DE-SIDERUM
Un'immensa,
infinita volta stellata,
cosparsa di tutti i pregi e i difetti che accomunano la vita.
Esistenze
diversissime tra loro, fatte
di colori spesso contrapposti, forme inimmaginabili, magie e
sentimenti diversi.
Sora
aveva potuto vederle.
Sora
aveva viaggiato in moltissime di
queste vite: che fosse stato per un breve o lungo periodo, aveva
attraversato così tante esistenze che era difficile pensare
che in
ognuna avesse lasciato un frammento di sé. Aveva incontrato
amici e
nemici, luce e tenebre.
L'unica
cosa certa era che ogni luogo
serbava una traccia del suo passaggio.
Una
scintilla, piccola o grande che
fosse, che riusciva a far sollevare lo sguardo di chi lo aveva
conosciuto e a far pensare a quanto una singola esistenza potesse
essere in grado di fare.
Sora
aveva portato sulle spalle il peso
dei desideri di molti, moltissimi. Qualcosa in lui infondeva calore,
fiducia, speranza.
Aveva
riempito il
suo animo di quelle numerose voci e le aveva custodite in
sé,
preziosamente, fino alla sua ultima battaglia.
La
sabbia
impossibilmente familiare, dopo tutto quel tempo, accolse le sue dita
in una freschezza tipicamente notturna; anche se era estate, a
quell'ora i granelli erano sempre freddi.
Indugiando
su
pensieri e ricordi ormai lontani, il ragazzo si sedette nel silenzio
notturno della spiaggia, che rendeva udibili i sospiri delle onde.
C'era
una leggera
brezza, quella sera. Scuoteva impercettibilmente i suoi capelli,
assumendo l'aspetto di una carezza timida e titubante, qualcosa a cui
non era più abituato da molto, moltissimo tempo.
Forse
seguendo
ancora una volta – l'ennesima – le orme invisibile
dei ricordi,
si sdraiò su quella sabbia, lasciando che il freddo del
terreno
avvolgesse tutto il suo corpo e che i suoi occhi potessero fissare
solo e soltanto il cielo.
Da
solo, dopotutto,
poteva riempire lo sguardo di chiunque.
«Chissà
perché
sapevo che ti avrei trovato qui».
La
voce di Kairi
aveva sempre questo suono dolce, leggero, nonostante il rimprovero
che gli aveva appena fatto. La sentì sedersi vicino a lui e,
poco
dopo, imitandolo, sdraiarglisi vicino.
Era
difficile
guardarsi, negli ultimi tempi.
«Siamo
diventati
due pigroni, eh?»
«Parla
per te»
ribatté la ragazza, con un mezzo sorriso che
trapelò persino dalle
sue parole. Non poteva vederla, eppure era sicuro che anche il suo
sguardo fosse puntato verso l'alto e che fosse immersa in pensieri
simili ai suoi. «Io ti faccio solo compagnia».
«Come
no» ed
entrambi risero, seppur sommessamente. Aveva ancora un sapore strano
farlo, di notte, sotto quel cielo.
La
mano di Kairi
comparve improvvisamente nel suo campo visivo, tesa verso la volta
celeste, il palmo ben aperto, come se potesse afferrare quella tela
blu ed appropriarsene, avvolgercisi e sentirsi al sicuro solo
un'altra volta. O come se volesse tentare di raggiungere le stelle,
di sfiorarle ed avvertirne un calore che mancava ad entrambi.
«Ripartirai
presto?»
«Domani
sera,
forse».
«Allora
ho fatto
bene a portarlo».
A
quel punto, la
sua attenzione si spostò su quella nuova incognita; il
ragazzo si
voltò su un fianco, mentre Kairi, adesso seduta, frugava
nello
zainetto che doveva essersi portata dietro e che lui non avrebbe
potuto notare prima. La vide estrarre qualcosa di misterioso, avvolto
in un panno e una bottiglia di vetro – il ricordo di una
vecchia
gemella della stessa bastò per procurargli dei brividi lungo
la
schiena – il cui contenuto non gli parve chiaro
immediatamente.
