallo avvicinandosi.
Wardan rilassò le spalle. “Ah,
Gerd.” Tornò a voltarsi verso lo stadio. “Costruzione grandiosa,
non è vero?”
Il sottufficiale lo raggiunse e
gli si affiancò. Fece a sua volta scorrere lo sguardo sull’enorme
arena e rispose: “Davvero magnifica, capitano.”
I due rimasero per un po’ in
silenzio, quindi Wardan chiese: “Cosa ne pensi delle altre squadre,
Gerd?”
L’uomo annuì come se si fosse
aspettato esattamente quella domanda. “Sono forti,” rispose.
Lasciò passare qualche istante, poi in tono di soddisfazione
soggiunse: “Quest’anno i Giochi saranno piuttosto duri.”
“È bene che lo siano,” fu la
risposta, “a nessuno piacciono le vittorie troppo facili.” fece
una pausa, durante la quale mosse qualche passo lungo il bordo della
tribuna, quindi proseguì: “Quasi
a nessuno, mi correggo.”
Il maresciallo si voltò a
fissarlo. “Sarebbe a dire, capitano?”
Wardan fece un sorriso tirato.
“Sai di cosa parlo. C’è qualcuno che ama approfittare delle
occasioni a proprio vantaggio, dimenticandosi che se combatte lo fa
per Kjarr e non per se stesso.”
Gerd si limitò ad assentire come
di fronte a un discorso udito già molte volte, l’altro proseguì:
“Ti ricordi la battaglia di Aleet, maresciallo?”
“Una grande vittoria,
capitano.”
“Già, una grande vittoria.
Funestata dagli sciacalli, però.”
Il maresciallo mantenne il
silenzio e per un po’ l’unico rumore che si udì fu lo schioccare
lontano delle bandiere. “Funestata dagli sciacalli,” ripeté il
capitano. “Da uno
sciacallo, in particolare, che ha sottratto con l’inganno la preda
che il leone aveva conquistato.” Si voltò verso il suo subalterno,
forse in attesa di una risposta che però non giunse. Di nuovo
tacque, allora, e si mosse a passi svagati sulla grande tribuna
deserta. Si voltò verso l’arena e al posto della distesa d’erba
giovane che la copriva rivide il terreno ondulato e brullo della
piana di Aleet. Gli parve di risentire le urla dei soldati, il
clangore delle armi, i nitriti dei cavalli. Rivide il varco che
all’improvviso si era creato nello schieramento nemico e provò la
stessa ebbrezza di allora, la stessa esaltazione.
Scrollò la testa come per
liberarsi di un fastidioso ottundimento, quindi ringhiò: “E alla
fine lo sciacallo si è ritrovato Aiutante e poco dopo Luogotenente,
mentre il leone è rimasto Capitano.”
Il maresciallo si limitò a
fissarlo senza proferire verbo, Wardan allora chiese: “È forte la
squadra di Heiswegen?”
“È una delle più forti,
capitano.”
L’ufficiale fece un sorriso
ferino. “Quindi possiamo aspettarci di gareggiare con loro in
finale?”
“Io credo di sì, capitano. Non
scommetterei su Essl o Rhenigtas, perlomeno non quest’anno, ma
Heiswegen sarà un osso duro.”
“Farò in modo che il suo
comandante assaggi un po’ della polvere che mi fece mangiare a suo
tempo.”
Il maresciallo aggrottò appena
le sopracciglia, quindi in tono sospettoso chiese: “Cos’hai in
mente, capitano?”
Wardan fece un sorrisetto
compiaciuto e rispose: “Niente che vada contro il regolamento,
Gerd, lo sciacallo non merita che mi sporchi le mani per lui.”
Il maresciallo non parve
convinto. “Capitano, ti conosco da quando eri Allievo. Dimmi
cos’hai in mente.”
In tono tranquillo, l’ufficiale
rispose: “Te l’ho detto: niente che vada contro il regolamento.”
Poi alzò di nuovo lo sguardo verso le bandiere che garrivano contro
il cielo terso e concluse: “Ma se Hengrist non ha avuto voglia di
fare giustizia dall’alto del suo trono celeste, allora sarà io a
farla, in mezzo a quell’arena.”
§
Il Luogotenente Ehrenold strinse
le dita sulle redini e il suo possente destriero da guerra sbuffò e
scosse la criniera. “Buono,” gli disse l’ufficiale. Rinsaldò
la presa delle ginocchia per riportarlo all’obbedienza.
L’uomo che cavalcava al suo
fianco sorrise. “Ha capito che tra poco arriveremo alle scuderie.”
