ReggaeFamily
WHAT
A BULLSHIT!
Non
lo avevo mai visto così nervoso. Da quando ci trovavamo in
albergo, infatti, John non aveva fatto che camminare avanti e
indietro per la hall, uscendo molto spesso a fumare.
Lo
sentivo, era stanco di quella situazione, di quelle continue
pressioni da parte della stampa; lo ero anche io, ma forse riuscivo a
non pensarci troppo per via del mio attuale lavoro con gli Scars On
Broadway, il mio ormai avviato progetto parallelo ai System.
Dal
canto mio, me ne stavo seduto su uno dei divanetti della hall; quello
era solo uno dei tanti alberghi che avevo visitato da quando
viaggiavo in quanto musicista, non facevo neanche più caso ai
dettagli di arredamento. Era come se fossero tutti uguali.
Stavamo
aspettando che l'ennesimo giornalista venisse a intervistarci. Ormai,
io e John avevamo accettato e non potevamo più tirarci
indietro, altrimenti il nostro manager ci avrebbe strozzato. La
voglia di correre in camera e dar buca a quegli avvoltoi era fin
troppa, ma tentai di essere ragionevole.
Ci
provai perché notai che John non lo era, lui che in genere
riusciva sempre a mantenere la calma e non dare di matto. La cosa mi
faceva sorridere, era buffo rendersi conto che io, Daron Malakian
l'impulsivo e burbero, sembravo il più rilassato in quel
momento.
John
rientrò nella hall seguito da un'avvenente giornalista bionda
e ben vestita, che già cinguettava con il corpulento
batterista e gli posava distrattamente una mano sul braccio.
Detestavo
quando ciò accadeva, perché puntualmente mi ritrovavo a
dover accettare ciò che provavo per John, il che mi mandava
ancora di più nel pallone.
«Daron
Malakian, che piacere conoscerti!» mi si rivolse la giovane,
piegandosi in avanti per tendermi la mano, con il chiaro intento di
mostrare il suo fondoschiena a John.
Non
ricambiai la stretta e la fissai, finché lei non si raddrizzò
e frugò nella sua borsa con un leggero imbarazzo
nell'atteggiamento.
Stavamo
decisamente cominciando con il piede sbagliato.
«Allora,
ragazzi... parlatemi un po' di quali sono le intenzioni dei System Of
A Down. I vostri fan non sentono nuova musica dal 2005, è
logico che siano un po' infastiditi» cominciò la bionda
giornalista.
Si
chiamava Tricia Andersen e non faceva che fissarmi con insistenza,
accavallando le gambe e lanciandomi occhiate eloquenti.
Strinsi
le mani sui braccioli della poltrona in pelle color crema e lasciai
che fosse Daron a parlare. Non mi sentivo assolutamente in vena di
interviste, ma mi toccava almeno fare la mia presenza.
Mentre
Tricia fissava me, io lanciavo occhiate di sottecchi al mio amico,
osservando come i suoi capelli lunghi e lisci ricadevano sulle sue
spalle rilassate e come le sue labbra si muovevano piano e
controvoglia per fornire una risposta a Tricia.
«Abbiamo
dichiarato più volte che qualcosa non va, che non siamo ancora
pronti a far uscire un album, nonostante il materiale non ci manchi.
Io mi sto dedicando agli Scars, John ha il suo negozio di fumetti,
gli altri ragazzi hanno un sacco da fare... prima o poi ci
incontreremo e decideremo qualcosa» borbottò Daron.
La
giornalista annuì poco convinta. «Avete del materiale
pronto. Perché non farlo uscire?» proseguì
imperterrita.
Il
chitarrista rise sarcastico. «L'ho appena detto, no?»
Lei
fece un sorriso accattivante nella mia direzione. «Tu cosa mi
dici, John?»
Mi
lasciai sfuggire un sospiro. «Dico che sono d'accordo con il
mio collega» mi limitai a replicare.
Incrociai
per un attimo gli occhi scuri e grandi di Daron e vi lessi una
scintilla che non mi piacque per niente.
Non
avevo idea di cosa avesse in mente, e non mi sentivo pronto a
scoprirlo.
«Tricia,
senti... non sei stanca di fare sempre le stesse domande?»
apostrofai la bionda, protendendomi in avanti per risultare un po'
più vicino e invadente con lei.