Almeno
fin quando
Kairi non disfece il nodo della stoffa del fagotto improvvisato e non
gliene mostrò il contenuto.
«...
Un frutto di
paopu?»
La
ragazza nascose
un briciolo di nervosismo dietro una risatina lieve, mentre si
portava dietro l'orecchio una ciocca di capelli rossi. Aveva il volto
stanco, Kairi. I suoi sorrisi erano luminosi come sempre,
perhé era
forte e testarda. La più caparbia delle stelle.
«Non
abbiamo mai avuto modo di dividerlo come si deve, quindi... vorrei
che lo facessimo adesso. Questo è per te» si
spiegò, seppur non
troppo chiaramente, mentre gli porgeva la sua parte. Solo quando
toccò lo strambo frutto con mano, il giovane si rese conto
che non
era quello vero, ma
piuttosto una riproduzione piuttosto fedele di una parte di esso, con
un piccolo gancio per appenderlo a qualcosa. Un portachiavi,
forse.
«Sei sempre stata brava, in queste cose». La vide
scrollare le spalle, prima di alzarsi e portarsi più vicino
alla
battigia, dove la spiaggia accoglieva saltuariamente l'andirivieni
delle onde. La osservò esitare, con l'oggetto tra le mani,
così
decise di alzarsi, di esserle vicino mentre compieva quel gesto.
Agli
occhi di
chiunque, sarebbe parsa l'azione di due ragazzini, un gioco forse; ma
quello, dopotutto, era uno spettacolo riservato a sole tre persone,
una sottospecie di cerimonia che rendeva improvvisamente reale
ciò
di cui lui e Kairi non erano mai riusciti a parlare davvero. Quello
da cui fuggivano costantemente – lui con le sue fughe dalla
loro
isola, lei con la forza che aveva nelle sue mani di creare, di far
risplendere tutto ciò che toccava.
Ricordava
ancora le
lacrime silenziose sul volto della ragazza, durante il loro ultimo
viaggio insieme. Aveva provato a nasconderle dapprima con le mani,
testarda, poi le aveva semplicemente lasciate scorrere mentre
stringeva a sé quello che avrebbe potuto sembrare un
qualunque
portachiavi.
Non
lo era.
Come
quel momento,
quello in cui Kairi trovò finalmente il coraggio di
abbandonare la
bottiglia di vetro in balia delle onde, assumeva una sorta di rito.
Un “arrivederci” che scintillava sotto la luce
della luna e delle
stelle, con l'aspetto della parte mancante del frutto di paopu che
Kairi aveva creato per rinsaldare il legame che li univa, tutti e
tre.
«La
riceverà» le
sussurrò, poggiandole una mano sulla spalla. La cosa
peggiore era
che l'amica sapeva benissimo che lui per primo non credeva in quello
che diceva; sapeva che le sue erano vuote parole di conforto, volte
più a cercare di proteggerla che a convincerla.
E
fu allora che la
vide.
Una
luce calda,
minuta e veloce attraversò il cielo stellato. Fu un attimo,
una
frazione di secondo, in cui gli occhi di entrambi si sgranarono
appena, nella stessa medesima espressione di stupore. Il tempo parve
dilatarsi e, prima che se ne rendesse conto, il ragazzo si era messo
a correre.
I
suoi passi
ripercorrevano quelle tracce che centinaia se non migliaia di volte
avevano lasciato impresse su quella spiaggia, orme che sparivano al
minimo vento o alla prima mareggiata. Correva a perdifiato,
perché
non c'era il nome di una stupida zattera in palio, adesso, ma la
possibilità di dire quello che non era mai stato capace di
dirgli.
“Aspettaci”.