“Stupido filone.”
“Furbastro, invece, non ti
pare?” Poi, dopo una pausa: “Gli animali non sono tenuti come noi
a far vedere che disprezzano le comodità.”
“Non cominciare, Rowden.”
“È tutto il giorno che stiamo
in sella. È normale che i cavalli cerchino il riposo, no?”
Ehrenold non rispose. La Capitale
era ancora fuori vista, ma già lungo la strada si incontravano a
intervalli regolari posti di guardia presidiati da reparti scelti.
Avevano oltrepassato da poco quello dove lui stesso aveva prestato
servizio come Allievo, poco dopo aver ottenuto l’uniforme nera.
Ricordava bene Herburg, l’idea
di tornarci quasi gli faceva venire la tentazione di lasciare le
redini sul collo del cavallo, in modo che l’animale potesse
allungare il passo come da un po’ stava tentando di fare.
La voce del capitano lo distrasse
dalle sue meditazioni: “Tu ci sei cresciuto, vero?”
“Sì.”
“E che effetto ti fa tornarci?”
Ehrenold strinse le labbra.
“Nessuno in particolare. Spero solo che la squadra si comporti
onorevolmente ai Giochi.”
Rowden alzò le spalle e rispose:
“Per quello direi che puoi stare sicuro, i ragazzi non vedono l’ora
di battersi.”
Trascorse qualche minuto in cui
gli unici rumori che si udivano furono lo scalpiccio regolare degli
zoccoli e il tinnire dei finimenti, poi il capitano chiese: “È
bella come dicono?”
Ehrenold si voltò a fissarlo.
“Che cosa?”
“La Capitale.” Poi, quasi in
tono di scusa, soggiunse: “Non ci sono mai stato.”
Il Luogotenente si raccolse in
meditazione per un po’. “È grande,” proferì infine, “i
viali sono larghi come fiumi, le caserme possono contenere mille
soldati ognuna.”
“E com’è l’Arena?”
Ehrenold aggrottò appena le
sopracciglia, infine rispose: “Il terreno è buono, ma nella parte
nord tende a essere un po’ pesante, perché rimane più in ombra e
fa fatica ad asciugarsi. Dovremo tenerne conto quando ci saranno le
gare con i cavalli.”
Rowden sorrise. “Ma no, non
intendevo quello. È veramente immensa come dicono?”
“È molto grande.”
“Più di quella di Wesburg?”
“Sì, molto di più.” Poi,
dopo una pausa: “I ragazzi dovranno sfruttare ogni attimo
dell’allenamento per abituarsi alle sue dimensioni.”
L’altro si limitò a scuotere
la testa con un lieve sorriso.
Passò altro tempo, la squadra
continuava a procedere in formazione di marcia lungo la strada.
All’orizzonte, pur nella luce che andava calando, cominciavano a
profilarsi le cuspidi aguzze delle torri che circondavano il
Castello, ovvero la poderosa fortificazione, grande da sola come una
piccola città, che racchiudeva i principali edifici di Herburg.
Nella massa scura del maniero tremolavano qua e là dei fuochi, che a
quella distanza brillavano come gemme dorate.
“Sei nervoso?” chiese d’un
tratto Rowden.
Ehrenold si voltò a fissarlo
serio. “Non più di quanto potrei esserlo alla vigilia di una
qualsiasi battaglia.”
Il primo gli rivolse un lieve
sorriso. “Beh, qui è un po’ diverso, non ti pare?”
“Nel senso che non rischiamo la
morte?”
“Ma rischiamo il disonore.”
Ehrenold non replicò: Rowden
aveva dato voce al pensiero che lo tormentava da quando avevano
lasciato la guarnigione per raggiungere la Capitale. Per quanto non
comportasse alcun rischio di morire o rimanere menomati, dare cattiva
prova di sé ai Giochi – mostrarsi inetti, deboli o poco combattivi
– sarebbe stato infinitamente peggio che cadere in modo eroico in
battaglia.
§
Esausto, infreddolito, coperto di
fango dalla testa ai piedi, il ragazzo tornò con passo pesante verso
gli alloggiamenti. Si diresse ai lavatoi e dapprima cercò di
togliersi di dosso l’equipaggiamento fradicio, ma aveva le mani
intorpidite e vi rinunciò quasi subito: come era d’uso fare in
casi del genere, si buttò sotto il getto dell’acqua completamente
vestito. Per un po’ rimase semplicemente fermo con le mani
appoggiate alla parete e lo sguardo fisso sulla cateratta limacciosa
che dai suoi piedi scorreva gorgogliando verso lo scolo, poi, quando
l’acqua che scendeva nello scarico divenne accettabilmente
incolore, si spostò e cominciò a togliersi ciò che aveva addosso,
lasciando man mano cadere in un mucchio le varie pari
dell’equipaggiamento. Sarebbe stato tutto da lavare e ingrassare
per il mattino dopo, o non avrebbe passato l’ispezione e Cinghiale
l’avrebbe punito di nuovo.