Mi
ero già stufato di quelle stronzate e notavo che John non ne
poteva davvero più; volevo divertirmi un po' e tastare il
terreno, in fondo nessuno mi impediva di provarci con quella tipa.
Avevo
notato che ultimamente il batterista sembrava piuttosto seccato
nell'assistere alle mie conquiste amorose, perciò volevo
capire se ciò fosse concreto o se si trattasse solo di una mia
stupida illusione.
«È
il mio lavoro, Daron» puntualizzò la giovane, ostentando
una professionalità che non le apparteneva affatto.
Allungai
una mano e la poggiai sul suo ginocchio, fasciato solo dalla stoffa
trasparente delle calze. «Ti andrebbe di bere qualcosa con
noi?» mormorai suadente, senza staccare gli occhi dalla sua
provocante scollatura.
Tricia
si sciolse in un sorriso malizioso. «Con voi?»
Annuii. «O forse
preferisci che vi lasci soli?» domandai, accennando appena a
John.
Gli lanciai una rapida
occhiata e lo trovai teso e pallido, con le mani strette sui
braccioli della poltrona che occupava. Mi dovetti trattenere per non
sorridere trionfante.
«No, ma figurati!
Siete due ragazzi simpatici! Però, vi faccio prima un paio di
domande ancora... poi...»
«Scusate»
gracchiò il batterista, per poi mettersi di scatto in piedi.
«Non mi sento molto bene. Tricia,
grazie per l'intervista, puoi continuare a intervistare Daron se
vuoi.»
Io e la giornalista ci
guardammo confusi, mentre il mio amico si allontanava e camminava a
passo spedito verso l'ascensore.
«Mi dispiace, oggi
John è molto stanco, perdonalo» dissi, sorridendo
forzatamente in direzione della bionda.
In realtà avrei
voluto soltanto alzarmi e seguire il batterista. Forse avevo
esagerato, non avrei dovuto infastidirlo in una giornata negativa
come quella.
«Può capitare.
Bene, Daron, dimmi un po': cosa pensi dei tuoi fan? Perché
credi che siano così accaniti nei vostri confronti?»
insistette Tricia.
Non sopportavo più
quelle stupide domande, eppure decisi di resistere un altro po'.
La giornata era già
di per sé una merda, in più Daron aveva fatto lo
stronzo e ci aveva provato con quella giornalista bionda e ficcanaso.
Me ne stavo nel balcone
della nostra stanza doppia a fumare l'ennesima sigaretta, mentre
cercavo di calmarmi. Non era da me comportarmi in quel modo, avrei
dovuto essere professionale, rispondere alle domande con pacatezza e
non dare a vedere ciò che stavo provando mentre le dita di
Daron si posavano sensualmente sul ginocchio di quella donna.
Mi
chiedevo perché avesse toccato in quel modo una
sconosciuta e non lo avesse mai fatto con me.
Scossi il capo e aspirai
un'altra boccata di fumo.
Perché
lei è una donna e tu un uomo, idiota!
La mia coscienza aveva
ragione, non dovevo neanche pensarci.
Sentii la porta della stanza
aprirsi e richiudersi di scatto, poi la voce squillante di Daron mi
chiamò: «John, dove cazzo sei? Che ti è preso?».
Rimasi in silenzio e
aspettai che mi trovasse. Non fu difficile, poiché avevo
lasciato la portafinestra socchiusa.
Il chitarrista mi raggiunse
e mi affiancò, appoggiando i gomiti sulla balaustra in ferro
battuto. Si accese una sigaretta e fumò in silenzio per un
po'.
Cercai di ignorare l'impulso
che sentivo di toccarlo, afferrarlo per le spalle e dirgli che mi
aveva fatto male notare quell'atteggiamento nei confronti di quella
giornalista.
Socchiusi le palpebre e
diedi l'ultimo tiro alla stecca di tabacco che tenevo tra l'indice e
il medio della mano sinistra.
«Che ti è
preso, John? Senti, lo so che questa cazzo di situazione non ti
piace, amico! Non piace neanche a me, sia chiaro, ma cerco di
distrarmi. Finché non riusciremo a risolvere le cose, però...»
«Sta' un po' zitto»
tagliai corto, schiacciando la cicca sul ferro, poi la lanciai
lontano e diedi le spalle al panorama notturno della città.