Non
aveva alcun
senso – qualcosa, nella sua mente, glielo suggerì
mentre seguiva,
saltando ostacoli uno dopo l'altro, le tracce di quella luce
effimera, veloce, che scomparve ancor prima che potesse urlare il suo
nome.
Eppure,
non poteva
essere un caso.
Pensieri
egoistici
come “non puoi farmi questo” invasero il suo corpo
che però
continuava ad inseguire a perdifiato qualcosa che era già
svanito,
proprio come quella bottiglia avrebbe vagato in eterno, in quelle
acque, senza mai adempire al suo vero scopo: giungere al
destinatario.
Il
cielo era lo
stesso, imperturbabile, di qualche minuto prima. La stessa brezza,
che però gli parve più fredda. La stessa distesa
di sabbia, la
stessa infinita vastità d'acqua.
Riku
non aveva mai
pianto, fino ad allora. Piangere avrebbe significato capire,
realizzare ed infine iniziare a dimenticare.
Chiuse
gli occhi e,
in un impeto di fede che mai aveva avuto in vita sua, si
portò il
regalo di Kairi al petto, come per imprimere sul portachiavi fatto a
mano quei ricordi che non aveva intenzione di lasciare andare.
Espresse
un
desiderio.
Una
richiesta
semplice, muta come dovette essere quella di Kairi, che lo raggiunse
poco dopo, il corpo minuto scosso da tremiti impercettibili. Non
commentò in alcun modo il volto rigato dalle lacrime
dell'amico e,
al contrario, afferrò la sua mano.
«Tipico
di Sora.
Lo ritrovi giusto il tempo di vederlo andarsene un attimo
dopo»
commentò, con un sorriso che aveva un che di amaro
trattenuto a
stento.
«E
pretende anche
di poter mantenere le promesse che ti fa» fu l'unico commento
di
Riku, pronunciato con voce rotta, così come quel frutto di
paopu,
così come il loro trio.
Inerme,
mancante
del suo frammento più prezioso che il mondo aveva rubato
loro.
Eppure, quelle lacrime dovevano sparire e loro dovevano continuare a
sorridere, nello stesso modo in cui Sora aveva testardamente
inseguito entrambi.
Dopotutto,
solo con
i sorrisi si poteva davvero proseguire.
In
un mondo dove la
luce di Sora si era fatta solo più difficile da trovare, ma
da cui
non sarebbe mai scomparsa davvero; sarebbe rimasta abbagliante e
splendente nei cuori delle persone che aveva incontrato, salvato ed
amato.
Quella
luce, che in
così poco tempo aveva unito gli animi e gli sguardi delle
persone,
le aveva avvicinate e aveva dato loro il coraggio di agire, era
durata il tempo di esprimere un desiderio, di fare una promessa.
“Rimarremo tutti sotto lo stesso cielo”.
Note: in un mix di
felicità assoluta e ansia crescente per l'attesa di questo
capitolo di Kingdom Hearts - una saga che mi accompagna da quando avevo
dieci anni, che amo con tutta me stessa e non ho mai dimenticato
davvero, nonostante tutti questi anni - e in un susseguirsi di tuffi
nel tempo (ovvero, giocare di nuovo tutta la saga da capo) e teorie su
teorie e nomi e simbolismi e chi ne ha più ne metta, questa
one-shot in particolare è nata un po' perché ho
davvero la sensazione che Sora ci lascerà e un po' per
esorcizzare questa sensazione, chiudere i conti con questa idea di
"stella cadente" che mi sono fatta su di lui e mi perseguita da giorni.
Non è qualcosa che vuole essere preso troppo sul serio
(voglio dire, l'ho buttata giù in una serata, l'ho rivista
un po' tra una pausa studio e l'altra), ma spero comunque possa essere
una lettura gradevole per chi la incontra.
Quello che più di tutto mi ha insegnato questo gioco
è che non importa quanto distanti siamo, l'amicizia vera,
reale è un legame che trascende ogni cosa.
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