Rialzò il capo con un gesto
sprezzante e fece per allontanarsi.
Una voce lo fermò: “Aspetta,
ti aiuto.”
Il ragazzo si voltò in quella
direzione: sulla porta c’era uno della sua squadra. “Dovresti
essere in camerata,” si limitò a dirgli.
“Anche tu,” fu la risposta,
“domani c’è la marcia di quindici miglia.”
Il primo si limitò ad alzare le
spalle con noncuranza, ma l’altro si avvicinò e dal mucchio
fradicio di armi e vestiti estrasse la cotta di maglia. “Se
Cinghiale ti vede una cosa del genere, ti fa fare tutto il percorso
di guerra con uno zaino di pietre in spalla.”
“Sai che novità.”
Il nuovo arrivato non se ne diede
per inteso: portò la cotta di maglia sotto il getto dell’acqua, la
sciacquò fino a che non fu completamente libera dal fango, poi la
appese a sgocciolare. “Domattina la ingrassiamo,” lo informò,
“così sei a posto.”
“Perché lo fai, Enes?”
L’altro lo fissò con aria di
non capire. Dopo qualche secondo rispose: “Perché siamo camerati,
perché tu faresti lo stesso per me.”
Il ragazzo ebbe un ghigno. “Non
ne sarei così sicuro.”
Enes alzò le spalle. “Lo sanno
tutti che nella marcia di Seriss quando Perr si è storto la caviglia
hai portato tu il suo zaino e l’hai anche aiutato a camminare.”
“Era una cosa diversa.”
“Non mi pare.”
Per un po’ il ragazzo rimase in
piedi in mezzo alla stanza con aria irresoluta. Avrebbe voluto
andarsene da qualche parte, fregandosene di Cinghiale e delle sue
punizioni, ma Enes continuava a raccogliere la sua roba un capo dopo
l’altro e a sistemarla. Per un attimo fu quasi tentato di cacciarlo
via, poi però si risolse a farsi avanti. “In due finiamo prima,”
brontolò.
“Mettiti addosso qualcosa di
asciutto,” gli consigliò l’altro, “altrimenti ti prendi un
malanno.”
Dopo un po’ che lavoravano,
Enes disse: “Ti conviene rigare dritto per un po’, altrimenti
Cinghiale non ti farà assistere ai Giochi.”
“Sai cosa me ne importa degli
stupidi Giochi,” ringhiò l’altro sprezzante.
Il primo lo fissò come se non si
capacitasse di ciò che aveva appena udito. “Vuoi perderti
l’occasione di vedere i soldati migliori di Kjarr?”
L'altro si limitò ad assumere
un’espressione di degnazione. “Non mi importa che siano i
migliori o i peggiori. Non leccherò certo i piedi al Cinghiale per
andarli a vedere.”
Enes scosse la testa come di
fronte a un'affermazione assurda. “Ma lo sai di cosa stai
parlando?” gli chiese.
“No, e non me ne frega niente.”
“Davvero non sai nulla dei
Giochi?”
Il ragazzo incupì lo sguardo.
“Dovrei?”
“Sono settimane che tutti ne
parlano.”
I due tacquero e per un po' si
limitarono ad allineare su una corda tesa indumenti gocciolanti. Dopo
un po', Enes disse: “Prima selezionano la squadra migliore di ogni
guarnigione ed esse si affrontano nei Giochi della Marca. Chi vince
ha l’onore di gareggiare qui a Herburg.”
“Nientemeno,” commentò
ironico l’altro.
“Sono i soldati migliori,”
ripeté Enes, “i più forti e i più abili nella guerra. È un
grande onore entrare in una squadra dei Giochi.” Fece una breve
pausa, quindi proseguì: “Io mi sto già allenando il più
possibile e spero che quando sarò assegnato a una guarnigione mi
noteranno.”
L'altro non rispose.
“A te non piacerebbe entrare in
una squadra?”
Il ragazzo aggrottò le
sopracciglia e in tono duro rispose: “Non me ne importa
assolutamente niente.”
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