Daron si voltò a
guardarmi e si mostrò perplesso dal mio inconsueto
comportamento.
Rimasi a fissarlo con
durezza e freddezza per un po', incrociando le braccia sul petto per
evitare di mostrare le mani che tremavano leggermente.
Ero seriamente senza parole.
Non capivo cosa avesse, era nervoso come lo avevo visto davvero poche
volte nella mia vita.
Mi pentivo amaramente di
averci provato con quella donna, a me non importava niente di lei e
non era neanche il mio tipo. Troppo impicciona e spudorata per i miei
gusti. Forse avevo colpito John nel punto giusto, ma avrei dovuto
andarci piano.
Feci un passo verso di lui e
gli posai cautamente una mano sulla spalla. «Ehi, dai, calmati»
sussurrai, leggermente spaventato da lui.
John si scrollò la
mia mano di dosso e distolse lo sguardo dal mio, liberando dalla
morsa gelida dei suoi occhi scuri e penetranti.
Sospirai e sollevai le mani
in segno di resa. «Okay, me ne vado a fare un giro»
conclusi, poi feci per avviarmi verso l'interno della stanza.
Quando ero ormai sulla
soglia della portafinestra, però, fui costretto ad arrestarmi.
Sentii la mano grande e forte di John afferrarmi saldamente per un
polso e il cuore fece una capriola disordinata all'interno del mio
petto.
Non ebbi il coraggio di
voltarmi, mi limitai a stare immobile, in attesa che facesse o
dicesse qualcosa.
La sua mano libera, la
sinistra, si spostò sulla mia nuca, mentre le sue dita si
insinuavano tra i miei capelli. Lasciò andare il mio polso e
fece lo stesso con la mano destra, prendendo ad accarezzare
lentamente i miei capelli. Districò qualche nodo e proseguì
con dolcezza a toccarmi come non aveva mai fatto.
Io non riuscivo a respirare,
ero pietrificato.
Non aveva idea di che cazzo
stessi facendo. Perché avevo cominciato a toccare Daron in
quel modo? Eppure, lo stavo facendo e non riuscivo a fermarmi, ormai
era troppo tardi.
Avevo sognato di sentire le
ciocche dei suoi capelli tra le dita, avevo desiderato di percorrerle
in tutta la loro lunghezza, avevo voluto farlo da tempo immemore per
rendermi conto di quanto fossero morbide e setose.
Socchiusi gli occhi e
continuai ad accarezzarlo, sentendo la pelle della sua nuca e del suo
collo rabbrividire sotto il mio tocco leggero e gentile.
«John... cosa cazzo
stai facendo?» sbottò Daron in tono stridulo, senza però
ritrarsi.
Non sapevo come
giustificarmi, non ero bravo con le parole. Provai a pensare a
qualcosa, ma il risultato fu piuttosto disastroso.
«Quella giornalista...
aveva dei capelli bellissimi, ma certo non potevo toccarglieli...»
buttai lì, sentendomi un vero e proprio coglione. Ringraziai
tutti i santi del Paradiso perché Daron era voltato di spalle
e non poteva vedere quanto stessi arrossendo.
«Cosa? Secondo me le
sarebbe piaciuto molto» replicò il chitarrista confuso,
poi aggiunse: «E io sarei il sostituto della bionda sexy dai
capelli bellissimi?».
«Sì. Sono
incazzato, perché le hai toccato il ginocchio? Ci provava con
me, non hai visto?» proseguii, senza riuscire a staccare le
dita dalla seta soffice e bruna dei suoi capelli.
«Ecco cosa ti è
preso, allora.» Di scatto, Daron si scostò da me e si
voltò a fissarmi. I suoi occhi risultarono ancora più
grandi, dilatati per la rabbia improvvisa che si era impossessata di
lui.
«Ho immaginato che
quei capelli fossero di Tricia» proseguii, peggiorando
ulteriormente la mia già critica situazione.
Quel giorno non ero proprio
in me, dovevo aver fumato troppo.
Daron inclinò
leggermente il capo di lato e sorrise con malizia. «Te la vado
a cercare, se proprio ci tieni. Ma ho la vaga impressione, Dolmayan,
che tu stia dicendo un mucchio di stronzate.»
Feci un passo indietro e
abbassai lo sguardo, avvampando violentemente per l'ennesima volta.
Sei
un grandissimo coglione, mi
dissi, fissandomi le mani.
Poi avvertii un tocco
leggero sulla guancia e sollevai di scatto il capo.
Era tenero, dolce e
adorabile. A vederlo così, grande e grosso, pareva quasi
incutere timore. In effetti ero stato un po' spaventato dalla sua
rabbia di poco prima, ma mi diedi dell'idiota: John non avrebbe mai
fatto male a una mosca.
Carezzai piano la sua
guancia rotondetta e punteggiata di barba, mentre i miei occhi
percorrevano il suo viso e si spostavano sulle sue braccia forti e
muscolose.
«Allora? Hai il
coraggio di ripetermi tutte quelle stronzate guardandomi negli
occhi?» gli chiesi, desiderando ardentemente che le sue mani
tornassero a intrecciarsi tra i miei capelli e che le sue braccia si
avvolgessero attorno al mio corpo, scaldandolo e tenendolo al sicuro
come avevo sempre voluto.
John scosse
impercettibilmente il capo e lasciò cadere le braccia lungo i
fianchi, lasciando che le mie carezze cullassero la sua pelle
rovente. Aveva il viso in fiamme e teneva gli occhi socchiusi.
Feci un passo avanti e
afferrai le sue grandi mani, guidandole sui miei fianchi. Mi premetti
contro di lui e lo strinsi in un abbraccio, sentendo il suo calore
intenso pervadermi completamente.
John sospirò contro
il mio orecchio e fece scorrere le mani fino a raggiungere nuovamente
i miei capelli. «Sono morbidi. Usi un balsamo speciale?»
domandò.
Risi,
affondando il viso contro la sua spalla. Il suo odore era un misto di
fumo e tensione, era indescrivibilmente
dolce e sensuale per le mie povere narici.
Sollevai il capo e tenni le
braccia attorno al suo collo, cercando i suoi occhi. Li trovai
lucidi, caldi, senza alcuna traccia della durezza e la freddezza che
vi avevo letto poco prima.
«Se continui a
toccarli, si sporcheranno nel giro di un'ora» buttai lì.
John si chinò in
fretta su di me e premette le sue labbra sulle mie, tenendomi premuto
contro di sé e spingendo delicatamente sulla mia nuca per
accostarmi maggiormente a lui.
Non poteva essere successo
davvero, non tra noi due, non dopo tutto il tempo che avevo trascorso
a desiderarlo.
Lo baciai con calma,
prendendomi tutto il tempo er assaporare le sue labbra e per giocare
sensualmente con la sua lingua. Daron sapeva di tabacco e di erba, le
stesse fragranze che impregnavano sempre i suoi vestiti e i suoi
capelli.
Le sue mani percorsero le
mie spalle e presero a tracciare il profilo dei miei muscoli nascosti
dal tessuto leggero della mia felpa in cotone. Ogni carezza era un
brivido profondo, ogni bacio era un'emozione indescrivibile da
aggiungere alla miriade che solo Daron sapeva trasmettermi.
Ci
staccammo per riprendere fiato e rimanemmo, naso contro naso, a
guardarci negli occhi e a sorriderci
come due ragazzini alle prese con la loro prima cotta adolescenziale.
«Lo abbiamo fatto
davvero?» chiese Daron.
«Mi sa di sì.
Non ti andava?»
Portò le mani sulle
mie guance e mi lasciò un leggero pizzicotto. «Idiota»
gracchiò.
Avvolsi la sua vita con un
braccio e lo spinsi dentro la stanza, per poi chiudere la
portafinestra con una spinta decisa. Quella sbatté con un
tonfo secco e la camera fu immersa nel silenzio più totale,
isolata dai rumori della città.
Osservai con fare critico i
due letti posti al centro dello spazioso ambiente, rendendomi conto
che erano separati e che sarebbe stato impossibile stare comodi.
«Li attacchiamo? Sai,
quando ero piccolo, con i miei cugini lo facevamo spesso. La scusa
era di fare un pigiama party, ma finivamo sempre per addormentarci
dopo neanche mezzora» raccontò Daron.
«Allora facciamo il
pigiama party anche noi?» proposi con una sottile ironia nella
voce. Mi sentivo decisamente più rilassato, ero contento che
tutta la tensione che avevo provato si fosse finalmente dissolta
quasi del tutto.
Daron si voltò e mi
rivolse un'occhiata languida. «Senza pigiama però»
sghignazzò.
Gli mollai uno scappellotto.
«Datti una mossa e aiutami a spostarli.»
Ci eravamo sdraiati sul
letto e rintanati sotto le coperte, senza però osare
spogliarci. Avevo scherzato con John, ma non avevo alcuna intenzione
di accelerare i tempi.
Me ne stavo appallottolato
contro il suo ampio petto e dormicchiavo, mentre lui continuava ad
accarezzare delicatamente i miei capelli e teneva il braccio destro
attorno alla mia vita.
«Ma ti piacciono
proprio i miei capelli, eh Dolmayan?» lo punzecchiai,
allungandomi per lasciargli un piccolo bacio sul mento.
«Si nota tanto?»
chiese.
«Abbastanza.»
«Non sai da quanto
tempo volevo toccarli» ammise, facendosi mortalmente serio. Non
potevo vederlo, ma ero quasi certo che fosse arrossito in quel modo
così tenero che mi faceva perdere la testa.
«Allora non sarò
io a fermarti» lo rassicurai, carezzando lentamente il suo
torace.
Era rassicurante stare tra
le sue forti braccia, sentivo come se niente potesse ferirmi, come se
tutti i problemi legati alla band non esistessero più, come se
nessun giornalista potesse scalfirmi.
E mentre mi lasciavo cullare
dalla sua infinita dolcezza, mi resi conto che era successo davvero,
che finalmente potevo stargli vicino come avevo sempre voluto.
Un'altra intervista,
un'altra tortura.
Tuttavia quella mattina,
dopo aver dormito abbastanza scomodamente su quei due letti con il
corpo intrecciato a quello di Daron, non mi sentivo più
nervoso né indisposto nei confronti dell'uomo sui quarant'anni
che ci raggiunse nella hall per intervistarci.
La situazione dei System non
era cambiata, ma era cambiato completamente il mio mondo.
«John, Daron, grazie
per avermi concesso il vostro tempo» esordì il tizio, un
nero corpulento vestito di tutto punto, con tanto di giacca e
cravatta. Avevo già dimenticato il nome della rivista online
per cui lavorava.
Io e Daron sedevamo fianco a
fianco, stravaccati sul divano in pelle color crema, lasciando la
poltrona monoposto al giornalista. Io tenevo un braccio sulla
spalliera, lasciando scivolare ogni tanto le dita sulle ciocche
morbide dei capelli di Daron. Lo facevo con discrezione, senza
risultare invadente né mettere a disagio il nostro
interlocutore.
«Cosa potete dirmi sui
progetti futuri dei System Of A Down? I vostri fan sono impazienti di
sapere qualcosa» ci interrogò il tizio, tale Dayton
Moore.
Io e Daron ci scambiammo
un'occhiata complice, poi sorridemmo.
«Ci sono tante cose in
cantiere, ma per ora preferiamo aspettare di essere tutti pronti per
pubblicare del nuovo materiale» presi la parola con calma,
arrotolando attorno al medio della mano sinistra una ciocca bruna del
chitarrista.
«Capisco» disse
educatamente Moore.
«Sai, siamo sempre al
lavoro, siamo molto creativi, ma spesso le nostre idee non
combaciano. Siamo in quattro, e ciò significa quattro teste
pensanti, quattro modi di vedere e vivere la musica...»
proseguì Daron, rilassato e sorridente.
«Certo, immagino non
sia facile. Avete del materiale pronto o sbaglio?»
Annuii. «Ce l'abbiamo,
ma bisogna ancora lavorarci. Non appena saremo pronti, non esiteremo
a comunicarlo.»
Dayton
Moore assentì con un breve cenno del capo. «Daron, cosa
puoi dirmi sugli Scars On Broadway? Dall'uscita di Dictator
hai avuto pareri contrastanti.»
Il chitarrista si sistemò
meglio al mio fianco e poggiò la mano destra sul mio
ginocchio, tamburellando distrattamente con le dita. «Mmh... le
canzoni sono datate, non è un mistero. Ma sono già al
lavoro su altro. Compongo musica perché non posso farne a
meno.»
Rabbrividii appena, ma mi
concentrai sulla chiacchierata con quel giornalista. Era simpatico,
cordiale e educato, così l'intervista non fu poi così
terribile.
Prendemmo qualcosa da bere
con lui prima che andasse via e lui ci ringraziò calorosamente
per essere stati così gentili e disponibili.
Mentre ci dirigevamo verso
il ristorante dell'hotel per pranzare, Daron prese a sghignazzare.
«Che hai, Malakian?»
gli chiesi, guardandolo di sottecchi.
«Ha detto che siamo
stati gentili e disponibili... per fortuna non ci ha visto ieri sera»
commentò divertito.
Gli diedi di gomito. «Ieri
c'era aria di pigiama party, amico mio.»
Lui rise e alzò gli
occhi al cielo. «Allora sono ancora tuo amico?» volle
sapere, fermandosi poco prima di varcare la soglia della sala da
pranzo.
Gli poggiai due dita sotto
il mento e lo costrinsi a guardarmi. «Certo. Il mio migliore
amico. E non solo.»
Daron si sciolse in un
sorriso birichino e si ritrasse dal mio tocco, per poi rivolgermi un
occhiolino ed entrare con passo spedito nella sala.
Scossi appena il capo e lo
seguii, rendendomi conto di quanto avessi desiderato di sentire
quell'intesa incredibile tra noi due.
E mentre camminavo dietro di
lui e osservavo i suoi capelli oscillare dolcemente sulle spalle, le
gambe magre fasciate dai jeans neri e la sua schiena ossuta coperta
da una leggera camicia a scacchi neri e rossi, non riuscivo a
capacitarmi di quanto fosse accaduto tra noi.
È
il tuo uomo, John.
Sorrisi appena.
♥ ♥ ♥ ♥
Ciao a
tutti, carissimi lettori!
Ed eccomi
qui, come potete ben vedere anche io sono cascata nella trappola
della Jarohn, accidenti ^^”
Questo è
successo per diversi motivi: in primo luogo, da quando Soul e Selene
hanno cominciato a trattare questa ship, mi hanno fatto venir voglia
di scrivere qualcosa su questi due; solo che non sapevo mai cosa
buttar giù, non volevo essere banale (non che magari io non lo
sia stata anche in questo caso, eh XD), ma poi è arrivata
l'illuminazione, ovvero la seconda e definitiva motivazione che mi ha
portato a scrivere finalmente questa OS: un contest!
Ebbene sì,
sul forum di EFP ho trovato un contest che si chiama Imagine your
Otp Contest, organizzato da due ragazze che hanno
gentilissimamente (ma esiste questa parola? o.o) accettato il fandom
System Of A Down, visto che uno dei loro prompt mi ha ispirato
tantissimo!
Dovevo
scrivere basandomi su questa situazione: «B passa le
mani tra i capelli di A, che sono super soffici. A chiede cosa B stia
facendo, ma B mormora solo cose senza senso».
Che
dite, ci sono riuscita almeno un po'? :D
Inoltre,
volevo trattare marginalmente l'argomento piuttosto spinoso delle
interviste e delle dichiarazioni richieste e rilasciate dai ragazzi
dei System; tutti noi sappiamo – credo – che loro non
fanno nuova musica dal 2005, ma insomma, io credo che sia sì
normale voler sapere qualcosa sui loro progetti, ma che sia altresì
pesante per loro sentire addosso tanta pressione!
E
in questo caso, se aggiungiamo la tensione che c'era tra John e
Daron, be'... la povera Tricia Andersen ha dovuto subire il malumore
di chitarrista e batterista, cosa che poi con Dayton Moore non è
avvenuta perché i due erano decisamente più rilassati
;D
Ultima
cosa e poi vi lascio: la storia è ambientata più o meno
ai giorni nostri, in questo periodo più o meno, vista l'uscita
di Dictator degli Scars il 20
luglio 2018 e le recenti notizie che dichiarano che Daron è
già al lavoro su nuovo materiale per il suo progetto parallelo
^^
Ora basta
dilungarsi, grazie a tutti coloro che hanno letto e tutti coloro che
recensiranno, fatemi sapere se vi è piaciuto il mio modo di
trattare questa dolce coppietta :D
Alla
prossima ♥
|